1) Il governo attuale giallonero non nasce dalle urne ma da un patto parlamentare, addirittura un contratto.
2) Salvini ha rotto il contratto perché dice che il governo non funziona e che lui vuole tutto il potere.
3) Non essendoci nessun governo eletto dal popolo e neanche una coalizione vittoriosa alle urne la caduta del governo non prevede nessun ritorno al popolo obbligatorio non solo per regola istituzionale ma per concreto svolgimento della situazione politica.
E soluzioni parlamentari non sono né tecnicamente né politicamente ribaltoni o inciuci. Naturalmente possono non piacere. Ma i confronti con Dini e Monti sono sbagliati tecnicamente.
4) Siccome il Parlamento non si “aggiorna” sui sondaggi o su altre elezioni come le europee l’attuale parlamento è legittimo.
5) In questo parlamento la Lega è forza di minoranza ed anzi per andare al governo ha rotto la sua coalizione elettorale, facendo lei si un ribaltone.
6) Se si vuole guardare alle europee in seguito ad esse si è formata a quel livello una maggioranza che esclude la destra. A questa maggioranza contribuiscono forze italiane, e non la Lega, che hanno la maggioranza anche in Italia.
7) Quese forze per me hanno la responsabilità di escludere la destra leghista anche in Italia.
8) Anche con i sondaggi Lega e Fratelli d’Italia hanno meno voti della maggioranza europea. Naturalmente col proporzionale.
9) Io e le forze a cui mi riferisco e cioè Sinistra Europea e Gue non facciamo parte della maggioranza europea. Siamo all’opposizione ma assolutamente contro le destre.
10) Non c’è nessuna reale possibilità che un governo con Salvini premier farebbe cose migliori. Probabilmente sarebbe rispetto alla UE come Orban e lo stesso verso il nostro Paese.
11) L’idea che l’opposizione a Salvini favorirebbe un buon bipolarismo è una riedizione persino più sciocca del tanto peggio tanto meglio.
12) Il proporzionale non solo è giusto ma è ormai un salva democrazia.
13) Vorrei tanto che in questa situazione ci fosse una Sinistra europea ma siamo in questa situazione anche perché non c’è.
Crisi di governo. Tredici punti per vederci chiaro
Credibili, credenti, creduloni
Sarebbe il momento di osare un passo più lungo di quelli fatti fin qui, tentare di spezzare questo angolo che rinchiude il momento politico in un circo delle pulci di slogan, piccole vendette trasversali e patetici istinti di preservazione.
Bisognerebbe smettere di essere credenti, ad esempio. Credenti nel senso di ciecamente innamorati del proprio leader per seguirne pedissequamente tutte le mosse come se fossero inutili i ragionamenti. Spostare l’affezione dai partiti ai loro uomini al comando ha reso tutto terribilmente superficiale e scontato: non esistono correnti in virtù di diverse interpretazioni del presente ma è tutto un bieco senso di appartenenza. Dal chi sei? siamo passati al chi ti manda? senza nemmeno accorgersi che sia la strada migliore per la superficialità. Ci accorgeremmo forse che il nostro politico preferito, per quanto sia il preferito, possa dire anche delle solenni cagate e possa prendere decisioni sbagliate. Nessun dramma, per carità, ma almeno ci sarebbe la soddisfazione di chiedergli spiegazioni e ascoltare le risposte.
Bisognerebbe smettere di essere creduloni, anche: imparare a valutare le azioni oltre alle parole. Il buon esempio non si spiega, si pratica. Vale per i genitori con i propri figli ma vale anche per chi dovrebbe amministrare con lo zelo del buon padre di famiglia. Credere a qualcuno come prerequisito di ogni suo gesto è il modo migliore per garantirgli impunità e bassa propaganda. Forse dovremmo coltivare l’esercizio del dubbio. Sarebbe un bene, per tutti.
Bisognerebbe cominciare ad occuparsi di essere credibili. E pretendere gente credibile. Gente che se cambia idea su qualcosa ha il dovere di spiegarci per bene il per corso del suo pensiero e ha il dovere di prendersi la responsabilità dei propri errori. La credibilità non si costruisce indovinando tutte le mosse, figurarsi, ma rimanendo coerenti a valori e principi, ad esempio non prendendo decisioni solo per preservarsi ma riuscendo a comunicare dove stia il bene collettivo.
Credibili, credenti e creduloni: sembra così facile decidere dove stare.
Buon lunedì.
Salvini ha già vinto?
La risposta è no. È fortissimo, ha costruito un discorso pubblico egemonico, parla alla pancia delle persone, ma con una forte attenzione ai bisogni materiali di molte di loro. Ha capito che l’Italia è un Paese invecchiato e stanco, con la testa perennemente rivolta all’indietro, in cui la politica è ridotta ad un talent show trash.
Ha scommesso sulla sua capacità di conquistare un elettorato di destra orfano di Berlusconi, un elettorato populista orfano dei vaffa e persino un elettorato di sinistra orfano di tutto. Offre la libertà di odiare e nemici per farlo, facili perché isolati, diversi e indifesi.
Promette meno tasse ad un Paese in cui tanti sono abituati a non pagarle, e molti di più sono stanchi di pagare anche per gli altri. A tutti dice “sarete padroni a casa vostra”, e poco importa che per qualcuno si tratti di una baracca fronte discarica e per altri di una villa vista mare. In un Paese da anni in preda all’individualismo conta solo il proprio particolare, e non il contesto in cui è inserito. La destra ha costruito il suo popolo, connesso a simboli comuni e per il resto chiuso nella propria casa.
Eppure non ha ancora vinto, se noi ci metteremo in testa di combattere.
C’è infatti un’Italia diversa, ancora capace di riconoscere un senso alle parole solidarietà, uguaglianza e libertà. È stanca, sfiduciata, persino rassegnata, dopo anni di arretramento culturale, politico ed economico. In 30 anni di lotte aveva conquistato la sanità pubblica e gratuita, la pensione dopo 35 anni, il diritto di stare a testa alta sul posto di lavoro, istruzione per i figli e un proprio posto nel mondo. È stata travolta da tre decenni di controriforme, spesso agite da governi “amici”, che hanno trasformato i lavoratori in precari, tagliato e privatizzato tutti i servizi fondamentali, permesso il progressivo deterioramento della qualità della vita urbana.
Il colpo finale è stato caricato dalla Fornero e sparato da Renzi, con il Jobs Act, l’emarginazione dei sindacati, la Buona Scuola e l’abbraccio a Marchionne, e poi la dottrina Minniti e l’attacco ai diritti umani.
Se la destra ha plasmato il proprio popolo, la “sinistra” di governo ha sgretolato il suo. Né è bastata a ricostruire un senso la generosa opposizione di chi non si è piegato: troppo fragile, troppo debole, troppo contraddittorio.
Eppure non sono sparite le persone che nel 2011 vincevano un referendum chiedendo di riconquistare i beni comuni, a partire dall’acqua, e mettendo al centro la questione ecologica.
Né quelle che per quasi 20 anni si sono mobilitate nel Paese e nelle urne per difendere la democrazia e i diritti del lavoro, pur trovando spesso un ostacolo nei propri stessi rappresentanti. Sono state tradite, ma continuano a rappresentare un argine forte e potenzialmente maggioritario contro qualsiasi deriva autoritaria. Vanno richiamate tutte ad una nuova, immediata stagione di impegno, insieme alle giovani generazioni che in questi mesi hanno rappresentato la prima linea in difesa dell’umanità e del pianeta, contro il razzismo di Stato e il surriscaldamento globale.
Come? Tornando a mettere al centro il programma fondamentale di una sinistra del XXI secolo: forte redistribuzione per via fiscale della ricchezza, lotta serrata ai cambiamenti climatici, riduzione del tempo di lavoro, rilancio dell’istruzione gratuita, pubblica e permanente, sanità di qualità, restituzione di salario e diritti ai lavoratori, beni comuni contro la privatizzazione della vita.
Poche cose, nette e radicali, su cui costruire un nuovo patto sociale, che restituisca respiro alle splendide parole della nostra Costituzione.
Uniti non abbiamo mai perso, ma per unirci abbiamo bisogno di metterci alle spalle una lunga e triste stagione.
Ora è il momento.
I paradossi di Machiavelli
Repubblicano, scrisse il trattato sul potere assoluto da cinque secoli più studiato al mondo. Assertore della cattiveria originaria degli esseri umani, immaginò un Principe capace di agire per il bene comune. Ateo, teorizzò l’importanza di una religione civile a fondamento delle repubbliche. Convinto della naturale finitezza della vita umana e degli Stati, lottò con tutto se stesso per forzarne i limiti. Frequentatore dei grandi d’Italia e d’Europa, visse e morì in povertà. Il suo capolavoro, demonizzato, fu messo all’indice e dato alle fiamme, mentre le sue idee erano piegate a giustificare la gesuitica dottrina della Ragion di Stato, al punto che i termini ‘machiavellico’ e ‘machiavellismo’ designano tuttora intenzioni opposte al pensiero da cui furono derivate. Per quindici anni Segretario della Repubblica, e dopo la caduta scrittore e filosofo inserito nell’orizzonte del Rinascimento, il grande fiorentino ha tuttavia continuato a ispirare i maggiori pensatori moderni, da Spinoza a Rousseau fino a Gramsci, che nel suo Principe vide una «fantasia concreta» capace di suscitare la volontà collettiva di un popolo disperso. Ma chi fu veramente Niccolò Machiavelli? La sua biografia, in tensione tra passione politica e vocazione poetica, tra dissimulazione e verità, è l’indispensabile contrappunto per comprendere le sue opere, quelle sue idee «eccessive» tese, nella crisi del Rinascimento, a dilazionare la fine della libertà che dal 1494 minacciava Firenze e l’Italia. «Castellucci» e «stravaganze», che si sono rivelate vere scoperte dell’arte politica. È questa la linea interpretativa di Michele Ciliberto, presidente dell’Istituto nazionale di studi sul Rinascimento che, tra i massimi interpreti di Giordano Bruno, nel suo nuovo lavoro Niccolò Machiavelli. Ragione e pazzia (Laterza) ci sorprende con una lettura originale e avvincente. Ne parliamo con lui.
Come è avvenuto il passaggio da Bruno a Machiavelli, entrambi formati sul materialismo di Lucrezio, nei quali lei evidenzia risonanze assai più forti che con il pensiero di Spinoza?
In verità bisognerebbe parlare di passaggio da Machiavelli a Bruno, piuttosto che da Bruno a Machiavelli. Mi sono laureato sulla fortuna di Machiavelli con Eugenio Garin, che mi spinse a preparare un lessico di Giordano Bruno che poi è stato pubblicato nel 1979. Devo dire però che ho sempre sentito Bruno e Machiavelli in notevole sintonia, ed è anzi credo uno dei punti di originalità di questo mio libro aver mostrato quanto Bruno debba a Machiavelli. Sicuramente è stato fondamentale per entrambi Lucrezio, che per me è il vero maestro di Machiavelli; e l’uno e l’altro, pur condividendone temi e motivi, sono distanti da Spinoza. Ma qui il problema è di ordine generale e riguarda i rapporti tra Umanesimo, Rinascimento e mondo moderno, al quale appartiene Spinoza, a differenza di Bruno e di Machiavelli. È un altro elemento su cui ho insistito nel mio libro, staccando Machiavelli, come avevo già fatto per Bruno, dalle genealogie costruite dai “moderni”, i quali hanno trasformato sia Bruno che Machiavelli in loro “precursori”. Ma le cose sono assai più complicate.
Ragione e pazzia, emblematico sottotitolo del libro, segna la distanza dall’idea umanistica dell’uomo quasi deus di Ficino e Pico della Mirandola e il superamento del giudizio crociano della scoperta dell’autonomia della politica come arte del compromesso. Un Machiavelli audace e passionale che, tra politica e amori, fino all’ultimo gioca a scacchi con la fortuna?
Credo che sia necessario liberarsi da una antica immagine del Rinascimento come mondo della serenità, dell’armonia, incentrato sul primato dell’uomo. Nell’Umanesimo c’è stata anche questa tendenza, rappresentata appunto da Ficino e Pico; ma ce n’è anche un’altra che si esprime nell’esperienza e negli scritti di Alberti, Machiavelli, Guicciardini, Pomponazzi nei quali è presentata un’immagine drammatica, anzi tragica, del destino dell’uomo ed anche delle civiltà. Se c’è un’idea alla quale Machiavelli è totalmente estraneo…

È in gioco la democrazia, la sinistra non si divida come nel 1921
Se alle prossime elezioni è in gioco la democrazia in Italia, allora è giocoforza richiamarsi alle elezioni del 1921 la legislatura nella quale Mussolini divenne presidente del Consiglio del Regno d’Italia il 31 ottobre 1922, dopo il resistibile successo della Marcia su Roma di pochi giorni prima. Detto così si conferma che quando i fatti storici sembrano ripetersi la prima volta sono una tragedia, la seconda una farsa.
Nel 1921 la responsabilità dell’accreditamento del fascismo fu dei liberali di Giolitti e dei nazionalisti di Corradini con le liste del Blocco Nazionale, sperimentate nelle amministrative del 1920, che peraltro furono la terza formazione con 1.260.007 voti, il 19,7 % e 105 seggi, preceduto dal Psi con 1.631.435 voti, il 24,7 % e 123 seggi e dal Partito popolare con 1 347 305 voti, il 20,39% e 108 seggi.
Salvini è, invece, arrivato al potere e al ministero degli Interni grazie ad un accordo di governo con il M5S , che si fonda, per la prima volta dal 1992, ultime elezioni con la proporzionale, su una maggioranza parlamentare, sostenuta da una maggioranza di elettori 16.430.753, il 50,03% per l’esattezza, 3 punti percentuali in meno del pentapartito Dc, Psi, Pri, Pli e Psdi del 1992, ma superiore al 46,81% del PdL del 2008, la più alta percentuale di Berlusconi con il maggioritario.
Sulla carta questo consenso popolare non sarebbe venuto meno con le europee del 26 maggio con 13.744.665 voti, il 51,325, ma su 6 milioni di voti validi in meno e con rapporti di forza invertiti all’interno della maggioranza.
Il pericolo per la democrazia viene dalla legge elettorale che grazie all’incostituzionale voto congiunto e alla quota di maggioritario 3/8 dei seggi, il 37, 50% consente alla lista o coalizione di maggioranza relativa, omogeneamente distribuita sull’intero territorio nazionale di ottenere la maggioranza assoluta del Parlamento, con il 37% dei consensi.
Una percentuale che stando ai sondaggi la LEFA può raggiungere da sola e superare agevolmente con l’accoppiata Salvini-Meloni, che sostituirebbe la Renzi-Boschi santificata dalle europee 2014.
Lo scenario in assoluto peggiore è votare con la legge n. 51/2019 e la riduzione dei parlamentari, perché il premio di maggioranza nascosto nel Rosatellum verrebbe amplificato. E’ vero che con elezioni anticipate molto probabilmente la riforma costituzionale salterebbe, ma non i pericoli per la democrazia di una maggioranza parlamentare al servizio di un premier, che aspira ai pieni poteri e che troverebbe un’intesa sull’elezione diretta del Presidente della Repubblica o del Primo ministro.
Il prossimo Parlamento (2019-2024) dovrà eleggere nel 2022 Il Presidente della Repubblica, che nei sette anni potrà nominare 4 giudici Costituzionali e rinnovarne direttamente 4 e nominare 8 membri del CSM La Costituzione se non è considerata un valore da tutelare è minacciata quotidianamente nei comportamenti della Pubblica amministrazione e per di più con gli organi di garanzia depotenziati. Una maggioranza a guida Lega ci darebbe l’autonomia differenziata, uno schiaffo all’art. 3 della Costituzione. Questi pericoli si evitano intanto impedendo che una minoranza abbia la maggioranza del Parlamento, obiettivo prioritario al quale sacrificare anche le obiezioni sulla riduzione dei parlamentari.
Le elezioni non devono essere gestite da un ministro dell’Interno, che come dimostreranno i ricorsi, che saranno discussi in ottobre contro le elezioni europee, proprio sul terreno elettorale è stato un fallimento.
Ci vuole un nuovo governo di garanzia costituzionale, con una maggioranza che comprenda il M5S. Le difficoltà ci sono e gli ostacoli e i pretesti verranno da chi vuole mantenere questa legge perché gli assicura una maggioranza popolare, che ancora non ha non ha, e da chi vuole salvare le coalizioni, come unità anti-salviniana. Soltanto una legge elettorale proporzionale potrà invertire la crescente astensione, e motivare alla partecipazione la maggioranza democratica e costituzionale.
Nel 1921 a fronte del pericolo fascista la sinistra si è divisa pensando, sbagliando, che la situazione fosse matura per la rivoluzione e i democrati borghesi, che i fascisti fossero un pericolo minore dei “rossi”, socialisti o comunisti che fossero. In questo momento in Parlamento non abbiamo, né Gramsci, né Matteotti e i rapporti non sono idilliaci, ma non è con l’appello all’unità democratica per salvare una presenza minoritaria in Parlamento che si ricostruisce una sinistra con un progetto alternativo, che abbia come obiettivo il superamento delle divisioni del XX secolo.
Nel 1996 l’Ulivo con Rifondazione raccolse 14.600.00 voti, nel 2008 centrosinistra e Sinistra arcobaleno erano ancora poco più di 15 milioni, nel 2018 PD, Leu e PaP poco meno di 9 milioni, nel frattempo i voti validi sono passati da 37.484.3988 a 32.841.025 per scendere a 26.783.7632 alle europee del 2019: per contrastare l’autoritarismo non basta l’unità dei sopravvissuti.
L’ascesa di Salvini è ancora resistibile
Salvini apre una crisi di governo su cui gli analisti politici azzardano motivazioni disparate. Sicuramente una delle cause principali è la mancata approvazione dell’autonomia differenziata, presente nel “contratto di governo”, e su cui i Cinquestelle han fatto negli ultimi mesi una costante ostruzione, resisi finalmente conto di cosa poteva comportare per loro, in termini di perdita di consenso verso il loro elettorato del Sud, questa approvazione.
Salvini si è perciò visto costretto ad agire, pressato fra richieste della Lega (del Nord), soprattutto veneta, e della relativa imprenditoria a sostegno, di cui le dichiarazioni di oggi del Presidente Confindustria di Vicenza, Luciano Vescovi, sono più che esplicative. Ovviamente Salvini, impegnato nell’affermazione di una Lega nazionale, e proprio in questi giorni in un tour sulle spiagge del Mezzogiorno, non poteva certo rivelare in pieno questo aspetto della crisi, visto che ha bisogno del voto del Sud per affermarsi e poter ambire a quei “pieni poteri”, come ha dichiarato a Pescara l’altro ieri aprendo la crisi, facendo così capire la vera posta in gioco in Italia, dove ovviamente chi è per la difesa dello Stato di diritto, della Costituzione, della democrazia non può che opporsi all’abisso totalitario che si potrebbe aprire davanti a tutti noi nel prossimo futuro. L’affermazione elettorale di Salvini, dotato di “pieni poteri”, significherebbe anche lo sdoganamento di politiche contro lo sviluppo del Mezzogiorno, a cominciare dalla approvazione della “Secessione dei ricchi”, nella sua versione più virulenta, quella Veneta.
Bisogna che si metta in campo uno sforzo straordinario per raccontare cosa comporterebbe per il Sud nei prossimi anni questa approvazione (dati alla mano su quanto già è stato scippato e quanto lo sarà), spiegando le conseguenze nel dettaglio a tutti gli elettori, soprattutto a quelli del Sud.
ll Regionalismo differenziato è infatti dimostrato, man mano che ne sono state svelate le carte, è un progetto iniquo, egoistico e neoliberista, che dividerà l’Italia e penalizzerà principalmente il Sud, ma che, aprendo ovunque alle privatizzazioni, a partire da temi fondamentali quali scuola e salute, andrà a colpire anche il Nord, nelle fasce meno tutelate della popolazione, come lavoratori, studenti e pensionati.
A quel punto sarebbe legittimo domandarsi se potremo ancora considerarci un’unica nazione. La nostra è una costruzione nazionale e sociale delicata, molto complicata, fatta di culture e storie condivise. E’ il frutto di un vincolo di cittadinanza, motivato da memorie e sentimenti comuni, un patto di lealtà e solidarietà nazionale, del sentirsi uguali pur vivendo in zone diversamente sviluppate. Ebbene questo vincolo potrebbe rompersi dinanzi alla concessione dell’autonomia regionale.
Il tutto, dopo dieci anni, senza aver mai fissato, per volontà politica, i livelli essenziali di prestazione (Lep) e i fabbisogni standard perché non vi fossero cittadini di serie A e cittadini di serie B. Addirittura la Lega, che ora si spaccia per partito nazionale, porta avanti una inedita forma di “nazionalismo secessionista”, come lo definisce Isaia Sales, unico caso al mondo, che si estrinseca mediante un razzismo che oltre che etnico è anche territoriale.
Cos’è se non “razzismo territoriale” ritenere che alcuni italiani, se abitanti di alcune particolari regioni, valgono di meno di altri italiani? La cosa agghiacciante è che, in questo delirante scenario secessionista, la Lega trova sponde in parte del Pd, come nel caso dell’Emilia-Romagna, dove il presidente Bonaccini si è posto all’inseguimento della Lega. Come detto recentemente da Luciano Canfora sul Manifesto, “Anche questo disgusta. Ma come può il Pd pensare di recuperare nel centro-sud con una proposta simile a quella di Zaia “. Il tutto assume una veste ambigua se non dissociata, visto che già si può prevedere con ragionevole certezza, in vista delle elezioni regionali in Emilia-Romagna, la chiamata all’unione delle forze progressiste per un fronte comune, che esprima un “voto utile”, in nome dell’antifascismo e del contrasto a quella stessa Lega di cui in realtà si clonano modi e richieste…
Il cittadino che non risiede in aree ricche si appresterebbe così a ricevere meno servizi e avere meno opportunità, così che i gap dei servizi, nella scuola, sanità, asili, risorse di sostegno all’apparato produttivo e alle infrastrutture, diventerà “legittimo e codificato per legge”. Non saranno più considerati un esito involontario di una particolare storia nazionale, e perciò da superare, ma un privilegio etnico-territoriale, immodificabile, dovuto a una sorta di superiorità di stampo, se non razziale, almeno misticista-protestante.
Il pericolo è proprio che, per non scontentare l’elettorato e l’imprenditoria del Nord, Pd e M5S, che al Nord han sostenuto con forza le ragioni delle Regioni “secessioniste”, trovino un accordo, anche nell’eventuale formazione di un governo di garanzia, convergendo sulla proposta di Regionalismo emiliano, presentandolo come “temperato”. In realtà nessuna forma di Secessione dei Ricchi è plausibile e bisogna opporsi a questa con forza, anche partendo dalle dichiarazioni che alcuni Presidenti di regione del Partito democratico, come De Luca, Emiliano e Rossi hanno rilasciato nelle ultime settimane, aprendo anche il tema della contraddizione Sud-Nord all’interno del Pd nazionale, mettendo in luce il carattere pericoloso per l’unità nazionale ed eversivo che è insito in questa proposta. Da qui ripartire, per non assecondare il tentativo di “golpe” leghista, ricompattare il fronte democratico in nome di una nuova “Resistenza” e fermare “la resistibile ascesa di Salvini”.
La “secessione dei ricchi” impone a tutti noi l’impegno a non abbandonare la lotta per portare al centro dell’agenda politica i temi della questione meridionale e della equità sociale (e territoriale) da un punto di vista gramsciano, anche all’interno degli stessi partiti nazionali progressisti.
Il futuro del Meridione non è mai stato a rischio come adesso.
Natale Cuccurese è presidente e segretario nazionale del partito del Sud-meridionalisti progressisti
Senza giustizia ambientale non c’è giustizia sociale

Il sud, in Antartide, nel periodo 1981-2010 l’area ghiacciata è stata nella media di 7,19 milioni di chilometri quadrati. Il primo gennaio del nuovo anno si è ridotta a 5,47 milioni di km2. Se la tendenza venisse confermata l’estate dell’emisfero sud segnerebbe il livello più basso di ghiaccio di tutto l’Olocene. A Nord non va meglio. La calotta polare artica risente maggiormente dei cambiamenti climatici rispetto a qualsiasi altra zona del pianeta: l’aumento della temperatura media annuale è il doppio di quella globale. Il ghiaccio si sta sciogliendo a ritmi molto più veloci rispetto a quanto previsto dalla scienza. Quasi 200 miliardi di tonnellate d’acqua solo a luglio si sono riversate nell’atlantico. Tre volte di più rispetto alla media. Mentre i ghiacciai si sciolgono, il polmone verde della nostra casa comune, l’Amazzonia, rischia di scomparire. I segnali indicano una trasformazione della maggiore copertura forestale del pianeta in qualcosa di simile alla savana africana. Secondo i calcoli la savanizzazione avrebbe luogo se il tasso di deforestazione superasse la soglia del 25%. Oggi è del 17%, ma arriva al 20% nella parte brasiliana e con il governo Bolsonaro purtroppo il dato è in crescita.
Metà delle foreste tropicali e temperate del mondo è già scomparsa dalla nostra vista. Tra il 1970 e il 2010 si è estinto il 52% della fauna del pianeta (mammiferi, uccelli, rettili, anfibi e pesci). A partire dal 1980 il 35% delle mangrovie del mondo e il 20% delle barriere coralline sono andati totalmente distrutti, mentre il 33% dei suoli è degradato, e per questo non cattura più il carbonio dall’atmosfera. Da poco è stato approvata a Parigi l’ultima relazione dell’Ipbes – Gruppo internazionale sulla biodiversità e gli ecosistemi. Afferma che il tasso di estinzione delle specie accelera ad un ritmo mai conosciuto prima. Secondo uno studio dell’Università di Oxford, pubblicato dall’Accademia nazionale delle scienze degli Stati Uniti, le conseguenze più drastiche del riscaldamento si registrerebbero però a livello degli oceani, che attualmente assorbono il 90% delle emissioni dei gas a effetto serra. La biodiversità, lo spazio bioriproduttivo, i beni comuni ed i servizi ambientali sono la nostra unica rete di protezione, definiscono il livello della nostra sicurezza, rappresentano la nostra comune eredità, garantiscono la nostra vita e la riproduzione della stessa, costituiscono il patrimonio delle generazioni che verranno.
Questa rete di relazioni e connessioni che ci rende tutti e tutte interdipendenti, corrispondenti e reciproci, è sempre più fragile e rischia di scomparire. Questa minaccia alla nostra vita è la conseguenza diretta dell’attività umana e del modello capitalista. Per evitare la catastrofe dobbiamo uscire da questo modello ormai insostenibile, consapevoli che oggi la precondizione per raggiungere la giustizia sociale sta nella giustizia ambientale ed ecologica. I diritti umani si garantiscono in maniera tangibile solo se prima riconosciamo e difendiamo i diritti della natura. La nostra vita dipende dalla continuità e dall’equilibrio del resto della vita intorno a noi. Adattarsi e mitigare gli effetti dei cambiamenti climatici significa in concreto cambiare modello produttivo, estrattivo ed industriale, investendo sulla riconversione ecologica delle attività produttive e della filiera energetica. È questa l’unica strada che ci consente allo stesso tempo di rimettere insieme il diritto al lavoro con il diritto alla salute. Nonostante le minacce e le catastrofi che già ci colpiscono, alle denunce della scienza ed ai numeri che nel nostro Paese denunciamo un aumento di povertà e disuguaglianze senza precedenti, che fa il governo? Continua a portare avanti politiche che fanno crescere ingiustizie sociali, ambientali ed ecologiche, rendendoci tutti più insicuri. In assenza di un’opposizione capace di lottare per la giustizia ecologica, ambientale e sociale, l’unica strada possibile è quella di lavorare per dare sempre più forze, gambe e voce alle tante soggettività nate anche nel nostro Paese per contrastare le ingiustizie sociali ed ambientali. A partire da queste abbiamo la necessità e l’urgenza di identificare il perimetro di un nuovo blocco sociale, oggi ben più grande di quello delimitato dai confini del Novecento. Ci accorgeremmo che la storia non è affatto finita, ma siamo solo all’inizio.
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Giuseppe De Marzo è giornalista, scrittore e attivista. Attualmente è impegnato in Libera e nella rete dei Numeri pari. Ha scritto il libro Per amore della terra. Libertà, giustizia e sostenibilità economica (Castelvecchi).

Le armi facili uccidono più della mafia
Le armi legalmente detenute nelle case degli italiani ammazzano più della mafia. E le vittime sono principalmente le donne. È questo uno dei dati più significativi del rapporto Omicidio in famiglia pubblicato nei giorni scorsi dall’Istituto di ricerche economiche e sociali Eures. Il rapporto rappresenta la prima analisi in Italia dedicata specificamente a questo tema, compiuta sulla base dei dati del dipartimento di Pubblica sicurezza del ministero dell’Interno. Il rapporto, innanzitutto, conferma quanto già evidenziato da altri studi. Il numero di omicidi nel nostro Paese è in costante calo dagli anni Novanta, tanto che – secondo i dati riportati da Eurostat – nel 2017 l’Italia, con un tasso di omicidi pari a 0,61 per 100mila abitanti, risulta essere uno dei Paesi dell’Unione europea con il livello più basso di omicidi.
La progressiva diminuzione degli omicidi non è però un fenomeno uniforme. Mentre, infatti, a partire dagli anni Novanta si è verificata una costante contrazione del numero di omicidi attribuibili sia alla criminalità organizzata di tipo mafioso (da 224 nel 2000 a 37 del 2018, con un calo del 83,5%) e alla criminalità comune (da 157 nel 2000 a 88 nel 2018, con un calo del 43,9%), gli omicidi all’interno della famiglia e delle relazioni di vicinanza mostrano solo una leggera diminuzione (da 260 nel 2000 a 199 nel 2018, con un calo del 23,5%). Nel 2018 la metà di tutti gli omicidi in Italia si è compiuta in famiglia (163 vittime). Ciò significa che oggi la famiglia ammazza di più della mafia e della criminalità comune messe insieme.
Nell’ambito familiare trovano la morte circa i tre quarti delle vittime femminili di omicidio (2.265 vittime tra il 2000 e il 2018, pari al 72,5%). E nel 2018 ben l’83,4% delle 130 donne uccise in Italia è stata uccisa da un familiare o da un partner o ex partner. La trasformazione del fenomeno omicidiario dal contesto criminale a quello familiare farebbe presumere che gli strumenti più utilizzati per compierlo non siano le armi da fuoco, ma quelli più a portata di mano (coltelli, armi improprie, lacci per soffocamento, ecc.). Sono invece proprio le armi da fuoco lo strumento più utilizzato anche negli omicidi in famiglia: ammontano, infatti, a 1.139 le vittime degli omicidi in famiglia uccise con pistole e fucili tra il 2000 e il 2018 (il 32,2% del totale), mentre risultano 1.118 gli omicidi familiari commessi con armi da taglio (il 31,6%) e in minor numero quelli con armi improprie o percosse. Nel 2018, l’arma da fuoco è stata lo strumento più utilizzato negli omicidi in famiglia (65 vittime, pari al 39,9% del totale), prevalendo in misura significativa sull’arma da taglio (40 casi, pari al 24,6%). E le armi da fuoco costituiscono anche il principale strumento utilizzato dagli uomini negli omicidi di coppia per uccidere le proprie compagne/ex compagine.
Ma c’è di più. Sulla base delle informazioni accessibili da fonti aperte, Eures segnala che nel 2018 in almeno 42 casi (pari al 64,6%) negli omicidi familiari compiuti con arma da fuoco, l’assassino risultava in possesso…

Per battere Salvini
Cosa farei io per battere Salvini? O, meglio, cosa vorrei che facessimo noi?
Me lo sono chiesto da questa mattina molto presto, lette le notizie sulla “crisi”.
Vai su Facebook e gli affidi una riflessione mentre guardi quelle degli altri. Con qualcuno parli al telefono o anche “dal vivo” perché per fortuna c’è ancora una “realtà”. Anche gli altri si pongono la stessa domanda e dunque è un buon inizio. C’è voglia di combattere e c’è anche un “nemico”. E c’è un io che si fa, o almeno ci prova, noi.
Allora, discutere insieme come si fa a battere la Lega e Salvini mi pare una buona cosa. Una cosa che farei. Poi, io ho le mie idee. Innanzitutto ho molta voglia di parlare con quelli con cui questa lotta la sto condividendo da tempo. Quelli che da tempo scendono in piazza contro i decreti sicurezza, per aprire i porti e per migranti, contro la Tav, contro lo sfruttamento del lavoro, contro il decreto Pillon, la secessione dei ricchi ecc. Pochi, ma buoni? Innanzitutto non siamo così pochi. Ma poi io credo che da queste resistenze si può trarre l’idea decisiva per battere Salvini: essere altro da lui. Ora, qui, il discorso si fa più personale ma immagino che questa grande assemblea per battere Salvini sia stata convocata ed io mi alzo e dico la mia.
“Salvini è nato dal nulla?”, chiedo.
Da quanto tempo si fanno brutte politiche, un poco su tutto? Da quanto tempo siamo sfiduciati e il “cambiamento” è divenuto sinonimo di peggio? E il meno peggio ha preparato un nuovo peggio?
Non sono domande “per litigare” o “per dividere” ma per ricostruire un noi che non deleghi al politicismo e al populismo che sono due facce della stessa, cattiva, moneta.
E servono a dire cosa vogliamo noi che poi sono cose non difficili ma che hanno bisogno di essere concrete e vere.
Farla finita con un mondo fondato sulla competizione e degenerato nell’odio. Ripartire dalla cooperazione. Un lavoro buono e un vero reddito di cittadinanza. Democrazia e diritti esigibili, anche col conflitto. Per nativi e migranti e per ogni genere. Un ambiente che cambia il sistema e non il clima e fa opere buone e non “grandi”. Un’altra Europa che non sia né elites né nazionalismi ma sociale e democratica. Di un noi abbiamo bisogno. Perché lo scontro sarà, è, duro. E i passaggi tra politicismo e populismo, Scilla e Cariddi, non facili. Giustamente la crisi deve andare in Parlamento. Ma che abbia uno svolgimento comprensibile e aperto e che intanto non si facciano danni richiede che noi si sia vigili e partecipi. Serve la politica ma insieme alla democrazia che è fatta di opinione pubblica e di possibilità di far valere le proprie idee e di poter scegliere tra alternative. Troppe delusioni hanno ingenerato oltre il populismo la delega. Ci sono problemi, questioni aperte e opzioni. Ci sono i “problemi europei” come l’indicazione del Commissario italiano in Europa e il varo della legge di stabilità, che poi è anche “questione nazionale”. C’è lo “spread” che si “è fatto soggetto politico” (a proposito di cose che vengono da lontano e su cui bisognerebbe riflettere). Ma ci sono le sofferenze sociali aperte. Ieri sono arrivati i nuovi allarmi sul disastro climatico. Ci sono i dossier come l’autonomia differenziata e la “riduzione” dei parlamentari (o del Parlamento). Ecco, questi due io proprio li voglio contrastare.
Ci sono i “sommovimenti” delle forze politiche. I Cinquestelle sconfitti e magari “divisi” tra dare seguito sl voto “europeo” per Ursula Von der Leyen e nuovo rilancio populista. Il Pd, anche lui diviso tra “Zingarettiani” e “Renziani” sia sulla propria natura ma probabilmente anche sul che fare dopo aver per altro accettato i voti della Lega sul Tav. Anche la Lega, che è all’offensiva, può essere divisa tra un “partito della nazione “Trumpiano” e molto conflittuale con Bruxelles e un “partito del Nord” che sta negli equilibri tedeschi.
Se devo dire la mia penso che Salvini provi a muoversi sul modello Ungherese e a fare Orban. Parrebbe aver rotto gli indugi e giocare in proprio. Ma Orban sta nel PPE mentre l’operazione “grande destra” in Europa alle elezioni europee non è riuscita e Salvini è rimasto “confinato” con Le Pen e Ursula Von der Leyen non ha voluto i suoi voti (al contrario di quanto avvenuto col Tav). Di certo, la prospettiva alla Orban è da combattere con tutte le forze. E non si possono escludere anche scenari peggiori. Poi ci sono le “istituzioni” (italiane ed europee), i Presidenti (della Repubblica, delle Camere ed europei). Ci sono possibili governi transitori (un tempo erano balneari e facevano decantare la situazione. Con Monti è stato ben diverso). Nuovi approcci Pd- Cinquestelle che se fossero per ridurre i parlamentari spererei di no. C’è, insomma, tutto quello che leggiamo. Ma, proprio per questo, questo articolo serve ad altro che a “commentare”. Vuole proporre e diffondere una idea sola, che ripeto. Per battere Salvini bisogna essere all’opposto di lui. E serve esserlo nella società, tra la gente, nella vita reale. Questo, noi, possiamo provare a farlo.
Cronache semiserie

Non si sa più nemmeno dove iniziare preparando un editoriale del giorno che è stato. Ogni giorno a pensare che non possa andare peggio di così e invece si comincia a scavare, andando a fondo, nel senso di affondando, in un Paese che riesce ad attorcigliarsi su se stesso fingendo di essere credibile. Un paio di cose che sono successe ieri e che vale la pena analizzare.
Il Movimento 5 Stelle, per iniziare, è riuscito addirittura a regalare anche l’apertura della crisi a Salvini. Geni. Dopo essere stati presi a calci per tutta la legislatura (facendo gli zerbini del Capitano) ora gli hanno dato l’occasione di apparire come dei signornò che lo mettono in difficoltà. L’attaccamento alla poltrona li ha portati a essere aperti come una scatoletta di tonno, come dicevano qualche era geologica fa, e ormai ci manca solo che Di Maio gli canti la canzoncina della buonanotte, poi l’asservimento totale è compiuto. Chissà se qualcuno si rende conto che un partito (ormai fa specie anche chiamarlo movimento) con una classe dirigente grottesca alla fine ne paga sempre le conseguenze. Hanno votato il Decreto sicurezza bis per attaccarsi alla poltrona e se la sono fatta sfilare.
Poi. Ieri si parlava della Turchia che brucia i libri, qui nel Buongiorno, e oggi arriva la notizia che qui da noi in Italia, precisamente a Lucca, un intero consiglio comunale si ritrovi a discutere di uno spettacolo teatrale. Giuro. Si tratta di uno spettacolo tratto dal graphic novel Cinzia di Leo Ortolani (grandissimo autore a cui Lucca dovrebbe dedicare una statua piuttosto che scene di questo tipo) che è stato considerato “troppo vicino all’ideologia gender”. Da incorniciare la frase del consigliere grillino Massimiliano Bindocci: «Su questi temi c’è un’estrema discrezionalità. Forse noi non siamo preparati per giudicare sulla bontà o meno delle scelte che vengono prese ma un luogo deputato a questo sarebbe necessario». Sì, si chiama ministero della censura, in effetti, quel luogo. Non vi metto nemmeno le frasi di Lega e destraccia varia per non insozzarvi la giornata ma le potete immaginare da voi.
Poi. Salvini a Sabaudia ha detto che quando finirà di fare politica tornerà al suo lavoro. E quando l’ha detto si è aperto un buco nero. Innanzitutto perché Salvini, da sempre, lavora di politica (e infatti il giornalista del Fatto Quotidiano Davide Vecchi ha vinto la causa che gli era stata intentata su questo) e poi perché nella sua breve esperienza da giornalista alla Padania, lo dice il suo ex direttore Moncalvo, firmava il foglio presenza senza andare al lavoro. Insomma: non riesce a dire una cosa che sia una senza buttarci dentro una bugia.
Che anno bellissimo.
Buon venerdì.








