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Contro la regionalizzazione della scuola e in difesa della Costituzione il 17 maggio è sciopero

La regionalizzazione non è mai scomparsa dall’agenda del governo. La stessa ministra degli Affari regionali Erika Stefani ha affermato che l’autonomia differenziata sarà portata al prossimo Consiglio dei ministri previsto il 20 maggio. È vero che di grane da risolvere Lega e M5s ne hanno in grande quantità, ma questo è un tema che sta troppo a cuore ai leghisti duri e puri del Lombardo Veneto. Del resto, l’autonomia differenziata faceva parte del “contratto di governo” ed è stata inserita nel Dpef. Da febbraio, quando la bozza d’intesa tra governo e Regioni è arrivata in Consiglio dei ministri, si è registrata una maggiore opposizione da parte dei Cinque stelle preoccupati dall’ondata di indignazione e proteste provenienti dal Sud, ma da qui a ritenere che l’affaire regionalizzazione sia superato ce ne corre, eccome.

Per questo motivo lo sciopero generale del 17 maggio della scuola avrebbe potuto dare un segnale forte, preciso. L’istruzione, bene comune per eccellenza, sancito dalla Costituzione, non può essere appannaggio del governatore di turno di una regione. Così come devono essere tutelati i diritti degli studenti e del personale docente senza scuole ad hoc o reclutamento regionale che vanifica il contratto nazionale. E invece, come si sa, i sindacati Cgil, Cisl, Uil, Gilda e Snals il 24 aprile hanno siglato un accordo con il presidente del Consiglio Conte dopo una riunione notturna a cui era presente anche il ministro dell’Istruzione Bussetti. E hanno sospeso lo sciopero. Nel testo sottoscritto si prevede oltre ad un’intesa sul rinnovo del contratto di lavoro e la stabilizzazione dei precari, al punto 4 “La scuola del Paese”. Davvero – si sono chiesti in tanti, associazioni, sindacati di base, comitati di insegnanti – si può sospendere lo sciopero del 17 maggio per quelle poche righe in cui il governo si impegna a «salvaguardare l’unità e l’identità culturale del sistema nazionale di istruzione e ricerca, garantendo un sistema di reclutamento uniforme, lo status giuridico di tutto il personale regolato dal Ccln»? Nel testo, le parole autonomia differenziata non vengono mai nominate. La Flc Cgil il 15 maggio in un comunicato replica alle critiche che sono giunte in queste settimane sostenendo che «nessuna ulteriore autonomia è possibile a favore delle Regioni a statuto ordinario in tema di scuola e di tutto il comparto “Istruzione e Ricerca”» e che di autonomia differenziata non si parla affatto nell’intesa con il governo. È notizia di oggi, secondo quanto riporta Repubblica, che il premier Conte avrebbe promesso di stralciare l’istruzione dal patto governo-Regioni sulla regionalizzazione.

Al di là dello sciopero “sospeso”, e degli annunci di governo, c’è invece chi  continua ad andare avanti nella battaglia contro la regionalizzazione. Intanto, pochi giorni dopo quell’accordo del 24 aprile, 17 associazioni e comitati della scuola avevano rivolto un appello alle sigle sindacali reduci dall’intesa con il governo. Le sigle, tra cui L’associazione nazionale per la scuola della repubblica, la Lipscuola, gli Autoconvocati della scuola, il Coordinamento per la democrazia costituzionale, Scuola e costituzione Bologna, il Gruppo No Invalsi, tra gli altri, chiedevano di «riprendere la discussione con tutto il tavolo unitario», cioè tutti quei soggetti che avevano firmato il 15 febbraio l’ appello unitario “Contro la regionalizzazione della scuola”. Un evento storico, ricordiamo, decine e decine di firme sotto l’hashtag #restiamouniti, compresi i sindacati Cobas e Unicobas, tutti contro l’ipotesi di smantellamento del sistema di istruzione nazionale, un vero attacco ai principi sanciti dalla Costituzione.

E adesso? Lo sciopero il 17 maggio ci sarà. Cobas, CUB, Unicobas, Anief e SGB manterranno la linea originaria, con Unicobas che dà appuntamento a tutti davanti a Montecitorio dalle 9 alle 14.
Ma anche altri soggetti del mondo della scuola faranno sciopero. Sono: Associazione Nazionale per la Scuola della Repubblica, No Invalsi, Lipscuola, Appello per la Scuola Pubblica, Assur, Autoconvocati della Scuola. Le associazioni «restano convinte – si legge in un comunicato – che la posta in gioco sia troppo alta e che occorra da subito dare un forte segnale di mobilitazione». Anche l’area di opposizione congressuale nella Cgil, Il sindacato è un’altra cosa, aveva sostenuto il primo appello delle 17 associazioni.

Convegni e incontri sui rischi dell’autonomia differenziata si tengono un po’ ovunque in Italia mentre un nuovo allarme giunge dall’università. Come scrive Roars una specie di autonomia differenziata per decreto ministeriale starebbe per piombare sugli atenei, i più virtuosi dei quali riceverebbero  maggiori benefici quanto a risorse e organizzazione. «Se si considera – scrive Roberta Calvano su Roars – poi che tra i criteri preannunciati compare il tasso di occupazione a 12 mesi dalla laurea, è agevole prevedere che soprattutto gli atenei del Nord potranno tornare ad avere accesso all’autonomia e mentre al Sud dovranno continuare a barcamenarsi tra burocrazia asfissiante e carenza di risorse ». Ecco, in uno scenario così a tinte fosche per il sistema scolastico italiano, il significato di uno sciopero generale, oltre che ribadire il no a una scuola frantumata e incostituzionale, sarebbe stato anche quello di far riflettere sullo stato di salute della formazione in Italia. Con un segnale preciso nei confronti di un governo che attacca in maniera evidente il valore dello studio. Che invece è fondamentale per la nostra democrazia.

Tariffe di salvataggio

Tra le tante stortura del cosiddetto decreto Sicurezza bis che il ministro dell’inferno ha sventolato in bozza come arma di distrazione di massima, come al solito puntando sui disperati quando scende nei sondaggi, c’è un particolare che non può passare inosservato. Nella sua eterna lotta contro le ONG e contro chi tende la mano (chiunque sia) ha deciso di “multare chiunque trasporti un migrante” istituendo di fatto il reato di solidarietà che non è previsto da nessun ordinamento ufficiale e tanto meno dalle convenzioni e dai trattati internazionali. Secondo molti anche l’ONU sarebbe pronto a intervenire per una castroneria del genere.

Come giustamente scrive il professore della Scuola di Economia e Scienze politiche di Padova, Fabrizio Tonello nella sua lettera al Presidente della Repubblica: “E’ più di quanto pagassero i nazisti che, nell’autunno 1943, rastrellarono gli ebrei nel ghetto di Roma compensando le spie che indicavano dove trovare le vittime. Le SS pagavano 5000 lire per ogni uomo da deportare ad Auschwitz, l’equivalente di circa 1.600 euro oggi, e appena 3.000 lire per ogni donna e 1.500 per ogni bambino. Salvini non fa distinzioni: multe da 3.500 a 5.500 euro per persona, in media cinque volte quello che i nazisti davano alle spie. Affogare in mare è diverso dal morire in un lager? Lasciar morire deliberatamente chi cerca rifugio da guerre, stupri e torture, è diverso dal mandarlo in un campo di concentramento?”.

Non deve sfuggirci che la proposta di decreto, per quanto folle, rischia di avere i numeri per diventare legge nel caso di un’alta affermazione alle Europee e non sfugga che anche ai tempi del nazismo molte leggi insulse e terrificanti vennero messe in opera da silenti amministratori e servizievoli forze dell’ordine (come quelle che rimuovono striscioni) senza proferire parola.

Ed è questo servizievole spirito istituzionale lo stesso che sta inquinando il vivere civile fingendo di non vedere i gesti fascisti, vantandosi di difendere i rom come se fossero altro e che disinfetta i luoghi che si appresta a visitare il vice premier. Uguale uguale.

Certo che pagare per salvare qualcuno che galleggia sul mare supera ogni tentativo di distopia, è un atto non solo crudele ma addirittura folle nella sua concezione e ci dice, per l’ennesima volta, una cosa chiara: il ministro dell’inferno è pericoloso.

Pericoloso per l’accelerazione di questo percorso di disumanizzazione che ci vorrebbe tutti feroci, con i denti appuntiti, e la bava alla bocca.

Buon giovedì.

De Michelis e il socialismo degli anni 80 nella satira di Vauro

mauro donato

Mi permetto di intervenire a proposito della vignetta di Vauro uscita sull’edizione online di Left. 

La vignetta – per chi non l’avesse vista o non la ricordasse – raffigurava un nano e una ballerina piangenti, e recava questo testo: “È morto De Michelis. In lutto nani e ballerine”.

Non era, a ben vedere, una vignetta particolarmente spiritosa, ed anzi era semmai di gusto piuttosto macabro e direi anche decisamente poco elegante. Ma si sa: è satira. E la satira non deve necessariamente far sorridere, ma anche pungere, infastidire, irritare.

Nel caso specifico però, al di là del valore davvero discutibile della vignetta in sé, ciò che in essa mi ha piuttosto intristito, suscitando, più che fastidio o irritazione, soprattutto una sorta di malinconia, è il fatto di dover constatare come ancora una volta si voglia di fatto far passare un giudizio molto banalizzato sulla storia socialista degli anni Ottanta (una storia di cui indubbiamente De Michelis è stato per molti aspetti un simbolo e un protagonista). Quella infatti è una rappresentazione del tutto appiattita su stereotipi che sarebbero a mio avviso ampiamente da ripensare. Non voglio certo dire che quella storia non abbia avuto anche delle ombre, dei limiti e delle gravi degenerazioni (tra cui alcune che si sono tradotte anche in diversi reati, passati in qualche caso pure in giudicato). Ma è una storia che andrebbe comunque valutata con più obiettività, perché ha avuto anche diverse luci (e oserei dire non poche), e che non può essere certo ridotta ad un mero fatto di tangenti o, appunto, alla solita trita faccenda dei nani e delle ballerine. O meglio: che un Vauro continui a volerla vedere e disegnare in quel modo è cosa che dopo tutto non mi stupisce. Mi rattrista però che questa lettura banalizzante (e come tale anche falsata) sia pubblicata da Left, che invece mi piacerebbe considerare come una mia rivista «di riferimento» e come un laboratorio di idee meno banali. Io non penso – sia chiaro – che il Socialismo italiano degli anni Ottanta debba essere incensato in maniera acritica (come forse piacerebbe ad alcuni di quei socialisti per lo più senza patria di oggi, che, per una sorta di desiderio in parte anche comprensibile di riscatto, vorrebbero proporre una rappresentazione di quegli anni tutta in positivo). Dico però che il mero dileggio semplificatore non coglie davvero gran che, ed appare per molti versi perfino stucchevole.

Diciamo allora che mi piacerebbe che dopo tanto tempo una rivista come Left si facesse promotrice di una revisione che conducesse ad un giudizio più equilibrato e sereno su tutta la vicenda del Socialismo e dei socialisti di quegli anni (De Michelis compreso). Fa specie, infatti, che mentre in alcune grandi democrazie si riscopre il Socialismo democratico e libertario (dei Sanders, dei Corbyn, dei Sànchez…), in Italia sulla stessa parola “socialista” continui a pesare una specie di “damnatio memoriae”, fondata su rappresentazioni in parte anche davvero mistificanti, quando non prettamente macchiettistiche. Una riflessione più seria (capace di soppesare meglio i pro e i contro) credo proprio che sarebbe una cosa utile: anche nella prospettiva di rimettere in piedi in questo Paese una Sinistra degna di questo nome. 

Docente di storia medievale all’Università del Salento, Francesco Somaini è presidente del Circolo Carlo Rosselli  di Milano

Braccio 5, segnali radio da Regina Coeli: i detenuti raccontano il carcere

Una veduta interna del carcere romano di Regina Coeli in una foto tratta dal sito del sindacato di polizia penitenziaria Uilpa Penitenziaria. ANSA/ UILPA PENITENZIARIA ++HO - NO SALES EDITORIAL USE ONLY- NO ARCHIVE++

Non c’è stato bisogno di lenzuola annodate e nemmeno di lime. Ma non è stata comunque un’impresa facile fare uscire dal carcere di Regina Coeli le parole registrate dai detenuti nel corso del primo laboratorio radiofonico realizzato all’interno del penitenziario romano.
Durante i tre mesi di workshop, ogni volta che si premeva il tasto rec, si doveva poi attendere il via libera delle guardie penitenziarie, che provvedevano a riascoltare tutti gli audio consegnati per poi decidere cosa potesse uscire e cosa no.
È accaduto così che alcune parole e intere frasi siano dovute restare dentro. Parole come fil di ferro, (che nel gergo carcerario equivale a manganello) o come rivolta. Oppure frasi come: “Avevo capito come funzionavano le cose …..e così ho detto che ero caduto dalla branda”.
Tutto quello che resta lo potete ora ascoltare in Braccio 5, segnali radio dal carcere di Regina Coeli, un racconto corale, realizzato da un gruppo di detenuti, su cosa sia il dentro e il fuori della vita carceraria.
Il lavoro, dopo esser stato diffuso su Radio Tre Rai e su una serie di emittenti comunitarie tra cui Radio Popolare a Milano, Radio Ciroma a Cosenza e Radio Beckwith a Pinerolo, verrà presentato per la prima volta, il 21 e 22 maggio, al MACRO Asilo di Roma. In questa occasione, l’esperienza proposta sarà quella di un ascolto collettivo: un’immersione sonora in un mondo che viene raccontato evitando le trappole della retorica e del vittimismo.

Il fulcro della narrazione, mixata in un montaggio che a volte suona come un rap, è un percorso audio all’interno del più antico penitenziario della capitale: l’ingresso, la cella, la sala dei colloqui, i corridoi, l’uscita. A fare da guida sono detenuti che hanno tutti nomi rigorosamente inventati. Ognuno ha la sua storia e la sua ricetta da proporre. Ognuno ha la sua voce e una conoscenza da voler condividere. La loro principale abilità sta nell’usare i suoni e le parole come strumenti per scavalcare muri e avvicinarsi ad una società da cui sono tagliati fuori.
È il potere della radio, come direbbe Orson Welles, mezzo in grado di produrre immagini più potenti di qualsiasi schermo ad alta definizione, grazie alla possibilità di stimolare l’immaginazione di chi ascolta.
All’interno del percorso, frutto di un progetto realizzato della cooperativa PID e da Ilde Sonora,
è difficile perdersi. Su sentieri sonori ben tracciati, Max, Dottor Gin, Brecciolino, El Cubano, Candy Candy e gli altri protagonisti di Braccio 5 escono dal Regina Coeli per smontare la retorica giustizialista, quella del sbattiamoli dentro e buttiamo la chiave, e per riportare al centro dell’attenzione le persone e l’universo carcere, di cui si sa sempre troppo poco.

#braccio 5, segnali radio da Regina Coeli, 21 e 22 maggio MACRO Asilo, via Nizza 138. Per info e prenotazioni [email protected]

Evento su FB: qui 

Ma quando lavora?

Sempre a proposito di numeri, che me ne sto innamorando follemente e che parlano senza bisogno di troppe opinioni che per natura sono opinabili. Avete notato che il ministro dell’Interno Salvini è sempre in giro? In giro mica per incontri ufficiali, no, no. Allora, giusto per il gusto di scassare la minchia, siamo andati a vedere, in fondo.

Dunque, il ministro dell’Interno Matteo Salvini nel 2019 ha lavorato 39 giorni. Non male se si tiene conto che lo stesso collega di partito Maroni disse in un’intervista che per fare bene il ministro dell’Interno bisogna stare tutto il giorno in ufficio almeno 13 ore. Avrà i super poteri.

Ma non è tutto. Su 39 giorni solo 17 sono “interi” mentre gli altri 22 si è fermato in ufficio solo mezza giornata. E anche sulle giornate “intere” (tolte ovviamente le dirette Facebook ad aprire buste e cullarsi di accuse da cui poi è scappato come un coniglio) c’è qualche dubbio sull’esatta corrispondenza.

Fermi tutti. Vi dirà, al contrario del collega Maroni, che lui preferisce stare sul territorio a svolgere il suo compito. Benissimo il suo compito è stato quello di partecipare a 211 tappe tra comizi elettorali, feste del suo partito, cene elettorali, ecc. Una lunga, morbosa, campagna elettorale a spese dei contribuenti. Se il M5s fosse all’opposizione probabilmente si sarebbero già pugnalati in Parlamento. E invece niente. Ma anche lo stesso Salvini, andatevi a rileggere le sue dichiarazioni, criticava Angelino Alfano per lo stesso motivo. Forse sarà questo il cambiamento di cui vanno cianciando.

E quindi la domanda sorge spontanea? Ma quando lavora Salvini? Semplicemente fa un altro lavoro. Non è ministro, non è vicepremier, è il capo politico del suo partito e insiste nel cercare di raccattare voti utilizzando il Parlamento come votificio e la sua stanza come ripostiglio per i giocattoli.

E vorrebbe essere il miglior ministro della Storia, dice lui.

Sì, ciao.

Buon mercoledì.

 

Collegare parchi e giardini di Firenze in un’unica area verde: la sfida parte dai cittadini

Firenze città delle colline, delle Cascine e di Boboli, Firenze disegnata nella natura docile dei pendii e dei terreni agricoli e delle olivete ammansite dalla sapienza contadina da qualche decennio è cambiata. I quartieri nuovi si sono sempre più inseriti sotto le pendici con l’enorme espansione degli anni Cinquanta e Sessanta di Coverciano, Gignoro, Novoli… E le strade ormai tutte asfaltate hanno fatto dimenticare ai fiorentini il rapporto quotidiano col verde e la campagna, da sempre intimo e affascinante.

È stato col processo partecipato “San Salvi per tutti”, nato in un’area in Firenze di decine di ettari e oltre 40 edifici, che i cittadini hanno scoperto quanto sia necessario ribaltare la visione che fino ad oggi si è avuta dei parchi e giardini della città, come oasi da raggiungere per ritrovare i colori della natura, respirare un’aria meno inquinata, fare due passi.

Firenze ancora oggi non ha un piano comunale del verde urbano, dei brandelli sono presenti nel piano della tramvia che ha dovuto censire i luoghi che affianca e a cui porta, tra cui i giardini, ma non esiste il necessario piano complessivo. Un piano cui si aggiunga anche la parte dell’agricoltura urbana e degli orti urbani, che tanto servono come scudo contro le speculazioni edilizie sui terreni delle periferie, a sostegno del reddito tramite l’autoconsumo e a diffondere la cultura agricola.

È stato così, con un percorso partecipato che i cittadini hanno riflettuto su questa mancanza e, occupandosi di un singolo parco, quello di San Salvi, hanno scoperto che può e deve esistere un sistema dei parchi. Non un percorso qualsiasi, ma uno richiesto e autorganizzato dai cittadini, intelligentemente autorizzato dalla Autorità per la promozione della partecipazione.

Un percorso che per il suo successo progettuale apre la strada a ottenere un piano comunale del verde che sia esso stesso il felice prodotto di una azione partecipata, ideato coi cittadini, con un loro ampio coinvolgimento.

La forza creativa e la volontà popolare di “San Salvi per tutti” si è affacciata dapprima frammentata, con esigenze espresse da gruppi di cittadini e da associazioni come i camminatori, coloro che si preparano alle maratone, chi pratica il nordic walking, i ciclisti da strada, gli appassionati di mountain bike, quelli che intendono fare lunghe passeggiate nel verde, anche col proprio cane, e chi ha proposto percorsi per la pet therapy.

A quasi tutti in riferimento a queste esigenze, stava stretto l’esistente, bello e trascurato, Parco di San Salvi. Si è dunque pensato quali nuove aperture e accessi predisporre per nuovi necessari collegamenti che rendessero possibile appagare queste necessità di spostamento e di movimento. I cittadini volevano vedere bene cosa c’era prossimo a San Salvi di verde.

Le formidabili ingegnere e architette volontarie del processo partecipato hanno prodotto una mappa della città con le distanze tra le aree verdi. Così tutti assieme abbiamo ragionato, scoprendo con grande meraviglia che i parchi, da singole oasi, potevano essere collegati e posti a sistema.

Dalla ex Areanaturale protetta del Mensola che parte da Monte Ceceri e attraversa i boschi fiesolani e discende le pendici di Settignano si giunge prossimi a San Salvi e da questo, con un sottopasso di 20 metri si può collegare l’area alla via aretina proprio dove si accede al verde dei grandi giardini di Bellariva e alle sue piscine, e da lì, come previsto dal piano regolatore e da quello urbanistico, con una passerella pedociclabile sull’Arno si unisce Bellariva al parco dell’Anconella che la guarda dalla sponda opposta.

Il progetto di riassetto di Bellariva e dell’Anconella e della passerella nel frattempo è stato donato dalla Fondazione architetti di Firenze al Comune. Pare oggi dimenticato in un cassetto.

Dall’Anconella proseguendo lungo l’Arno verso centro città si giunge a circa 300 metri dal parco di Villa di Rusciano e dal famoso Viale dei colli che porta a Piazzale Michelangelo, San Miniato, Arcetri e sfociando sulla destra di Porta Romana a Bobolino e al granducale Boboli collegato al Forte di Belvedere e al vasto giardino della Scuola d’Arte. Sulla sinistra invece, attraversata la stretta via Senese, risale repentino sulla meravigliosa collina di Marignolle e, passato il poggio di Bellosguardo, da via Uliveto accede al grande parco di villa Strozzi che ha una delle sue uscite collocate su via Pisana, proprio a circa 300 metri dal ponte pedociclabile e tramviario che immette alle famose Cascine, l’immenso parco della città, adagiato sul ciglio dell’Arno.

Si crea così un verde ferro di cavallo per Firenze, fatto dei suoi parchi e giardini. Via di collegamento che può cambiare i nostri stili di vita e consente di ritrovare la mobilità nel verde, ciclabile e pedonale, per tratti utili oltre che alle proprie passioni e sport, a recarsi al lavoro e a scuola, al mercato o presso uffici pubblici.

Dunque è possibile con l’impegno di pochi milioni di euro studiare e sviluppare i necessari collegamenti per far attraversare in sicurezza i brevi tratti che tengono ancora oggi divise la aree verdi della città. Laddove l’unica infrastruttura onerosa è la passerella pedociclabile sull’Arno per meglio collegare i giardini di Bellariva al parco dell’Anconella oggi collegati dai ponti di Varlungo e da Verrazzano. Queste due aree verdi ad est e quella a ovest delle Cascine, consentono al sistema dei parchi di unire anche quel parco dell’Arno che si spera divenga realtà. E che serva a risolvere il trauma che a Firenze fa vedere il fiume come una cesura, un muro d’acqua, anziché come era e come è in tutte le città che ne hanno uno, una grande via di collegamento e un giardino sulle sue sponde. Il trauma dicevo dell’alluvione del ‘66 e delle tante altre gravi e precedenti va risolto, anche rendendolo navigabile con le moderne modalità che lo consentono, così come pensato dalla giunta Primicerio più di venti anni fa.

Il sistema dei parchi affiorato nel percorso partecipato è stato valutato assieme al segretariato regionale Mibac della Toscana, il quale ha lodato molto l’idea perché occupandosi di turismo ecosostenibile intende promuovere il progetto della pedociclabile che colleghi Arezzo con Pisa passando da Firenze ma si poneva il problema di come non portare anche quel turismo a impattare direttamente nel centro storico già congestionato. Un sistema dei parchi, ben compatibile con le inclinazioni di quel turismo e dotato di attigue strutture di servizio serve a far conoscere anche la parte meno centrale ma bella e importante di Firenze. Basti pensare Al cenacolo dell’Andrea del Sarto o alle balze settignanesi.

Ma un sistema dei parchi è anche un generatore di lavoro per associazioni e cooperative di giovani, che possono gestire punti di riparazione e di noleggio per biciclette, monopattini elettrici e non, skate, pattini ecc. che possono occuparsi degli asinelli della ono-terapia con i giovani psicologi coinvolti, che possono narrare le storie dei singoli parchi e presentarne le varietà arboree, floreali, officinali, che possono informare e indirizzare il turismo dei camminatori e ciclistico, che possono organizzare giornate escursionistiche delle colline e offrire attività culturali, ricreative e di ginnastiche dolci. Una economia nel verde, del verde.

La rivoluzione, di stile di vita e culturale, sta nel passare dal giardino visto come oasi attorniata dal cemento, da raggiungere partendo da casa o dall’ufficio, alla mobilità svolta in tutto o in parte nel pieno verde, per raggiungere la casa o l’ufficio. Il verde torna di nuovo percorso per la donna e l’uomo, luogo di parte delle proprie attività.

La cosa buffa di tutto questo percorso che ci ha portati a cambiare tutta l’idea del rapporto tra il verde e la città è che è avvenuta seguendo un ciuccio, immaginando tutti assieme, cittadini, camminatori, ciclisti.. di dare un sentiero all’asinello che i proponenti del centro di pet-therapy in San Salvi, area dell’ex ospedale psichiatrico, hanno chiesto per avviare l’attività. Terapia dolce che riscatta la dura coercizione che alcuni pazienti vissero nei suoi padiglioni, molti dei quali erano di provenienza rurale.

Iacopo Ghelli è candidato al Consiglio comunale di Firenze per Firenze città aperta Bundu sindaca

Patrimonio d’arte: La tutela a sorte e la sorte della tutela

Quando si fa riferimento alla riforma che il ministro Dario Franceschini volle per il ministero dei Beni culturali che giusto ancora un paio di anni fa dirigeva, non sono coinvolti concetti astratti nel senso di lontani dalla vita di ogni cittadino. Al contrario perché, infatti, attraverso tali concetti ci addentriamo in quel sistema di valori, anche e soprattutto costituzionali (l’art. 9 per esempio), che toccano intimamente la vita quotidiana di ognuno di noi. Nella strenua difesa della sua riforma è rimasto epocale un confronto televisivo su La7 fra Franceschini e il professor Tomaso Montanari. In quel contesto, l’allora ministro sottolineò con enfasi, a dire il vero un po’ timorosa, che la riduzione delle soprintendenze, da tre ad una sola, era stata voluta proprio per snellire la pesantezza burocratica insistente fra Stato e cittadino. Quel ministro, però, mai avrebbe immaginato che un colpo di grazia proprio alla sua riforma sarebbe arrivato da una soprintendenza periferica, ma non per questo meno importante, come quella cui spetta la tutela del patrimonio culturale delle province di Lecce, Brindisi e Taranto.

Il 30 aprile scorso è stata diramata una nota – a firma della soprintendente, architetto Maria Piccarreta – indirizzata a tutti i comuni afferenti al territorio controllato dal locale ufficio ministeriale, nella quale si segnala che, dallo scorso 6 maggio, non sarebbero state accettate dalla soprintendenza più di tre pratiche al giorno (per comune). Il provvedimento inusuale, inconsueto, addirittura per certi versi mai visto (così lo hanno definito alcuni), ha colto di sorpresa tanti per non dire tutti: dai professionisti ai tecnici comunali fino a chi, soprattutto, si occupa di tutela. A questo proposito un dirigente ministeriale ha spiegato in termini molto generali che ricaduta abbia sui cittadini un provvedimento del genere:

«Le autorizzazioni paesaggistiche sono rilasciate dai comuni. Questi, cui spetta la sub-delega da parte della Regione, hanno l’obbligo di trasmettere le pratiche istruite alla soprintendenza perché questo ufficio ha ancora il potere di dare un parere che è vincolante. Solo se la risposta dell’ufficio periferico del Mibac è favorevole, con o senza prescrizioni, il comune può rilasciare le autorizzazioni paesaggistiche. Queste ultime sono legate a una tempistica fissata dalla legge per cui il cittadino è tutelato perché da quando questi consegna la pratica all’amministrazione comunale trascorrono un certo numero di giorni e cioè a dire: c’è un tempo per espletare la pratica. Se la soprintendenza fissa di accettarne non più di tre al giorno va a finire che le pratiche si accumulano presso il comune. Non è possibile bloccare il protocollo e al comune non si può impedire la trasmissione perché tale ufficio deve rispettare la tempistica. L’amministrazione comunale, poi, quali criteri adotterà per scegliere le tre pratiche al giorno da inviare? Nella nota della soprintendenza, molto secca e senza giusta causa, non c’è una premessa, non si specificano né motivazioni né la durata temporale di questo impedimento. Il problema non è per l’ufficio comunale ma ricade sul cittadino, e va a danno di tutta un’economia che ruota attorno alle attività che si devono svolgere all’interno di aree vincolate».

Quali siano, quindi, i criteri di selezione (Sorteggio? L’orario d’arrivo? O altrimenti: quale altra invenzione è nella mente di Giove?) non è dato sapere. Inutile ricordare che un provvedimento come quello adottato dalla soprintendenza di Lecce potrebbe generare addirittura distorsioni, ben peggiori di quelle accennate qui, nel rapporto fra cittadini e amministrazioni pubbliche. Una cosa è certa: siamo davanti all’ennesimo fallimento della riforma nel suo complesso perché essa proprio questi problemi avrebbe dovuto risolvere ed evitare. E non solo. Se davvero, poi, ci fossero cosi tante difficoltà nella gestione della soprintendenza leccese, il ministro Bonisoli e i suoi uffici dovrebbero essere avvisati (nella nota non vi è alcun riferimento agli organi centrali ministeriali) il che significa che questa vicenda ha uno sviluppo problematico anche interno agli uffici. Una sorpresa negativa, pertanto, un più che probabile disservizio per i cittadini, un ulteriore rischio per la tutela del patrimonio. Di emergenze ne abbiamo viste tante ma mai così serie e preoccupanti. Auspicabile, quindi, un rapido intervento del ministro Bonisoli perché, sull’onda di una celebre vicenda verrebbe da commentare, a Houston, anzi no, in tutta Italia a cominciare da Lecce, hanno forse un problema. Se solo il provvedimento ideato dalla soprintendente Piccarreta fosse adottato, infatti, anche da altri uffici, tutto ciò diventerebbe indicativo del fatto che l’amministrazione del ministero sarebbe davvero al tracollo o forse lo è già.

#SexStrike negli Usa, l’attrice Alyssa Milano guida la rivolta contro le leggi anti aborto

US actress Alyssa Milano (R) waits for the start of a House Judiciary Committee Constitution, Civil Rights and Civil Liberties Subcommittee hearing on the Equal Rights Amendment in the Rayburn House Office Building at the Capitol in Washington, DC, USA, 30 April 2019. ANSA/ERIK S. LESSER

Niente film per chi non rispetta il diritto all’aborto. Cinque case di produzione cinematografica hanno annunciato che non si recheranno più in Georgia a girare i loro contenuti, dopo che lo scorso martedì lo Stato guidato dal governatore Brian Kemp ha votato una legge, la HB481, che limita l’interruzione volontaria di gravidanza al momento in cui si può percepire il battito fetale. Le cosiddette heartbeat laws si stanno diffondendo nella parte più conservatrice degli Stati Uniti: prima della Georgia, già Mississippi, Kentucky e Ohio avevano votato leggi simili nel corso del 2019. Queste leggi stabiliscono intorno alle sei settimane il limite massimo per interrompere la gravidanza, uno stato talmente iniziale in cui spesso una donna non sa nemmeno di essere incinta.
Color Force, attualmente la più grande casa di produzione a partecipare al boicottaggio, è la creatrice dei quattro film di Hunger Games, tre dei quali sono stati girati quasi interamente ad Atlanta, in Georgia appunto. Accanto a questa ci sono società più piccole, come Killer Film, Duplass Brothers Productions e Blown Deadline, diventata famosa per aver partecipato alla creazione della serie HBO The Wire. Le case cinematografiche sono state chiare: non gireranno in Georgia finché la nuova legge sull’aborto resterà all’ordine del giorno. A fare ancora più paura all’amministrazione Kemp è stata la scelta della Motion Picture Association of America, che rappresenta Paramount Pictures, Netflix, Walt Disney Studios e Warner Bros, di assumere un atteggiamento di monitoraggio della situazione prima di prendere una decisione in merito, facendo pensare di avere una propensione nell’appoggiare il boicottaggio. Attualmente, l’industria cinematografica e televisiva sostiene circa 92.000 posti di lavoro in Georgia, oltre che supportare l’indotto dello Stato.
Ad appoggiare le proteste che si stanno diffondendo in tutto il Paese non ci sono solo le case di produzione, ma anche un gruppo di attori capitanati da Alyssa Milano. L’attrice, che si trova attualmente ad Atlanta per girare una serie Netflix, ha firmato insieme a circa cinquanta colleghi, tra cui Alec Baldwin e Sean Penn, una lettera in cui annunciano che se la legge dovesse passare non si recheranno più in Georgia a girare film. In più, ha annunciato tramite Twitter con l’hashtag #SexStrike che si asterrà dall’avere rapporti sessuali finché la legge HB481 non verrà cancellata.
L’opposizione all’heartbeat law non proviene ovviamente solo dal mondo di cinema e tv. Planned Parenthood Southeast e la Aclu (l’Unione americana per i diritti civili) hanno annunciato che daranno filo da torcere a Kemp, dichiarando l’incostituzionalità della legge quando verrà presentata per l’approvazione di fronte alla Corte Suprema. Per entrare in vigore, infatti, serve l’approvazione dell’organo legislativo di massimo grado. Un’eventualità non così improbabile, purtroppo, visto che la Corte è ora a maggioranza conservatrice, dopo l’elezione del giudice dichiaratamente antiabortista Brett Kavanaugh. Attualmente, in Georgia l’aborto è concesso entro 20 settimane dal concepimento. La nuova legge, che se non verrà bloccata entrerà in vigore dal 1 gennaio 2020, prevede anche assegni di mantenimento e detrazioni fiscali per il feto, seguendo il principio che la vita inizia con il battito cardiaco. Sarà possibile interrompere la gravidanza oltre le 6 settimane solo in caso di pericolo di vita per la madre, di incesto o di stupro (ma solo se la donna ha già denunciato il fatto).
Oltre ai già citati Stati che hanno approvato leggi simili a quelle della Georgia, anche in Tennessee, South Carolina, Florida, Texas, Missouri, Louisiana e West Virginia si sta pensando di fare lo stesso, oppure si è provato a farlo. In Alabama, invece, è già stata votata una legge che vieta l’aborto in qualsiasi momento della gravidanza, con soltanto pochissime eccezioni. Mentre la legge in Kentucky è stata bloccata dal giudice federale perché in aperta violazione del diritto a interrompere la gravidanza, il problema è ben lontano dall’essere risolto. Lo Stato infatti è uno dei sei (insieme a Mississippi, West Virginia, Missouri, Nord e Sud Dakota) dove è presente una sola clinica dove è possibile praticare l’Ivg.
Difficile non pensare che le heartbeat laws siano un aperto attacco all’identità delle donne americane da parte di potenti ultraconservatori, rassicurati dalla presenza di un presidente come Donald Trump che sin dall’inizio del suo mandato ha agito contro le organizzazioni federali che praticavano l’aborto oppure facevano informazione in materia. Una risposta oscurantista che tenta di fermare l’avanzata femminile che sta sconvolgendo il mondo della politica dopo le elezioni di midterm del 2018.

È morto De Michelis ma non è cambiato nulla

20070708 - ROMA - POL - N.PSI: DE MICHELIS, UNITI SAREMO LABURISTI DEL FUTURO. Il parlamentare del Nuovo PSI, Gianni De Michelis. I socialisti uniti saranno i laburisti del futuro che si occuperanno dei problemi del mondo del lavoro. E' questo, l'auspicio di Gianni De Michelis nel discorso conclusivo del quinto congresso del Nuovo Psi. Il leader del partito ha chiesto a tutti i delegati di assumere la decisione di partecipare alla costituente liberalsocialista con la ''massima consapevolezza'', tenendo anche conto del fatto che il Nuovo Psi arriva a questo appuntamento in parte indebolito dalle polemiche interne. ANSA/MAURO DONATO/DC

Ebbene sì, anche Gianni De Michelis da morto è stato fatto santo. E vabbè, funziona così qui da noi: muore qualcuno e diventa una brava persona. Che abbia patteggiato 1 anno e 6 mesi per corruzione sulle autostrade venete e che abbia patteggiato 6 mesi nello scandalo Enimont non interessa nessuno. In quest’epoca tutta passata allo specchietto retrovisore ci ritroviamo perfino a rimpiangere politici che intascavano mazzette, prenotavano aerei per portarsi in giro qualche dozzina di fanciulle e che si arricchivano con la politica. Che popolo straordinario che siamo.

Come se Tangentopoli e l’implosione del Psi siano stati semplicemente una passeggiata e come se le condanne fossero fumus persecutionis Gianni De Michelis viene onorato come personaggio di un politico che non c’è più. Eppure non preoccupatevi. È ancora tutto qui. Avete letto le parole del procuratore Francesco Greco sui 43 arresti di settimana scorsa? «In Lombardia, politici locali e imprenditori si appoggiano, e a volte sono collusi, con cosche della ‘ndrangheta», presente sul territorio. È emersa infatti una sinergia tra cosche e imprenditori”.

Sono cambiati gli interpreti ma lo spartito sembra essere sempre lo stesso. Sono passati ventisette anni da Tangentopoli ma la differenza sostanziale è che ciò che si faceva prima per il partito ora si fa preferibilmente per accumulo personale. E ci siamo abituati talmente tanto che non ci facciamo più caso. Non hanno creato scandalo i quarantanove milioni di euro spariti della Lega figurarsi se non rimpiangiamo De Michelis. È naturale, verrebbe da dire.

La corruzione, la politica, pezzi della criminalità organizzata continuano ad andare a braccetto (aspettiamo con ansia l’evoluzione del caso Siri) solo che ora non ci si vergogna nemmeno più: assuefatti al malaffare ci siamo abbassati a sperare semplicemente nel buon cuore di chi ci governa ma con una buona narrazione anche un Comune decimato dalle inchieste come quello di Roma alla fine riesce ad uscirne pulito come se nulla fosse.

Provate a pensarci, oggi nessuno si scomoderebbe nemmeno a lanciare monetine. Una frase indignata, e via, in attesa dei prossimi che risultino convincenti nel proporci un cambiamento. E tutto si fa superficialità e immagine.

E intanto la politica va a ramengo. E il Paese, ovviamente, dietro.

Buon martedì.

Domenico Lucano: Da Impastato a Riace, passando per la Sapienza, la resistenza continua

Mimmo Lucano ricorderà a lungo e con emozione l’8 maggio di quest’anno. Era a Cinisi, per l’anniversario dell’uccisione di Peppino Impastato a ritirare il premio a lui intitolato. Un premio ottenuto con una motivazione impeccabile “per aver costruito un modello di economia alternativa che ha messo al centro l’essere umano”. Tante le foto, gli abbracci collettivi, la commozione incontrando Giovanni Impastato, Umberto Santino, Marcella Stagno, Francesca Impastato, i tanti e le tante che mantengono viva la memoria di Peppino.

«Io ero appena maggiorenne quando la mafia ha ammazzato Peppino – racconta il sindaco di Riace -. Il mio primo voto è andato a Democrazia proletaria, un nome che mi è sempre piaciuto e in cui mi sono riconosciuto e soprattutto a Peppino che rimase candidato anche dopo la morte. Sono già stato altre volte a Cinisi ma questa volta è stato tutto più forte e comprendo sempre di più il legame forte che c’è, nonostante siano passati tanti anni, con Riace. Le storie dei nostri due paesi sono storie di ribellione e di utopia».

Sono passati 41 anni dalla morte di Peppino ma ad ogni anniversario sono migliaia le persone che arrivano da tutta Italia, i vecchi compagni, ragazzi che ne hanno sentito parlare, le generazioni che, non solo in Sicilia, non si sono mai arrese al potere mafioso. «Sono stati giorni intensi – riprende Mimmo -. Ho passato tante ore con Marcella Stagno che è stata con Peppino l’ultimo giorno. Mi ha raccontato delle sensazioni opprimenti che avevano, di come nell’aria ci fosse già qualcosa di tragico che stava per avvenire. E ho avvertito la tensione esistenziale legata ai problemi di quel luogo, lei mi ha raccontato di un vissuto carico di sofferenza, la pressione mafiosa (lo zio di Peppino era capo del “cartello di Cinisi che aveva sopra i corleonesi”), mi ha descritto i travagli interiori di un militante che aveva capito bene come per combattere le mafie bisognava rimuovere la divisione in classi della società.

C’è un legame fra le differenze di classe e le mafie, ieri era il capitalismo oggi il neoliberismo, ma entrambi impongono una società basata sullo sfruttamento, sul controllo del territorio e dei sistemi economici e finanziari. Anche la ‘ndrangheta da noi non è più quella dei sequestri di persona ma quella che ha dato vita ad una borghesia mafiosa, composta da persone che magari neanche si rendono completamente conto di servire una organizzazione criminale e di subire un controllo politico. Ci sono voluti tanti anni per capire che l’autore dell’omicidio era stato Tano Badalamenti, a capire il senso di quei 100 passi che separano due case e un municipio in cui si voleva provare a vagheggiare una società democratica e giusta, come in tanti paesini del Sud».

Lucano parla con fervore del riscatto di una terra, della sua immagine e insieme dell’urgenza di avere una sinistra “composta da tante isole che non riescono a costituire un arcipelago” «Io non mi sono mai tesserato ad un partito perché non voglio istituzionalizzare la militanza, rendere conto a qualcosa di gerarchico, avere una limitazione nel pensiero. Credo che anche questo mi sia servito a fare il indaco assumendomi le responsabilità del territorio con tutti i rischi che comporta l’esporsi in prima linea. Ho potuto fare il sindaco in mezzo alla strada, sulla spiaggia, aiutando durante gli sbarchi ma senza mai sentirmi una autorità. È stato naturale, avevo anni di preparazione alle spalle per questo ma non ho mai lavorato come burocrate. La burocrazia per me è uno spazio grigio in cui si confermano le differenze sociali e di classe. Io ho solo deciso da quale parte stare. Ad un livello più alto anche la magistratura, quando non applica le leggi che difendono il popolo partendo da chi è ai gradini più bassi, consolida il dominio di una classe sociale su un’altra. Facendo il sindaco ho imparato che l’immigrazione è al centro del dibattito politico perché rappresenta la nuova questione operaia. Per questo penso che sia necessaria una azione sindacale, che non sempre c’è stata in maniera chiara e netta».

Mimmo teme di divagare nel provare a definire il filo rosso che lega Cinisi a Riace ma è solo un’impressione. Riprende citando Umberto Santino, della Fondazione Impastato che affermava nei giorni scorsi «non possiamo perdere su Riace e la questione è di carattere generale. Quello che si sta facendo è un processo politico».

E Lucano riprende il filone partendo da questo: «Chi si schiera a sinistra deve capire questo. La differenza con il mondo neo liberista e fascista che ci governa è semplice. Chi ci comanda vuole la castrazione chimica, invoca la legittima difesa, inventa decreti sicurezza, disumanizza il mondo contro rom e rifugiati con un assurdo “prima gli italiani”, una frase che ci porta diritti verso il nazismo. – E il sindaco di Riace insiste – La Storia di Cinisi ha contaminato positivamente il pensiero. Un film come I cento passi, al di là della coerenza rispetto alla cronaca, ha avuto il merito di divulgare la storia di Peppino e mettere di fronte ad un quesito semplice: da che parte devo stare? Dalla parte dello squallore o della luce? E mi entra nella testa un pensiero inquietante. Hanno permesso che si facesse un film su Peppino Impastato perché era morto e gli eroi sono sempre morti. Invece non vogliono trasmettere la fiction già ultimata su Riace e mi domando perché? Forse perché sono vivo? Secondo il mio avvocato nelle carte che mi accusano non c’è nulla, ci sono esclusivamente attacchi politici. La fiction su Riace avrebbe mostrato ad almeno 7 milioni di persone un messaggio di umanità che parte dalla Calabria ionica, dove grazie all’immigrazione si risorge».

E in questo colloquio in cui si incontrano attraverso i due paesi, passato e presente, Mimmo Lucano parla di oscurantismo dilagante, di chi indica i migranti come dramma sociale e predica la disintegrazione. E cerca un filo nero che lega gli strumenti con cui viene infranto un sogno della sinistra: «La mafia prima, la lotta armata poi e quindi l’utilizzo di certa magistratura. Sembra che ci sia proibito raggiungere le utopie. La storia ci condanna a sognare e forse non finiremo mai di fare i nostri “cento passi”. Ma questa non è la sconfitta ma un insegnamento per continuare, da cui non ci dobbiamo distaccare». Il sindaco continua a vivere con genuina sorpresa il fatto che durante i suoi spostamenti trova sempre persone che si fermano ad attenderlo, volti noti e meno noti che gli confermano che non è da solo.

Mimmo Lucano è venuto a parlare all’Università di Roma “La Sapienza”, invitato dalla cattedra di Antropologia culturale, dal professor Vito Teti su “Il senso dei luoghi e il senso degli altri”. Forza nuova aveva minacciato una contestazione contro il “nemico d’Italia” ma questo ha portato studenti e democratici a mobilitarsi e la manifestazione neofascista è stata vietata. «Io sono venuto a parlare di come l’antropologia dei nostri luoghi sia fatta per creare ponti. È qualcosa di innato, da noi naturalmente si parla di porti aperti, della difficoltà vissute dagli emigranti, del bisogno di sentire solidarietà, di poter sperare in un futuro migliore. Per questo dico che l’immigrazione e la solidarietà alla Calabria fanno bene. Voglio dire questo agli studenti – e aggiunge polemico – oggi Salvini dice che mi rispetta, che ho diritto di parlare. Ma ha contribuito a creare questo clima d’odio, ad aver distrutto il sistema di accoglienza. Ora cerca di apparire meno disumano ma io il rispetto di una persona così non lo voglio. Mi accusano ancora di voler ripopolare il sud con “colonie africane” ma lo sanno bene che chi scappa non sceglie di venire da noi. Chi pensa il contrario offende i nostri luoghi e la nostra gente. Altro che “deportazione etnica”.

E Mimmo Lucano parla anche delle prossime elezioni, in cui spera di poter votare. Non sa se gli daranno il permesso di recarsi al seggio anche se candidato come consigliere comunale. «Fanno candidare Berlusconi e io sono esiliato. Ma le cose stanno cambiando. A Cinisi sono stati mandati via i parlamentari M5S venuti con le telecamere. Li hanno allontanati dicendo loro che non è gradito chi governa con i razzisti». E con timidezza poi Mimmo Lucano parla anche delle elezioni europee: «Voto La Sinistra – afferma – e sostengo Eleonora Forenza che a Riace e ai migranti è stata tanto vicina».

Il video del corteo che lunedì 13 maggio 2019 ha accolto Domenico Lucano alla Sapienza