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Il rimpatriatore fallimentare

Il presidente del Consiglio, Guseppe Conte (S), e il il vice premier e ministro dell'Interno, Matteo Salvini, durante una conferenza stampa al termine del Consiglio dei Ministri a palazzo Chigi, Roma, 24 settembre 2018. ANSA/ETTORE FERRARI

Il ministro dell’Interno ha un’occlusione, come Silvio. La sua non è intestinale, no, si tratta di un’occlusione rimpatriale che lo mette di fronte alla realtà e che certifica il suo totale fallimento sul tema principe della sua campagna elettorale. Aveva promesso 600.000 rimpatri e invece nei primi dieci mesi ne ha fatti 6.000. Siamo all’1%. Verrebbe da ridere se non fosse una tragicommedia che si gioca tutta sulla pelle del nostro Paese e che per l’ennesima volta mette di fronte il ministro dell’Interno alla realtà.

Non è tutto: il Viminale (mica qualche pericoloso comunista) dice 7.383 rimpatri nel 2017, 7.981 nel 2018 e 2.143 fino al 23 aprile del 2019. Tradotto: siamo passati da una media di 20,2 rimpatri al giorno con il ministro Marco Minniti durante il governo Gentiloni a 19,30 del ministro Salvini. A questo ritmo sarà il peggiore anno per numero di rimpatri, nonostante le iperboliche promesse e la retorica.

Il fatto vero è che la percezione è totalmente fallace: ogni volta che il ministro dell’Interno twitta un “mandiamolo a casa” la percezione degli italiani (da mesi avversa ad ogni forma di complessità) si illude che ciò accada davvero senza sapere che la voglia di fare tutto da solo di Salvini (e di apparire come uomo solo al ponte di comando) mette l’Italia in una posizione difficile e solitaria, rinunciando anche agli strumenti che l’Europa mette a disposizione per i rimpatri.

Tradotto semplice semplice: nemmeno sull’argomento principe della sua propaganda Salvini riesce a ottenere risultati soddisfacenti (almeno in linea con i governi precedenti che tanto ha criticato) e la sua voglia di distribuire le colpe al presidente del Consiglio o al ministro Moavero nascondono un’incapacità di mantenere in minima parte le sue roboanti promesse.

Attenzione, questi sono numeri. Non sono opinioni. E c’è bisogno di propagarli dappertutto. Farlo sapere. Farli conoscere.

Buon lunedì.

Verso le europee, le donne spagnole in prima linea contro la cultura patriarcale

Le donne, eterno numero due. Le femministe di più. In Spagna la campagna elettorale per le europee è ancora sotto gli effetti delle elezioni politiche svolte recentemente.
È vero, dobbiamo essere soddisfatte del risultato delle ultime elezioni generali perché le donne occuperanno, nel nuovo parlamento, il 47,4% dei seggi, superando così la quota minima fissata, solo al 40%, per soddisfare la (quasi) parità di genere, ma è anche vero che il tutto avviene sotto l’approvazione di soggetti politici la cui leadership è monosessuata maschile.
Se ne sono accorti anche quegli apparati elettronici che incorporano un assistente virtuale. Alexa è una “assistente personale intelligente” sviluppata dalla azienda statunitense Amazon.
Questo altoparlante, in vista delle elezioni politiche spagnole, è stato programmato per sostenere una conversazione e interagire sulle proposte dei diversi partiti e sulle previsioni elettorali. Ma ci deve avere messo le mani qualche programmatrice femminista. Chiedendo su chi potrebbe essere il prossimo presidente del governo rispondeva con tono sicuro: «Non credo di sbagliare di molto se dico che sarà un uomo. Mi sarebbe piaciuto vedere almeno una donna come candidata».
Se ne deve essere sicuramente accorta la donna che lucidava il pavimento dello studio televisivo in occasione di una pausa durante il dibattito tra i quattro candidati al governo spagnolo, la foto ha fatto il giro della rete. I protagonisti sono loro, tutti maschi, e parlano di donne. Mettono in tavola argomenti che qualche anno fa non sarebbero mai stati citati in un dibattito elettorale: consenso nei rapporti sessuali, gravidanza surrogata, patto di stato contro la violenza di genere, ce n’è per tutte.
È positivo quando un politico si occupa delle questioni femminili o di genere o chiamiamole come ci pare, ma nominiamole. È un successo dei movimenti femministi quando un segretario di partito difende le proposte che le femministe hanno obbligato a inserire nell’agenda politica. Ma c’è il rischio che quelle proposte vengano considerate in modo paternalistico o che gli uomini interpretino le richieste dalla loro posizione di parte, non da quella delle donne, fino a distorcerle.
Infatti c’è una certa contraddizione nella vita sociale e politica spagnola in merito alle conquiste femministe. Da un lato, ci sono leggi molto avanzate e progressiste, ma, dall’altra parte, la vera uguaglianza raggiunta è inferiore a quella richiesta e a quella a cui dovrebbe corrispondere uno sviluppo legislativo egualitario.

Le 166 deputate del nuovo parlamento piazzano la Spagna alla testa degli altri parlamenti europei per la presenza di donne, prima di Svezia, Finlandia, Norvegia, Francia, Belgio o Danimarca. Questo vuole dire che molte donne spagnole sono andate alle urne con un pensiero femminista, con la consapevolezza che le iniziative femministe dell’ 8 marzo, le tantissime proteste, siano servite affinché il voto potesse essere davvero utile. Ma questo non basta, ora questo femminismo deve essere rappresentato e non con posti di vice presidente, vice segretario o vice qualsiasi cosa basta che sia una donna e sia al secondo posto.
Sembra sempre femminismo, sì, ma non troppo. Infatti dei 32 partiti spagnoli che partecipano alle elezioni europee del 26 maggio, solo 10 donne sono capolista. Insieme, rappresentano meno di un terzo del totale, ben 22 sono gli uomini che guidano le coalizioni favorite per ottenere seggi al parlamento europeo. Alla testa di lista del partito Unidas Podemos Cambiar Europa c’è una donna, Maria Eugenia Rodriguez, solo per la rinuncia del titolare vincitore delle primarie. Ma la difesa dei diritti delle donne e dell’uguaglianza di genere è una delle questioni che riceverà il maggior numero di voti nelle elezioni europee. L’ultima legislatura aveva sei commissarie europee (6 donne) che controllavano le aree strategiche, ma le femministe sanno che c’è ancora molta strada da fare. Lì dove molti trovano un motivo di celebrazione o una sensazione di aver raggiunto l’eguaglianza, o almeno un parlamento con tante donne, bisogna ricordare che non è ancora sufficiente. Ci sono ancora donne che pensano ad un tipo di società basata su relazioni gerarchiche, famiglie tradizionali o soggette a vincoli religiosi e patriarcali, la biologia c’entra poco. C’entra l’idea del maschile come universale su cui organizzare la società. Proprio quello che le femministe spagnole vogliono scardinare, anche in Europa.

Sul voto delle donne in Spagna vedi anche qui e qui 

La guerra di Zoro alle fake news

Musica in controcanto, le sue classiche riprese dal basso alla Full Metal Jacket, con la camera che sbarella a bordo di taxi improvvisati e unità mobili di Medici senza frontiere (Msf), che altro non sono che moto. Per otto giorni Diego Bianchi, in arte Zoro, ha attraversato da una parte all’altra il Congo, avventurandosi fin nella foresta per seguire e documentare il lavoro dei medici e degli operatori della Ong in questo Paese africano martoriato dalla guerra civile, preda di gruppi armati e vittima del virus ebola che proprio in questi giorni è tornato a uccidere con nuove epidemie. «Otto giorni che a me sono sembrati eroici – chiosa Zoro – ma che sono niente rispetto a ciò che rischia chi lavora con le Ong ogni giorno». Mentre in Italia è sempre più aggressivo il tentativo di criminalizzare le Ong, il front man di Propaganda live ha deciso di contribuire a smontare false accuse e fake news. «Per rendersi conto di come stanno davvero le cose basta andare sul campo», racconta alla vigilia della sesta edizione del Premio giornalistico internazionale Marco Luchetta, che lo vede fra i premiati, nella sezione reportage, proprio per questo documentario trasmesso durante Propaganda Live su La7. «Salii sull’Aquarius in tempi di scarsa eco mediatica. Due anni fa sono stato due settimane davanti alla Libia con loro», ricorda. «Era il periodo in cui si discuteva il codice di condotta voluto dall’allora ministro Minniti. L’impressione che ne ebbi fu chiara sulla bontà e necessità della loro attività».

«Questa volta- prosegue Zoro – sono andato oltre, attraversando la Repubblica del Congo da una parte all’altra e la foresta, la zona più difficile del Paese dove il lavoro delle Ong è osteggiato non solo dalle condizioni di povertà generale, strutturale del territorio, ma anche dal fatto che intorno ci sono focolai di conflitti decennali alimentati da bande armate che ogni giorno mettono a rischio il lavoro di chi porta medicine e cure nei rari ospedali di quell’area. Insomma, anche lì, sono andato a vedere con i miei occhi». Mettendo in atto ciò che Zoro aveva consigliato a Marco Travaglio quando, sull’onda grillina, lancia in resta, attaccava il lavoro delle organizzazioni umanitarie dalle colonne de Il Fatto. «Quasi non mi ricordavo più di quello “scambio” di vedute con Travaglio», ironizza. Perché tanta feroce criminalizzazione di chi cura e si impegna per salvare vite umane? «Da parte dei politici ci vedo dietro la ricerca del consenso soprattutto in campagna elettorale. E in Italia siamo sempre in campagna elettorale! Il migrante non porta voti. Seppur con alcuni distinguo, gli slogan e le politiche hanno finito per assomigliarsi tutte. I 5Stelle sono stati i più efficaci in questo senso. L’espressione “taxi del mare” è un loro conio. La politica anti immigrazione è ciò che tiene uniti CinqueStelle e Lega. Tant’è che sui porti chiusi sono stati indagati Salvini, Di Maio e Toninelli. Sono pienamente corresponsabili, la loro propaganda è sempre stata piuttosto compatta. Anche sparando numeri a casaccio. E ora Salvini fa il fact checking su se stesso dicendo che i cosiddetti “irregolari” non sono più 600mila ma 90mila. Non si sa che fine abbiano fatto 510mila persone». Nonostante dicessimo ogni settimana al ministro dell’Interno che non c’era nessuna invasione di migranti in atto, riportando cifre e fatti documentati, Salvini diceva “me ne frego”. (Un lavoro ostinato e capillare quello della redazione di Left, che ci è valso anche un rap fra i “nemici di Salvini” durante Propaganda live).

«Quel che più colpisce è che nessun politico abbia mai avuto la smania di smentire tutto ciò», rilancia Zoro. «Anche la sinistra che è stata al governo ha fatto accordi con la cosiddetta guardia costiera libica, con i capi clan che stanno facendo la guerra, gli stessi che gestivano la tratta dei migranti. Tutte cose che sono state documentate. Forse anche per questo l’elettorato di sinistra non ha premiato quelle politiche. Adesso sembra che il Pd abbia cambiato un po’ opinione – dice Zoro – ma che fosse sbagliato quel tipo di approccio lo si vedeva già allora mentre accadeva». In altre parole, se il centrosinistra gioca a fare il piccolo Salvini, tira la volata all’originale? «Mi pare chiaro! E questa è anche una grande responsabilità comune». Sarebbe? «Voglio dire che spesso ce la prendiamo con la classe dirigente ma non è altro che lo specchio di chi la vota. C’è un grandissimo problema culturale. sono stati fatti dei danni enormi». Di chi sono le maggiori responsabilità? «Vogliamo farle partire dal 1994, per comodità? Oggi si continuano a fare errori. Lo diceva Gino Strada giorni fa in studio da noi: “Io sto più tranquillo in un Paese con tante scuole, asili, che in un Paese con tante armi”. Se qualcuno autorizza a farsi giustizia da sé c’è un bel problema. Il mito del giustiziere, a bene vedere, è una manifesta dichiarazione di incapacità da parte dello Stato nello svolgere il proprio ruolo per garantire la convivenza civile. Così leggo la legge sulla legittima difesa».

Di giustizieri e persone armate fino al collo è pieno il Congo raccontato nel documentario di Zoro. Una nazione dove anche i giovanissimi sanno usare le armi, perché sono nati e cresciuti in guerra. Nel documentario gli operatori di Msf spiegano al giornalista come comportarsi in caso di aggressione consigliandogli di non reagire davanti a chi è armato ed è nervoso. «Sì c’era sempre una certa ansietta…», accenna Zoro con quell’intercalare che ci è diventato familiare guardando Propaganda live. «Il meccanismo è evidente: se mi armo io, si arma anche chi mi entra in casa. Se sa che io sono armato perché la legge lo consente, viene armato, magari prima manco ci pensava. È una escalation da cui non si salva nessuno. Ovviamente quella del Congo è una situazione completamente diversa ma è rappresentativa».

Dal documentario emerge anche l’importanza fondamentale dei vaccini e in un Paese dove l’ebola ancora imperversa, pare ancora più assurdo che esistano politici negazionisti. «Là ci sono malattie ancora mortali che non sono state debellate. Sì, pensare che ci sia un posto dove ci si permette di contestare i vaccini è folle visto da là. È folle in generale ma ci se ne rende ancor più conto stando là. Mi divertiva abbastanza parlare con questi medici o volontari, abbozzando: allora i vaccini sono importanti? Loro mi guardavano con due occhi così. L’ebola non la curi con una pezza di acqua fredda in fronte».

 

L’intervista di Simona Maggiorelli a Diego Bianchi prosegue su Left in edicola dal 10 maggio 2019


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Per essere liberi bisogna essere colti

Schoolchildren cross a street in Havana on March 23, 2016. AFP PHOTO/ RODRIGO ARANGUA / AFP / RODRIGO ARANGUA (Photo credit should read RODRIGO ARANGUA/AFP/Getty Images)

Nel nostro Paese i problemi dell’istruzione, della scuola, dell’università, della ricerca scientifica non hanno mai goduto delle simpatie e delle attenzioni di alcun governo, di qualsiasi colore fosse, ed anzi con l’irruzione della crisi economica del 2008 sono stati il bersaglio preferito di sforbiciate economiche selvagge e di vere controriforme che si possono definire senza mezzi termini oscurantiste. Sarebbe fin troppo banale (ma forse non lo è) osservare che un Paese che disprezza la cultura e l’innovazione taglia letteralmente l’erba sul terreno su cui dovrebbe camminare per uscire da una crisi e imboccare strade innovative: oggi più che mai necessarie e indilazionabili con l’imperversare della crisi ambientale e climatica.
Noi studiamo da molti anni le scelte coraggiose che ha fatto Cuba dopo la vittoria della rivoluzione dei barbudos dell’1 gennaio di 60 anni fa e ci convinciamo sempre più che il nostro Paese avrebbe moltissimo da imparare dalla rivoluzione cubana. Non certo con le visite rituali della Mogherini, a nome della Unione europea, o dei politici nazionali di turno, che solitamente rappresentano interessi molto miopi e non hanno certo la capacità (e la volontà) di cogliere gli aspetti realmente innovativi di questo Paese.
Che cosa affermò Fidel Castro nel famoso discorso del 1960, quando questo lembo di terra che ospita poco più di un millesimo della popolazione mondiale si trovava ad affrontare problemi ed emergenze primari, mentre era sotto assedio degli Stati Uniti (che proprio nell’aprile del 1961 organizzarono il disastroso sbarco alla Baia dei Porci)? Affermò che «il futuro di Cuba non poteva che essere un futuro di uomini di scienza». Aveva indubbiamente presente l’affermazione di José Marti: «Per essere liberi bisogna essere colti». E si capisce subito perché i governi italiani abbiano sempre aborrito l’istruzione.
Insomma, che cosa doveva fare la microscopica Cuba, povera di risorse, per vincere la sfida dello sviluppo che si presenta a tutti i Paesi sottosviluppati e che la maggioranza di essi ha perso? Per imboccare la strada sicura dello sviluppo economico e umano e mettersi al riparo da ogni condizionamento era imp…

L’articolo di Angelo Baracca e Rosella Franconi prosegue su Left in edicola dal 10 maggio 2019


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Riace dopo Lucano, e se il sindaco fosse una donna?

Da Riace una buona notizia: alle elezioni comunali che si terranno il 26 maggio Domenico Lucano sarà candidato al Consiglio comunale con la lista Il cielo sopra Riace, un nome dai tanti significati, non da ultimo il richiamo al regista Wim Wenders (autore de Il cielo sopra Berlino) che dopo essere stato nel piccolo comune calabrese si sentì in dovere di girare Il volo, in cui ha raccontato questa esperienza. Domenico non potrà proporsi come sindaco e non a causa degli assurdi reati di cui è accusato (v. l’intervista su Left del 26 aprile) ma perché ha già svolto tre mandati. Coloro che lo hanno sostenuto hanno proposto al suo posto una donna, assessore uscente ai Lavori pubblici della giunta del “sindaco sospeso”.
Maria Spanò, sposata, due figli uno di 19 e una di 17, è determinata a non far tornare indietro Riace. Che per garantire continuità si puntasse su di lei era nell’aria ma, mostrando profonda sensibilità politica, Maria ha atteso, prima di parlare pubblicamente, di avere un ampio e fidato schieramento di sostegno. Non appena si sono chiuse le liste, nutrendo fiducia in Left e nel lavoro fatto finora in difesa di Riace, ci ha scelto per parlare. «Sono stata eletta nel 2014 – racconta – ma per un paio d’anni non ho frequentato molto il consiglio. Non mi trovavo bene e non ero molto d’accordo con alcuni esponenti della giunta. Parlavo molto con Domenico, ma tutto finiva lì. Nel febbraio del 2016 sono aumentate le pressioni nel Comune. C’erano dissensi rispetto a come andare avanti, inoltre il vicesindaco ed un consigliere non avevano accettato di mettere in pratica quanto stabilito prima delle elezioni: la turnazione delle cariche. Io ed altri consiglieri abbiamo preparato una lettera, in cui chiedevamo cambiamenti nella giunta, che stavamo per far protocollare. Ma la notizia è circolata in anticipo e la mattina in cui la lettera doveva divenire pubblica sono state rinvenute due cartucce di fucile con una scritta minacciosa sull’automobile del vicesindaco. Una storia brutta su cui non voglio fare congetture, fatto sta che Domenico ha chiesto a me di sostituire un assessore e a un altro consigliere, Giuseppe Gervasi, di diventare vicesindaco». E Maria Spanò, spinta anche dal marito e dai figli, si è messa d’impegno a lavorare.
Chi conosce da fuori l’esperienza di Riace si aspetta di sentir parlare esclusivamente di accoglienza ma Maria racconta un altro volto del paese, quello che è in…

L’articolo di Stefano Galieni prosegue su Left in edicola dal 10 maggio 2019


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Sovranisti con i migranti globalisti con le imprese

Luigi Di Maio, ministro dello Sviluppo Economico e Lavoro (s), e Matteo Salvini, ministro degli Interni, nell'aula della Camera dei Deputati durante il Question Time, Roma 13 febbraio 2019. ANSA/FABIOFRUSTACI

Secondo Giorgia Meloni, l’Unione europea serve solo a decidere «il diametro delle zucchine che i pescatori (sigh!) devono pescare nei mari italiani». Magari fosse vero. La mattina del 30 aprile, la Corte di giustizia Ue ha emesso una sentenza che potrebbe avere un impatto devastante sul futuro prossimo di tutti i cittadini dell’Unione. La decisione della Corte riguarda la compatibilità con il diritto comunitario di una clausola del Ceta, il trattato tra Unione europea e Canada in via di approvazione tra tutti i Paesi dell’Unione, compreso quello guidato dal governo “sovranista” di Salvini e Di Maio.
La clausola in questione si chiama Isds (Investor-State dispute settlement) ed è una delle più potenti armi di distruzione di massa nelle mani delle multinazionali per tutelare i loro interessi. Nato nel 1950, il sistema di risoluzione delle controversie tra investitori e Stati ha, formalmente, lo scopo di tutelare chi investe in un Paese straniero che con la madre patria ha siglato un accordo di libero scambio. La logica dovrebbe essere quella di mettere al riparo gli investitori da espropri, nazionalizzazioni e pratiche commerciali scorrette. Nella pratica, però, l’Isds mette a disposizione delle corporation un circuito giudiziario privato (tecnicamente un arbitrato) che gli permette di citare in giudizio avanti un “tribunale” internazionale qualsiasi governo nel caso in cui ritenesse di trovarsi di fronte a qualsiasi legge, normativa o regolamento che provochi una «lesione della legittima aspettativa di profitto». Una definizione talmente ampia e vaga da poter comprendere qualsiasi cosa. A farne le spese, di solito, sono le norme a tutela dell’ambiente, della salute e dei diritti dei lavoratori. I governi citati in causa possono scegliere se ritirare la legge, proseguire la causa o patteggiare. Negli ultimi trent’anni, in tutto il mondo, a causa dell’Isds gli Stati hanno dovuto pagare 84,4 miliardi di dollari alle imprese private a seguito di sentenze sfavorevoli (67,5 miliardi) o costosi patteggiamenti (16,9 miliardi).
Le cause Isds si svolgono normalmente a porte chiuse e nella decisione non rientrano elementi co…

L’articolo di Mario Schiaffino prosegue su Left in edicola dal 10 maggio 2019


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In corsa come sindaci per ridare identità alle città

Difesa dell’ambiente e quindi della salute, rigenerazione urbana, democrazia deliberativa, piani di sostegno agli anziani e di formazione per i giovani, investimenti nella cultura e nella ricerca. Questi sono solo alcuni dei temi che i candidati sindaci in liste di sinistra e di centrosinistra “vero”, come viene sottolineato, stanno proponendo nei loro programmi per le elezioni del 26 maggio. Perugia, Sanremo, Avellino, Ascoli e Cremona. Rispetto agli oltre 3.500 Comuni al voto, quello indagato da Left è solo uno spaccato, interessante però perché fa emergere una visione alternativa su come amministrare la res publica. Alternativa anche perché i luoghi in cui sono impegnati i candidati hanno una caratteristica simile, aver assistito cioè negli anni alla continuità tra centrodestra e centrosinistra, con il Pd che sconta, spesso, a livello locale, gli errori di una politica nazionale che da tempo ha voltato le spalle alla parte più debole della popolazione.

Perugia Città in Comune
Può ripartire dai Comuni, una politica a sinistra? «Sì, ripartiamo dai municipi, dalla prossimità, dove il cambiamento lo puoi ricostruire meglio», dice convinta Katia Bellillo, due volte ministro, un passato politico «di combattente» nei partiti della sinistra a partire dal Pci, che dopo dieci anni di lontananza dalla politica attiva ha accettato la candidatura a sindaco per la lista Perugia città in Comune, espressione di Sinistra italiana, Possibile, Rifondazione, L’altra Europa per Tsipras, Sinistra anticapitalista. «Noi dobbiamo tornare a creare una cultura che è stata frammentata da quello che è avvenuto negli ultimi venti anni dominati dal liberismo più selvaggio, quando la “sinistra”, che si è trasformata in Italia nel Pd, ha perso il senso, il significato e anche l’operato, il modo di rapportarsi alle persone che era tipico della sinistra, e che non doveva cambiare. Una mutazione genetica», continua Bellillo. Il senso vero dell’essere di sinistra tradotto nell’attività dell’amministrare significa in…

L’articolo di Donatella Coccoli prosegue su Left in edicola dal 10 maggio 2019


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Perché sopravvivono le parole di M.

Alcuni interventi e articoli del dittatore fascista sono stati pubblicati da Chiarelettere nella raccolta “Me ne frego” a cura di David Bidussa, autore dell’introduzione di cui anticipiamo un brano.
Le parole parlate e gridate
Quello di Mussolini fu all’inizio soprattutto il regno delle parole, del loro uso, ma anche della loro creazione. In questo senso ha ragione lo storico George Mosse quando osserva che la nuova politica di cui il fascismo fu iniziatore si riconosce per il fatto di aver marcato un passaggio: più importante della parola scritta è la parola parlata; più precisamente la parola gridata, o forse ancora più precisamente la parola amplificata.
Questo passaggio vuol dire due cose: rottura del rapporto pubblico/privato quale si definisce nell’epoca della politica di massa (ovvero dall’ultimo quarto dell’Ottocento) e affermazione della parola pubblica come parola del potere. In altre parole annientamento degli spazi di autonomia. Fine di un modello di relazione che contraddistingueva i vecchi rapporti interpersonali e le forme tradizionali di mediazione e comunicazione tra gruppi sociali.
Soprattutto significa irruzione di due strumenti con cui si fa la comunicazione politica: riflettori e altoparlanti. Due ingredienti essenziali della nuova forma della politica che esordisce con la Prima guerra mondiale e che in Italia fa il suo ingresso nel periodo della neutralità, soprattutto a partire dal «Maggio radioso», ovvero dalla mobilitazione a favore della guerra che trasforma un’opinione di minoranza in una di maggioranza in forza della piazza (una dinamica che nella storia italiana si è ripetuta altre volte).
Queste novità avranno un peso nella vicenda italiana successiva e saranno decisive nella modalità dell’esercizio del potere e delle forme di partecipazione del Ventennio, perché creano l’illusione di un rapporto diretto e impersonale tra capo e masse, proprio quando tale rapporto diviene più impersonale e impositivo; creano l’illusione della partecipazione: gli ascoltatori non sono più spettatori lontani, ma attori coinvolti.
Nella scena della piazza dove il Duce p…

L’articolo di David Bidussa prosegue su Left in edicola dal 10 maggio 2019


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Mimmo Lucano nel mirino dei fascisti: Salvini muto, a difenderlo ci pensano gli studenti della Sapienza

Mimmo Lucano durante una conferenza stampa per presentare la conclusione della campagna di raccolta firme per candidare il Comune di Riace al Premio Nobel per la pace 2019, Roma, 30 gennaio 2019. ANSA/ETTORE FERRARI

L’allarme è arrivato di mattina presto sotto forma di un brutto e sprezzante manifesto “Lucano nemico d’Italia” lo slogan sparato e sotto i volti belli e sorridenti di Domenico Lucano, sindaco di Riace e di Ada Colau, sindaca di Barcellona. C’è concorrenza a destra fra le due piccole forze che provano a contendersi il monopolio di partner più affidabili per Salvini e se una di queste ha esibito recentemente il proprio fascismo cercando consenso nelle periferie e aizzando l’odio contro i rom, l’altra ha deciso di replicare promuovendo col proprio piccolo ducetto una manifestazione davanti all’università di Roma La Sapienza, dove nel pomeriggio di lunedì è stato invitato e parlerà Mimmo Lucano.

Nel loro volantino i fascisti lo definiscono “simbolo del potere immigrazionista”, dichiarano di voler bloccare la conferenza, coinvolgono ancora il fantasma di Soros accomunato agli antifascisti. Verrebbe da cavarsela con uno sberleffo. Uno degli uomini più perseguitati dal Viminale, esiliato dal suo paese senza avere neanche un rinvio a giudizio sulla base di accuse che la stessa Suprema Corte di Cassazione ha definito inconsistenti è considerato un “potere”. E da chi. Da una organizzazione guidata da un ricco pluripregiudicato, i cui militanti sono stati spesso coinvolti in pestaggi ai danni di cittadini migranti, la cui ideologia è basata sul cattolicesimo più intransigente e sul nazionalismo xenofobo di stampo puramente fascista.

Per gli aderenti a questo gruppo che soltanto l’ignavia di chi dovrebbe far applicare le leggi non ha ancora sciolto, ogni male del paese è rappresentato dalla diversità culturale, il disagio in cui si vive non è legato ad un fallimentare modello economico ma alla presenza di uomini e donne il cui colore della pelle è diverso e a quella di chi considera la società pluriculturale, la libertà di circolazione, l’universalità dei diritti come fondamentale per il proprio vivere. La reazione che c’è stata nel tessuto democratico e di sinistra della città è stata forte e immediata, si è diffusa sui social, in telefonate, comunicati stampa, dichiarazioni e impegni. Come ha dichiarato Maurizio Acerbo, segretario del Prc-S.E. nel chiedere che la manifestazione fascista venga vietata: «Mimmo Lucano non sarà accolto all’Università dai nipotini di Hitler e Mussolini ma da tante e tanti che vorranno abbracciarlo e ringraziarlo».

“Sapienza Antifascista”, il Coordinamento dei collettivi dell’ateneo, Link Sapienza, e altre realtà studentesche antifasciste hanno convocato per domani sabato 11 maggio alle ore 15 una assemblea davanti alla Facoltà di Lettere e lunedì sin dalle ore 11 sarà garantita la presenza di studentesse e studenti antifascisti davanti alla statua della Minerva. L’Anpi, le forze della Sinistra e del centro sinistra, la Cgil, i sindacati di base hanno chiamato alla mobilitazione per impedire qualsiasi provocazione. La presenza di Lucano alla Sapienza, invitato dal dipartimento di Antropologia culturale a parlare in merito al tema della convivenza è un atto meritorio dell’accademia che non dovrà essere turbato da nessuna provocazione. Circola insistentemente la voce che la questura possa vietare il presidio fascista all’ingresso dell’Università. Sarebbe un atto di saggezza e di rispetto per una città che già sta vedendo in troppe occasioni deturpata la sua storia. E ci appelliamo anche noi a chi dovrebbe vigilare sul rispetto della Carta costituzionale, ivi compresa quella norma transitoria e lungimirante che vieta la ricostituzione del partito fascista. Dovrebbe occuparsene anche questo governo perennemente alla ricerca di nemici immaginari ma mai capace di assolvere alle proprie funzioni, a partire da chi, dal Viminale, si richiama continuamente al Ventennio, in maniera spudorata.

Domenico Lucano però non ha intenzione di desistere né di promuovere odio. «”Io nemico dell’Italia? Una assurdità» ha dichiarato il sindaco sospeso all’AdnKronos. «La loro protesta non mi spaventa, mi interessa invece parlare agli studenti, che sono il futuro della nostra società. In Italia viviamo un momento difficile in cui ci viene detto che deve prevalere la disumanità – continua Lucano – si è creato un clima d’odio, di forte contrapposizione sociale, ed è inutile girarci intorno, c’è una deriva fascista».

“Norme discriminatorie e caos sull’esame di Stato”: gli studenti di medicina contro il Miur

Sono mesi che le associazioni Chi si cura di te? Link-Coordinamento universitario, insieme agli avvocati di Alterego-Fabbrica dei diritti, denunciano quanto sta avvenendo tra le mura di Viale Trastevere 76. È del 6 maggio il dietrofront del Miur in riferimento alle norme discriminatorie inserite all’interno del bando per il test di ammissione alle scuole di specializzazione in Medicina e chirurgia, che prevedeva l’obbligo di presentazione del certificato di lingua italiana (certificato C1, nda) per tutti gli stranieri, anche quelli che si erano laureati in Italia dando tutti gli esami nel nostro paese e, quindi, in italiano.

«Come associazione studentesca – dichiarano i giovani di Link – abbiamo sin da subito denunciato la discriminazione costituita da questo tipo di misura. È infatti chiaro che uno studente laureatosi in Italia abbia la piena padronanza della lingua e troviamo discriminatorio la richiesta della certificazione in base al luogo dove si è nati».

Ma anche sull’altro esame, atteso da migliaia di neo-laureati e tirocinanti in medicina, ossia l’esame di Stato per l’abilitazione medica, il ministero sta prendendo tempo a causa di una confusione normativa che lo stesso ministero (con proprio regolamento del 2018) ha generato. A seguito dei ritardi nell’applicazione del nuovo regolamento ministeriale “Fedeli”, il governo è intervenuto in materia di esame di Stato per l’abilitazione dei laureati in Medicina e chirurgia, con un decreto legge (il decreto Calabria) che ha prorogato al 2021 le modalità di svolgimento del “nuovo” esame di Stato, come disciplinato dal regolamento del 2018.

Il nuovo esame, per la sua parte teorica, sarebbe dovuto partire da luglio 2019, ma per evidenti limiti di organizzazione è stato scelto di prorogarlo. Tale proroga, però, ha definito alcune criticità sia sulle date delle sessioni d’esame (con il Regolamento Fedeli le sessioni erano tre e si sarebbero dovute tenere nei mesi di marzo, luglio e novembre di ogni anno) sia sul riconoscimento dei tirocini pratico-valutativi (quelli introdotti sempre dal ministro Fedeli).

Con la proroga, infatti, si ritorna alla vecchia disciplina del 2001, per la quale scompaiono le tre sessioni (sono previste due sessioni l’anno senza specificarne la calendarizzazione) ed emergono dubbi relativamente al riconoscimento dei tirocini pratico-valutativi, già ampiamente azionati da molte Università e che, per come è scritta la norma, potrebbero essere rimesse alla valutazione interpretativa del giudice amministrativo.

Ma, cosa ben più grave, ad oggi non è ancora stato indetto l’esame teorico di luglio 2019 e, con la scomparsa delle tre sessioni in data certa, non vi è alcun obbligo di legge per il ministero di indirlo. «Pensiamo che sia inaccettabile che, ad oggi, il futuro di migliaia di studenti e studentesse rimanga incerto» dichiara Alessio Bottalico, coordinatore nazionale di Link. «Negli ultimi mesi ci siamo mobilitati per chiedere, non solo la proroga delle modalità, ma anche che il ministero non faccia passi indietro sulla possibilità di avere accesso a tre sessioni di abilitazione» continua il coordinatore. «Continueremo a mobilitarci e a chiedere chiarimenti per permettere a tutti di programmare il loro percorso formativo» conclude Bottalico.

«A causa di questa disorganizzazione da parte del ministero, si lasciano migliaia di tirocinanti in un limbo di dubbi e incertezze. L’aspetto anomalo, infatti, consiste nel fatto che, mentre la componente pratico-valutativa dell’abilitazione proceda regolarmente, la componente di valutazione teorica non è stata ancora definita, rischiando di slittare. Tra le numerose conseguenze, si rischia di compromettere un accesso celere al mondo del lavoro per migliaia di aspiranti medici», afferma Irene Steinberg, membro dell’esecutivo di Chi si cura di te? nonché candidata alle elezioni per il Cnsu per gli specializzandi.

Pertanto, Chi si cura di te? e Link-Coordinamento universitario, affiancate dai legali di Alterego-Fabbrica dei diritti, continuano a battersi in ogni sede per tutelare i diritti delle studentesse e degli studenti in medicina.
«A fronte delle risposte ricevute dal ministero e dal governo – afferma Riccardo Bucci, avvocato di Alterego – più volte sollecitati sulle criticità esistenti, siamo preoccupati che la scelta di operare una proroga dei termini di un regolamento ministeriale con un decreto legge, possa aver generato una disciplina ancora più confusa, causando una eventuale lesione nel legittimo interesse di tanti studenti che attendevano l’esame di luglio e quello di novembre 2019»

«Oltre a ciò – prosegue il legale – in sede di conversione del decreto legge Calabria, auspichiamo un intervento modificativo del testo normativo in cui venga affermato espressamente che i nuovi tirocini pratico-valutativi svolti durante la formazione universitaria siano riconosciuti, al fine di evitare eventuali contenziosi presso i giudici amministrativi ed eventuali libertà interpretative che, allo stato, potrebbero portare le Università a non riconoscerne la validità ai fini dell’esame».

L’articolo è tratto da una nota di Alterego-Fabbrica dei diritti