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Come trasformare S. in un ministro dell’Interno

È tutto un pullulare di circolari e direttive e stargli dietro è difficile. E così, quando all’indomani degli attentati del 21 aprile in Sri Lanka, ti capita di leggere l’ennesima inutile circolare del ministro dell’Interno, scritta in fretta e furia (nel vero senso delle parole), ti viene quasi da credere a una sorta di ravvedimento operoso, tardivo, ma comunque apprezzabile, e non ad una cinica, feroce strumentalizzazione delle tragedie, tesa apparentemente ad invocare sicurezza ma in realtà diretta ad instillare, una volta di più, paure e rabbia.
Ad una lettura veloce, quasi non lo si riconosce, e sembrerebbe quasi che il ministro stia facendo pubblica ammenda sottoponendosi ad una sana autocritica quando parla di «attività propagandistica ostile» con specifico riguardo agli ambienti virtuali del web e ai sempre più numerosi centri di aggregazione, esposti all’ascendente di alcuni predicatori di orientamento estremista capaci di attribuire «dignità ideologica ai propositi violenti, talvolta innescati da condizioni di disagio personale, anche di ordine psichiatrico, di soggetti spesso con trascorsi di criminalità comune».
Disagio personale anche di ordine psichiatrico. Definizione indubbiamente calzante con le farneticazioni degli “adepti” di CasaPound che non danno oggettivamente l’impressione di “stare bene” mentre scomposti vomitano odio e invocano lo stupro in faccia a mamme con bambini in braccio. E quando ancora, nella stessa circolare, il ministro affronta la spinosa questione «dei trafficanti senza scrupoli, organizzazioni e reti criminali coinvolte nella gestione dei flussi che veicolano come accessibile agli interessati la prospettiva di una vita migliore fuori dai Paesi di origine, alimentando i canali dell’immigrazione clandestina», ti verrebbe da spe…

Alessandra Ballerini è un avvocato per i diritti umani. Ha partecipato alla stesura nel 2006 del Libro bianco sui Centri di permanenza temporanea e assistenza; ha presentato diversi ricorsi alla Corte europea dei diritti dell’uomo anche contro le espulsioni di massa di profughi. Insieme ai colleghi del Genoa legal forum ha seguito le cause di risarcimento nell’interesse di alcuni manifestanti pacifisti feriti durante il G8 di Genova del 2001. Lavora con l’ufficio immigrati della Cgil e si occupa di donne vittime di violenza, affidi di minori, tutela di emarginati e delle cosiddette fasce deboli. Ballerini segue anche i casi di Andy Rocchelli, il fotoreporter ucciso nel 2014 in Ucraina, e di Giulio Regeni, il ricercatore ucciso in Egitto nel 2016.

L’articolo di Alessandra Ballerini prosegue su Left in edicola dal 17 maggio 2019


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Le periferie vogliono lo Stato, non CasaPound

ITALY - JULY 01: Corviale' in Rome is the longest single residential building in the world: one kilometer in lenght and housing 8000 persons. The building was commissioned in 1972 to a group of architects directed by Mario Fiorentino to solve the acute lack of housing for working class families. Finished in 1982 the building was based on the idea of social housing according to Le Corbusier, to provide all needed infrastructures of a city within the complex itself, and to encourage social contacts between the occupants. For internal and political reasons many of these originally planned structures were never realized or are, almost 25 years after the first occupants moved in, still unfinished. The occupants discuss missing infrastructures and prejudices from outside which characterize Corviale as a ghetto with high rates of unemployment, criminality and drug abuse in Rome, Italy in July, 2007. (Photo by Eric VANDEVILLE/Gamma-Rapho via Getty Images)

Il “popolo” e le “periferie”: termini attuali, quanto vaghi. Vengono evocati per commentare i fatti di cronaca, usati in modo strumentale da media e partiti. Alle classi popolari vengono attribuiti molti fenomeni contemporanei, come l’ascesa delle destre e la diffusione del razzismo, ma sebbene siano al centro del discorso pubblico quasi nessuno ne indaga in profondità i punti di vista e le rappresentazioni.
Con l’obiettivo di contrastare sia questo fenomeno (la rappresentazione spesso distorta e interessata fornita da media e partiti) sia l’analisi distaccata delle ricerche sociologiche quantitative, un libro di prossima uscita – Popolo chi? Classi popolari, periferie e politica in Italia – ha cercato di rovesciare l’assunto per cui le classi popolari siano soltanto un misterioso fenomeno da indagare, cercando invece di dare loro la parola. Un libro che si basa su una ricerca condotta intervistando gli abitanti di alcuni quartieri popolari di quattro città: Cosenza, Firenze, Milano e Roma. Autori del libro, un gruppo di ricercatori e attivisti provenienti da tutta Italia che si è autocostituito e chiamato Il Cantiere delle idee.
Il libro ruota intorno a tre assi: le condizioni sociali degli intervistati, il loro rapporto con la politica, e l’impatto dei media sulle loro rappresentazioni politiche. Da un lato, la ricerca conferma sentimenti e situazioni che vengono descritti come diffusi: scarsa fiducia nella politica, difficoltà ad affrontare i problemi della vita quotidiana, quartieri abbandonati, condizioni di lavoro precarie, preoccupazioni per il presente e per il futuro, percezione della divergenza fra la vita delle persone e le narrazioni dei media. Ma emerge anche altro, che va molto in controtendenza rispetto alle narrazioni dominanti. Pe…

I risultati della ricerca condotta dal Cantiere delle idee tra il 2017 e il 2018 nelle periferie di quattro città, Milano, Firenze, Roma e Cosenza sono pubblicati nel libro “Popolo chi? Classi popolari, periferie e politica in Italia” a cura di Niccolò Bertuzzi, Carlotta Caciagli e Loris Caruso in uscita il 10 giugno per Ediesse.

L’articolo prosegue su Left in edicola dal 17 maggio 2019


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Il pallone sgonfiato del Capitano

C’è voluto tempo ma sembra che questo Paese stia riuscendo a sviluppare anticorpi contro il virus della paura e dell’odio di cui è propagatore il ministro dell’Interno. Non si può cantare vittoria, stando ai sondaggi, il partito di cui è leader dovrebbe avere in Europa la maggiore affermazione della sua storia, ma il consenso scricchiola. Diversi i fattori che potrebbero produrre in futuro spiacevoli sorprese per il ministro in divisa: errori di marketing, scivoloni dettati dalla bulimia da presenza mediatica, uso eccessivo dei social, incompetenze in campo giuridico del suo staff che stanno producendo sentenze “problematiche”. Le reazioni scomposte con cui tenta anche di reprimere il dissenso potrebbero presto portare a scoprire che “il Re è nudo” come si diceva una volta, con tutte le conseguenze.
L’intuizione forse più geniale che ha messo in discussione l’abilità comunicativa del ministro è legata all’utilizzo dei selfie, divenuti terribili boomerang. Lui ha sempre amato farsi immortalare con i fan in delirio, adoranti e giubilanti ma le nemesi si sono susseguite. A partire dal caso delle due ragazze di Caltanissetta, che non appena il sorriso del ministro si è aperto per lo scatto, si sono baciate. In protesta contro l’oscurantismo leghista. Ma gli episodi della selfie guerrilla sono ormai innumerevoli.
Nel frattempo anche le forme di contestazione sono cambiate. Il ministro, che sovente la prende male, come è accaduto a Perugia, da una parte parla di comunisti che sono come i panda, dall’altra sbeffeggia dicendo che «non ci sono più i compagni di una volta», poi però reagisce male e manda, sempre a Salerno, gli agenti in una abitazione privata a togliere uno striscione con la scritta «Questa lega è una vergogna» (cit. Pino Daniele), drappo sequestrato e abitanti…

L’inchiesta di Stefano Galieni prosegue su Left in edicola dal 17 maggio 2019


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Chi ha sdoganato i fascisti nei media?

Il vicepresidente di Casapound Italia, Simone Di Stefano, con il giornalista Enrico Mentana (S) durante il dibattito pubblico presso la sede di Casapound a Roma, 29 settembre 2017. ANSA/MASSIMO PERCOSSI

Un cumulo di lamiere e profilati di alluminio giace ai margini della cancellata che recinta lo spazio espositivo del Lingotto. Su uno di questi, l’unico colorato, spicca: “Altaforte edizioni”. È una fotografia che non dimenticheremo presto, quella che illustra la cacciata dal Salone del libro di Torino della casa editrice legata a CasaPound – che conta tra le sue “opere” il libro-intervista a Salvini – in seguito all’alzata di scudi di scrittori e politici. L’episodio, come prevedibile, ha innescato un aspro (ma necessario) dibattito pubblico.

È lecito invocare la “censura” – come alcuni hanno definito, erroneamente, una sana “pregiudiziale antifascista” – quando in ballo ci sono opere che si ispirano ai valori violenti dell’ultradestra? Quanto spazio è opportuno che una democrazia conceda a forze la cui ideologia è strutturalmente e dichiaratamente anti democratica?

I codici normativi, in circostanze del genere, c’entrano poco. D’altronde, le leggi Scelba e Mancino – nel caso – dovrebbero intervenire a priori. Sciogliendo i movimenti che aspirano a riorganizzare il partito fascista oppure condannando gesti, azioni e slogan legati a quella ideologia. Ma, una volta che tali gruppuscoli superano le larghe maglie della giurisprudenza, e si propongono nell’agone pubblico, il discorso si fa politico. E culturale. Un discorso che inizia ben prima della kermesse torinese, e che riguarda anche il giornalismo, cartaceo, digitale, televisivo, che sia. Esiste un modo giusto per parlare dei fascisti? È opportuno dar loro parola, legittimando le loro idee, e mettendole al pari di chi rispetta i valori antifascisti della Costituzione? Da un lato, gran parte del mondo liberale, assieme ovviamente alle destre, ritiene giusto dare cittadinanza alle opere e alla voce dell’estrema destra. Spesso smitragliando la più famosa storpiatura di Voltaire: «Non sono d’accordo con quello che dici, ma darei la vita perché tu lo possa dire» (frase che in realtà non ha mai pronunciato). Per poi, in caso di interlocutori particolarmente insistenti, agguantare al volo l’arma di scorta: l’evocazione del «fascismo degli antifascisti» di Pasolini (altra frase fake, mai proferita né scritta dall’autore a cui è attribuita).

Inoltre, dice chi difende le ospitate dei nostalgici del Ventennio, se queste formazioni sono regolarmente candidate alle elezioni e dicono di voler abbandonare la violenza, chi siamo noi giornalisti – ma il discorso potrebbe valere per qualsiasi operatore culturale – per escluderle? Il punto è che il presentarsi alle urne non è affatto garanzia di rifiuto dei valori fascisti. Pensarlo significa non fare i conti con la realtà. E basti, a dimostrazione, una rapida occhiata all’archivio web curato dal progetto Ecn Antifa, che monitora quotidianamente gli innumerevoli episodi di aggressione e violenza attribuiti a formazioni neofasciste come CasaPound (70 negli ultimi 5 anni) e Forza nuova.

Quella liberale, insomma, è un’idea distorta di libertà. Luigi Manconi, a proposito delle intenzioni di alcuni autori televisivi di organizzare un dibattito sul tema “I lager non sono mai esistiti”, con ospiti favorevoli e contrari, sullo stesso piano, ha parlato di «un’interpretazione, per così dire, illimitata e incondizionata del pluralismo». «Una concezione tecnica e neutrale – ha precisato in un corsivo su Internazionale – della dialettica democratica e del libero confronto tra opzioni diverse. In altre parole, una manifestazione estrema e pienamente compiuta della lottizzazione delle idee, nella sua rappresentazione plastico-teatrale». Un’idea aberrante, figlia del pensiero neoliberale, che difatti si conferma il miglior fertilizzante per il fascismo.

Vauro, con la sua tagliente ironia, ha sintetizzato il concetto in uno dei suoi capolavori disegnato per il nostro settimanale. Titolo: Libertà di opinione. Immagine: un camerata che strilla: «Ti stupro!». Più chiaro di così. Il punto è che i media mainstream, fiutata l’attenzione morbosa che un racconto pruriginoso e estetizzante dell’estrema destra avrebbe potuto fruttare, spesso non si sono fatti troppi problemi. E hanno aperto le porte a forze prima ai margini dello spazio pubblico. Il più delle volte, senza premurarsi di svolgere il proprio compito di garanzia dei valori democratici, presentando questi figuri senza mediazione, oppure trattando i loro valori violenti con leggerezza. Con una «superficialità dovuta anche ad ignoranza e a una sommaria rincorsa dell’audience», come ha detto lo storico Peppino Ortoleva su queste pagine.

Siamo dunque andati a ripercorrere la genealogia dello sdoganamento dei neofascisti sui media italiani. Mettendo insieme una rassegna di episodi che non ha la pretesa di essere esaustiva, ma che fissa nero su bianco le tappe chiave di questa indecente ripulitura del vero volto dei gruppi neofascisti. Buona lettura

L’inchiesta di Leonardo Filippi prosegue su Left in edicola dal 17 maggio 2019


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Meno reati ma più detenuti: il paradosso del governo cattivista

GENOA, ITALY - DECEMBER 30: A cell is seen during the communal lunch on December 30, 2017 in Genoa, Italy. Inmates at the Marassi jail are celebrating the beginning of the New Year with a communal lunch. (Photo by Awakening/Getty Images)

«Nonostante l’impegno e le parole di gran parte degli operatori del diritto, nonostante il lavoro quotidiano umanocentrico e garantista di una moltitudine di poliziotti, educatori, assistenti sociali, magistrati, avvocati, esperti, studiosi, nonostante il susseguirsi di sentenze delle Corti che hanno posto limiti all’esercizio illimitato del potere di punire, nonostante i discorsi alti e densi provenienti da autorità morali indiscusse, enorme è il rischio di un declino che porti ad affermare che l’articolo 27 della Costituzione sia un orpello formale di cui liberarsi (…) È in questa lotta impari tra un’idea costituzionale e legale di pena e una proposta politica moralmente violenta nonché palesemente incostituzionale che si inserisce il rapporto di Antigone 2019», Il carcere secondo la Costituzione.

Le parole del presidente dell’associazione Antigone, Patrizio Gonnella, nell’editoriale del XV Rapporto sulle condizioni di detenzione nelle carceri italiane, premettono l’analisi di una tendenza che pone pressanti interrogativi. Perché, sebbene i numeri siano chiari, i conti non tornano. E cioè, si registra un continuo incremento del numero dei detenuti ma l’aumento non è imputabile all’incremento degli ingressi in carcere ed è, piuttosto, riscontrabile un allungamento delle pene scontate dai detenuti condannati in via definitiva nonostante non si registri un aumento della gravità dei reati commessi. Deducendone che le spiegazioni alla crescita della popolazione carceraria slegata dalla (non) impennata nell’andamento della criminalità sono da ricercarsi altrove.

Quasi certamente nell’intervento spasmodico e compulsivo del legislatore sul codice penale – prova ne siano la nuova legge sulla legittima difesa o i vari aumenti di pena per rapina e furto in appartamento – motivando le modifiche come necessarie a contrastare presunti fenomeni criminali predatori in vertiginoso aumento. Tutt’altro: il decremento dei reati si è registrato nei primi nove mesi del 2018, seguendo un trend cominciato nel 2017, con cinquantatré delitti in meno rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, con il 9 per cento in meno di rapine e il 15 per cento di quelle in appartamento, confermandosi, anche, nei primi mesi del 2019.

E proprio quando cresceva la retorica d’odio verso le popolazioni rom, tra il 2016 e il 2017, il numero delle segnalazioni riferite a persone denunciate per il reato di impiego di minori nell’accattonaggio scendeva da centoventicinque a ottantotto così come quello delle segnalazioni di persone denunciate o arrestate per il reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio italiano: da 46.669 a 33.596, nonostante la questione della perniciosità dell’immigrazione fosse al centro del dibattito pubblico e faceva la fortuna elettorale dei più. E nonostante molti stranieri, di punto in bianco, abbiano perso certezze anagrafiche e titolo di permanenza nel nostro Paese a causa del decreto Salvini e nonostante le discriminazioni nell’accesso alle misure alternative non detentive e a quelle cautelari, il numero di stranieri reclusi è rimasto stabile. Anzi, a onor del vero, negli ultimi dodici mesi, è diminuito dello 0,42 per cento. Piuttosto, nei confronti degli stranieri, è facile riscontrare discriminazioni nelle offerte di trattamento: una su tutte, nel contatto con gli affetti personali, condizionato da negligenze dei consolati e delle rappresentanze diplomatiche o da problemi tecnici nella corrispondenza telefonica.

A fermare la crescita del numero dei detenuti non è nemmeno l’applicazione delle misure alternative, sebbene siano in continua espansione: sia perché vengono inflitte direttamente dal regime di libertà, senza il passaggio dal carcere, sia perché la loro applicazione è distribuita in maniera iniqua nei territori, ciò non svalutandone la loro efficacia nel reinserimento sociale e la loro utilità relativamente al risparmio sui costi. Che, in carcere, diminuiscono per detenuto, scendendo da 137 euro nel 2018 a 131 nel 2019, mentre aumenta, di diciassette milioni, il bilancio del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) di cui beneficia, in particolar modo, l’edilizia carceraria che comprende la realizzazione di nuove infrastrutture e il potenziamento di quelle esistenti, escludendo la manutenzione ordinaria. E tralasciando, così, il diritto a condizioni strutturali degne che, al pari di quello alla salute, alla territorialità della pena, allo studio e al lavoro, dovrebbe essere garantito e che, invece, viene puntualmente violato: nel 2018, di violazioni, ne sono state registrate centoventi, una ogni tre giorni.

Un’asta al ribasso sui diritti fondamentali che, nell’anno considerato, ha contato più di diecimila casi di autolesionismo e sessantaquattro suicidi, causati pure da abusi e maltrattamenti che le denunce, pervenute per mail al Difensore civico di Antigone e riportate nel Rapporto, ancora al vaglio dell’Autorità giudiziaria, testimonierebbero. Il numero dei suicidi nelle carceri nostrane fa schizzare il Belpaese in vetta alla classifica europea, toccando punte percentuali del 38 per cento e così superando la media europea del 28 per cento. In cima, l’Italia, anche, per i tassi di persone detenute senza una condanna definitiva, pari al 34 per cento del totale contro il 23 per cento della media Ue. Nella quale, sempre l’Italia, è il primo Paese per incremento della popolazione detenuta, in controtendenza rispetto al resto del continente; le sue carceri sono le più affollate, con un tasso del 115 per cento versus il 93 per cento della media europea, e la presenza di stranieri nel sistema penitenziario italiano è percentualmente molto più elevata che nel resto d’Europa. Conseguenza di una legislazione che, ostacolando percorsi di lavoro regolari, spinge nel circuito dell’illegalità.

E sebbene sia il Paese europeo in cui si uccide meno, i detenuti delle carceri italiane hanno pene molto più alte dei vicini europei: le persone detenute che scontano l’ergastolo rappresentano il 4,4 per cento dei condannati contro una media del 3,5 per cento e le condanne comprese tra i dieci e venti anni registrano sei punti percentuali in più della media degli Stati europei. Tradotto: in Italia si sta in carcere più che negli altri Paesi europei, con pene che finiscono per essere de-socializzanti. In barba all’articolo 27 della Costituzione, secondo cui «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione» dei condannati. Che, a oggi, sono 60.439. Quasi diecimila in più dei posti letto ufficialmente disponibili, con un sovraffollamento che sfiora il 120 per cento. E non per colpa degli stranieri.

Frato e Rodari, una vita dalla parte dei bambini

Francesco Tonucci, ricercatore al CNR dal 1966, psico-pedagogista del CNR conosciuto con lo pseudonimo di Frato, è ideatore del progetto pedagogico e urbanistico “La città dei bambini”, che nel 2001 vide Roma come città capofila. Lo abbiamo incontrato in occasione del percorso “100 Rodari” che sabato 18 maggio fa la sua seconda tappa alla scuola primaria “Giorgio Perlasca” a Montecucco-Trullo (Roma). Insieme al nido “Loris Malaguzzi” e alla la scuola dell’infanzia “La Torta in Cielo”, la scuola Perlasca ha creato percorsi di continuità in cui bambine e bambini partecipano attivamente all’organizzazione della scuola.

Lei è stato insegnante prima che ricercatore, cosa ricorda di quegli anni tra i banchi come figura educante?

La mia esperienza come insegnate è avvenuta prima di entrare al Cnr, pensavo che l’insegnamento nella scuola sarebbe stata la mia professione. Avevo studiato alla Cattolica di Milano, nell’indirizzo di Pedagogia, anche se era essenzialmente una Facoltà con formazione molto forte in Filosofia classica.
La pedagogia veniva insegnata poco, attraverso testi ed esempi che avrebbero dovuto essere rinnovati; fu la filosofia ad appassionarmi, da li presi fonti di ricerche. Mi sembrò quindi naturale insegnare, e insegnai nelle seconde medie come professore di Lettere. Cercavo di essere un buon insegnante, avevo difficoltà a sentirmi preparato, ma cercavo di non manifestare le mie lacune agli alunni. Un altro aspetto fondamentale era incuriosirli, sollecitarli nella creatività, non farli annoiare come mi ero annoiato io a scuola, essere accogliente, dopo di che essere giusto, cioè, supporre di esserlo. A fine anno fare le valutazioni correttamente: premiare i meritevoli e non premiare invece chi non era stato tale, dunque, ritenere la bocciatura giusta come misura di giudizio.

Continuò a pensarla così negli anni o cambiò il suo modo di vedere la Scuola?

Nel ’66 entro al CNR, lavoravo con colleghi che si occupavano di ricerca sui bambini, ma ancora con ricerche tradizionali e quantitative, su campioni. Tra il ’67 e il ’68 tante cose cambiano nella mia vita e intorno a me, comincio ad avere un’idea diversa di cosa significasse l’insegnamento, e non pensare più la bocciatura giusta come misura di giudizio. Nel 1970 avviene un accadimento importantissimo che cambia il mio modo di vedere la scuola rispetto a prima, leggo “Il paese sbagliato” di Mario Lodi, era stato pubblicato da poco, scrivo subito all’autore con il desiderio di conoscerlo. Seguirò da quel momento l’esperienza di Lodi, soprattutto la sua ultima esperienza scolastica, andando a trovarlo varie volte a Vho di Piadena; divento abbonato di un giornalino quotidiano stampato a limògrafo, poi a ciclostile: questo giornalino, redatto con la sua classe, esce per cinque anni, tutti i giorni, unico caso nella storia pedagogica. Universale Laterza ne pubblica la raccolta in cinque volumi de “Il Mondo”, ogni libro un anno scolastico; chiedono a me di scrivere un sesto libro che doveva essere di aiuto alla lettura, un’analisi critica di questi giornalini “Guida al giornalino di classe”. Quindi la mia “conversione” definitiva all’idea del bambino protagonista con tutte le sue possibilità mi arriva chiaramente nel 1973, grazie alle parole di Mario che, solo dopo una settimana passata in classe coi bambini di prima elementare, scrive ai genitori di questi: “Dopo una settimana passata con i bambini posso affermare che essi sono tutti di normale intelligenza, pur rivelando evidenti differenziazioni di carattere, e diversi livelli di maturazione, dovuti in gran pare alle situazioni ambientali in cui ogni bambino è cresciuto. I bambini quindi, salvo imprevedibili fatti di eccezionale gravità, sono promossi sin da ora alla quinta elementare, con la garanzia del raggiungimento della preparazione minima richiesta dai programmi scolastici. Se questo non si verificherà la responsabilità sarà del maestro e della scuola, per non aver messo in atto le tecniche educative adatte per sviluppare al massimo le attitudini naturali e l’intelligenza del bambino” Ecco, questo è un riassunto che uso spesso per dire chi è per me un buon maestro, e cos’è per me la scuola. Mario aveva da sempre fatto la scelta di stare dalla parte dei bambini. Per questo siamo stati vicini e solidali. Le collaborazioni sono state diverse, come l’esperienza editoriale importante molto formativa della Biblioteca di Lavoro, e l’esser introdotto nel Movimento di Cooperazione Educativa, del quale faccio ancora parte.

Pensa che i diritti dei bambini vengano rispettati come si dovrebbe?

Si tenga conto che nella Convezione dei diritti del Bambino, che quest’anno compie trent’anni, ma che continua ad essere sostanzialmente sconosciuta, nell’Art.29 si parla del Diritto all’educazione, inizia così: Gli Stati parti convengono che l’educazione del fanciullo deve avere come finalità: a) favorire lo sviluppo della personalità del fanciullo nonché lo sviluppo delle sue facoltà e delle sue attitudini mentali e fisiche, in tutta la loro potenzialità.
Anche solo con queste righe capiamo che i programmi e i libri di testo scolastici c’entrano ben poco con l’educazione. La Scuola, come ente formativo dovrebbe, insieme alla famiglia, essere capace di promuovere le capacità dei bambini. Quindi dietro questo discorso c’è un pensiero fondamentale, quello che tutti i bambini hanno delle capacità.

Sono importanti le materie artistiche nell’infanzia?

Certamente, nell’educazione in generale e nella scuola, che ha uno scopo: quello di sviluppare le naturali capacità degli allievi. I bambini sono predisposti alle attività artistiche, bisogna aiutarli a scoprirlo, icoraggiarli, non sono così radicale da pensare di doversi dedicare solo a quello che più piace, ma prevalentemente, specialmente, si, è la strada per un’educazione corretta, per sentirsi realizzati, per sviluppare al meglio delle attitudini. La scuola ha come obbligo quello di promuovere, e non perché sono bravi gli alunni, ma perché è brava la scuola come dice Lodi, brava a trovare le tecniche adeguate in modo che ogni bambino possa sviluppare al meglio le sue capacità.

C’è la possibilità di creare nella scuola nuove proposte e anche nuovi ambienti per fare in modo che questo accada?

Sì. Una scuola completamente diversa, dove si rinuncia all’aula e si hanno laboratori, in cui la conoscenza e la pratica scolastica siano un viaggio, un percorso dove i bambini vivano un’esperienza in quello spazio perchè è creato per quella esperienza e da quello spazio si spostano in un altro spazio che ha in sé competenze diverse; questi dovrebbero essere luoghi dove si sviluppano certamente le materie come: la matematica, la scienza, la geografia, l’italiano, ma anche il teatro, la danza, la pittura, l’orto, l’officina. Dove si possono sviluppare i diversi linguaggi e le diverse intelligenze.

Come nasce la sua ricerca approfondita sull’infanzia e sulla pedagogia?

Osservandola. La mia esperienza pedagogica è di una persona che è stata dentro le scuole con ruoli diversi. Sono stato responsabile della formazione della scuola sperimentale di Corea di Livorno per lungo tempo, e da qui è nato un libro “A tre anni si fa ricerca”, poi come educatore, ricercatore in diverse sedi scolastiche anche della campagna romana. Ho avuto la fortuna di essere molto vicino, anche come amico, a Loris Malaguzzi e poter seguire grazie a lui tutta l’esperienza delle scuole reggiane. E anche grazie al rapporto coi miei figli che sono arrivato a capire chi è un bambino. I bambini prima di tre anni sanno molte cose, anche in maniera inconsapevole, e sbagliando ci dicono tanto. Nelle mie proposte agli insegnanti suggerisco sempre di fare molta attenzione agli errori. L’errore è un elemento importante, una finestra aperta sui bambini per capire fin dove arrivano, perché a far bene basta imparare; la correttezza a volte è frutto di un adeguamento, di una convenzionalità, ma a sbagliare bisogna farlo da soli, scoprendo così, attraverso l’”errore”, delle cose, delle particolarità, che sono di quel bambino. E molti errori visti e sentiti li cito nei miei libri, come per esempio quelli grafici, nelle irregolarità delle prospettive, comuni da trovare nei loro disegni. Il disegno del bambino non è percettivo, ma cognitivo, nel disegno il bambino non disegna quello che vede, disegna molto di più, disegna quello che sa!

Come dovrebbero guardare all’infanzia le insegnati e gli educatori?

Dovrebbero volere una scuola che preveda i primi anni di sviluppo come importanti ed esplosivi della creatività. Pensare al bambino non come un essere da custodire e tutelare in funzione al fatto che diventerà importante solo dopo e quindi l’idea dei bambini tutti uguali, l’idea del futuro cittadino omologato.
La società e la cultura dovrebbero capire che non abbiamo bisogno di bambini tutti uguali; le insegnati stesse gradiscono arrivino in prima elementare senza saper né leggere né scrivere perché l’importante, per loro, è di prenderli e portarli a gli stessi livelli per poi poterli valutare e pensare di aver offerto a tutti la stessa lezione, credendendo questo sia democratico, chiedendo poi all’alunno il compito di dover approfittare delle ricchezze che ha ricevuto. Beh, se invece capissimo che i bambini sono tutti diversi perché le esperienze di ognuno sono diverse e quando si incontrano si incontrano persone che, diverse tra loro, possono arricchirsi a vicenda, potremmo avere un’azione educativa rivoluzionaria, dove non si ascolterà più l’adulto che sa, ma bambini che lavorano tutti insieme. Quindi, tutto quello era la difesa dell’uguaglianza intesa come omologazione deve cedere il posto alla valorizzazione della diversità, anche nelle età, e farli incontrare in classi aperte, il gruppo classe dovrebbe essere eterogeneo. L’”uguaglianza” dell’età, così come quella delle aule, c’è solo a scuola, ma in questo modo non hanno un confronto e scambi reciproci tra di loro.

Nel suo libro “Con gli occhi del bambino” fa una dedica a Gianni Rodari, che da poco ci aveva lasciati, era il 1980. Sceglie la poesia “Un signore maturo con un orecchio acerbo”, perché proprio quella?
Successe che tempo prima illustrai il suo libro Parole per giocare e quando diedi i disegni a Gianni gli chiesi una promessa (era l’ottobre del 1979), quella che presentasse il mio libro “Con gli occhi del bambino” – tra l’altro interessanti questi due titoli vicini, uno parla degli occhi, uno dell’orecchio però il discorso è lo stesso perché la funzione dell’orecchio acerbo è di ascoltare i bambini quando gli adulti non sono capaci. – Mi piace pensare che Gianni, come scrivo nella dedica, avrebbe presentato questo libro scrivendo una poesia e allora me la sono scelta da solo, sperando che queste mie tavole rivelassero un orecchio abbastanza … acerbo.

Chi è FRATO e come nasce?
FRATO è lo pseudonimo che ho usato e che uso per firmare le vignette che disegno. Sono le due sillabe iniziali del mio nome e cognome.
Ufficialmente la racconto così: non volevo far sapere chi era l’autore di quei disegni, ritenevo, forse, l’attività di basso livello e scientificamente debole, per molto tempo infatti non si è saputo chi era FRATO.
In realtà sentivo di esser nato per diventare pittore e dedicarmi a questo, posso dire è rimasta in me una dimensione artistica che mi ha accompagnato tutta la vita: ho disegnato, dipinto, fatto scultura… ho avuto un maestro,William Congdon della scuola di Pollock che mi propose di andare a studiare a spese sue a NY, ma non ebbi il coraggio di lasciare quello che avevo iniziato a costruire. Poi però, nel ’66, quando entro al CNR, un collega che stava lavorando sul test di Rorschach – con esempi sull’aggressività non verbale – doveva provare i test ai bambini, sapendomi capace di disegnare, mi propose di aiutarlo; da questa ricerca chiamta Tema 9. Test di frustrazione per bambini in età prescolare comincio a disegnare piccoli personaggi. Questo tipo di ricerche venivano pubblicate su riviste di valore scientifico, quindi le insegnanti difficilmente le avrebbero viste. Era il 68′ cambiavano molte cose, pensai dunque che i miei disegni in quel momento storico potevano e dovevano avere anche un rapporto più diretto con il pubblico. E in quello stesso anno esce la prima vignetta di FRATO.
In Spagna conoscono molto di più FRATO, ha ricevuto anche un honoris causa. I miei libri sono stati pubblicati spesso da case Editrici spagnole e una mostra con centinaia di tavole ha girato e gira ancora in molte città della penisola ispanica. Ho cercato sempre, in quelle vignette, di denunciare le scorrettezze educative di noi adulti, che spesso pensiamo i bambini non capaci di comprendere il mondo che li circonda. FRATO

Nel 1991 ha realizzato nella sua città natale, Fano, il progetto La città dei bambini, che consisteva nel creare una città in cui i bambini fossero protagonisti. Il progetto si è diffuso in altri luoghi di Italia, e molto nell’America del Sud. Quanto è importante che l’infanzia e l’adolescenza abbiano la possibilità di decidere sugli spazi che vivono?
Il progetto è di politica amministrativa. Il libro “La città dei bambini” spiega l’importanza di un progetto di governo della città a misura di infanzia pensato insieme ai bambini, con un Laboratorio formato anche da operatori, da architetti e urbanisti. La città, così come la viviamo ha smesso di essere luogo di incontro e scambio soprattutto per i più piccoli. Sul libro c’è una divisione in capitoli che ne spiega il possibile processo e La convenzione internazionale sui diritti del fanciullo nei suoi punti. Nessuno può pensare ai bambini senza preoccuparsi di consultarli, coinvolgerli, di ascoltarli. Far parlare i bambini non significa risolvere i problemi della città, creati da noi, significa invece imparare a tener conto delle loro idee e delle loro proposte. Occorre poi molta curiosità, attenzione, sensibilità, semplicità. I bambini possono essere progettisti, offrendo le loro idee le loro proposte alle soluzioni dei diversi problemi urbanistici. Bisogna riportare i bambini ad osare, a desiderare, ad inventare e allora salteranno fuori le idee, le proposte, i contributi. Un Consiglio di bambini quindi per cambiare la città e non per far contenti i bambini.

Oltre all’uscita Un nonno per amico edito da Orecchio Acerbo uscirà sempre nel 2019
Manuale di guerriglia urbana per bambine e bambini che vogliono difendere i loro diritti, edito da Zeroseiup, è un piccolo libro di lotta da leggere, ma soprattutto da far leggere alle bambine e ai bambini.

Dell’idiozia

Si chiama Csanad Szegedi, ungherese, ed è stato parlamentare europeo. In Ungheria era molto famoso perché per anni è stato l’uomo di punta del partito di estrema destra Jobbik. I suoi commenti antisemiti hanno riempito per anni le pagine dei giornali nazionali. Ce l’aveva con gli stranieri ma, soprattutto, con gli ebrei: li accusava di “comprarsi il Paese”, di distruggere l’identità nazionale e di dissacrare la storia dell’Ungheria. Ha iniziato a fare politica nel 2007 fondando la Guardia ungherese, un partito di estrema destra dalle uniformi nere e dalle bandiere a strisce che ricordavano la croce frecciata usata negli anni Trenta dal partito fascista ungherese, responsabile di aver sterminato 550 mila ebrei ungheresi durante l’Olocausto. Nel 2009 la Guardia ungherese viene dichiarata illegale dai tribunali, pensa te e Szegedi ha deciso allora di iscriversi a Jobbik, diventandone l’esponente di punta. Il colpo di teatro di questa storia accade nel 2010: Szegedi incontra Zoltan Ambrus, un pregiudicato per detenzione di armi e esplosivi. Uno di quegli incontri che si svolgono nella semioscurità, di cui nessuno ne saprebbe nulla. Ambrus ha in tasca un registratore, nascosto, e dice a Szegedi di avere le prove della sua origine ebraica. Immaginate la scena: un uomo che ha costruito il proprio successo sull’odio verso qualcuno che viene a sapere di essere quel qualcuno. Quella cosa lì. E come reagisce il difensore dei calori ungheresi? Sembra un film: Szegedi offre a Ambrus dei soldi per stare zitto. Ma mica dei soldi suoi, figurati: racconta di avere a disposizione alcuni fondi europei e ci aggiunge anche la promessa di un lavoro. Così. Solo che quell’altro ha registrato tutto. A questo punto Szegedi sprofonda nella confusione. Prova a sparire per un po’, ma non funziona. Poi abbozza una difesa, ma niente. Alla fine confessa. Viene cacciato dal suo partito ma non si dimette dal Parlamento europeo. Ma non è finita, no. Szegedi inizia a rispettare lo shabbat, frequenta la sinagoga, impara l’ebraico per leggere il Talmud e cerca di rispettare le 613 regole che gli prescrive la religione. Anche se “non ci riesco sempre”, spiega, in particolare per quanto riguarda la cucina kosher, un trauma per una persona abituata alla cucina ungherese. Qualcuno gli fa notare che forse sarebbe il caso di chiedere scusa agli ebrei, anche, e lui risponde così: “Ma come mi dovrei scusare del fatto che metà della mia famiglia è morta ad Auschwitz?”. Già. La morale l’ha scritta il più autorevole sito d’informazione ungherese, index.hu: “La morale di questa storia è che la stupidità non è legata al patrimonio genetico”.

(dallo spettacolo Sono tutti uguali)

Buon venerdì.

Come farla finita con il fascismo

Perché mettere Sandro Pertini in copertina? In primis perché la sua lezione di antifascista militante ci appare più viva e attuale che mai in tempi di fascisti del terzo millennio che compiono azioni squadriste dando la caccia a rom e migranti; in tempi di ultrà destrorsi che impunemente fanno apologia del fascismo in spazi pubblici, riuscendo a squadernare striscioni che inneggiano al duce in luoghi super sorvegliati come piazzale Loreto e via della Conciliazione. Il suo esempio di impegno democratico e per la libertà è più che mai necessario oggi mentre la repressione del dissenso viene imposta attraverso il decreto Sicurezza-immigrazione che Salvini minaccia addirittura di inasprire con un decreto bis.

Cosa direbbe il presidente partigiano alle forze dell’ordine e a quei vigili del fuoco che entrano in case private per far rimuovere innocui cartelli di protesta? «Questa Lega è una vergogna», c’era scritto nello striscione appeso a un balcone, citando una canzone di Pino Daniele.

E cosa direbbe il partigiano Pertini di quegli esponenti del Pd che incalzano Salvini perché non ha ancora deportato 500mila immigrati come aveva promesso?

Di fronte a un sempre più preoccupante clima di sdoganamento di gruppi fascistoidi (come CasaPound e Forza nuova) e di disapplicazione delle leggi Scelba e Mancino, il liberalismo alla Voltaire ha le armi spuntate, poiché considera libertà di espressione la propaganda di pensieri violenti che mirano a ledere la democrazia e colpiscono l’integrità psicofisica di donne, migranti e di soggetti appartenenti a minoranze. Colpire i soggetti più vulnerabili è la vigliaccata di tutti i fascisti. Dal criminale di guerra Mussolini fino ai suprematisti degli anni Duemila.

E allora, di fronte agli astratti distinguo di storici allievi di De Felice e di ex direttori di quotidiani mainstream che ammoniscono chi usa il termine fascismo per descrivere il pensiero di estrema destra legittimato dal ministro dell’Interno che pubblica con una casa editrice vicina a CasaPound (ne abbiano parlato sul numero scorso), pensiamo che sia salutare tornare a studiare la storia, ricordando il rifiuto netto del fascismo, la capacità di reagire e il coraggio di guardare lontano di partigiani come Pertini, come Ferruccio Parri (di cui Laterza ora ripubblica a cura di Carlo Greppi Come farla finita con il fascismo) e tanti altri.

Durante la liberazione di Genova, quando i nazifascisti cercano di patteggiare una ritirata alla chetichella chiedendo di incontrare i capi partigiani, Remo Scappini e compagni risposero «Giammai!».

Quando Riccardo Lombardi nel 1974 fu chiamato ad un confronto televisivo con Almirante, l’esponente socialista lasciò la sedia vuota, come ricorda Roberto Musacchio nel pezzo di apertura di questo sfoglio in cui Filippi traccia l’incredibile mappa dei salotti tv – da quello di Mentana a quello di Formigli e oltre – che ospitano chi semina odio, contenuti razzisti, misogini e antisemiti. È falso il liberalismo di chi mette sullo stesso piano i partigiani e i ragazzi di Salò poiché i primi lottavano contro il nazifascismo, i secondi per imporre quel regime totalitario e criminale. Il politically correct di chi parla di “censura” negando che il fascismo sia un crimine, fa pensare a quanti danni abbia prodotto l’amnistia senza un processo di elaborazione collettiva, senza un processo ai fascisti, senza una Norimberga italiana.

Fare i conti con la storia del fascismo significa anche aprire gli occhi su quelle forme striscianti che arrivano al potere inopinatamente. Come è accaduto in Turchia. Lo scrive Ece Temelkuran in Come sfasciare un Paese in sette mosse (Bollati Boringhieri) denunciando il regime imposto da Erdoğan che nei giorni scorsi è arrivato a cancellare il risultato delle recenti elezioni a Istanbul dove ha vinto un sindaco democratico. Fare i conti con la storia del fascismo significa anche vedere come il fascismo cresca nella «zona grigia». Gli ideologi nazisti non sarebbero riusciti a imporre il loro lucido e disumano piano di sterminio se non ci fosse stato il silenzio colluso dei gregari, degli ignavi, di chi si dice né di destra né di sinistra, facendo così il gioco delle destre, anche le più impensabili. Di fronte alla pericolosa fatuità grillina e al tiepido impegno del Pd che ha cancellato l’antifascismo dal proprio statuto, proponiamo qui non certo la violenta ghigliottina giacobina, ma una forte chiamata alle armi della conoscenza, della critica, della risposta democratica, senza se e senza ma.

Per questo serve un pensiero nuovo, serve chiarezza di idee sulla realtà umana in cui la violenza non è innata, serve distinguere il grano dal miglio e un nettissimo rifiuto del veleno che si nasconde nella normalizzazione dell’autoritarismo e del fascismo mascherato.

L’editoriale di Simona Maggiorelli è tratto da Left in edicola da 17 maggio 2019


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L’antifascismo è sempre militante

Illustrazioni di Vittorio Giacopini

Era il 24 aprile 1974 quando Riccardo Lombardi, leader della corrente di sinistra del Psi, invitato ad una tribuna politica sul referendum per il divorzio, rifiuta il faccia a faccia con il leader del Msi-Dn, Giorgio Almirante. Spiegò: «Noi siamo disposti al dibattito, anzi lo sollecitiamo, con tutti gli avversari più risoluti, anche con coloro che sono stati fascisti, ma non con coloro che agiscono da fascisti oggi servendosi della libertà conquistata il 25 aprile, per distruggerla». Spiegò pure il suo No all’abrogazione della legge sul divorzio: «L’indissolubilità del matrimonio è un fatto di coscienza individuale che non può esser imposto o demandato da nessuna autorità civile».

Ricordo bene l’immagine di Almirante che parlava da solo e accusava Lombardi di averlo “ripudiato” come avrebbero fatto i divorziati con il proprio coniuge. Parlava con la sedia di Lombardi che restava vuota. Con quel vuoto che indicava sia una scelta di libertà che di lotta perché contro il fascismo bisogna lottare ed essere liberi: negargli ogni dignità.

Il fascismo le italiane e gli italiani lo avevano ripudiato nel 1945 m…

L’articolo di Roberto Musacchio prosegue su Left in edicola dal 17 maggio 2019


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Non c’è democrazia in Ue senza beni pubblici

Protesters show signs at the"Climate: time changes. It's time to change" demonstration in Rome, on APRIL 19, 2019 in Rome, Italy. (Photo by Andrea Ronchini/NurPhoto via Getty Images)

Beni basilari e concreti, a disposizione di tutti i cittadini, che l’Unione Europea dovrebbe impegnarsi a offrire e proteggere. Il movimento culturale Agora Europe li ha raccolti in “Charta 2020”, un documento redatto collettivamente da decine di intellettuali e accademici dell’intero Continente. Per fondare una cornice di discussione democratica, dove elaborare l’agenda sociale del prossimo decennio per l’Ue. Contro ogni programma tecnocratico ed etno-nazionalista. Lo proponiamo, di seguito, ai nostri lettori. È possibile sottoscriverlo qui. Charta 2020 sarà presentata inoltre alla Tre giorni di Agorà Europa, che si terrà dal 17 al 19 maggio a Parma.


Charta 2020 – Una carta dei beni pubblici europei

Sezione 1: Spazio politico europeo

1. Europa politica
L’Europa è uno spazio politico. La disponibilità di beni pubblici dipende da esso. Il riconoscimento istituzionale della natura integrata della politica europea è la premessa necessaria per la disponibilità stabile di beni pubblici a beneficio di tutti i cittadini europei. L’istituzione dello spazio politico europeo dipende dalla creazione di una cittadinanza che vada al di là delle norme e dei trattati e dalla nostra riconcettualizzazione delle frontiere. Mentre la costruzione di autentiche istituzioni transnazionali e democratiche richiederà tempo e sforzi, la promozione di nuove pratiche è un compito a portata di mano. Inoltre, la sostenibilità del nostro spazio civico ed economico comune sarà assicurata solo se ci consentiremo di essere protagonisti di una sfera politica di discussione ricca di idee e aperta al dissenso, unendo gli Stati membri orizzontalmente e verticalmente: attraverso le loro porose frontiere, e dalle realtà locali fino a Bruxelles. I cittadini europei meritano una rappresentanza autenticamente transnazionale attraverso cui rivendicare e difendere i beni pubblici essenziali. I cittadini europei dovrebbero avere accesso a una maggiore partecipazione diretta al processo politico europeo.

2. Cittadinanza europea
La cittadinanza europea crea un legame tra l’Unione europea e i suoi cittadini che è definito da diritti e doveri, partecipazione e appartenenza a uno spazio politico comune. Questi diritti – economici, sociali e politici – riguardano non solo le persone che esercitano la loro libertà di movimento in un altro stato membro, ma tutti i cittadini dell’Ue in quanto tali. Eppure ancora oggi, il riconoscimento di questi diritti rimane frammentato, incompleto e fragile. Per offrire una solida base all’integrazione sostenibile dell’Europa, i diritti europei devono essere difesi, unificati e resi permanenti favorendo l’applicazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Ue e consentendo un accesso più equo e diretto alla giustizia per tutti i cittadini e i residenti. Ai residenti legali permanenti nel territorio europeo deve essere accordata la massima partecipazione possibile, a tutti i livelli, al governo degli interessi comuni e alla protezione dei loro diritti.

3. Democrazia europea
La legittimità democratica dell’Unione europea deriva non solo dalla democrazia rappresentativa, ma è garantita anche dalla democrazia partecipativa e deliberativa. I cittadini sono quindi chiamati a contribuire non solo attraverso il processo elettorale al governo dell’Ue, ma anche attraverso la loro partecipazione quotidiana ai processi dell’Ue, come espresso nelle consultazioni pubbliche, nelle iniziative e campagne dei cittadini dell’Ue, nelle petizioni al Parlamento europeo, denunce al Mediatore europeo e altre modalità di partecipazione. L’accesso a queste vie deve essere promosso in modo da uniformare l’accesso al processo politico dell’Ue. Inoltre, la creazione di uno spazio politico europeo richiede l’emergere di partiti e movimenti genuinamente transnazionali. La politica democratica va oltre le mere istituzioni e comporta reciproche aperture in linea orizzontale degli organi pubblici nazionali e delle pratiche promosse dal basso di associazioni, sindacati e cittadini.

4. Pace e diritto di ospitalità come responsabilità condivisa
L’Europa si basa sui principi di pace e riconciliazione. Questa idea si sviluppò come reazione contro gli stati totalitari e dispotici e raggiunse il massimo slancio con la fine della Seconda guerra mondiale. Da allora, lo spazio politico europeo è stato dedicato alla promozione della solidarietà e della responsabilità come beni pubblici ultimi. Per essere duratura, la pace deve essere ricercata non solo all’interno del continente ma anche all’esterno. Essa richiede non soltanto impegni fra stati all’interno dell’Europa, ma anche un impegno globale al di fuori dell’Europa, attraverso le frontiere. Lo sviluppo di istituzioni politiche all’interno di una rete di diritto internazionale è stata la condizione primaria per rafforzare l’impegno verso una cultura civile di buona volontà, generosità e ospitalità. Deve esserci coerenza tra le dimensioni interne ed esterne delle azioni dell’Ue. Le alleanze difensive non possono essere escluse in un mondo di conflitti e potenziali minacce, ma devono essere ridefinite al fine di escludere le politiche espansionistiche e la definizione arbitraria dei nemici collettivi. Ciò garantisce che il progetto europeo non riguardi la proiezione dei valori dell’Ue all’esterno, ma la loro universalizzazione all’interno e al di fuori dei confini dell’Ue. Fin dai tempi dei viaggi di Ulisse, l’ospitalità e l’inclusività sono al centro della nostra cultura condivisa e possono essere estese oltre i confini dell’Ue sulla base di una responsabilità condivisa. In un mondo in cui vi è un numero crescente di apolidi, l’impegno pratico nei confronti di questi principi richiede la creazione di un passaporto umanitario internazionale. Questo documento potrebbe essere rilasciato in collaborazione con l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati. Esso assicurerebbe che alle persone che sono esposte a rischi dovuti a motivi di salute, età, necessità e vulnerabilità possa essere garantito un rifugio sicuro nell’Ue.

Sezione 2: Migrazione  

5. Libertà di movimento
Libertà di movimento significa il diritto di scegliere, per tutti gli individui sul suolo europeo, un luogo sicuro in cui i diritti umani, compresi i diritti sociali ed economici, siano pienamente garantiti e rispettati. Questi diritti sono universali e inalienabili. Devono essere garantiti insieme al rispetto per l’umanità, alla dignità e alla solidarietà.

6. Salvataggio in mare e solidarietà europea
Dato il numero di morti di migranti che si verificano ai confini dell’Europa e nel Mar Mediterraneo, le misure di ricerca e salvataggio devono essere la prima priorità dell’azione europea. Queste misure devono essere finanziate dai bilanci europei e devono rispettare pienamente gli obblighi previsti dalle convenzioni pertinenti, in linea con il diritto del mare ed i diritti umani. Le missioni di ricerca e salvataggio devono essere rapide, effettive ed efficaci. Sulla base del principio della solidarietà europea, la responsabilità dell’accoglienza, dei soccorsi e degli sbarchi deve essere condivisa da tutti gli stati membri europei. Le persone soccorse devono essere supportate e non soggette a criminalizzazione o altri maltrattamenti.

7. Sistema europeo comune di asilo
Il sistema europeo comune di asilo deve consentire ai richiedenti asilo e ai rifugiati di circolare liberamente all’interno dello spazio europeo. Questo sistema dovrebbe essere guidato dal principio di integrazione, con il pieno riconoscimento dei diritti economici e sociali. Il quadro adottato dovrebbe essere volto ad ampliare la protezione di tutti coloro che si trovano nello spazio europeo e a garantire un passaggio ed un’assistenza sicuri, nel contesto delle evoluzioni globali ambientali e geopolitiche.

8. Cooperazione Nord-Sud attraverso lo spazio mediterraneo
Il paradigma della sicurezza non dovrebbe essere il fondamento della dimensione esterna della politica europea in materia di migrazione e asilo. La base giuridica dell’asilo e delle pratiche migratorie dovrebbe essere radicata in un dialogo tra i paesi di origine, di transito e di destinazione. Dovrebbe inoltre evidenziare le responsabilità ed il ruolo chiave degli attori regionali e degli attori sovranazionali dell’integrazione. I responsabili delle politiche migratorie possono così accrescere la propria comprensione del processo migratorio e adattare i quadri politici al futuro, in maniera tale che siano al tempo stesso pertinenti ed etici, sviluppando inoltre canali legali e sostenibili per la migrazione, che tengano pienamente conto delle mutevoli realtà geopolitiche.

Sezione 3: Economia

9. Statuto europeo dei lavoratori
L’Europa rimane uno spazio economico estremamente disuguale: i lavoratori in alcune regioni beneficiano di salari, condizioni e pensioni dignitose, mentre in altre regioni non hanno accesso nemmeno ai salari minimi di sussistenza. La grande ricchezza organizzata, operando attraverso il Mercato unico, può sfruttare queste differenze per guidare una corsa al ribasso mentre gli stati membri fanno a gara l’uno con l’altro per attrarre investimenti. È il fenomeno del dumping sociale. Lo Statuto Europeo dei Lavoratori stabilisce un nuovo standard Ue per i salari e le condizioni di lavoro che si applica a tutti i lavoratori, indipendentemente dall’età, dal sesso o dalla cittadinanza, e stabilisce i criteri per un’armonizzazione al rialzo di questi standard in tutta l’Unione europea. Solo rafforzando il potere dei lavoratori uniformemente in tutta Europa possiamo dare un senso pieno alla cittadinanza europea in materia di economia.

10. Servizi universali di nase
Una crisi di povertà persiste in larghe aree dell’Unione europea, con 118 milioni di persone private dell’accesso a servizi di base come cibo, acqua, assistenza sanitaria e alloggio. L’Ue può impegnarsi a sradicare la povertà garantendo questi servizi universalmente. Questi sforzi andrebbero a costituire uno stato sociale a livello europeo, stabilendo standard per servizi di base e investendo le risorse necessarie per raggiungerli.

11. Investimento pubblico verde
L’austerità ha privato l’Europa degli investimenti necessari e ha sostenuto la sua crisi di disoccupazione. Un massiccio Programma di investimenti verdi può sia porre fine al regime di austerità che sprigionare in tutta Europa una transizione verde verso un’economia a zero emissioni, creando milioni di posti di lavoro verdi nell’industria, nell’agricoltura e nelle infrastrutture. L’Europa dovrebbe cogliere l’opportunità di guidare il mondo in una rivoluzione ecologica.

12. Autorità per la Giustizia Fiscale
Gli ultimi tre decenni hanno visto un forte aumento della disuguaglianza in tutta Europa. Questa trasformazione è in gran parte frutto di un disegno: l’Europa è piena di scappatoie fiscali e di paradisi fiscali – un affronto al principio di solidarietà e giustizia. L’Ue dovrebbe conferire potere a un’Autorità per la Giustizia Fiscale che possa stabilire le linee guida per eliminare i paradisi fiscali e gettare luce sul settore bancario europeo, recuperando risorse fiscali per gli Stati membri e ripristinando la fiducia in una cittadinanza europea condivisa.

Sezione 4: Cultura

13. Cultura e digitale
In democrazia, è richiesto che la cultura, i suoi prodotti e le sue risorse siano accessibili a tutti e ampiamente diffusi ovunque in Europa, affinché possano essere scoperti ed esplorati liberamente in tutta la loro ricchezza. Libertà culturale e libertà di parola, di stampa e di associazione devono essere garantite. L’Europa deve proteggere la cultura dagli effetti deteriori del mercato e sostenere idealmente e materialmente ogni forma d’espressione indipendente. Una via europea alle tecnologie, siano esse più o meno nuove, deve innanzitutto permettere a tutti i cittadini di controllare i dati personali e pubblici e, inoltre, deve adoperarsi affinché, nel rispetto dei diritti di proprietà intellettuale, più che proteggere i grandi gruppi d’interesse privato, essi possano divenire il volano per future innovazioni.

14. Educazione
Nel corso dei secoli, la storia dell’Europa si è fittamente intrecciata con quella delle sue tradizioni educative: paideia, cultura animi, studia humaniora a Bildung, sono state il prezioso tesoro che ha forgiato i nostri ideali di essere umano. L’Europa è una comunità d’apprendimento e l’educazione è il suo principale strumento per ereditare criticamente il nostro passato comune e per vivere attivamente il nostro futuro comune. È in tale cornice che chiediamo con convinzione un’educazione fondata su irrinunciabili presupposti: relazione attraverso il dialogo, emancipazione individuale e sociale, tolleranza, pensiero critico, differenza come ideale positivo. Un’educazione qualitativamente elevata richiede adeguati investimenti, di cui la società tutta deve beneficiare, grazie al libero accesso per tutti a un’istruzione pubblica per tutte le età della vita e fondata sull’equità.

15. Eredità culturale
Lo spirito dell’eredità europea è la diversità. Ciò abbraccia aspetti differenti, tra cui la pluralità di lingue, di territori, di opere d’arte, di musiche, di stili di vita, di pensiero e di maniere di godere del tempo libero. L’Unione Europea deve preservare e promuovere tale ricchezza di ideali e di modi di vita: essa è un bene comune nel quale ciascuno e tutti possono riconoscersi attraverso percorsi non predeterminati. Ogni cultura può entrare in relazione con le altre senza nulla perdere della sua singolarità, per mettere in campo nuove maniere di vita in comune: differenti approcci possono e devono comporre un futuro all’altezza delle sfide del nostro tempo. L’Europa è simbolo potente ma fragile di una possibile pluralità collettiva nella quale tutte le differenti culture convivano assieme.

16. Processi di emancipazione e autonomia in Europa
Nel suo divenire storico, la cultura europea è stata caratterizzata da una continua trasformazione del suo spazio politico, in ragione dell’emergere delle richieste di riconoscimento avanzate da nuovi soggetti: tra queste dinamiche, le lotte dei lavoratori, delle donne e di tutte le minoranze per l’uguaglianza e per la libertà sessuale e di genere hanno segnato la cultura europea come un processo di emancipazione. Le trasformazioni sociali ed economiche comportano nuovi movimenti di autodeterminazione che possiedono elementi culturali tanto specifici quanto innovativi. L’Europa deve essere un progetto emancipatorio e promotore delle culture di tutte le nuove soggettività coinvolte.

Sezione 5: Ambiente

17. Eguali diritti e dignità per esseri umani, animali e piante
La vita sulla terra è minacciata dal nostro sistema produttivo, basato sulla crescita senza limiti in un pianeta con precisi limiti. Combattere il cambiamento climatico richiede di: adottare energie rinnovabili e modelli energetici altamente efficienti, decarbonizzare, proteggere la biodiversità, il suolo e l’acqua, assicurare la qualità dell’aria e promuovere tecnologie innovative o già adottate per garantire un uso responsabile delle risorse naturali disponibili. Coinvolgendo lavoratori, minoranze, giovani e il pensiero delle donne sulla cura per supportare una rivoluzione ecologica, l’Europa può creare opportunità lavorative di qualità in quest’ambito e così favorire un sistema produttivo che assicuri la fioritura degli umani e della natura non-umana.

18. Produzione alimentare e salute
Abbiamo bisogno di nuove regole per reindirizzare le sovvenzioni verso modelli di agricoltura biologica. Un radicale cambiamento nelle regole e nelle priorità finanziare è l’unico modo per ridurre le emissioni e l’uso dei pesticidi. La produzione di cibo, l’agricoltura e l’allevamento industriali e intensivi sono responsabili del 20% delle emissioni di CO2 a livello mondiale. È necessaria una nuova legislazione europea per fermare il consumo di suolo, l’espansione urbana incontrollata, l’espropriazione di terreni, la pesca indiscriminata, per liberare i mari dalla plastica e preservare le capacità rigenerative dell’ambiente.

19. Consumo critico e responsabile
La modifica del nostro stile di vita per sviluppare capacità umane e relazioni sociali deve avere la precedenza sul benessere materiale. Abbiamo bisogno di un’economia circolare (a rifiuti zero) e di una valorizzazione della produzione e del consumo locali (a Km 0). Ciò comprende il commercio equo con i paesi all’esterno dell’Ue e il riequilibrio delle diseguaglianze tra campagna e città. Inoltre, al fine di ottenere nel lungo periodo la decarbonizzazione, l’Accordo di Parigi deve essere effettivamente applicato e promosso.

20. Lottare contro le diseguaglianze, garantire un eguale accesso alle risorse
Combattere le diseguaglianze e garantire un eguale accesso alle risorse richiede di colmare il debito ecologico del Nord del globo verso il Sud del globo, che è anche una delle cause delle migrazioni forzate. Il prezzo del carbone deve essere basato sulla redistribuzione della ricchezza per garantire che i paesi del Sud del globo siano supportati nella riduzione delle emissioni e possano sviluppare le loro economie. I benefici e i costi della transizione verso un’economia ecologica devono essere divisi equamente. I costi dovrebbero essere applicati in modo progressivo, così da non contribuire all’ampliamento delle diseguaglianze e della precarietà all’interno e tra gli stati membri dell’Ue. È necessaria una fondamentale trasformazione verso un uso, riuso e riciclo più efficienti della nostra produzione e dei nostri modelli di consumo.

Coordinatori di progetto
Caterina Di Fazio
Rui Tavares

Sezioni e coordinatori di sezione
1. Spazio Politico Europeo Étienne Balibar, Caterina Di Fazio, Nadia Urbinati
2. Migrazione Souleymane Bachir Diagne, Daniel Innerarity, Satvinder Juss
3. Economia David Adler, Lorenzo Marsili, Claus Offe
4. Cultura Alberto Alemanno, Niccolo Milanese, Kalypso Nicolaïdis
5. Ambiente Elena Pulcini, Nora Räthzel, Miguel Vatter

Collaboratori
Intro.  Alberto Alemanno, Caterina Di Fazio, Kalypso Nicolaïdis, Rui Tavares, Nadia Urbinati, Frédéric Worms
1. Etienne Balibar, Caterina Di Fazio, Michele Fiorillo, Lorenzo Marsili, Petar Markovic, Gian Giacomo Migone, Kalypso Nicolaïdis, Teresa Pullano, Andrea Sangiovanni, Philippe Schmitter, Rui Tavares, Nadia Urbinati
2. Cristina Blanco Sío-López, Mattia Ciampicacigli, Andrea Costa, Caterina Di Fazio, Souleymane Bachir Diagne, Daniel Innerarity, Satvinder Juss, Cécile Kyenge, Virginie Lefèvre, Marco Maddalena, Titus Molkenbur, Sara Prestianni
3. David Adler, Emanuele Felice, Lorenzo Marsili, Gian Giacomo Migone, Claus Offe, Peppe Provenzano, Philippe Schmitter, Nadia Urbinati
4. Alberto Alemanno, Carlo Cappa, Paola Giacomoni, Alexandra Jouclard, Niccolo Milanese, Kalypso Nicolaïdis, Pasquale Terracciano, Carlo Varotti, Giulia Valpione
5. Suzana Carp, Monica Frassoni, Darian Meacham, Elena Pulcini, Nora Räthzel, Valentina Sardella, Miguel Vatter

Un estratto di Charta 2020 è stato pubblicato su Left in edicola dal 10 maggio 2019


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