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Processo Cucchi, Salvini, Difesa e l’Arma parti civili per ricostruirsi una credibilità

Salvini parte civile nel caso Cucchi. Clamoroso sviluppo nella prima udienza preliminare del processo per i depistaggi visto che Salvini è quel ministro degli Interni, leader della Lega, travestito, spesso da poliziotto o con magliette che ammiccano ai gruppuscoli razzisti e fascisti. Il 5 gennaio del 2016, dopo che Ilaria Cucchi aveva posta una foto di uno dei tre indagati per l’omicidio di suo fratello Stefano, Salvini disse che quel post gli «faceva schifo». «Ci sarà un 1% di quelli che portano la divisa che sbagliano e devono pagare. Anzi devono pagare doppio. Ma io sto sempre con polizia e carabinieri. La sorella di Cucchi si dovrebbe vergognare per quanto mi riguarda». Erano i giorni in cui venimmo a conoscenza dei risultati dell’inchiesta bis quella che faceva luce sul pestaggio violentissimo di una persona arrestata.

Invece ora il presidente del Consiglio, il Viminale, il ministero della Difesa e l’Arma si dichiarano parti lese nell’eventuale processo per i presunti depistaggi sul caso della morte di Stefano Cucchi, che vede imputati otto carabinieri, tra cui ufficiali. Un gesto dal valore simbolico forte, che segna – nelle parole della famiglia Cucchi – il passo definitivo verso la «riconciliazione» della famiglia del giovane detenuto con l’Arma e le istituzioni. «Un fatto senza precedenti e un momento di riavvicinamento tra cittadini e istituzioni», ha commentato Ilaria Cucchi subito dopo la presentazione dell’istanza di costituzione di parte civile da parte dell’Arma e della Difesa all’udienza preliminare sul procedimento dell’eventuale “Cucchi quater”, che stavolta vede sotto accusa la catena di comando che avrebbe depistato le indagini sulla morte del giovane. Scelte che ufficializzano una netta presa di posizione già annunciata in una lettera affidata ai familiari di Stefano dal comandante generale dei Carabinieri Giovanni Nistri l’11 marzo scorso e che, al di là della retorica sulla riconciliazione sembra un’altra mossa della strategia di Viale Romania per divincolarsi, nove anni dopo, da una vicenda che ne ha minato la credibilità più di altri episodi di abusi o omicidi commessi da carabinieri di ogni rango. Salvini s’è spiegato così: «Le Forze dell’Ordine sono un esempio di professionalità e dedizione che ci fa essere orgogliosi: per colpa di poche mele marce non possiamo accettare che vengano infangate tutte le divise. È questo che ha motivato la costituzione di parte civile del Viminale nel processo Cucchi: mi auguro finiscano gli attacchi e le insinuazioni contro tutte le donne e gli uomini che tutti i giorni vigilano sulla sicurezza degli italiani».

A presentare la stessa richiesta di costituirsi parte civile, sulla quale il Gup si è riservato di decidere, ci sono anche la famiglia Cucchi, gli agenti di polizia penitenziaria coinvolti nella prima inchiesta quando un cono d’ombra aveva protetto i carabinieri, il Sindacato dei Militari, Cittadinanzattiva e l’appuntato Riccardo Casamassima, il teste-chiave nel processo per l’omicidio Cucchi: «Sto pagando, io e la mia famiglia – dice Casamassima – quindi non faccio commenti sulla costituzione di parte civile da parte dell’Arma però il Comandante Generale mi sta facendo pagare per la mia decisione di testimoniare. Questa è la verità. Lo dimostrano i tentativi fatti per danneggiare la mia persona. E’ una situazione pesante che stiamo sopportando io e la mia famiglia per aver fatto il nostro dovere. Mi hanno messo ad aprire la porta, mi hanno tolto tutto, mi hanno abbassato lo stipendio, dopo la testimonianza di un anno fa. L’Arma non mi è vicina. Dicono “Chi sa parli”, lo Stato ci ha abbandonato». Dunque l’Arma si costituisce parte civile ma poi fa mobbing al carabiniere che ha consentito il processo?  Alla domanda sul processo a suo carico per l’accusa di detenzione di droga ai fini di spaccio Casamassima risponde: «L’accusa mi è stata mossa dopo la mia testimonianza. Non hanno trovato droga in casa, ne uscirò pulito, siamo sereni, come sempre». E a Ilaria Cucchi, Casamassima scrive: «Cara Ilaria Cucchi sai quanto vi voglio bene e quanto cerco di starvi vicino. Davvero credi che l’Arma vi sia affianco? La stessa arma che sta massacrando la mia famiglia? Hanno solo anticipato le vostre mosse».

«In vicende come la nostra – ha aggiunto Ilaria Cucchi – troppe volte ho visto i sindacati di polizia intromettersi contro le nostre famiglie. In quest’aula per la prima volta un sindacato si è schierato al nostro fianco e non contro di noi». La frecciata di Ilaria è diretta in primis a Gianni Tonelli, deputato salviniano ex segretario del Sap (fondato nel 1981 con Almirante come ospite d’onore) ai tempi in cui quel sindacato tributò una standing ovation ai quattro colleghi condannati in tre gradi per l’omicidio di Federico Aldrovandi. Tonelli, spesso considerato sprezzante con i familiari di Cucchi e Aldrovandi è convinto che esista una verità alternativa sulla morte di Stefano così come sulla morte di Aldrovandi, quando gli agenti penitenziari furono assolti nel primo processo dichiarò: «Bisogna finirla di scaricare sui servitori dello Stato la responsabilità di chi abusa di alcol e droghe, di chi vive ai limiti dell’illegalità»..

Nell’istanza presentata dall’Arma, che chiede una provvisionale di 120mila euro, c’è un duro attacco ai colleghi imputati, che «nel commettere i reati contestati, hanno cagionato un grave danno patrimoniale e morale alle amministrazioni». Le imputazioni contestate sono particolarmente gravi «perché hanno sortito l’effetto criminoso di sviare l’accertamento pieno di altrui attività delittuosa nel corso di particolari, complesse ed articolate indagini, avendo militari abusato delle loro qualifiche e funzioni».

Ma il procedimento più delicato è sicuramente quello che riguarda gli otto militari dell’Arma accusati di aver orchestrato il tentativo di insabbiamento della verità sulla morte del geometra romano. Una partita giocata «con le carte truccate», l’ha definita il sostituto procuratore Giovanni Musarò. Le richieste di giudizio da parte della Procura sono nei confronti, tra gli altri, del generale Alessandro Casarsa, all’epoca dei fatti capo del Gruppo Roma, e per il colonnello Lorenzo Sabatino, ex capo del nucleo operativo di Roma. I reati contestati, a seconda delle posizioni, sono falso, omessa denuncia, favoreggiamento e calunnia. Ad essere coinvolti nella catena di comando ci sarebbero anche altri sei imputati. Per l’accusa i depistaggi partirono da Casarsa, all’epoca numero uno del Gruppo della Capitale, e a cascata furono messi in atto dagli altri secondo i vari ruoli di competenza. Per i pm alcuni degli indagati avrebbero attestato il falso in due annotazioni di servizio datate 26 ottobre 2009, relativamente alle condizioni di salute di Cucchi, arrestato dai carabinieri di Roma Appia e portato nelle celle di sicurezza di Tor Sapienza, tra il 15 e il 16 ottobre del 2009. Falsi confezionati – secondo i magistrati – «con l’aggravante di volere procurare l’impunità dei carabinieri della stazione Appia, responsabili di avere cagionato a Cucchi le lesioni che nei giorni successivi gli determinarono il decesso».

Gli imputati, si legge, «hanno cagionato un grave danno alle Amministrazioni in epigrafe indicate. Le imputazioni contestate, tutte procedibili d’ufficio, sono particolarmente gravi anche per le modalità d’azione – avuto particolare riguardo alla qualità di appartenenti dell’Arma dei Carabinieri – ed hanno sortito l’effetto criminoso di sviare l’accertamento pieno di altrui attività delittuosa nel corso di particolari, complesse ed articolate indagini, avendo i militari abusato delle loro qualifiche e funzioni in evidente violazione degli obblighi di servizio e dei doveri del proprio status e per finalità assolutamente contrarie agli interessi e ai compiti propri dell’Istituzione di appartenenza, prioritariamente impegnata nella prevenzione e repressione dei fenomeni criminosi». Per l’Avvocatura dello Stato, «le singole condotte ascritte hanno infatti intralciato il normale esito e sviluppo delle operazioni di polizia giudiziaria creando grave nocumento all’azione delle autorità ciò preposti inoltre gli atti e comportamenti tenuti sono palesemente contrari ai principi di moralità e rettitudine che devono improntare l’agire di un militare nonché ai doveri attinenti al giuramento prestato e a quelli di correttezza ed esemplarità discendenti della condizione di militare nonché gli appartenenti all’Arma dei carabinieri tali atti e comportamenti hanno avuto risalto negativo all’esterno dell’istituzione ledendo nell’immagine e il prestigio e inficiando il vincolo di fiducia sul quale fondato il rapporto di impiego e di servizio». 

«Nulla in contrario» alla costituzione di parte civile del Comando generale dei carabinieri nel processo Cucchi, «ma chiediamo che lo stesso atto formale venga svolto ogni volta che i nostri uomini vengono insultati o subiscono lesioni nelle piazze o nel corso di manifestazioni». Lo dice all’Adnkronos Massimiliano Zetti, Segretario generale aggiunto del Sim (Sindacato Italiano Militare) Carabinieri. «Il principio resta lo stesso: se un collega sbaglia deve pagare, ma deve avere tutti i diritti e le garanzie. E diciamo no al tritacarne mediatico-giudiziario. Più in generale, si intervenga non solo quando ad essere danneggiata è l’immagine dell’Arma, ma anche quando ad essere danneggiati sono i singoli carabinieri», aggiunge Zetti. «Per il resto -conclude- non ci esprimiamo sul merito del processo, attendiamo il lavoro della magistratura e vedremo cosa ne scaturirà». 

Niente slogan, le disuguaglianze vanno combattute alla radice. E con la patrimoniale sulle grandi ricchezze

Poveri a Roma in un mercato rionale ANSA/MASSIMO PERCOSSI

Bisogna combattere le disuguaglianze. È una frase che si ascolta sempre più spesso (e per fortuna). La novità è che a pronunciarla sono forze politiche anche con segno diverso. Anche quelle che un tempo facevano della diversità di censo un elemento distintivo della propria idea di società e la interpretavano come uno stimolo alla dinamica meritocratica che avrebbe dovuto smuovere talento e competizione tra le persone. Ma è davvero così? Siamo davanti a una conversione reale verso il principio dell’uguaglianza, trasversalmente alle forze politiche? Ho qualche dubbio. Certo, la disuguaglianza, tra persone, popolazioni, lavoratori, generazioni, aree geografiche, uomini e donne, è talmente sfacciata che nessuno può più far finta di nulla. Ma la politica non è un eterno convegno. È fatta di programmi, idee e scelte. Sono queste che determinano il profilo reale della proposta di ciascun partito. Allora inutile girarci attorno. La disuguaglianza si combatte in due modi. Non alternativi ma contestuali. Si eradica a monte. Cioè prima ancora che si produca. E questo lo si fa innanzitutto con la promozione, l’investimento e la difesa dei beni pubblici e dei beni comuni. Scuola pubblica, sanità pubblica, accesso alla cultura per tutti, formazione continua. Ci metto persino la sicurezza come miscela tra politiche di socialità, controllo del territorio, contrasto del degrado urbano. Se lo Stato, innanzitutto lo Stato, garantisce questi beni essenziali, allora sta facendo la politica più potente di contrasto alle disuguaglianze e di promozione dell’uguaglianza. Insomma, evita che chi nasce in una famiglia sfigata (mi si perdoni lo slang), sia destinato, per tutta la sua vita, a restare intrappolato in quella condizione. Ma la disuguaglianza si contrasta anche quando, ahimè, si è già prodotta. Allora lì non si scappa. C’è innanzitutto una cosa da mettere in campo: muovere la leva della fiscalità in senso fortemente progressivo e immaginare una patrimoniale sulle grandi ricchezze. Non sto parlando della famiglia che risparmia tutta la vita per poi comprare un monolocale al figlio precario che non potrà mai accendere un mutuo. No. Sto parlando delle ricchezze lì dove in questi lustri si sono concentrate in modo spropositato. Come quelle delle multinazionali del web che fatturano miliardi di euro in un Paese e hanno sede nei paradisi fiscali. Proporre questo non deve essere più una bestemmia ma un grande tema di una politica economica degna di questo nome. Perché altrimenti accade una cosa paradossale, che è già in corso: che saranno i grandi ricchi della terra a voler pagare più tasse (e magari a combattere contro i cambiamenti climatici). Perché hanno capito che le disuguaglianze materiali e la grande questione climatica impedisce lo sviluppo dei Paesi e soprattutto blocca i sistemi produttivi. Ora, uno potrebbe dire che se accadesse questo sarebbe una buona notizia. Forse sì, non lo so. Temo solo che alla fine saremmo davanti all’ennesimo tornante di un capitalismo che vede il rischio della sua implosione e applica degli aggiustamenti. Forse avremmo bisogno di spingerci più in là. E dirci che in fondo il tema della disuguaglianza è tutto dentro l’organizzazione del modello produttivo, economico e sociale. Insomma, è il capitalismo stesso che genera, naturalmente, disuguaglianza. E che se non se ne inventa uno nuovo, fatto di democrazia economica e di un’idea radicalmente diversa di ciò che definisce la qualità delle nostre stesse esistenze, allora il mondo continuerà ad essere diviso per classi. E sarà un mondo di infelici.

Francesco Laforgia già deputato, è senatore eletto con LeU, portavoce del movimento politico èViva

La potenza del graphic journalism e il caso di Stefano Cucchi

«Sono stanco dei reportage di guerra, perché non cambiano le cose». Non possiamo fare a meno di ragionare su questa frase di Joe Sacco, uno dei primi e più famosi giornalisti grafici. Ma è proprio il giornalismo a fumetti uno degli antidoti più efficaci per ridurre o annullare gli effetti dell’infotainment, della tendenza a mescolare informazione e intrattenimento per narcotizzare il pubblico. Il graphic journalism, il suo spessore letterario e civile, è al centro di uno sfoglio del numero di Left in edicola dal 17 maggio con illustrazioni di Simona Binni, Gianluca Costantini, Vittorio Giacopini, Fabio Magnasciutti (che ha realizzato anche la copertina), articoli di Checchino Antonini (giornalista e autore, fra l’altro, con Alessio Spataro di Zona del silenzio, graphic novel sul caso Adrovandi pubblicata da Minimum Fax); Stefano Piccoli, direttore dell’Arf di Roma (e docente di graphic journalism alla Scuola romana dei fumetti); Amarilda Dhrami che intervista la giovanissima artista italo-tunisina Takoua Ben Mohamed. A chiudere lo sfoglio l’anticipazione di Nellie Bly, di Luciana Cimino e Sergio Algozzino che raccontano per Tunué la vera storia della prima donna giornalista a occuparsi di cronaca nella seconda metà dell’Ottocento.

È il tempo delle sperimentazioni, della contaminazione fra i generi e i media. Ma questo deve essere indirizzato verso il rigore dell’inchiesta. Il giornalismo, anche quello a fumetti, è la costruzione di un punto di vista perché i reportage di guerra riescano a cambiare le cose, producendo consapevolezza, intercettando le mobilitazioni. Quello che è successo, solo per fare un esempio, con le vicende di malapolizia nelle quali sia le narrazioni sia le attivazioni dal basso hanno giocato un ruolo perché si smuovessero le indagini e venissero demistificate le versioni ufficiali degli apparati.

Per questo il graphic novel Il buio. La lunga notte di Stefano Cucchi (Round Robin editrice) – che fa il punto sulle indagini relative agli oltre nove anni di processi sul caso Cucchi, tra presunte bugie, depistaggi, verbali “corretti” e relazioni falsificate – è stato scelto per riportare al Parlamento europeo l’anomalia italiana costituita dalla tradizionale frequenza di casi di police brutality ancora più inquietante da quando c’è un ministro dell’Interno che va in giro travestito da poliziotto. A promuovere l’iniziativa è stata Eleonora Forenza (parlamentare europea, candidata per La sinistra alle imminenti europee) cresciuta nella stagione dei movimenti sociali e attentissima alle questioni della repressione. Left anche quel giorno era Bruxelles e ha realizzato questa intervista negli studi televisivi dell’Europarlamento, con Eleonora Forenza, Floriana Bulfon, giornalista d’inchiesta e autrice del graphic novel e Luigi Politano di Round Robin.

Riace: hanno fatto il deserto e l’hanno chiamato giustizia

Ne hanno fatto il loro scalpo. Il ministro dell’inferno e i suoi sodali hanno preso Riace, l’hanno piallata, disabitata, l’hanno esclusa dal sistema Sprar, ne hanno fatto il deserto, hanno interrotto tutte le buone pratiche attive, l’hanno fatta ritornare quel paese diroccato e fantasma che era, ne hanno spento l’entusiasmo, hanno spento le attività, interrotto la solidarietà, e ci hanno detto che lo facevano per noi, che era tutta questione di giustizia.

Oggi il Tar dice che era tutto sbagliato (ma va?) e lo dice a parole chiare. “Il ministero, secondo i giudici, ha violato le regole di gestione dei progetti contenute nelle linee guida dell’agosto 2016 – spiega Nazarena Zorzella, avvocato membro dell’Associazione degli studi giuridici sull’immigrazione che ha presentato il ricorso – Quando il ministero rileva criticità deve contestare ogni specifica violazione e dare un termine per il superamento delle stesse. E non l’ha fatto”. La decisione infatti si fonda essenzialmente sulla circostanza, evidenziata dai difensori del Comune, che a Riace a dicembre sia stato autorizzato il finanziamento per il triennio “2017-2019, in prosecuzione del triennio precedente senza avere comminato penalità, e dall’altro, quasi contestualmente”, un mese dopo il Viminale “ha assunto un atto che fonda le penalità e, dunque, la revoca su criticità afferenti al precedente triennio”. “Il Collegio – scrivono i giudici del Tar – reputa che la contraddittorietà tra la prosecuzione autorizzata a dicembre e la successiva nota di gennaio sia manifesta. L’autorizzazione alla prosecuzione del progetto può, dunque, trovare spiegazione solo con ‘la massima benevolenza dell’Amministrazione’, di cui dà conto la difesa erariale, evidentemente attuatasi mettendo a disposizione del Comune risorse umane e finanziarie, nonostante il riscontrato caos gestionale ed operativo, che emerge con chiarezza dagli atti di causa”.

Non è una cosa da poco visto che qualcuno ipotizza che il comune potrebbe addirittura richiedere i danni all’erario. Roba grossa insomma. Irregolarità. Al solito.

Ma ormai lo scalpo di Lucano e del suo comune sono stati sventolati abbastanza. Va bene così. La retorica è soddisfatta. E chi se ne fotte delle persone. No?

Buon mercoledì.

Prelevare i soldi di un morto

ATM insert card

È successo a Roma e mi ha lasciato un misto di dolore, nausea, orrore per quello che siamo e la consapevolezza che la natura umana, per quanto vasta sia, nasconda una ferocia recondita che andrebbe curata con un mondo strutturalmente diverso da quello che siamo.

A Roma muore un ciclista. Succede spesso, soprattutto nelle grandi città. Fulvio Di Simone aveva 54 anni, due figli, una donna che prova a reggere l’urto del dolore e una famiglia che si stringe intorno alla prematura scomparsa di un uomo che con la sua bicicletta è stato investito da un camion sulla Tiburtina. Fin qui sembra una storia normale, dolorosa ma normale, come molte altre. E invece no. Il marcio deve ancora arrivare.

Nel suo portafoglio Fulvio teneva il suo bancomat e il codice bancomat scritto su un foglietto. Sono tante le persone, soprattutto anziane, che si avvicinano agli sportelli e poi con circospezione tirano fuori un foglio, come un reperto, attenti a non essere osservati da nessuno, per non essere traditi dalla memoria fallace. Li vedi mentre frugano nella borsa o nel borsello, fingendo indifferenza, come se quel numero fosse il segreto più recondito che gli sia mai capitato nella vita. Quando mi capita di essere preceduto da qualcuno di loro faccio due passi indietro, loro si rassicurano e sorridono come per chiedere scusa della loro poca maneggevolezza con la modernità.

Fulvio Di Simone stava esalando i suoi ultimi respiri quando qualche vampiro ha pensato bene di rubargli il portafoglio, rubare il portafoglio a un ormai morto, e correre allo sportello dell’Unicredit di Monti Tiburtini per prelevare tutto il prelevabile. Due volte 250 euro. 500 euro in tutto. Con l’aiuto di quel foglietto e mentre quell’altro moriva.

Mi viene da pensare alla stanchezza di chi deve fare una denuncia così, con un marito morto, verso i vampiri. Di chi è perso tra dolore, funerali e spiegazioni da dover dare ai figli con il peso di sapere che tra i soccorritori che si affannavano qualche avvoltoio ha pensato bene di sfruttare il disordine dell’impatto per raccattare anche le ultime gocce di contante, insieme al sangue che si spargeva per terra.

E la morale della storia non so nemmeno se c’è, in una vicenda del genere, eppure spacca il cuore. Perché è una storia minima che contiene tutti gli ingredienti della ferocia. Di quella ferocia che è così vasta, di cui siamo circondati, che è dappertutto. E verrebbe solo voglia di dire basta. Basta. Basta.

Buon martedì.

Lettera aperta a Salvini da una lavoratrice dell’accoglienza

«La libertà è una sola e le catene imposte a uno di noi pesano sulle spalle di tutti» (Nelson Mandela)

Mi chiamo Camilla, ho 26 anni e sento l’impellente esigenza di gettar luce sul cataclisma che si sta abbattendo sul sistema italiano di accoglienza dei richiedenti asilo. Cataclisma che in pochi – pochissimi – stanno raccontando, e che invece dovrebbe interessare tutti quanti per le implicazioni sociali, politiche, morali che inevitabilmente porta con sé.

Dal 2017 lavoro come operatrice legale nei Centri di Accoglienza Straordinaria, che fanno parte del circuito cosiddetto “di prima accoglienza” gestito dalle Prefetture. La mia mansione consiste nell’orientare e supportare i richiedenti asilo nell’arco di tutto l’iter burocratico, dalla formalizzazione della richiesta di protezione internazionale in Questura fino all’eventuale ricorso dopo il diniego da parte della Commissione Territoriale responsabile della valutazione delle domande. Il mio è un lavoro delicato e complesso, che comporta un’inevitabile condivisione di vissuto umano con ciascun richiedente ed un conseguente carico emotivo non da poco. Per gestire al meglio un ruolo di questo tipo servono chiaramente delle competenze specifiche: parlo inglese, ho una laurea e due specializzazioni, nonché svariati corsi di formazione e aggiornamento. Inutile dire che, nonostante le difficoltà e le fatiche, amo moltissimo il mio lavoro e non riesco, non posso immaginarmi a fare altro.

Eppure fra due mesi tutto questo finirà. Perché sono state fatte delle scelte politiche ben precise, è stata dichiarata guerra “all’invasore nero” e il sistema di accoglienza è di fatto stato smantellato a suon di slogan e decreti sicurezza di dubbia costituzionalità. Ma non sono dispiaciuta per me: sono giovane, mediamente intraprendente e probabilmente in qualche modo me la caverò. Quel che mi fa male, ma male davvero, è la situazione nel suo insieme.

Un paio di settimane fa alla trasmissione Otto e Mezzo Marco Damilano, riprendendo una notizia riportata da Avvenire, chiedeva conto al ministro Di Maio degli ingenti tagli operati sui fondi destinati all’accoglienza. La risposta mi ha lasciata di stucco: Avvenire riporta informazioni basate solo ed esclusivamente su dichiarazioni rilasciate dal ministro Salvini, noi non abbiamo tagliato nulla.

Poche ore prima, nel pomeriggio, i coordinatori della cooperativa per cui lavoro ci avevano comunicato la volontà di non partecipare al nuovo bando pubblicato dalla Prefettura. I Centri di Accoglienza Straordinaria in cui lavoro sono gestiti secondo il modello dell’accoglienza diffusa: ciò significa che sono appartamenti che ospitano poche persone, tendenzialmente ubicati nel centro o in prossimità delle cittadine in cui si collocano, ed implicano un margine di gestione della vita domestica molto più ampio ed autonomo rispetto a quello normalmente accordato in altre strutture. Si tratta di un modello che generalmente funziona, perché consente un fisiologico “assorbimento” dei nuovi arrivati nel tessuto sociale locale, facilitando moltissimo l’incontro e la conoscenza con i residenti. Posso dire di aver assistito in prima persona a cambiamenti radicali di approccio da parte degli abitanti locali, che hanno totalmente abbandonato diffidenze e pregiudizi dopo aver imparato a conoscere i nuovi vicini di casa. Ebbene, per questa tipologia di centri il nuovo bando – interamente elaborato dal ministero dell’Interno ed imposto a tutte le Prefetture d’Italia senza distinzioni – prevede un taglio drastico dei fondi, che passano da 35 a 18 euro pro capite pro die. Questi 18 euro, secondo il ministero, dovrebbero andare a coprire il canone di affitto degli appartamenti, i costi delle utenze, la spesa settimanale al supermercato e il pagamento del personale impiegato nei servizi (operatori, assistenti sociali, psicologi, operatori legali, ecc.). In altre parole: una vera e propria presa in giro, un palese tentativo di boicottare una gestione intelligente ed efficace dell’accoglienza.

Invito tutte e tutti a verificare personalmente le condizioni imposte dai nuovi bandi, facilmente consultabili sui siti internet delle Prefetture.

Il risultato immediato di tutto questo è che in molte province d’Italia i bandi stanno andando deserti. Cooperative ed associazioni si sono accordate per non presentarsi, in modo da mandare un messaggio chiaro al Governo: accettare condizioni economiche simili significherebbe compromettere gravemente la qualità dei servizi, con pesantissime ripercussioni sia sugli accolti (pessime condizioni igienico-sanitarie, servizi di supporto scarsi o assenti) che sui lavoratori (sottopagati, nella migliore delle ipotesi; licenziati nella peggiore).

E il ministro Salvini come commenta?

«Se siete generosi accogliete anche con meno soldi, oppure accoglievate per far quattrini? Mi viene il dubbio che qualcuno accoglieva per far quattrini non perché aveva il cuore buono e generoso».

Al ministro vorrei rispondere che non sono una volontaria, sono una lavoratrice qualificata e ritengo a dir poco vergognoso che il massimo esponente di quello stesso ministero che gestisce l’accoglienza faccia affermazioni simili. Credo di parlare a nome di tanti miei colleghi dicendo che mi sento infamata e umiliata pubblicamente. Per anni noi lavoratori impiegati nell’accoglienza siamo stati usati per gestire quella che veniva spacciata come “un’emergenza”, usati per arginare alla bell’e meglio un fenomeno sociale senza che mai si pensasse ad interventi seri e strutturali, usati e sottopagati per mediare e sopperire alle carenze di istituzioni impreparate e incompetenti, usati all’occorrenza per strumentalizzazioni varie ed eventuali. E ora gettati via come se nulla fosse. Le stime parlano di quasi 20mila lavoratori, perlopiù giovani. Persone qualificate, competenti, che credono in quello che fanno e lo fanno bene, nonostante lo scarso ritorno economico in busta paga. Dopo il danno, pure la beffa: siamo sull’orlo del baratro, in tantissimi stiamo per perdere il lavoro e tutti i giorni dobbiamo sorbirci calunnie su calunnie sputate malamente qua e là per beceri fini politici.

A lei, signor ministro, vorrei dire che da interna al sistema di accoglienza riconosco le innumerevoli pecche e falle e sono la prima sostenitrice di una riforma organica, che porti trasparenza e trattamenti dignitosi da parte degli enti gestori nei confronti di accolti e lavoratori. E proprio per questo, signor ministro, mi ostino ad affermare che la sua riforma del sistema di accoglienza è un mero strumento propagandistico spacciato al popolo disinformato come risolutivo, ma che in realtà esaspererà gli annosi problemi che abbiamo purtroppo imparato a conoscere. Perché ridurre drasticamente in questa maniera i fondi significa spazzar via le esperienze di accoglienza diffusa, quelle che funzionano e che dimostrano che sì, si può fare, possiamo convivere e anche bene, senza paure e senza pregiudizi, innescando processi virtuosi che siano di beneficio a tutti. Al contrario, con quei 18 euro si incentiva l’apertura delle uniche strutture che potranno sopravvivere con fondi così scarni: i maxi agglomerati, ghetti-dormitorio auspicabilmente isolati dai centri cittadini, privi di servizi di supporto. Un boccone ghiotto che farà sgomitare mafie e delinquenti vari. Delle bombe sociali pronte ad esplodere, in altre parole. L’ennesima fonte di tensione – questa volta vera – che andrà ad aggiungersi agli innumerevoli problemi che già affliggono questa Italia esangue. A quel punto, signor ministro, dopo aver portato a termine il piano, potrà dirlo: ecco, avevo ragione, sono sempre i neri a portare i problemi, ora più che mai avete bisogno di me e del mio pugno duro.

Rivolgo quindi un disperato appello a tutte e tutti, prima che sia troppo tardi: leggete, informatevi, pensate! Non fatevi fregare così facilmente, non credete a queste semplicistiche promesse di sicurezza e benessere per “noi” a scapito “loro”. Come diceva Mandela, la libertà è una sola e le catene imposte a uno di noi pesano sulle spalle di tutti.

È davvero questa la società che volete lasciare in eredità ai vostri figli? Spaventata, arrabbiata, divisa?

In ultimo, rivolgo un sentito appello a tutte le pseudo sinistre che tanto si affannano alla ricerca di una nuova identità.

Lavoro con i richiedenti asilo e i rifugiati solamente da due anni, ma ho avuto l’opportunità di incontrarne – e conoscerne – tanti. Spesso nel dibattito pubblico chi si erge a paladino dell’accoglienza argomenta sostenendo che “rifiutare di accogliere dei poveracci che scappano da guerre e miserie è inumano”. Ecco, se c’è una cosa che ho imparato con il mio lavoro è che i migranti non chiedono di essere compatiti, non vogliono pietà. Invocano rispetto. Rispetto per la loro dignità in quanto esseri umani e rispetto per i loro diritti. In primis il diritto alla mobilità, oggi quasi esclusivo appannaggio di chi possiede un passaporto occidentale.

Quindi smettetela e smettiamola di descrivere il migrante, il richiedente asilo, il rifugiato, lo straniero in generale come un essere fragile e indifeso che aspetta solamente di essere salvato e cominciamo a considerarli per quello che realmente sono: resistenti, preziosi e indispensabili compagni nella lotta per la costruzione di una società più equa ed egualitaria.

Esistiamo e resistiamo, sempre.

Quindi ora sospendono anche il professore dell’Onu?

Migrants on a rubber dinghy are approached by Sea-Watch rescue ship's staffers in the waters off Libya Wednesday, April 3, 2019. The German humanitarian group Sea-Watch says the ship it operates in the central Mediterranean Sea has rescued 64 migrants in waters off Libya. Sea-Watch wrote Wednesday on Twitter that the people brought to safety from a rubber dinghy included 10 women, five children and a newborn baby. The group said it carried out the rescue off the coast of Zuwarah after Libyan authorities couldn't be reached. Sea-Watch is asking Italy or Malta to open a port to the rescue ship, the Alan Kurdi. (Fabian Heinz/Sea-eye.org via AP) [CopyrightNotice: Sea-eye.org]

Che Paese l’Italia, quest’Italia, questa che stiamo vivendo come se fosse un buco nero da cui sembra impossibile uscire e che si sbraccia per un manifesto, una contestazione pacifica a violenti protofascisti oppure che si mette a perquisire uno travestito da Zorro. Roba da teatro se non fosse che le vite sono vere, le sofferenze sono vere, le disperazioni sono vere e che intanto il tassametro della ferocia continui a mietere vittime, vere.

Ora interviene addirittura l’Onu per chiedere (a chi?) di mettere un freno alle politiche di Salvini e in particolare modo al cosiddetto Decreto sicurezza bis che «fomenta il clima di ostilità e xenofobia», «viola le convenzioni internazionali». Dice L’Onu che il ministro dell’Interno Salvini alimenta la xenofobia e che non vengono rispettati, qui da noi, i diritti dei rifugiati.

Tutte cose che scriviamo da mesi e che ripetiamo ogni giorno, tutti i giorni. Qui non è solo questione di umanità o di buonismo come dicono i cattivisti: qui è questione di regole che l’Occidente si è dato da secoli e che vengono regolarmente violate, qui si tratta di leggi che non vengono rispettate, qui siamo di fronte a diritti calpestati. Non si tratta solo di essere razzisti: si tratta di essere al di fuori dei limiti della legge, della Costituzione e dei trattati internazionali e ben venga che anche l’Onu si svegli e lo scriva nero su bianco.

Mi sorge però un dubbio, una domanda spontanea: se alle stesse conclusioni dell’Onu erano già arrivati qualche giorno fa quegli studenti di Palermo (che quindi hanno “di fatto” anticipato la lettera Onu) e si sono ritrovati la professoressa sospesa da un servizievole direttore scolastico ora il provveditorato di Palermo sospenderà anche l’Onu? Così per sapere. Anche perché proprio di questo si parlava nella tesi dei ragazzi: di una discriminazione che riporta alla mente i tempi bui di ben altre discriminazioni e l’indifferenza che già nella storia ha provocato danni incalcolabili.

Oppure anche nel campo delle punizioni vale il famoso detto prima gli italiani?

Buon lunedì.

Con la Pecora Elettrica per opporsi all’intolleranza

Roma, quartiere Centocelle, periferia est della Capitale. Nella notte tra il 24 e il 25 aprile scorsi la Pecora Elettrica, una piccola libreria-caffetteria di zona, viene data alle fiamme. Quando i proprietari arrivano sul luogo, allertati dal vicinato, lo spettacolo è tanto doloroso quanto chiaro. I pochi soldi in cassa non sono stati toccati, un pc è stato rubato, mentre il rogo ha divorato in un colpo solo buona parte dei libri e del locale. Polizia e carabinieri parlano di tracce di benzina, riconoscendo fin da subito la matrice dolosa dell’evento. Un attacco vile, che avrebbe anche potuto mettere a rischio l’incolumità di alcune persone in quanto il locale è situato al piano terra di un palazzo densamente abitato. Perché tutto questo? «Non ne abbiamo idea – racconta a Left Danilo, proprietario insieme ad Alessandra della Pecora Elettrica – non c’è stata nessuna rivendicazione, non avevamo mai avuto minacce prima. È difficile capire. Sicuramente la data ci ha fatto pensare ad una matrice politica visti anche i temi delle nostre iniziative passate. Penso agli eventi dedicati alle varie esperienze di resistenza nel mondo o a quelli in cui abbiamo raccontato le tante storie delle partigiane a Roma. Credo però che l’indizio del 25 aprile sia solo una parte. L’intento di chi ci ha attaccato era quello di farci chiudere per sempre, ponendo fine a tutto quello che stavamo facendo». Andando a colpire l’identità (i libri, quindi la cultura) e la conseguente attività di questo locale, piccolo solo nelle dimensioni, che negli ultimi due anni e mezzo ha portato avanti un lavoro di coinvolgimento e coesione sociale, diventando un punto di riferimento del territorio e non solo. «Siamo sempre stati uno spazio aperto – continua Danilo – dove persone e realtà che prima non si conoscevano si sono incontrare, facendo rete e dando vita a progetti: il Comitato che ha risistemato il parco davanti al locale o i vari professionisti che hanno ideato da noi spettacoli come quello sulla Resistenza delle donne a Roma durante l’occupazione nazifascista. Abbiamo ce…

L’articolo di Simone Schiavetti prosegue su Left in edicola dal 17 maggio 2019


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Il senso di Israele per la calma

GAZA CITY, GAZA - APRIL 3: Palestinian fishermen return at port after fishing as Israel increases fishing zone for Palestinian fishermen off Gaza's coast in Gaza on April 3, 2019. (Photo by Ali Jadallah/Anadolu Agency/Getty Images) (Photo by Ali Jadallah/Anadolu Agency/Getty Images)

Tre giorni di fuoco, poi la calma surreale: Gaza è passata in poche ore, all’alba di lunedì 6 maggio, dall’inferno dell’ennesimo attacco al limbo soffocante dell’assedio. È appena iniziato il Ramadan, il primo giorno è trascorso sotto le bombe. Nei giorni successivi all’operazione israeliana ribattezzata “Calma permanente” tante famiglie hanno rotto il digiuno al tramonto sopra le macerie delle proprie case distrutte, mentre le scuole riprendevano le lezioni e i negozi riaprivano le saracinesche.
Chi ha perso un parente o un amico è entrato nel mese sacro con un macigno in cuore. Ahmad al-Madhoun ha 34 anni: ha perso la moglie Amani, incinta al nono mese, il padre Akram, il fratello Abdullah di 21 anni e il cognato Fadi. Tutti sepolti sotto le macerie della loro casa, completamente distrutta da un caccia israeliano. Ahmad era in giardino, se l’è vista crollare davanti. Gli restano due figli, Mahmoud di tre anni e Fatima di due, il primo in terapia intensiva.
In quei tre giorni di fuoco sono stati uccisi dall’esercito israeliano 27 palestinesi. Tra loro Maria al-Ghazali, una bambina di soli 4 mesi, e i genitori Ahmad ed Eman: Ahmad stava preparando le valige, voleva portare la famiglia a casa del fratello. Saba Abu Arar di mesi ne aveva 14: è stata uccisa con la madre Falastin. Il corpo senza vita di un altro bambino di 12 anni, Abdul Rahman, è stato recuperato dal fratello maggiore qualche ora prima dei cadaveri dei genitori, Raghda Abu al-Jadyan e Talal Abu al-Jadyan, sotto i cinque piani del palazzo in cui si trovava il loro appartamento.
Negli stessi giorni i 700 razzi palestinesi lanciati verso lo Stato di Israele hanno ucciso quattro persone: Ziad Alhamamda, 49 anni, Pinchas Prezuazman, 22, Moshe Agadi, 58, e Moshe Feder, 64. L’escalation di violenza, ricominciata dopo anni di operazioni israeliane e fragili cessate il f…

L’inchiesta di Chiara Cruciati prosegue su Left in edicola dal 17 maggio 2019


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È il graphic journalism, tra arte e realtà

L’aria di insurrezione (e di lacrimogeni) che si respira in Francia, Simon Veil e la lotta per l’autodeterminazione delle donne, l’industria che non conosce la crisi – quella delle armi: 200mila posti di lavoro e 4mila piccole e medie imprese solo in Francia – infine, i treni fantasma, le linee minori che stanno per essere tagliate da Macron in nome della redditività: è il sommario del numero primaverile di un trimestrale francese che a prima vista non sembra diverso da quello di una puntata di Report o di un settimanale d’inchiesta come Left solo che si tratta della Revue dessinée, giornalismo a fumetti, 228 pagine realizzate da coppie di autori, 20mila copie di tiratura e 6mila abbonati. Non esiste in Italia un’esperienza del genere, anzi, non esiste più, perché per alcuni anni ha funzionato Mamma (“Se ci leggi è giornalismo – diceva lo slogan redazionale – se ci quereli è satira”) autoprodotta dagli autori di una generazione incastrata tra la crisi della carta stampata e la gerontocrazia nelle stanze dei bottoni dell’editoria. «Tra le firme quelle di Mauro Biani, Makkox, ZeroCalcare – ricorda Carlo Gubitosa, che ne è stato il trascinatore -, Mamma (si può trovare cliccando mamma.am) ha avuto il suo ciclo, ha raggiunto il limite di quello che può fare un gruppo di autori nel Paese in cui il “quasi” monopolio Mondadori-Messaggerie è soffocante». Eppure quel pubblico esiste come dimostrano i cataloghi di marchi come Becco giallo, Round robin, Tunuè, una ricchezza che sarà visibile all’Arf, il festival del fumetto in programma a Roma dal 24 al 26 maggio.
«Kobane calling, il reportage a fumetti di ZeroCalcare dal Rojava, è stato l’unico fumetto ad essere primo nelle classifiche dei libri più venduti, impensabile in Italia fino a quel momento, un segnale che solo in parte è stato raccolto con l’ingresso del comics journalism negli spazi della stampa periodica italiana», dice a Left Gubitosa, autore per i tipi di Npe di Il giornalismo a fumetti. Raccontare il mondo col linguaggio della nona arte, via d…

L’articolo di Checchino Antonini prosegue su Left in edicola dal 17 maggio 2019


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