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Lenin, ritratto d’autore

«Quanto scritto da me su di lui subito dopo la sua morte, è stato redatto in condizione di grande abbattimento, di fretta e male. Alcune cose, non sono riuscito a scriverle per questioni di “tatto”, spero perfettamente comprensibili. Acuto e saggio era quest’uomo, ma “nella grande sapienza, c’è grande dolore”». Con questa citazione dall’Ecclesiaste Maksim Gor’kij, scrittore noto in tutto il mondo, nel 1930 inizia il laborioso rifacimento del saggio che aveva steso a fine gennaio 1924, sull’onda dell’emozione per la morte di Lenin. La notizia lo aveva raggiunto a Sorrento, nella dolce terra partenopea dove ancora una volta, e proprio su consiglio di Lenin, aveva cercato ristoro alla sua salute non solo fisica, mettendosi al riparo dalle violente tempeste che sconvolgevano la patria russa. L’artista lo aveva intitolato, allora, semplicemente Čelovek (Un uomo), scegliendo di disegnare il ritratto privato dell’uomo, lasciando ad altri il necrologio ufficiale: «Non è mio compito parlare di Vladimir Lenin politico».
Lo aveva visto per la prima volta a Pietroburgo nel 1905, a una riunione del Comitato centrale del Partito socialdemocratico. Ma Lenin aveva compreso da tempo quanto potesse essergli prezioso l’appoggio dello «scrittore proletario», amico di Tolstoj e di Čechov, e dalla Svizzera si era schierato a suo favore già nel 1901, quando era stato arrestato dalla polizia zarista.
Dopo alcune pubblicazioni parziali in Russia, la prima stesura integrale del saggio, uscita a Berlino nel 1927, fu dimenticata in favore di quella canonica, redatta in piena epoca staliniana, uscita nel 1931 e poi tradotta e divulgata in tutto il mondo. È merito di Marco Caratozzolo, slavista e docente di Lingua e letteratura russa presso l’Università di Bari, averci offerto la prima traduzione italiana del saggio originale Lenin, un uomo (Sellerio) con una nota introduttiva, che inquadra tutte le vicissitudini del testo, completata da una preziosa tavola delle varianti e da un’appendice dei passi del 1931 non presenti nelle edizioni pubblicate dal 1924 al 1927.
In Italia, nota Caratozzolo, il saggio del 1931 con le frasi altisonanti della retorica di regime è reperibile in traduzioni vecchie mezzo secolo, che sarebbe utile rifare. Occorre diffondere una conoscenza filologicamente corretta di quel periodo storico cruciale, aggiunge, perché i ragazzi di ora credono solo che Lenin fosse il buono e Stalin il cattivo. Ad esempio è istruttivo apprendere che un autore era rispettato anche affinché non scrivesse certe cose. Così l’affermazione di Lenin che ogni leader deve essere un dittatore, presente nella versione del 1924, scompare nel 1931, come la dichiarazione di fiducia nella «bellezza» del popolo russo. Ed è interessante sapere che Lenin e Stalin possedevano entrambi un’edizione tascabile del Principe di Machiavelli, che però utilizzavano sbrigativamente – a differenza dell’originale esegesi gramsciana – per la massima pseudo-machiavelliana “il fine giustifica i mezzi”.
Gor’kij e Lenin si erano poi incontrati, negli anni dell’esilio, a Londra per il Congresso del Partito operaio socialdemocratico russo. Ma tra i due grandi il rapporto non fu mai facile. Dopo il fallimento della rivoluzione del 1905, nell’aspra contesa di Lenin con Bogdanov, che sosteneva la necessità della formazione di un’autonoma cultura proletaria come prerequisito necessario alla rivoluzione, Gor’kij con gran parte degli artisti del tempo si era schierato con il filosofo dell’Empiriomonismo. La battaglia era continuata, come Gor’kij rievoca con pagine colorite, a Capri. Là nel 1908 Gor’kij aveva invitato Lenin nel tentativo, finito male come la celebre partita a scacchi, di comporre il dissidio sull’istituzione della prima scuola per operai. Lo scontro con il «bolscevico di sinistra» e la «combriccola di letterati», accusati da Lenin di essere «controrivoluzionari», era culminato nell’espulsione di Bogdanov dal Centro bolscevico. A Capri Lenin era tornato nel 1910, ospite di Gor’kij, che tuttavia ancora in un articolo del 7 novembre 1917 avanzava dubbi sul leninismo: «Lenin, Trockij e i loro compagni di strada si sono già intossicati con il putrido veleno del potere, cosa che si riflette nel loro vergognoso atteggiamento verso la libertà di parola, della persona e verso tutti quei diritti per la cui conquista si è battuta la democrazia. … Ecco dove sta conducendo il proletariato il suo odierno capo, e bisogna comprendere che Lenin non è uno stregone onnipotente, ma un prestigiatore dal sangue freddo, che non risparmia né l’onore né la vita del proletariato».
Nei mesi successivi alla presa del potere, tuttavia, lo scrittore accettò di avvicinarsi a Lenin assieme a Lunačarskij, nominato commissario alla Cultura. Bogdanov invece, che nei mesi precedenti aveva fondato il Proletkult, declinava con un’articolata risposta l’invito del cognato a seguirli, ribadendo le ragioni della critica a una rivoluzione destinata a deteriorarsi rapidamente, perché fondata sul determinismo economico e sull’alienazione religiosa. Anche le perplessità di Gor’kij erano rimaste: «Ma io temo che anche l’amore per Lenin in molte persone non sia altro che la fede oscura che i perseguitati e i disperati nutrono per un taumaturgo, quell’amore che attende il miracolo, ma che non fa niente per incarnare la propria forza nel corpo della vita». E vogliamo qui ricordare che, sui due momenti cruciali della rivoluzione bolscevica, ulteriori spunti di riflessione offrono gli articoli di Gramsci “La rivoluzione contro il Capitale”, uscito il 1° dicembre 1917 ne Il Grido del Popolo, e “Capo”, pubblicato in morte di Lenin il 1° aprile 1924 ne L’Ordine Nuovo.
Così a quasi un secolo di distanza si arricchisce di una tessera importante il mosaico sommerso del decisivo scontro sulle alternative al marxismo-leninismo che, fattosi dottrina assoluta, duramente avversò, poi con Stalin perseguitò anche fisicamente ed eliminò ogni traccia di dissenso dalla storiografia ufficiale. Dal 1927 al 1931, mano a mano che il totalitarismo si irrigidiva, la versione iniziale del saggio era sottoposta a occhiute censure e opportune revisioni, mirate alla mitizzazione di Stalin e alla demolizione dei suoi avversari. Con innesti di fonti esterne, la biografia di Lenin divenne sempre più “politica”, perdendo l’originalità anche affettiva della prima stesura. Scomparve l’umanità di Lenin, raccontata nel bene e nel male dalla penna di Gor’kij attraverso le sue risate contagiose, i momenti di tenerezza, le esitazioni. Ma anche le esplosioni di furore, e la capacità di essere crudele, insofferente alle ragioni della clemenza, a cui lo richiamava Gor’kij. Perché a Stalin la figura di Lenin, che nel testamento lo aveva giudicato brutale e inadatto alla successione per la feroce rivalità con Trockij, serviva a legittimare il proprio potere, ma non doveva fargli ombra. Andava ridotta ad icona, santificata come la salma imbalsamata del padre della rivoluzione, esposta all’adorazione delle moltitudini nell’imponente mausoleo della Piazza Rossa. Edificato nel 1929 lungo le mura del Cremlino, ove sono allineate le sepolture dei grandi della storia sovietica, dal primo proposito di Boris Eltsin ad oggi nessuno ha ancora ha osato toglierlo, destinando le spoglie a giusta sepoltura. Impressionante monumento individuale della Rivoluzione d’ottobre, il più significativo evento della storia collettiva moderna, resta come simulacro e garanzia dell’unità di tutte le Russie. E intanto Putin, assieme al culto di Stalin, con la ricostruzione della gigantesca cattedrale di Cristo Salvatore fatta saltare in aria nel 1931, rinnova anche quello della Chiesa ortodossa.
Quel minuzioso lavoro di riscrittura, come Caratozzolo ci rivela, costò un’insolitamente sofferta lavorazione a Gor’kij. Lo scrittore sarebbe morto nel 1936 in circostanze oscure, avendo messo a dura prova nell’ardua dialettica con la dittatura staliniana gli anticorpi di quel «sangue sano» che il poeta Aleksandr Blok gli aveva riconosciuto.

L’articolo di Noemi Ghetti è stato pubblicato su Left del 26 aprile 2019


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Fascismo in Italia: La mappa delle aggressioni e degli attentati terroristici dal 2014 al 2019

Mappa cronologica e geografica delle aggressioni fasciste, con indicazione dei gruppi responsabili o presunti tali, e relative fonti. Dal 2014 ad oggi. La mappa è a cura di Info Antifa, un progetto nato all’interno del network Isole nella rete, ed è aggiornata continuamente.Consulta la mappa su Google e il relativo elenco delle aggressioni e degli attentati > http://bit.ly/2GNnMKnPer segnalazioni e comunicazioni: [email protected]. Su Twitter: @InfoAntifa

Liberté et libération, le fondement antique de la mémoire

À l’occasion de la fête du 25 avril [fête de la libération du fascisme en Italie], nous republions cet article du psychiatre de l’Analyse collective paru dans Left le 27 Avril 2012.

Et la directrice éditoriale dit : Vingt-cinq raisons pour une libération. 25 avril : un nombre, un mot devinrent, immédiatement, un faisceau de lumière intense qui effacèrent toutes les choses qui étaient autour de moi. Dans la pensée il y avait seulement des images. L’une dessinait un petit garçon au milieu des grands qui entendait la déclaration de guerre de Mussolini. L’autre dessinait la place médiévale de Fabriano où un gamin, au milieu d’une foule écoutait la voix qui hurlait: Libération. Il avait quitté la vie libre qui le voyait courir dans les champs et les collines, caresser les chevaux et les vaches, en cachant la force de l’opposition et le refus conscient.
Personne ne le regardait et lui, faisait le solitaire étrange qui, irresponsable, n’était jamais à la maison et voulait ne pas être vu. Il allait, en vérité, susurrer et crier aux jeunes paysans, qui avaient un gros jouet qui s’appelait mitraillette, “Cours cours”. Arrivèrent ensuite les soldats anglais, américains et polonais et il revint avec la famille, dans la ville. Il sortait de la maison et voyait, devant lui, la route droite qu’il parcourait calmement. Il ne rencontrait, “par hasard”, plus Gianna, la gamine à la tresse noire avec laquelle il avait joué avant la guerre. Il allait sur la place centrale pour revoir ce 25 juillet 1943 quand libération fut jeter la grosse tête en plâtre de Mussolini du haut des remparts du blanc château de la Renaissance. Le 25 avril 1945 il était revenu depuis quelques jours après avoir été opéré de l’œil blessé par un geste étrange, incompréhensible, d’un camarade d’école. Et le gamin qui, seul sortait de la maison, n’avait plus la solitude de quand il courait dans les champs et les collines et, caché par les buissons et les arbres, criait aux embusqués que l’on ne voyait pas et qui semblaient n’être personne, “Ils arrivent, ils arrivent”. Il me l’avait dit mon père qu’il entendait les voix quand il soignait les malades et opérait les blessés.
Maintenant, revenu à la normalité d’une vie sans aventure et le risque de mourir, il pensait et observait en silence le mouvement des êtres humains semblable à lui-même. Mais je suis sûr que la mémoire des champs et collines, des troupeaux et bovins, de la vie simple des paysans n’était pas perdue. Maintenant oubliée, la vie “autre” qui, après les 6-7-8 ans s’était recréée à 12-13 semblable et, peut-être, différente. Et je me remémorais en regardant depuis la loge de San Francesco le mouvement des autres qui se promenaient, les troupes nazi-fascistes qui débarquaient dans les maisons, le jour, dans un grand vacarme. Je me remémorais les troupes partigiane1 qui débarquaient, la nuit, en silence, dans les maisons. Et, lorsqu’ils dirent : les femmes et les enfants à gauche, les hommes à droite, je demandai : moi je vais où ? Il sourit. Et, en ce temps-là, c’était une sympathie qui avait en soi la pensée qui refusait le nazi-fascisme, nonobstant que toute l’enfance avait eu lieu sous le régime et la soi-disant culture fasciste. Maintenant je pensais et cherchais à comprendre la différence entre les deux troupes aux habits différents, à l’absence de sourire des nazi-fascistes avec lesquels je n’ai jamais parlé. Quand ils tiraient ils semblaient identiques mais mon corps avait une répulsion d’antipathie pour les nazi-fascistes, sympathie et joie à être avec les partigiani. Je me demandais, assis sous les arcs de la loge de San Francesco, quelle était la diversité. Et, peut-être, avant d’arriver à comprendre la pensée et les idéologies qui conduisaient le comportement des uns et des autres, je tentai de « voir » la réalité non manifeste de la pensée. Je pensai aux affects, à la haine et à la rage, et, je n’ai pas le courage de le dire, je vis peut-être que chez les fascistes il y avait la haine froide, chez les partigiani c’était rage… et lutte pour la liberté.
Chez les nazis il y avait un comportement lucide, déterminé par une rationalité froide. Je l’ai peut-être verbalisé après même si, je suis sûr, que chez les nazi-fascistes il n’existait pas le rapport interhumain. L’autre, non égal à soi-même, n’était pas réalité humaine. Il n’était pas différent il était un « non » comme peut l’être la « diversité » entre animé et inanimé. Je savais que chez les partigiani il y avait l’idée d’égalité. Il est nécessaire, maintenant, de demander pardon si écrire ces évènements, n’est pas dû à des souvenirs exacts. Ce sont des mémoires et celles-ci recréent les pensées et les faits, elles ne les reproduisent pas identiques à comme ils ont été perçus. L’enregistrement de ceux-ci passe à travers un oubli qui est une disparition de ceux-ci.
Mais ce n’est pas « comme s’ils n’avaient jamais existé ». Ils disparaissent et réapparaissent. Il y a, dans la pensée qui n’est pas conscience, une intelligence qui est fantaisie. Et maintenant la mémoire me ramène à la pensée les mots « combattants pour la liberté ». Sautant en 1945, vint la fête de la Libération. Et je me demande, et peut-être je me demandai, liberté et libération sont-ils synonymes ? Je vois le No2 qui, explicitement, apparaît. Libération fut un fait politique, une guerre pour la liberté de l’oppression et de la violence nazi-fasciste. La liberté est un mouvement et un processus de l’être qui recherche la vérité de soi-même.
Et peut-être, je me sens désormais loin, j’eus une intuition que j’élaborai ensuite, pendant toute la vie. Je compris, tôt, que la libération obtenue n’était pas liberté de l’être humain. Et je pensai au « connais-toi toi-même » des mots écris dans le temple de Delphes. Et je savais déjà que, pour obtenir la liberté, la connaissance ne suffisait pas. Il était nécessaire une élaboration de ce qui avait été vécu de soi-même. Il était nécessaire une praxis de l’être…né. Je me demandai, à un certain moment de la vie : mais connaît-on la pensée humaine qui n’est pas conscience ? La réponse vint en me rappelant le terme que j’avais toujours lié au fascisme : stupidité. Puis je vis que le terme rationalité avec lequel avait été constituée l’identité humaine, était associé à l’impossibilité de comprendre la pensée qui n’était pas souvenir conscient et langage articulé. Puis je quittai Fabriano et… ce fut une libération, je quittai Venise et ce fut une libération, je quittai Padoue et ce fut une libération, je quittai la société de psychanalyse et ce fut une libération. Je quittai Villa Massimo, Institut de psychiatrie, et ce fut une libération. Mais, certainement, j’avais en moi, et pas seulement dans la pensée mais dans la fantaisie, le mot liberté. Je pense à quand, à six ans, ils m’emmenèrent loin du village natal.

(Traduzione di Corinne Lebrun, con la collaborazione di Federica Amerio et Elena Girosi)

nota 1: Partigiane: adjectif féminin pluriel qui fait référence aux résistants italiens durant la Seconde Guerre mondiale.
nota 2: Dans la langue française il n’existe aucun terme qui distingue le non du refus du non de la négation, distinction qui existe en revanche dans la langue italienne avec les termes No (refus) et Non (négation)

Qual è il limite dello sdoganamento? A proposito del Salone del Libro di Torino

Matteo Salvini ha deciso di pubblicare un libro (in realtà è un libro intervista, in sostanza una diretta Facebook con la carta al posto di Facebook ma con la stessa passione autocelebrativa) con la casa editrice Altaforte, diretta espressione di Casapound. La casa editrice, e il libro di Salvini, saranno presenti al Salone del Libro di Torino. Raimo si è dimesso. Lagioia ha provato a difendersi scaricando tutto (in modo poco elegante) sul reparto commerciale. Qualcuno dice che bisogna presidiare e quindi esserci (lo dice Michela Murgia, ma bisogna però anche valutare chi regala i presìdi, no?) e insomma sta venendo fuori un bel casino. La casa editrice di Pippo Civati, People, sarà presenta con il suo stand, vuoto. E si aspettano le contromosse delle altre case editrici.

In nome della libertà bisogna apirire o chiudere le porte a chi porta avanti l’idea che la libertà vada limitata come fu nel tempo del fascismo? È una bella domanda, è una bella sfida. C’è da capire però che stiamo parlando di un Paese in cui accadono cose come la strage di Macerata, in cui si chiama Stato la Libia torturatrice e infame, in cui si lasciano bollire i migranti al sole mentre si “capiscono” coloro che ingegna al razzismo “perché poveretti sono esasperati e c’è da capirli” e poi ce li ritroviamo a fare (loro) i topi (italianissimi) d’appartamenti o gli stupratori.

Non è un momento normale. Non c’è pace in questo Paese che qualcuno ha volutamente voluto dividere in due macrotifoserie. Allora mi chiedo: ma c’è un limite allo sdoganamento? Perché se i nostri padri costituzionali hanno pensato di limitare l’apologia al fascismo per legge significa che hanno inteso obbligatorio porre il limite mentre chi parla di libertà in fondo rischia di passare dalla parte del liberi tutti.

Qualcuno dice: “Meglio, andiamo lì con spirito antifascista?”. Ma davvero vogliamo la guerra? Ci interessa? Non è il gioco che rende satollo proprio il ministro dell’inferno Salvini che può così spalmare quella stessa acredine che gli ha portato consenso?

La questione è complessa e complicata ma pone (non solo per il Salone) un tema che già più volte è venuto fuori in questi ultimi mesi: qual è il limite tra la difesa della Costituzione e la cosiddetta libertà (buona sempre in tutte le salse?). Perché io, per dire, non ci andrei a una fiera che non mi assomiglia. Anche per pochi metri quadrati. E figurati se ci andrei per ribadire il mio antifascismo lì, in pubblico, dove invece dovrei gustarmi altro.

E allora il buongiorno di oggi lo giro anche a voi, che non siete scrittori, non siete editori e magari nemmeno lettori. Ditemi. Qual è il limite?

Buon martedì.

Le donne hanno aiutato Sánchez a fermare le destre. E ora dicono no a Ciudadanos che in Andalusia governa con Vox

epa07422681 Thousands of people take part in a rally on the occasion of the International Women's Day next to Puerta del Sol in Madrid, Spain, 08 March 2019. Artist perform during a concert held at Puerta del Sol. EPA/David Fernandez

«Haz que pase», «fai che succeda»: lo slogan della campagna del Psoe ben si presta a descrivere l’attuale situazione delle donne nella politica spagnola. Quello eletto il 28 aprile scorso sarà il Parlamento con la più alta componente femminile nella storia della democrazia spagnola: su 350 deputati ben 164 sono donne (il 47%), percentuale che avrebbe potuto superare il 50% se solo Vox e Ciudadanos avessero seguito le medie degli altri partiti. In Spagna l’equa rappresentanza di donne e uomini alla Camera, come in tutti i settori pubblici, è garantita da una legge approvata nel 2007. La cosiddetta “legge dell’uguaglianza” prevede che ogni genere non possa avere una rappresentazione minore del 40% e superiore al 60%.
«No es no e non c’è possibilità che sia sì se la risposta è no». È con queste parole che Pedro Sánchez, premier uscente e prossimo alla riconferma, ha ribadito a più riprese durante la campagna elettorale le sue posizioni a sostegno dei diritti delle donne. Molti sono stati in questi mesi i richiami ai temi femministi, come ad esempio «il corpo di una donna non è un taxi» e «il femminismo non ha come nemico gli uomini ma il machismo». Era da 11 anni, dai tempi di José Luis Zapatero, che il Psoe non vinceva le elezioni politiche. Stavolta la differenza l’hanno fatta Pedro Sánchez e le donne, diventando uno la forza dell’altro: il socialista Sánchez, alla guida del suo primo governo, composto prevalentemente da ministre, aveva già posto al centro del suo programma la questione dei diritti, con la lotta contro le disuguaglianze di genere e contro le violenze machiste. Temi, questi, ripresi con grande forza anche durante l’ultima campagna elettorale. Le donne dal canto loro, finalmente rappresentate sia nei temi sia nelle stanze del potere, hanno risposto presente alla richiesta di partecipare al voto e si sono mobilitate per far sì che il blocco delle destre formato dal Partido Popular, da Ciudadanos e da Vox (che da dicembre governano insieme in Andalusia) non prevalesse il 28 aprile. Aver fermato Vox al 10,2%, nonostante tutto, è un buon risultato, considerando quello che avviene nel resto d’Europa, dove l’ultra destra riesce a fare grande presa nella società. La grande partecipazione delle donne è riuscita a frenare una possibile deriva a destra, permettendo alla Spagna di rimanere una nazione aperta ed inclusiva. La minaccia non era da poco, visto che Vox, guidato dall’ex PP Santiago Abascal, proponeva il ritorno a una Spagna convintamente cattolica, armata, allergica ai diritti delle donne e pericolosamente ammiccante al franchismo. Negli ultimi giorni di campagna elettorale questi argomenti sembravano aver convinto un’importante fetta dell’elettorato e i delusi, tanto che i sondaggisti per paura di non intercettare un “voto occulto” si erano astenuti dal fare previsioni certe e c’era chi era pronto a scommettere che Vox sarebbe riuscito a toccare quota 20%.
Va ricordato che nel Paese iberico il movimento femminista ha assunto una forza e un peso politico non indifferente negli ultimi 2 anni, da quando per uno stupro di gruppo cinque uomini sono stati condannati a soli 9 anni di carcere per abuso sessuale. La sentenza della manada (il branco) ha scatenato in Spagna le proteste contro un sistema giudiziario considerato patriarcale e discriminatorio. Per questo le donne hanno deciso di scendere in piazza per mesi, affollando i social network, facendo pressioni e affermando che la società spagnola non era disposta a retrocedere sul tema dei diritti. Non è quindi un caso se lo scorso 8 marzo a Madrid siano scesi in piazza in 400 mila, a Barcellona in più di 200 mila, mentre in altre grandi città come Bilbao e Siviglia i manifestanti superavano le 50 mila unità.
Una cosa è certa: in Spagna il sostegno al femminismo non è solo una questione da campagna elettorale e bisognerà tenerne conto. Pedro Sánchez, nel momento in cui andrà a formare il governo, non dovrà cedere alle pressioni di chi, come le frange più conservatrici del Psoe e del mondo economico-finanziario, spinge per un esecutivo socialista alleato con Ciudadanos, il partito di Albert Rivera che ha posizioni poco chiare sul tema dei diritti. Fare ciò significherebbe disperdere un capitale politico costruito con fatica e sudore negli ultimi anni, da parte non solo del Partito socialista ma anche delle sue elettrici.

Verso le europee, vogliamo parlare degli 80mila lobbisti accreditati a Bruxelles?

People walking against the light background of an urban landscape. Motion blur. Silhouettes.

In questo post che riportiamo dal partito della Sinistra europea si dà il numero veramente impressionante dei lobbisti accreditati presso il Parlamento europeo che è superiore a 80mila registrati. Si ricorda anche che molta della consulenza per la Commissione europea e molti dei soggetti che hanno rapporto con la Bce sono legati agli interessi privati. Naturalmente ci sono norme e codici di trasparenza ma il fenomeno è veramente imponente. Per altro si è anche parlato delle sliding doors per cui, sempre con alcune regole, si passa da funzioni istituzionali a funzioni di rappresentanza di parte. Lo stesso ex presidente della Commissione europea Barroso è ora rappresentante della Goldman Sachs.

Di questo tema si tratta anche nel libro L’Europa rapita che uscirà venerdì 10 maggio con il nuovo numero di Left.

Aprite i cuori, oltre ai porti

Una immagine scattata a bordo sulla Sea Watch, l'imbarcazione della ong che da una settimana ha a bordo 47 migranti soccorsi al largo della Libia, 25 gennaio 2019. ANSA/SEA WATCH +++ ANSA PROVIDES ACCESS TO THIS HANDOUT PHOTO TO BE USED SOLELY TO ILLUSTRATE NEWS REPORTING OR COMMENTARY ON THE FACTS OR EVENTS DEPICTED IN THIS IMAGE; NO ARCHIVING; NO LICENSING +++

Non si sa cosa sia successo nel Mediterraneo. Si dice, ma non si dice, il ministro Trenta twitta, e poi cancella, che la Guardia Costiera Libica (quella che paghiamo noi, che istruimmo noi, a cui regaliamo barche non si è mai capito perché) avrebbe messo in pericolo dei pescherecci italiani. Ovviamente Salvini, illuso ancora che la Libia esista davvero senza rendersi conto di come sia un guazzabuglio di criminali, frustrati, ricattatori, torturatori che giocano con il proprio rubinetto per mettere sotto scacco l’Europa, interviene subito. Se non polemizza non esiste. Per questo ogni giorno è una polemica. Il ministro dell’Interno, senza polemiche e senza migranti è niente fatto di niente, sarebbe solo un illustre ragazzetto che ci aggiorna sui suoi profili social di un tour gastronomico internazionale.

E fa niente che stia funzionando il velo di silenzio caduto su questi disperati che ancora provano a salvarsi. Questi sono sommersi e non salvati. Muoiono cinque bambini nel Mar Egeo, cinque bambini, e la notizia non occupa più di qualche riga sul sito dell’Ansa.

Sapete che c’è? Che ci siamo abituati alla morte e al dolore. Ma mica solo quello straniero. Anche che a Napoli una bimba venga colpita da un proiettile vagante in fondo ci interessa giusto il tempo per dire che lì è così, lì funziona così, e quindi che si fottano anche i bambini napoletani.

Intanto il ministro celebra il muro anti-immigrati di Orban e scimmiotta (male) Mussolini dal balcone di Forlì.

C’è qualcosa che mi preoccupa di più di un ministro sgangherato che defeca macerie in giro per l’Italia: è quello che siamo noi, che stiamo diventando o che forse siamo già diventati. Occupati, tutti preoccupati, del nostro piccolo cortile che si fa ogni giorno più piccolo, ogni ora un po’ più ristretto, come se avessimo una dose minima di umanità che ci basta solo per infilare gli zaini al mattino sulle spalle dei nostri figli. Non abbiamo più una visione globale della sofferenza, del maleficio mondiale, e nemmeno del dolore del nostro Paese. Questi volevano difendere la Patria e invece hanno chiuso i cuori, più che i porti. Un’occlusione cardiaca che non basterà curare con una buona raccomandazione e degenza al San Raffaele. Qualcosa che ci costerà tantissimo in termini di ricostruzione. E sarà faticoso, per tutti.

Restiamo umani.

Buon lunedì.

Quelle strane sparizioni nel Paese del Sol Levante

TOKYO, JAPAN - APRIL 01: Calligrapher Ryo Fuuka writes the name of Japan's next imperial era 'Reiwa' on a board during an event hosted by Mercari Inc. in the Shibuya district on April 01, 2019 in Tokyo, Japan. Japan named its new imperial era Reiwa to mark the beginning of the new era before Crown Prince Naruhito, 59, ascends the Chrysanthemum Throne while 85-year-old emperor Akihito, prepares to step down at the end of the month. (Photo by Tomohiro Ohsumi/Getty Images)

C’erano una volta la Sony, la Nissan, la Toyota. Il Tamagotchi e i Pokemon. In parte ci sono ancora, per carità, ma il Giappone non è più in corsia di sorpasso. È fermo ai box, come dire, in attesa che succeda qualcosa. Qualcosa che lo riporti, tanto per restare nella metafora, in pole position. Aspirazione più che legittima per un Paese che rappresenta pur sempre la terza potenza economica ed industriale del mondo e per un popolo civile, onesto, gran lavoratore, protagonista per ben due volte (la prima alla fine dell’800, quando fu costretto dai cannoni del commodoro Perry ad “aprirsi” ai mercati, la seconda dopo la tragica sconfitta della guerra) di una rincorsa senza precedenti nei confronti dell’Occidente. Un’aspirazione che tuttavia l’attuale leadership politica, “stabile” sì, ma vecchia e logora, arrogante ed impreparata, spesso corrotta, non sembra in grado di garantire.
Il Giappone che dal primo maggio ha cambiato èra, ma non andazzo, non è in grandi condizioni. A parte il ruolo internazionale, sempre più marginale e ininfluente, con l’attuale governo incapace di reagire alle nuove sfide che gli sviluppi nella penisola coreana ed il ruolo sempre più importante, sia a livello regionale che planetario, assunto della Cina impongono, è sul piano nazionale che non si riescono ad affrontare le sempre più pressanti, ancorché spesso di difficile lettura, emergenze. Una crisi che non è solo economica – il Giappone , nonostante le promesse dell’Abenomics denuncia da anni tassi di crescita “zero virgola”, mentre accumula un sempre più massiccio debito pubblico (siamo a oltre 240% del Pil, il doppio di quello italiano) – ma anche e soprattutto sociale. A fronte di un considerevole calo dei suicidi – scesi da oltre 30mila l’anno a circa 20mila, cifra che pone comunque il Giappone al sesto posto del mondo, dopo Lituania, Groenlandia, Corea del Sud, Guyana e Slovenia – dovuto all’approvazione, durante la breve esperienza di governo a guida DPJ (partito democratico) di norme più severe per la stipula delle polizze vita (che tutt’ora prevedono la possibilità di pagare il risarcimento anche in caso di suicidio), sono in pericoloso aumento i dati relativi a due fenomeni tristi e preoccupanti, di cui poco si parla sui media nazionali e tanto meno su quelli internazionali: johatsu (evaporazione) e kodokushi (morte in solitudine). Gli “evaporati”…

L’articolo di Pio d’Emilia prosegue su Left in edicola dal 3 maggio 2019


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Chi sono i centennials di Pechino

Beijing, China - February 2, 2011: Visitors enjoy the Spring Festival Temple Fair at Ditan Park, for the celebrations of the Chinese New Year.

Nel 1994 il socialismo con caratteristiche cinesi entrava nella sua seconda fase, segno di un Paese che si apriva definitivamente al mercato globale e che, da quel momento in poi, non sarebbe stato più lo stesso. Appena un anno dopo, nel 1995, nacque il primo centennial, ovvero la prima generazione che non ha mai conosciuto la “Cina di Mao”; la seconda e ultima generazione completamente cresciuta sotto la legge del figlio unico; ma anche quella che oggi rappresenta la più grande fetta di consumatori al mondo, contando il 40 per cento del mercato cinese e il 7 per cento di quello internazionale.
Conosciuti come Generazione Z, iGen, Post-millennials: parliamo di tutti i giovani nati tra il 1995 e il 2009, e in generale, di tutti i linglinghou (letteralmente “dopo lo zero-zero”), i nati nel nuovo millennio. I nuovi cinesi sono molto differenti dai nuovi europei, ma condividono con loro un tratto fondamentale: le generazioni precedenti li considerano un’età priva di valori. Le anime digitali dei centennials sono distanti dal mondo analogico e, nonostante grandi imprese e organizzazioni siano sempre più interessati a conoscerli per scopi commerciali, gli stereotipi dovuti al gap intergenerazionale generano incontri e scontri culturali di portata mondiale, come nel “caso Dolce & Gabbana”. Parliamo di pregiudizi che, per quanto discordanti con la realtà effettiva, possono aiutarci a comprendere le diverse dinamiche sociali che tale generazione affronta quotidianamente e l’identità di cui è alla continua ricerca.

Il clan del chiaro di luna
Generalmente i centennials cinesi sono descritti come distanti dalla pietà filiale, meno propensi al culto della famiglia, privi della “cultura del libro” e ossessionati dallo shopping e dai nuovi trend. Un fenomeno che è stato racchiuso sotto slogan come “clan del chiaro di luna”, una frase che gioca sulle parole cinesi yue guang zu, richiamando il significato di “spendaccioni” che svuotano il portafoglio ogni mese. Se da una parte è vero che…

L’articolo di Gian Luca Atzori prosegue su Left in edicola dal 3 maggio 2019


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Fanno i furbetti col Mare nostrum

Piccole, splendide isole messe in vendita magari di soppiatto, tra aste che vanno deserte, affari istantanei, vincoli ambientali e pastoie, o distrazioni, burocratiche. Sfolgoranti buen retiri caraibici che finiscono nelle mani di attori, campioni sportivi e industriali d’assalto. È una tendenza inarrestabile, in gran crescita negli ultimi tempi, quella di acquistare atolli e isolotti come fossero villette a schiera in cui stoccare gli spiccioli di liquidità. La domanda è altrettanto implacabile: “Perché lo fanno?”. Le risposte sono intercambiabili: «Cerco una privacy impossibile altrove» o «Solo così posso rigenerarmi veramente, in accordo coi ritmi della natura». Ma c’è anche chi ammette, candido-cinicamente, di comprarle per mero esibizionismo e di guardare esclusivamente al business. A livello planetario, la lista di celebrities folgorate sulla via di un redivivo Robinson Crusoe, iperconnesso e pieno di comfort, è sterminata: da Mark Zuckerberg a Brad Pitt, da Johnny Depp a Cristiano Ronaldo, passando per il demiurgo della Virgin Richard Branson, che si è regalato Mosquito island, scoperta nel 1493 da un certo Cristoforo Colombo. Uno scoglio esotico a sette stelle non se lo nega più nessuno, nella nostra epoca di capitalismo avanzato. E non è soltanto “roba di Tropici”: lo stesso destino incombe sulle micro-meraviglie insulari della Spagna e della Grecia, della Croazia e del Portogallo, con gli Stati che le dismettono per rimpinguare casse pubbliche estenuate dalle crisi ricorrenti.
Ma veniamo all’Italia. Pure da noi il fenomeno è in atto, e presenta spiccati caratteri endogeni. Sono parecchie le isole patrie in vendita, assegnate o in predicato d’esserlo a magnati, fondi finanziari e scalatori sociali. Online si commercia di tutto, compresi territori salvaguardati, in teoria, dalle aree protette. Parliamo, nella maggioranza dei casi, di investimenti in forma “differita”: servono per costruirvi resort e strutture turistiche luxury, più di rado per farne dimore personali “diffuse” da mille e una notte. Speculazione bella e buona, insomma. L’isola, bene-rifugio (ed elisir omeopatico) del nostro tempo. Gli enti-parco, le associazioni ambientaliste, la partecipazione attiva delle comunità interessate cercano di mitigare i problemi etici, ed ecologici, in agguato. È di poche settimane fa…

L’inchiesta di Maurizio Di Fazio prosegue su Left in edicola dal 3 maggio 2019


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