Home Blog Pagina 612

«Lotta per la libertà di stampa»

In occasione della giornata mondiale dedicata alla libertà di stampa e di informazione il Gue/Ngl ha lanciato con questo post la proposta di un fondo europeo a sostegno del diritto ad informare e ad essere informati. Lo scorso mese sempre il Gue/Ngl aveva svolto il suo premio per un riconoscimento a chi combatte su questo fronte che era stato vinto da Assange. Proprio la Storia emblematica di Assange ci dice di quali rischi si corrano per dare alle persone il diritto di essere a conoscenza di ciò che i potenti non vogliono si sappia.

Purtroppo per informare si muore come dicono le tante uccisioni di giornaliste e giornalisti tra cui ricordiamo Ilaria Alpi. Ma l’informazione viene negata dal proliferare delle fake news che stanno diventando strumento del potere e della lotta per esso. Dal predominio dei grandi gruppi digitali. Dalla proprietà dei mezzi di comunicazione in mano ai poteri economici. Dalle pratiche embedded lanciate dalle guerre. Dalla precarizzazione massiccia del lavoro di informatori. Dallo strangolamento della informazione indipendente. Peraltro in Europa manca un sistema di informazione europeo. Non c’è un sistema di mass media che aiuti l’esistenza di una opinione pubblica europea. Questo è molto grave e impressionante. L’Europa “apre” mercati ma non canali informativi. Il tema è invece fondamentale e bisognerebbe lavorarci con grande impegno affrontando anche la questione del plurlinguismo che va salvaguardata come ricchezza. Un tema che deve vedere un impegno della Sinistra per farsi veramente europea.

Non c’è giustizia per i collaboratori di giustizia

Un'immagine della deposizione del pentito di mafia Gaspare Spatuzza, celato alla vista dietro il paravento bianco, in una foto d'archivio del 4 dicembre 2009 al palazzo di giustizia di Torino. Il dibattimento del processo d'appello a Marcello Dell'Utri fu riaperto per sentire il nuovo collaborante Spatuzza. Dell'Utri e' stato oggi condannato a sette anni. TONINO DI MARCO/GID

Spesso di loro sentiamo parlare in televisione. Alcune volte per via dei processi contro le mafie che nascono dalle loro testimonianze. Altre volte perché sono vittime di agguati. Uno degli ultimi casi è avvenuto a Pesaro a fine 2018: Marcello Bruzzese è stato ucciso. Un’esecuzione in stile mafioso. Viveva sotto programma di protezione perché era fratello del pentito Biagio Girolamo Bruzzese. Dietro storie come queste ci sono vite, persone, uomini, donne e bambini, molto spesso abbandonati dallo Stato. Eppure il contributo dei collaboratori di giustizia è stato fondamentale, come sottolinea anche Antonio Nicaso, docente negli Stati Uniti di Storia delle organizzazioni criminali e saggista (il suo ultimo libro, scritto con Nicola Gratteri, è Storia segreta della ‘ndrangheta). «Già in seguito all’introduzione della legge Rognoni-La Torre del 1982, solo grazie alle dichiarazioni di Tommaso Buscetta è emerso come la mafia non fosse un insieme scomposto di famiglie, ma una struttura al cui vertice c’era Totò Riina. Oggi – riflette ancora Nicaso – la nostra conoscenza delle dinamiche mafiose e camorristiche è molto alta grazie a chi ha confessato. Con la ’ndrangheta, poiché la struttura è basata sul vincolo di sangue, è stato più difficoltoso. Negli ultimi tempi, però, diversi figli di ’ndranghetisti hanno deciso di collaborare». Basta questo per capire quanto sia necessario tutelare i collaboratori di giustizia. Eppure c’è un dato, su tutti, che lascia intendere il livello di abbandono: nonostante il Viminale per legge debba presentare una relazione in merito una volta all’anno, l’ultimo report consegnato in Parlamento risale al 20 febbraio 2017. I numeri (alla data del 30 giugno 2016) indicano 1.277 collaboratori di giustizia e 4.915 familiari. Sono coinvolte, dunque, anche persone che non hanno mai avuto a che fare con la criminalità. E minori: il 40 per cento della popolazione sotto protezione.
Nel corso degli anni, i fondi sono stati sistematicamente tagliati. La conseguenza è che spesso il Viminale…

L’inchiesta di Carmine Gazzanni prosegue su Left in edicola dal 3 maggio 2019


SOMMARIO ACQUISTA

Polveriera Sahel

C’è una domanda che rimbalza insistente da un’ambasciata all’altra, nei quartieri centrali di Niamey, la capitale del Niger, con varianti minime: «Per quanto tempo il Niger resterà ancora in piedi?». A chiederselo, tra i tanti, è un diplomatico europeo, neo-arrivato in un Paese fino a pochi anni fa ai margini della geopolitica internazionale. Il dispiegamento di mezzi corazzati e i cordoni militari che accompagnano ogni movimento del presidente Mahamadou Issoufou, al di fuori del sorvegliatissimo palazzo presidenziale, danno consistenza all’interrogativo. Duecentocinquanta chilometri a nord di questa città in movimento, il Mali ha appena festeggiato i sette anni dall’inizio di un conflitto brutale, che si è esteso in tempi rapidissimi a gran parte del Burkina Faso, a soli cento chilometri di distanza da Niamey. Un mix di movimenti jihadisti, milizie comunitarie, operazioni Onu e antiterrorismo guidate da Francia e Stati Uniti. Cresciute nei Paesi vicini, dall’inizio del 2017 le violenze hanno contagiato la regione nigerina di Tillabéri, che circonda Niamey e confina con Mali e Burkina Faso, arrivando a colpire fino a 40 chilometri dalla capitale. Forze di sicurezza, scuole e leader religiosi sono finiti nel mirino di milizie jihadiste e gruppi criminali, mentre dalla primavera dello scorso anno, un ciclo di rappresaglie a base comunitaria ha lasciato sul terreno centinaia di civili. Dinamiche simili a quelle della strage di Ogossagou, nel centro del Mali, in cui il 23 marzo oltre 170 cittadini di etnia fula sono stati uccisi in poche ore, come a quella di Arbinda, in Burkina Faso, in cui 62 civili sono morti a inizio aprile, vittime di conflitti tra comunità, sottovalutati dagli Stati e strumentalizzati dai gruppi armati. Secondo i ricercatori di Acled (Armed conflict location and event data project), le violenze in otto Paesi del Sahel hanno provocato 2.151 morti tra novembre 2018 e marzo 2019. Nello stesso periodo, gli attacchi contro civili in Niger sono cresciuti del 500 per cento rispetto all’anno precedente.
«Le minacce al Niger e a tutta la regione sono iniziate nel 2011, quando siamo saliti al governo», spiega Marou Amadou, ministro della Giustizia, nel suo ufficio, a pochi metri dal quartiere generale di Eucap Sahel Niger, la più grande missione europea di sicurezza civile nel Sahel. Ex attivista più volte incarcerato – prima di diventare ministro nei due governi consecutivi di Mahamadou Issoufou -, Amadou spiega che…

 

Il reportage di Giacomo Zandonini con foto di Grancesco Bellina prosegue su Left in edicola dal 3 maggio 2019


SOMMARIO ACQUISTA

Il governo gialloverde attacca la storia, la materia invisa al potere

Era dall’inizio dell’anno scolastico che docenti e alunni attendevano ragguagli sul futuro esame di Stato e la notizia è arrivata proclamando alcuni cambiamenti che rientrano a pieno titolo nel clima politico del nuovo governo gialloverde. La cosa che balza agli occhi e che ha subito destato le critiche del mondo degli storici – autori di un appello contro le nuove disposizioni del Miur – e dei docenti è l’eliminazione della traccia storica dalle possibili scelte nel tema di italiano. Una cancellazione che va a sommarsi a una politica di svilimento della disciplina che, ormai da dieci anni nel nostro Paese, i vari ministri della scuola stanno portando avanti. Mariastella Gelmini nel 2010 tolse dai licei scientifici e linguistici un’ora di insegnamento dalle tre totali e quest’anno agli istituti professionali invece di due ore di storia alla settimana ce ne sarà una soltanto.
Il risultato è quello di attaccare la memoria e quindi l’identità dei futuri cittadini che non devono ricordare, non devono conoscere il proprio passato. La storia è lo strumento principale per interpretare il presente, per formare la coscienza critica di coloro che si recheranno alle urne, l’antidoto fondamentale contro i virus dell’intolleranza e degli integralismi. Gli effetti di questa incuria si sentono già tra le aule e i corridoi della scuola secondaria superiore e insegnare la storia ai ragazzi del triennio è diventato difficile. Innanzitutto i giovani di oggi hanno pochissima dimestichezza con le coordinate spazio-temporali: il ‘900 è un blocco unico, il fascismo non si sa se viene prima o dopo la prima o la seconda Guerra mondiale, il prima e il dopo Cristo sono come simboli di una punteggiatura che viene utilizzata un po’ a caso… Geograficamente il mondo appare una carta misteriosa e assolutamente muta. Il docente deve non dare niente per scontato, ricordarsi di scandire bene le date spartiacque, definire a più riprese il significato di concetti quali “reazione” e “rivoluzione”.
La storia insegna inoltre a fare i conti con le fonti, con l’attendibilità dei testi, con l’uso sapiente delle citazioni e della paternità delle notizie, tutti esercizi lontani dalla pratica quotidiana dei nostri politici e giornalisti, figuriamoci dei ragazzi! È vero che i giovani di oggi scelgono rarissimamente la traccia di storia nel tema di italiano e che la storia appare loro spesso come una valanga di date e di battaglie da ricordare, ma eliminarla dalle possibilità di scelta di un candidato che voglia conseguire un diploma e immettersi poi nel mondo dell’università, del lavoro o semplicemente della vita pubblica e politica del proprio Paese, significa precludergli quella via che lo introduce alla conoscenza profonda e consequenziale della catena di eventi che hanno determinato la formazione dell’identità di se stesso e dei suoi simili. La strada dei revisionismi storici è così spalancata per l’uso propagandistico dei politici di turno.
Ogni giornalista di oggi sa che il vero modo per influire sull’opinione pubblica consiste nello scegliere e nel disporre in un certo i modi i fatti. I fatti non parlano mai da soli, vanno interpretati e questo è il lavoro degli storici. Lo storico sceglie e si schiera. Eliminare la storia significa togliere a tutti noi le domande sui perché le cose sono andate e vanno in un certo modo per comprendere il nostro passato e il nostro presente. Ciascun individuo non è isolato e a sé stante ma in continua relazione con l’ambiente e chi lo circonda. L’uomo senza la storia diventa muto e stupido, sarà questo il motivo per cui tutti i regimi totalitari hanno per prima cosa messo mano ai testi di storia nelle scuole?

Elisabetta Amalfitano è docente di scuola superiore e autrice di saggi fra i quali “Le gambe della sinistra”, L’Asino d’oro edizioni

L’articolo è stato pubblicato su Left del 26 ottobre 2018


SOMMARIO ACQUISTA

Crimini di guerra made in Italy

MOSUL, IRAQ - OCTOBER 25: Children are seen at the street as smoke rise from oil wells, were set on fire by Daesh terrorists to limit coalition forces pilots' eyesight and to make the wells out o service following Iraqi army's retaking of Al Qayyarah town from Daesh during the operation to retake Iraq's Mosul from Daesh, in Mosul, Iraq on October 25, 2016. Black smoke affects human life in town badly. (Photo by Emrah Yorulmaz/Anadolu Agency/Getty Images)

All’esposizione biennale di sistemi militari (Idex) che si è tenuta ad Abu Dhabi lo scorso febbraio l’Italia era presente con trentuno aziende. Oltre ai grandi gruppi come Leonardo (ex Finmeccanica) e Fincantieri e alle case produttrici di bombe (Simmel Difesa), di armi leggere (Beretta, Benelli, Tanfoglio, Fiocchi) e di equipaggiamenti da difesa (v. Left del 15 febbraio), nella capitale emiratina c’era anche il sottosegretario alla Difesa pentastellato Angelo Tofalo che definiva l’esposizione in toni entusiastici come «un’occasione da sfruttare per affermare il made in Italy nel mercato globale».
Eppure il premier Conte aveva detto lo scorso dicembre che il suo governo non avrebbe guardato «con favore alla vendita di armi». Allora il presidente del Consiglio si spinse addirittura oltre aprendo alla possibilità di porre fine alla vendita di armamenti all’Arabia Saudita per via dei bombardamenti di Riyadh in Yemen e, soprattutto, per l’uccisione del giornalista dissidente Khashoggi ad opera, secondo la Cia, di uomini vicini al principe ereditario saudita Mohammad bin Salman. Una posizione “pacifista” ripresa dal senatore dei Cinque stelle Gianluca Ferrara che sul suo blog su Il Fatto quotidiano annunciava a marzo di aver depositato a metà febbraio un disegno di legge che si propone di potenziare la legge 185/90 che disciplina il commercio delle armi. Belle intenzioni, ma che al momento restano tali. Uno dei miti che i nostri governi hanno riproposto come mantra negli anni è quello secondo cui «gli italiani sono un popolo di pace», in definitiva «brava gente». Peccato che la realtà sia completamente diversa: secondo l’ultimo rapporto dell’Istituto internazionale di ricerca sulla pace di Stoccolma (Sipri), infatti, l’Italia si piazza al nono posto tra i maggiori esportatori mondiali di strumenti e veicoli bellici. Lo studio del Sipri sottolinea come il nostro Paese…

L’inchiesta di Roberto Prinzi prosegue su Left in edicola dal 3 maggio 2019


SOMMARIO ACQUISTA

I monumenti, i simboli, i media, gli uomini

L’informazione quotidiana chiede per definizione di stare sul pezzo, quella sul web richiede di essere aggiornata al minuto, ma per elaborare qualche pensiero meno ovvio, frettoloso o retorico che si sottragga alla ridondanza alluvionale della funzione autoreferenziale della comunicazione mediatica, è necessaria – anche se minima – una presa di distanza. Alcune sere or sono, anch’io, come milioni di persone in tutto il mondo, ho guardato le immagini della cattedrale di Notre Dame di Parigi in preda alle fiamme che divoravano la parte più fragile della sua ardita maestà, quella lignea. Le immagini del rogo trasmesse dai media impressionavano. La caduta della guglia, documentata in diretta, è stata proposta e letta da tutti come un culmine drammatico. Le dichiarazioni di speaker e di autorità, tuttavia, mi sono apparse da subito scontate e retoricamente moleste. Fortunatamente un provvidenziale e lucido intervento del professor Vittorio Sgarbi ha ricondotto l’infausto evento alle sue proporzioni reali come le immagini del dopo incendio hanno mostrato con chiarezza. Notre Dame è un simbolo della cristianità, non la cristianità tour court. È uno dei luoghi della cultura mondiale, certo, ma ultimamente è anche diventato meta del pellegrinaggio turistico di massa soprattutto grazie a musical, film, cartoni animati. Da questo punto di vista l’immagine più felice, fra le tante circolate, è quella del disegno del gobbo Quasimodo che abbraccia il corpo della cattedrale.
Ora, assumiamo per assurdo la convinzione che il profluvio di retorica e lo spreco di iperboli siano sinceri, autentici: affermiamo quindi che Notre Dame è la Francia e che, in quanto europei siamo tutti anche parigini, francesi. La Francia significa i Droits de l’homme, i principi istitutivi delle nostre democrazie. Esageriamo, sentiamo con inquietudine che in quel rogo nel cuore della Ville Lumière vanno distrutti certi valori che ritenevamo indistruttibili? Ecco Notre Dame diventa Notre Drâme come immediatamente ha titolato con acuto intuito il giornale Libération. E qual è il nostro dramma a cui quell’incendio sembra “misticamente” alludere? Il nostro dramma è che stiamo per vedere andare letteralmente in fumo il senso di ciò che siamo come comunità sovranazionale fondata su diritti universali e di cui la prima grande lezione francese è stata l’innesco poderoso.
Molti sono i segnali di questo disfarsi del senso universale che fa del consorzio umano una sola umanità, primo fra tutti il tanto strombazzato patrimonio della spiritualità giudaico-cristiana. Ne voglio segnalare uno che mostra il declinare della cosiddetta civiltà occidentale nella barbarie della palude del cinismo economico finanziario e della realpolitik. In questo momento settemila curdi stanno digiunando per ottenere il rispetto dei diritti umani per Abdullah Ōcalan, leader politico, pensatore e rappresentante del popolo curdo. Öcalan, sta subendo nelle carceri turche una detenzione disumana nel totale disprezzo dei diritti umani. Alcuni di coloro che digiunano rischiano già la morte. L’intero popolo curdo subisce da decenni massacri, stermini coi gas, assassinii di massa con le armi chimiche. La sua titolarità e la sua dignità nazionale e di popolo vengono negate. Da ultimo i curdi, donne e uomini, hanno combattuto contro l’Isis e cosa fa l’Occidente, il sedicente paladino della lotta al terrorismo? Nulla, non si sforza neppure di informare su un digiuno collettivo per chiedere giustizia, una giustizia negata da sempre. Lo spazio dell’informazione è occupato a raccontare una “catastrofe” rimediabile o a rimbalzare i tweet del politicante che le spara più grosse per la vasta platea di fessi che sono pronti a credergli.
Eccolo il Notre Drâme. Non siamo una civiltà, siamo una deriva di significati e di simulacri virtuali in cui galleggiano senza alcuna priorità, pseudo memorie, retoriche, ipocrisie, discorsi senza capo né coda, panzane. In questa deriva si estingue il valore dell’essere umano.

L’articolo di Moni Ovadia è tratto da Left in edicola dal 3 maggio 2019


SOMMARIO ACQUISTA

La lezione socialista di Olof Palme

Le Premier ministre Olof Palme chez lui en septembre 1973 en Suède. (Photo by Daniel SIMON/Gamma-Rapho via Getty Images)

Olof Palme, Carlo Rosselli, Thomas Sankara: tre personaggi la cui fine tragica ha interrotto la loro vita, ma non i percorsi di rinnovamento politico e sociale di cui sono stati iniziatori e protagonisti. Con la loro morte sono stati, però ritardati e comunque non hanno potuto esprimere tutte le loro potenzialità. Si tratta dei personaggi scelti per il convegno “Contro la crisi globale della democrazia” di venerdì 3 maggio a Milano.

Invitato dagli organizzatori, il Movimento Roosevelt, a fare un ritratto dell’ex primo ministro della Svezia Olof Palme, per prima cosa credo che la sua figura sia da accostare a personalità come Giacomo Matteotti, Antonio Gramsci e Salvador Allende. Sono, infatti, tutti esempi del valore della testimonianza. Non per un singolo atto eroico, ma per un impegno personale e politico di tutta una vita, senza mai perdere i sensi della missione di cui erano esponenti e protagonisti, ma senza mai l’arroganza e la superbia dei leader contemporanei prodotti e gonfiati dai media e senza aver mai esercitato un potere assoluto e senza limiti o aver incentivato o tollerato alcuna forma di culto della personalità, anche quando erano capi di Stato o di governo.

Olof Palme è nato nel 1927 ed è morto assassinato, mandanti e killer rimasti sconosciuti, il 28 febbraio 1986 a Stoccolma all’età di 59 anni, quando era primo ministro, rinominato nel 1982 dopo esserlo stato dal 1969 al 1976. La sua origine sociale, da una famiglia della grande borghesia con radici in Svezia, Finlandia e Lettonia e i suoi studi, scuola superiore per élite e accademia militare, non lasciavano certo presagire il suo impegno successivo nella socialdemocrazia per la giustizia sociale, il disarmo e lo sviluppo del Terzo mondo.

In Olof Palme un ruolo decisivo fu giocato da una borsa di studio americana, che gli consentì di visitare nei weekend le fabbriche e di relazionarsi con sindacalisti. Alla fine intraprese un viaggio attraverso 34 Stati degli Usa e questa esperienza statunitense, secondo una sua elaborazione posteriore, fu alla base della sua opposizione all’ingiustizia sociale. Un viaggio che come quello di Ernesto Guevara in America Latina motivò per sempre le sue scelte future. Di ritorno in patria si iscrisse all’Università di Stoccolma e all’Associazione degli studenti socialdemocratici. Alla fine degli studi divenne segretario di Tage Erlander, il mitico presidente del Sap (Sveriges socialdemokratiska arbetareparti), il Partito dei lavoratori svedesi e primo ministro dal 1946 al 1969.

Alle sue ultime elezioni prima dell’introduzione del monocameralismo nel 1968 la socialdemocrazia vinse con la maggioranza assoluta, mentre toccò a Palme perdere le elezioni del 1976 con il 42,7% il peggior risultato dalle elezioni del 1932, pur restando e lo sono tuttora il primo partito svedese dal 1917. La prima sconfitta socialdemocratica svedese, con un percentuale superiore al 40%, rappresenterebbe ora un miraggio per la stragrande maggioranza dei partiti del Pse (Partito socialista europeo, ndr) e del complesso dei partiti di sinistra in Europa.

Un piccolo Paese neutrale ha così potuto giocare un ruolo internazionale importante contro la guerra nel Vietnam, per il disarmo e la distensione Est-Ovest, la liberazione delle colonie portoghesi in Africa, la fine dei regimi dittatoriali in Europa (Spagna, Portogallo e Grecia) e contro l’apartheid in Sud Africa. Quest’ultima battaglia era tanto vigorosa che, quando nell’attentato terrorista all’aereo della Pan Am di Lockerbie il 31 dicembre 1988 trovò la morte il già Segretario generale dell’Internazionale socialista, fraterno compagno e amico, Bernt Carlsson, socialdemocratico svedese, i primi sospetti si appuntarono sul Boss (Bureau for State security, ndr) del Sud Africa, mentre fu opera del colonnello Gheddafi.

La figura di Palme, d’altro canto, è anche rappresentativa dei problemi del socialismo democratico e della sinistra, anche in un Paese che ne costituiva una roccaforte, per non essere stato in grado di risolvere le crescenti contraddizioni tra il perseguimento della tradizionale politica socialdemocratica di fronte ai problemi economici provocati dalla crisi petrolifera del 1973 e alle sempre maggiori difficoltà di realizzare le riforme sociali e di rispondere alle esigenze sindacali di dare corpo al piano Meidner (Rudolf Meidner, economista svedese socialista, ndr) con la creazione del Fondo azionario per i lavoratori, che avrebbe portato al controllo della produzione industriale svedese senza esproprio. Sempre la crisi petrolifera motivò la decisa scelta di Palme per l’energia atomica. Era convinto che fosse una tecnica amica dell’ambiente e che avrebbe facilitato una più alta crescita e una società egalitaria. La scelta divise il partito e portò alla fondazione del movimento politico Verde, con una forte politica di protezione dell’ambiente.

Ne seguì un cambiamento del sistema politico svedese dopo l’elezione vinta da Palme nel 1985, dove per l’ultima volta si confrontarono ancora cinque partiti: tre borghesi e due di sinistra, il Sap e il Vänsterpartiet (Vp, Partito della sinistra) erede del Partito comunista svedese. Nel 1988 i partiti rappresentati in Parlamento salirono a sei con l’entrata dei Verdi con 20 seggi, mentre i Democristiani rimasero fuori non avendo superato la soglia del 4%. A partire dal 1991 i partiti salirono a sette con l’entrata dei Democristiani e di Ny Demokrati (Nuova democrazia), un partito liberista, nazionalista e populista e l’uscita dei Verdi. Dal 1994 al 2006 i Verdi rientrarono in Parlamento e insieme a Sap e Vp formarono maggioranze rosso-verdi, quando non vincevano i quattro partiti borghesi, rimanendo sotto soglia i Democratici svedesi (Sd, Sverigedemokraterna, di estrema destra) pur in costante crescita (2,93% nel 2006). Con l’irruzione di Democratici svedesi nel 2010 con il 5,70% e 20 seggi si altera una volta di più il sistema politico del Paese scandinavo, mettendo fine al tradizionale bipolarismo tra Sinistra e Blocco borghese con l’ottavo partito, nazionalista e xenofobo. Il nuovo assetto è stato confermato e rafforzato nel 2014 con il 12,9% e 49 seggi e nel 2018 con Sd al 17,5% e 62 seggi.

In Scandinavia fenomeni analoghi si sono verificati in Danimarca e Norvegia con il Partito del progresso (anche qui non fate caso al nome) e i Veri finlandesi in Finlandia. L’Italia dal 2013 non è quindi un’eccezione.

I nuovi partiti nazionalisti e xenofobi non sono soltanto una minaccia per la sinistra, ma anche per la democrazia in quanto la loro crescita, è il caso della Svezia, sottrae consenso al centro-destra. Se il voto di destra e centrodestra si salda con i movimenti estremisti non ci sono prospettive di vittoria elettorale per la sinistra in quasi tutti i Paesi europei. E gli spazi si riducono ulteriormente, quando i partiti socialisti aderiscono alle politiche di austerità e di smantellamento del welfare, e passa il messaggio dei populisti che le leggi sociali possono essere conservate, ma solo per i cittadini autoctoni, non per gli stranieri. Ha indebolito la socialdemocrazia la perdita di un impegno internazionale paragonabile a quello sviluppato negli anni 70 e 80 con persone come Palme, Brandt, Gonzalez, Soares o Mitterrand, anche se socialisti come Antonio Guterres, nono segretario delle Nazioni Unite, dopo essere stato Alto Commissario per i rifugiati, sono presenti sulla scena internazionale dopo essere stato presidente dell’Internazionale socialista dal 1999 al 2005.

Il destino del socialismo europeo è in grave difficoltà, dopo una serie di sconfitte elettorali, che in Paesi come la Francia e l’Olanda hanno condannato i loro partiti all’irrilevanza, o li hanno ridimensionati in Germania e in Paesi già loro bastioni, come la Danimarca e la Norvegia. Nei Paesi dell’Europa centrale ed orientale il problema è quello di partiti in parte eredi dei partiti comunisti al potere, passati senza una pausa socialdemocratica all’adesione al liberismo e al sistema capitalista senza controlli. Dovessi scegliere una definizione più precisa per questo destino parlerei di eclisse del socialismo democratico piuttosto che di tramonto. Nell’iconografia socialista degli inizi il sole dell’avvenire è un sole che sorge e forse si incominciano a vedere i primi raggi o luci dell’alba con le vittorie nelle elezioni più recenti dei partiti socialisti di Finlandia e Spagna, sconfiggendo la destra vecchia e nuova.

Una rinascita socialista è necessaria per la sinistra nel suo complesso, perché le perdite socialiste, con la sola eccezione della Grecia, hanno fatto transitare voti alle forze alla loro sinistra solo in misura ridotta. La sinistra dovrà impedire che la dialettica politica in Europa si riduca alla sterile contrapposizione tra “europeisti” e “sovranisti”.

Verso le europee, se nemmeno l’asse Salvini-Orban non disturba i Cinquestelle

Vedere che Orban e Salvini parlano di nuova Europa davanti ad un muro di 600 chilometri fa veramente impressione: una pessima impressione. Salvini ha sostanzialmente detto che l’Italia e il suo governo condividono l’operato del governo ungherese. Forse sarebbe il caso che il presidente del Consiglio e i Cinquestelle, partito di maggioranza relativa, dicessero se è veramente così.

Peraltro da Orban e Salvini sono arrivate considerazioni sulle future elezioni europee e le alleanze politiche. C’è quindi da chiedersi se si trattasse di incontri istituzionali o tra soggetti politici. Salvini ha parlato anche di una Europa del lavoro. Sarebbe interessante sapere cosa pensa della legge sul lavoro promulgata dal governo del suo amico Orban e che viene chiamata “legge della schiavitù” in quanto prevede l’obbligo di lavoro straordinario pesantissimo e pagato in modo dilazionato. Contro questa legge ci sono state grandissime manifestazioni di lavoratori e studenti che insieme a quelle contro gli attacchi alla autonomia della Corte Costituzionale rappresentano l’Ungheria che veramente si batte per un’altra Europa.

Che senso ha che la Polizia mostri i pestaggi di Manduria?

C’è una domanda che mi assilla da qualche giorno, io non sono un social manager ma in fondo per lavoro su internet ci devo vivere. Ero già rimasto basito di fronte alle risposte dell’account Facebook dell’Inps che ha pensato bene di prendere in giro chi chiedeva informazioni sul reddito di cittadinanza. Dicono che non ce la facesse più a sopportare le ingiurie eppure se ci pensate la differenza tra un’istituzione e un signor nessuno sta proprio tutta qui: nel rimanere istituzionali anche nelle situazioni più difficili. Se dovessi rispondere alla caterva di insulti che arriva ogni giorno, ogni buongiorno, probabilmente diventerebbe la mia professione per il tempo speso e per il fegato amaro che mi imploderebbe. Ma non sono un’istituzione, io.

Capisco anche (e non condivido) che un certo tipo di stampa sembra più impegnato a darci le descrizioni degli stupri come se fossero capitoli di 50 sfumature di grigio scendendo nei particolari dell’atto sessuale, trasformandosi in cronisti del porno, senza nessun rispetto della vittima, per vendere qualche copia barzotta in più.

Ma questa cosa che i social della Polizia abbiano voluto mostrare al mondo intero le vessazioni del povero anziano morto a Manduria, quei ragazzotti che spalancano la porta e lo riempiono di mazzate mi lascia più che perplesso. Sono tutti con il volto coperto e l’immagine è molto buia quindi non c’è nessuna possibilità (e del resto non c’è nessuna necessità) di riconoscere gli eventuali colpevoli. Com’è andata l’abbiamo letto praticamente su ogni quotidiano e su ogni testata online. Sentire le urla di un uomo che è morto da poco agisce sulle viscere di chi guarda quel video e non aggiunge nulla all’azione della Polizia come istituzione (appunto) visto che non si tratta di un’operazione di Polizia o dell’arresto eclatante di qualche latitante.

Mi chiedo, davvero, che senso ha che un profilo social di un’istituzione diventi improvvisamente un propagatore di bile e di spirito di vendetta come un Salvini qualsiasi?Tutto ciò definisce bene il Far west della comunicazione pubblica che sta invadendo il Paese. Ma esiste una policy dei social della Polizia di Stato? È possibile sapere in base a quale criterio vengano scelti i contenuti da propagare e quale sia esattamente la mission dei canali Facebook e Twitter?

Sono curioso. Mica per altro. Dietro internet ci sono le persone (benché a molti faccia comodo credere il contrario) e mi piacerebbe sapere se quella persona lì, quella che cura i social, ha ricevuto l’ordine (e da chi? e perché?) di mostrarci un vecchio agonizzante e malmenato. E cosa dovrebbe insegnarci tutto questo.

Ben sapendo che non ci sarà risposta. Perché anche questo succede: le istituzioni non rispondono mica, alle domande cortesi, ultimamente. Buon venerdì.

Da “Yuli” all’omaggio a Pepe Mujica. A Roma, uno sguardo sull’immaginario latinoamericano

Dal 2 all’8 maggio presso il Cinema Farnese di Roma a Campo de’ Fiori si svolgerà il Festival del cinema spagnolo, manifestazione dedicata al cinema spagnolo e latinoamericano. Come già per Rendez-vous, Festival del cinema francese, conclusosi recentemente, anche questo evento sarà itinerante e toccherà alcune città d’Italia, a partire da Treviso e dal Salone del libro di Torino – dedicato quest’anno proprio alla lingua spagnola – per proseguire a Trento, Senigallia, Campobasso, Napoli, Messina, Verona, Genova, Matera, Padova, Trieste, Perugia, Bergamo, Cagliari, Bari, Bologna, Milano e Reggio Calabria.
Un appuntamento immancabile, ormai alla sua dodicesima edizione, rivolto da sempre ad un pubblico partecipe, amante dei film in lingua originale, capace di lasciarsi coinvolgere da discorsi culturali di spessore internazionale, curioso e disponibile al confronto con gli artisti, che interverranno numerosi in occasione delle proiezioni. Varietà di generi e di tematiche: la grande storia e le contraddizioni sociali, le dittature latino-americane degli anni Settanta e Ottanta ed i diritti LGBT, i rapporti affettivi e i legami familiari, l’urgenza di vita e la trasfigurazione grottesca della morte; opere prime e seconde; molte e graditissime le registe donne.
L’inaugurazione giovedì 2 maggio alle ore 21, con l’anteprima italiana di Yuli,  ritratto della vita di Carlos Acosta, stella della danza cubana, di Icíar Bollaín (Te doy mis ojos; También la lluvia; El olivo), alla presenza della stessa regista.


Molti gli spunti su cui riflettere e i film a cui prestare attenzione: 
Alberto-García Alix: La Línea De Sombra, esordio di Nicolás Combarro, su uno dei più importanti fotografi del panorama artistico europeo, testimone e anima della Movida madrilena; Carmen y Lola, (nella foto) sul mondo dei gitani nei sobborghi di Madrid, vincitore di due Premi Goya come miglior opera prima e come miglior attrice non protagonista (Carolina Yuste) della regista Arantxa Echeverria; Muchos Hijos, Un Mono Y Un Castillo, Premio Goya 2018 come miglior documentario, di Gustavo Salmeron. Folle e divertente ritratto di una donna, una madre debordante, personaggio eccentrico, spregiudicato, sanguigno e lunare al tempo stesso, che irride la morte e il declino del corpo; El reino, thriller ad alta tensione che racconta il tema della corruzione nelle alte sfere della politica spagnola. E tra gli eventi speciali La noche de 12 años, di Alvaro Brechner, un film lacerante e straordinario, assolutamente da non perdere, uno dei capolavori del cinema civile degli ultimi anni, potente nell’impatto emotivo e suggestivo nell’impianto visivo, omaggio a Pepe Mujica (martedì 7 maggio ore 20:15), ex militante Tupamaro divenuto Presidente dell’Uruguay.
Chiude l’edizione romana mercoledì 8 maggio alle ore 21:30, Goodbye Ringo, film di Pere Marzo, che ripercorre l’epoca dorata degli Spaghetti Western, quando i paesaggi della Spagna divennero lo scenario privilegiato per ricreare la magia del Far West americano. Premiato a Sitges 2018 come miglior documentario, si avvale della voce narrante del regista Enzo G. Castellari e l’archivio storico dell’Istituto Luce. L’evento, dedicato alla memoria di Giorgio Capitani, sarà moderato da Marco Giusti, e vedrà la presenza dello stesso regista, di Enzo G. Castellari e di Romolo Guerrieri.


L’immagine ufficiale del festival (nella foto) è opera di Esteban Villalta Marzi, artista italo-spagnolo di fama internazionale che negli anni Ottanta diventa un membro attivo del movimento artistico “Movida Madrilena”, confermandosi come uno dei maggiori esponenti della Pop Art europea.
Il festival, organizzato e curato da Exit Media riceve il sostegno dell’Ambasciata di Spagna in Italia, la Regione Lazio, AC/E (il corrispondente spagnolo del Mibact), la Reale Accademia di Spagna a Roma e l’Istituto Cervantes, e come di consueto la Rai come media partner.
Tutte le proiezioni del Festival del cinema spagnolo sono in versione originale con sottotitoli in italiano.

Il programma completo della rassegna al cinema Farnese qui