Home Blog Pagina 613

Ex Articolo 11

«I militari cosa dicono?» «Mentono. Mentono come respirano. Con la scusa del segreto militare e della sicurezza nazionale negano perfino l’evidenza e trovano sempre qualcuno pronto a sostenere le loro menzogne». Massimo Carlotto – il dialogo è tratto da Perdas de Fogu (Edizioni e/o, 2008) – dice spesso che il noir è un modo di fare inchiesta. Capo Teulada, fino ad allora, era nota per il fermo di guerra alle marinerie del Sulcis e i sequestri di greggi. Per tenere a bada i pastori fu eretto un muro abusivo che si coprì di scritte: «Benvenuti a Uraniopoli». Il sindaco, primario al reparto di oncologia, e suo fratello, medico di base, incrociarono i dati e non sfuggì loro l’orrore dell’uranio impoverito (Du, depleted uranium). Dieci anni dopo, la relazione finale della IV inchiesta parlamentare, approvata il 7 febbraio 2018, non è un noir ma anche qui spicca il «negazionismo dei vertici militari» (che infatti «respingono con decisione» le conclusioni dell’inchiesta), il «costante atteggiamento dei vertici inteso a fornire una visione esasperatamente ottimistica del mondo militare della sicurezza». È una menzogna anche mimetizzare la guerra sotto formule tranquillizzanti. «Forse per questo non si potevano mostrare i soldati bardati, la gente si sarebbe chiesta il perché di simili protezioni in una missione di pace», osserva Domenico Leggiero, dell’Osservatorio militare, centro studi indipendente che l’8 maggio annuncerà «una clamorosa novità». Un anno dopo, però, nessun provvedimento ha dato seguito a quelle conclusioni. «Ho fatto due missioni in Afghanistan e mi sono ammalato al rientro. Non ho mai saputo della pericolosità…. Quando chiedevamo spiegazioni ai nostri superiori ci veniva detto che erano sciocchezze inventate per andare contro il governo, i militari e gli americani… In tutte le “note di linguaggio” suggerivano di non parlare o di dare notizie obiettivamente false». Il caporalmaggiore Antonio Attianese dichiarò questo alla Commissione a marzo 2017, poco prima di morire. Le “note di linguaggio” sono gli «elementi per la comunicazione» emanati dal Gabinetto del ministro. Al punto 4 si impara che alla domanda: “Quali sono le misure di sicurezza adottate dai soldati italiani?” bisogna rispondere: «Tutto il personale inviato in missione è regolarmente dotato del vestiario e dell’equipaggiamento individuale protettivo previsto per l’impiego in operazioni all’estero. Inoltre, con particolare riferimento al teatro operativo kosovaro, in merito alla presenza dell’uranio impoverito, ad ogni militare viene consegnato un decalogo comportamentale». E la sesta risposta è apodittica: «Non risulta essere di….

L’inchiesta di Checchino Antonini prosegue su Left in edicola dal 3 maggio 2019


SOMMARIO ACQUISTA

La pace è rivoluzionaria

Illustrazione di Fabio Magnasciutti per Left

La criminale dittatura fascista che trascinò l’Italia in guerra al fianco dei nazifascisti produsse una ecatombe di morti. Mandò a morire gli ebrei rastrellati in Italia nei campi di concentramento tedeschi. Fece strage di oppositori partigiani e civili sospettati di esserlo. E mandò i soldati italiani a morire in Russia, in Grecia e su altri fronti. Si rese responsabile di un genocidio in Libia. E uccise la popolazione civile in Etiopia con le armi chimiche. Anche su questo piano conquistando un tragico primato.

Durante la Seconda guerra mondiale la pazzia della corsa alle armi di distruzione di massa culminò il 6 agosto 1945 quando l’aeronautica militare statunitense sganciò la bomba atomica sulla città giapponese di Hiroshima e tre giorni dopo bombardò Nagasaki.

Da allora l’obiettivo di proibire le armi nucleari non è stato ancora raggiunto. Anche per nostra responsabilità. Il trattato per la messa al bando delle armi nucleari approvato dall’Assemblea generale dell’Onu il 7 luglio 2017 non è stato ancora ratificato dall’Italia.

A quasi settantacinque anni dalla Liberazione, a ben vedere, l’Italia è ancora lontana da un orizzonte di pace. Da allora il Bel Paese ha partecipato direttamente o indirettamente a molte missioni di guerra, travestite da operazioni chirurgiche o umanitarie, dall’Iraq, all’Afghanistan, dal Kosovo alla Libia. Un caso emblematico, estremamente drammatico, è stato quello del conflitto nella ex Jugoslavia. I bombardamenti della Nato nella primavera del 1999 in Kosovo furono ipocritamente definiti “umanitari”.

Quell’ossimorica espressione creata ad hoc servì al governo D’Alema per mascherare l’intervento italiano compiuto in ossequio al Patto atlantico. Insieme al «tentativo di mimetizzare la guerra sotto formule tranquillizzanti», come ricostruisce Checchino Antonini su questo numero di Left , le istituzioni tentarono e tentano tuttora di negare anche gli effetti dell’uranio impoverito, sul quale già allora c’era molta letteratura scientifica. L’inchiesta di Antonini riaccende i riflettori su una vicenda che continua a produrre effetti devastanti. Il bollettino di guerra infatti drammaticamente continua: sono 336 le vittime dell’uranio impoverito e 7.500 i malati. Non si registrano novità positive nemmeno sul fronte più generale del disarmo. Nonostante le promesse grilline, il governo giallonero ha continuato sulla strada dell’acquisto di cacciabombardieri e prosegue l’export di armi verso regimi guerrafondai, che violano i diritti umani. Associazioni come Rete disarmo, da anni impegnate contro le spese militari, denunciano che l’acquisto degli F-35 costerà almeno altri 10 miliardi di euro, oltre quelli già spesi. La cifra preventivata per acquistare aerei d’attacco con capacità nucleare potrebbe essere ben più utilmente investita. Potrebbe servire, suggerisce Giulio Marcon di Sbilanciamoci! (più avanti intervistato da Roberto Prinzi, nell’inchista Crimini di guerra made in Italy) «per 100 elicotteri per l’elisoccorso in dotazione ai principali ospedali, 30 canadair per spegnere gli incendi durante l’estate, per mettere in sicurezza 5mila scuole a partire da quelle delle zone sismiche e a rischio idrogeologico, per mille asili nido pubblici». Tanto per cominciare. Allargando lo sguardo dalle spese militari alla cosiddetta “Cooperazione bilaterale dell’Italia nell’ambito della difesa”, una ricerca dell’Istituto di ricerche internazionali archivio disarmo (Iriad) documenta una cinquantina di accordi di cooperazione militare con Paesi come l’Egitto, Israele, Arabia Saudita, Qatar, Kuwait, Somalia, Afghanistan, questi ultimi due segnalati dell’Onu perché sfruttano bambini soldato.

«La loro eccessiva proliferazione appare rispondere più ad esigenze commerciali dell’industria degli armamenti che ad interessi di stabilità e di sicurezza internazionali», commenta Maurizio Simoncelli di Sbilanciamoci!. Nascosta sotto il linguaggio cavilloso e astratto della burocrazia, impacchettata nella carta luccicante del business continua a proliferare una mentalità guerrafondaia e militarista. Il volto arcigno di un’Europa dalle frontiere blindate e pattugliate dall’esercito traspare dai proclami xenofobi e razzisti di liste sovraniste ma anche dal “razzismo selettivo” (dettato dalle convenienze) delle liste neoliberiste che si presentano alle Europee del 26 maggio. Lontani anni luce da un’idea di pacifismo religioso, astratto e impolitico, pensiamo che fra questi due “opposti” ci sia spazio per un pacifismo di sinistra. Non ci sarà mai pace se non si mette in discussione un modello capitalistico che vive di competitività distruttiva e alimenta la guerra per il profitto di pochi. Non c’è pace senza giustizia sociale. È vero. Ma non basta. Per sradicare le radici della violenza occorre guardare non solo alle cause e agli effetti materiali, occorre liberarsi dall’ideologia religiosa che condanna Caino a uccidere Abele, scopriremmo così che la distruttività non è un destino obbligato, non è innata.

Illustrazione di Fabio Magnasciutti

L’editoriale di Simona Maggiorelli è tratto da Left in edicola dal 3 maggio 2019


SOMMARIO ACQUISTA

Perché Sanchez non può governare da solo

Proponiamo questa intervista ad Alberto Garcon, leader di Izquierda Unida e deputato di Unidas Podemos, perché la connessione tra la manifestazione del primo maggio da cui parla e la situazione politica spagnola è molto evidente e dà forza alle parole dette. Garcon dice che serve un governo che ridia ai lavoratori diritti e condizioni di vita che sono stati loro tolti e che faccia una politica sociale ma anche economica che vada in questa direzione.

Per Garcon il nuovo governo deve essere un governo fondato sulle sinistre e dunque su Psoe e Unidas Podemos. Il Psoe sta incontrando anche le altre forze politiche ma non può pensare di “fare da solo” magari convergendo sul sociale a sinistra e sull’economico con Ciudadanos. Ciudadanos sulla economia è di destra. E in campagna elettorale il Psoe ha accusato tutte e tre i partiti di destra di essere pericolosi per la Democrazia. Un governo che convergesse con Ciudadanos sull’economia sarebbe di destra. Certo ora il Partito Popolare prende le distanze da Vox e lo definisce di estrema destra. È un modo di far politica diverso dal mio, dice Garcon. E aggiunge con chiarezza che non ci sono cambiali in bianco che possano essere date al Psoe che non ha la maggioranza assoluta e che occorre piuttosto un accordo a sinistra per un governo stabile che dia risposte sociali ed economiche a lavoratrici e lavoratori. Detto in corteo del primo maggio è molto chiaro.

La geniale idea di Toti

Giovanni Toti, governatore della Liguria, durante la conferenza stampa per la salvaguardia del pesto genovese al mortaio candidato a bene culturale del Patrimonio Immateriale dell'Umanità dell'Unesco, Camera dei Deputati, Roma, 16 aprile 2019. ANSA/RICCARDO ANTIMIANI

Fermi tutti. Toti ha avuto un’idea. Sembra già incredibile, lo so. Il presidente della Liguria, come tutti quelli che non hanno capacità di costruire e allora agiscono per sottrazione, ha pensato bene di fare una legge che nega i fondi regionali per il turismo alle strutture alberghiere che hanno ospitato i migranti. Per farsi notare in questo gorgo nero di razzismo e per non rimanere inghiottito nelle acque melmose del suo partito, ha alzato la manina e ha detto voglio giocare anch’io! inventandosi una cosa che è stupida, oltre che razzista.

Il Consiglio regionale della Liguria ha approvato la nuova legge che cambia i criteri di distribuzione degli incentivi alle strutture ricettive, bloccando i finanziamenti pubblici a quelle che hanno ospitato migranti negli ultimi tre anni. La proposta della Lega è stata approvata con 16 voti a favore (centrodestra) e 11 contrari (Pd, M5s e Rete a sinistra-LiberaMente Liguria). La norma esclude dai contributi per la riqualificazione turistica gli alberghi, gli ostelli, le strutture ricettive che hanno firmato le convenzioni del sistema Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati). Le motivazioni? Ah, saperlo.

Dice Toti che chi ha ospitato migranti (“legittimamente”, precisa, perché in fondo gli rimane l’animo ancora troppo moderato) fa “altro” rispetto il turismo. E fa niente che, magari, qualche hotel abbia risposto a un’esigenza prefettizia (verrebbe da scrivere di Stato), la disinfestazione dei luoghi sta talmente a cuore al pacioso Toti che si dice sicuro di avere dalla sua parte tutti i liguri (eh sì, come no).

Siamo ai livelli della disinfettazione dei luoghi: una roba inimmaginabile anche negli incubi peggiori eppure realissima in quel di Genova e dintorni.

Ah, una cosa banale: la norma è incostituzionale, vedrete.

Buon giovedì.

Il “buonsenso” del ministro Tria

Italian Economy Minister, Giovanni Tria, talks during the discussion of the Economy and Finance Document (DEF), the Italian Economic planning, at the Senate in Rome, Italy, 18 April 2019. ANSA/GIUSEPPE LAMI

C’è il ministro Tria che rilascia un’intervista semplice semplice, quasi da scuola elementare. Dice che è inimmaginabile bloccare l’Iva, abbassare le tasse e fare aumentare la spesa senza ricorrere a nuovi tagli oppure all’innalzamento delle tasse. È un’operazione matematica che dovrebbe essere perfino elementare se non fosse che ormai tutti ubriacati di promesse elettorali non teniamo più conto nemmeno delle leggi base dei numeri, quelle che saprebbe rispettare anche un bambino in prima elementare.

Così Tria spiega che per scongiurare l’aumento dell’Iva bisogna inevitabilmente evitare regali (ma va?) e ci ricorda che tutte le misure di questo governo si tengono in piedi su una totale che segna il segno meno.

Apriti cielo.

Sembra che Tria abbia pronunciato una sequela di bestemmie. E non è tutto: addirittura si è permesso di dire che  l’Europa non c’entra nulla con le scelte economiche di questo governo e che se fosse per lui avrebbe tenuto più basso il deficit e non avrebbe esultato sul balcone come fatto da Di Maio.

Ri apriti cielo, ancora!

Di fronte alle elementari deduzioni di Tria (ovvero: non puoi spendere soldi che non hai) si è scatenata la bufera di governo per difendere invece la retorica che vorrebbe tutto a posto, tutto in ordine, la retorica che vorrebbe essere corrispondente alla realtà.

Ed è una battaglia bellissima: la retorica contro la realtà.

Evviva.

Buon mercoledì.

La scandalosa normalità dello sfruttamento

«Non certo questa Repubblica pensò Giuseppe Mazzini. Egli voleva una Repubblica laica e questa non è che una Repubblica confessionale; voleva una Repubblica a carattere profondamente sociale, in cui scomparisse il privilegio e su di esso trionfassero le forze del lavoro», scriveva Sandro Pertini su L’Avanti! del 2 giugno 1949. «In questa Repubblica, invece, domina ancora, e più prepotente che mai, il privilegio: i ricchi sono sempre ricchi, più ricchi di prima; i poveri sono sempre poveri, più poveri di prima», denunciava l’ex partigiano e futuro presidente della Repubblica.

Al di là del riferimento a Mazzini (di cui in quell’articolo tracciava un profilo che assomiglia più a un autoritratto che a un ritratto del patriota spiritualista genovese) colpisce quanto la situazione denunciata in quell’intervento del ’49 sia drammaticamente assonante con quella odierna. Benché siano trascorsi settant’anni nulla è cambiato rispetto all’ingerenza del Vaticano nel governo italiano. Allora come ora si registra il tradimento dei valori della Costituzione antifascista e laica che parla di Repubblica democratica fondata sul lavoro e di «pari dignità sociale». «Questa Repubblica è democratica solo nella forma – approfondiva Pertini – perché in essa le libertà politiche, non sorrette da alcuna giustizia sociale, vanno risolvendosi in un beneficio per una minoranza e in una beffa per milioni di lavoratori…Questa Repubblica rimarrà uno strumento di reazione, finché essa sarà dominata dalle forze clerico-conservatrici e lettera morta, quindi, resteranno i principi consacrati dalla nuova Costituzione».

Ancora oggi è drammaticamente disatteso l’articolo 4 della Carta là dove dice che «la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni per renderlo effettivo».

Invece di attuare l’art. 3 della Costituzione, in cui si afferma che è compito della Repubblica «rimuovere gli ostacoli che impediscono l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese» i governi di centrosinistra (quello di Renzi in particolare) e di destra hanno fatto a gara per bypassare la contrattazione, per depotenziare i sindacati e per ridurre, togliere, e negare le tutele ai lavoratori. Provvedimenti come il Jobs act hanno dato il colpo di grazia al sistema delle tutele, aumentando la precarizzazione. Con il decreto dignità e con il cosiddetto reddito di cittadinanza (che tale non è in quanto reddito condizionato) il governo giallonero, lungi dall’aver abolito la povertà, si è limitato a fare un po’ di elemosina senza mettere in atto politiche di sviluppo e di creazione di nuovi posti di lavoro. Intanto, con la flat tax avvantaggia i ricchi.

La festa dei lavoratori 2019 si staglia su una congiuntura drammatica: la crisi del 2008, “curata” con la stessa ricetta neoliberista che l’aveva prodotta, ha desertificato i diritti, frammentato il mercato del lavoro, sospinto ai margini della società, in primis, giovani, donne e migranti. Disoccupazione e sfruttamento intensivo oggi vanno a braccetto, massacrando la vita di chi ha perso persino la speranza di trovare un lavoro e di chi – come emerge dalle inchieste nello sfoglio di copertina – lavora a cottimo schiavizzato dalle catene di distribuzione.

In questo quadro è assordante il silenzio che circonda la precarietà di chi è costretto a fare lavori occasionali, lavori alla giornata e a chiamata che impediscono di fare progetti, di organizzarsi la vita. Chi lavora in queste condizioni senza alcuna tutela e in un quadro di fortissima competizione è ricattabile, non si può permettere di rifiutare nessuna offerta, anche se il salario è da miseria. Così il lavoro povero oggi è diventato una normalità. Una scandalosa normalità.

«È giusto che in Italia, mentre i grandi monopoli continuano a moltiplicare i loro profitti e le loro ricchezze, ai lavoratori non rimangano che le briciole? È giusto che il salario dei lavoratori sia al di sotto dei bisogni vitali dei lavoratori?» si chiedeva un grande segretario della Cgil come Giuseppe Di Vittorio nel suo ultimo discorso nel 1957. È giusto che disoccupazione e disumane condizioni di lavoro arrivino oggi anche a soffocare le proprie esigenze e aspirazioni, la possibilità di vivere gli affetti, la possibilità di una realizzazione profonda di sé nel rapporto con gli altri? È tempo di una vera e propria rivoluzione del sistema di produzione, del mondo del lavoro, immaginando una società diversa che non metta al centro il profitto di pochi ma i bisogni e le esigenze delle persone. 

L’editoriale di Simona Maggiorelli è tratto da Left in edicola fino al 2 maggio 2019


SOMMARIO ACQUISTA

Forti con i deboli: tra i fascisti del III millennio essere violenti con le donne e i migranti fa curriculum

Un'immagine tratta dal profilo Instagram di Francesco Chiricozzi. PROFILO INSTAGRAM DI FRANCESCO CHIRICOZZI +++ ATTENZIONE LA FOTO NON PUO? ESSERE PUBBLICATA O RIPRODOTTA SENZA L?AUTORIZZAZIONE DELLA FONTE DI ORIGINE CUI SI RINVIA +++ ++ HO - NO SALES, EDITORIAL USE ONLY ++

Sono in corso, a Viterbo, gli interrogatori di garanzia di Francesco Chiricozzi, consigliere comunale di CasaPound di Vallerano (Viterbo) e dell’altro militante dell’organizzazione sedicente fascista del III millennio, arrestati per lo stupro di una donna di 36 anni nel pub Old Manners di Viterbo. Già, vecchie maniere, quelle violentissime di sempre, il sessismo che connota la più maschia delle ideologie. I due, che ieri sono stati espulsi dal loro leader Di Stefano, dovrebbero rispondere alle domande degli inquirenti, ma non è neppure escluso che alla fine decidano di avvalersi della facoltà di non rispondere. I video realizzati con lo smartphone parlano per loro. Le gesta dei due presunti stupratori fascisti, per almeno un paio d’ore, sono stati anche filmati con i cellulari e proprio quei file nei telefonini dei due indagati sono stati determinanti per la richiesta dell’arresto. E alla fine la donna l’hanno scaricata sotto casa come un rifiuto, lanciandole l’ultima offesa, l’ultimo affronto: «Vedi di stare zitta e non dire nulla di questa storia, tanto non ti crede nessuno».

Gli arrestati, assistiti dagli avvocati Giovanni Labate, Domenico Gorziglia e Marco Mazzatosta, sono rinchiusi da lunedì mattina nel carcere Mammagialla di Viterbo noto, tra l’altro, per il ripetersi di denunce di violenza da parte della polizia penitenziaria contro i detenuti. Ma questa è un’altra storia, forse.
È stata la donna, ancora sotto choc, a recarsi, la mattina del 12 aprile, al pronto soccorso e a raccontare la violenza subita nella notte. E subito è scattata la segnalazione da parte dei sanitari alla polizia.
Le cronache del giorno dopo raccontano della famiglia di Chiricozzi chiusa nel più stretto riserbo. Vallerano, piccolo borgo di 2500 abitanti arrampicato sui Monti Cimini ha tributato il 20% dei consensi, 300 voti e tre eletti alla lista della tartaruga dal guscio ottagonale e Chiricozzi era, fino a ieri, uno dei principali consiglieri dell’opposizione al sindaco Adelio Gregori, eletto lo scorso anno con la lista civica Obiettivo Vallerano 2018 che ha passato tutto il giorno in Municipio, assediato come mai da giornalisti e telecamere. «Il punto è proprio questo: 300 persone, che conoscono bene fatti e persone, hanno deciso di votarli», dice Gregori. Entrambi gli arrestati sono tra quelle centinaia di militanti che da queste parti si muovono senza paura seguendo le direttive dell’ideologo locale, il primario di chirurgia maxillo-facciale dell’ospedale di Viterbo, Claudio Taglia.
«Non si tratta di delinquenza occasionale – dicono gli inquirenti – ma di un gruppo pericoloso che ha ormai basi stabili nel cuore di Viterbo. E che è fatto di persone che si sentono intoccabili, tant’è che non esitano nemmeno a filmarsi».

Solo qualche tempo fa Chiricozzi aveva postato sul suo profilo Instagram il manifesto di propaganda fascista che ritrae un uomo straniero mentre abusa di una donna bianca, con la scritta: “Difendila!”. E a corredo il suo commento: «La prossima Pamela, la prossima Desirée, potrebbe essere tua figlia, tua moglie o tua sorella. Sveglia». Il ritratto di Francesco Chiricozzi è quello di un ventenne diviso tra selfie e inni a Mussolini, al fascismo e al nazismo. Sfiduciato dal Blocco Studentesco che lo riteneva troppo violento per far parte dell’associazione, Chiricozzi entra a far parte di Casapound al seguito di Jacopo Polidori, oggi anche lui consigliere di Cp. Con Polidori e altri militanti del gruppo di estrema destra viene accusato nel 2017 del pestaggio avvenuto a Vignanello di un giovane che sul suo profilo Facebook aveva postato un commento ironico su CasaPound: il ragazzo viene colpito a calci, pugni e cinghiate all’uscita di una pizzeria. Polidori e un altro maggiorenne, Luca Santini, vengono condannati in primo grado con il giudizio abbreviato a due anni e otto mesi (pena ridotta in appello per tutti e due); la posizione di Chiricozzi, all’epoca minorenne, viene stralciata. Qualche tempo dopo viene chiesto il suo rinvio a giudizio e il processo a suo carico dovrebbe cominciare tra poco, il 19 luglio prossimo. Noto per attività di attacchinaggio e per organizzare banchetti per il movimento, non solo a Vallerano ma anche a Viterbo, Chiricozzi che è un ultrà della Viterbese, ha da tre anni un daspo. È stato infatti sorpreso dalle forze dell’ordine mentre tentava di introdurre dei petardi in una trasferta ad Arezzo. Ma né questa né la più grave vicenda del pestaggio ferma la sua carriera politica: nel 2018 sia lui che Polidori vengono eletti consiglieri comunali a Vallerano.
Il questore di Viterbo ha disposto la sospensione temporanea della licenza di somministrazione di alimenti e bevande del circolo privato Old Manners, ufficialmente circolo privato registrato come associazione sportiva è in realtà è uno dei luoghi di ritrovo di CasaPound. Un posto che Chiricozzi e Lezzi conoscono bene, tanto da averne le chiavi.

«Vanno presi dei provvedimenti a livello nazionale contro CasaPound, perché non è più possibile che chi sostiene certe cose e porta avanti certe idee possa candidarsi alle elezioni», reclama il sindaco di Vallerano. «Sono gli eredi dei massacratori del Circeo negli anni 70, sono camerati del marito di Alessandra Mussolini che andava a baby prostitute mentre la moglie invoca la castrazione chimica per gli altri – scrive Maurizio Acerbo, segretario di Rifondazione – da troppi anni questi personaggi godono di coperture politiche, culturali, nella magistratura e negli apparati dello Stato».
«La violenza sulle donne è una emergenza che bisogna contrastare in tutti i modi. E chi la commette non è un balordo come dice Di Maio, ma un violento – commenta Marilena Grassadonia capolista de La Sinistra nella circoscrizione Centro alle Europee -, non è la prima volta che esponenti della destra più becera, come CasaPound, si macchiano di reati e violenze. È ora di sciogliere queste organizzazioni. La violenza di genere è una questione culturale che mette in evidenza come la donna venga vista troppo spesso come “oggetto” di proprietà dell’uomo». La lista dei casi di cronaca nerissima di cui è protagonista gente in relazione diretta con CasaPound è davvero impressionante: dalla strage di senegalesi assassinati per strada il 12 dicembre 2011 da un loro aderente a pistolettate a Firenze fino all’aggressione a Bari ai danni dell’eurodeputata Eleonora Forenza e altri militanti che riaccompagnavano a casa una mamma di colore con un bimbo in carrozzina e ancora fino alla canea contro i rom a Torre Maura.

La reazione del governo però è, ancora una volta, a due facce: perché se da un lato la condanna è unanime – «sono bestie e devono pagare» – Salvini e Di Maio continuano a litigare. Il primo torna alla carica con la castrazione chimica perché «la galera non basta», il secondo gli risponde che è «una presa in giro per le donne», poiché la legge per come è scritta «si applicherebbe a casi meno gravi e sarebbe volontaria». Inoltre, soprattutto la Lega, è esplicitamente in relazione con CasaPound che ha svolto un ruolo cruciale nella fase di mutazione sovranista e nazionalista del partito salviniano, quella che ha consentito la sua penetrazione nel centro sud grazie alla creazione della sigla “Sovranità – Prima gli Italiani” a sostegno della campagna elettorale del leader leghista». All’epoca, era il 2015, si parlò del “patto del Brancaccio” tra l’astro nascente del Carroccio e gli squadristi del III millennio. Una legame di pura opportunità visto che la Lega continua a chiamarsi ufficialmente Lega Nord per l’indipendenza della Padania “che ha per finalità – dice il suo statuto appena depositato al Viminale per le europee – il conseguimento dell’indipendenza della Padania (…) e il suo riconoscimento come Repubblica Federale indipendente e sovrana”.

Anche al Viminale, CasaPound ha potuto godere di un bel po’ di tolleranza: era il gennaio di tre anni fa quando il blog Insorgenze rivelava il documento (protocollo N.224/SIG. DIV 2/Sez.2/4333 dell’11 aprile 2015 – oggetto nel 2016 di un’interrogazione parlamentare di Stefano Quaranta, Art1-Mdp-Leu) con cui la Direzione centrale della Polizia di prevenzione, con sigla in calce del direttore centrale, prefetto Mario Papa, definisce Cpi una organizzazione di bravi ragazzi molto disciplinatii, con «uno stile di militanza fattivo e dinamico ma rigoroso nelle rispetto delle gerarchie interne» sospinti dal dichiarato obiettivo «di sostenere una rivalutazione degli aspetti innovativi e di promozione sociale del ventennio». Il documento è stato allegato dall’avvocato di CasaPound Italia in una causa civile che oppone la figlia di Erza Pound, signora Mary Pound vedova de Rachewiltz, a Gianluca Iannone, leader storico della controversa formazione di “fascisti del III millennio”. Il testo della informativa fa ricorso ad un’abile strategia linguistica evitando come la peste l’utilizzo della parola fascismo sostituita dal sinonimo neutralizzante «ventennio». La prosa tende a valorizzare le capacità politiche del gruppo «facilitato dalla concomitante crisi delle compagini della destra radicale e dalla creazione di ampi spazi politici che CasaPound si è dimostrata pronta ad occupare. Il risultato è stato conseguito anche attraverso l’organizzazione di innumerevoli convegni e dibattiti cui sono frequentemente intervenuti esponenti politici, della cultura e del giornalismo anche di diverso orientamento politico».

La strategia dissimulativa e imitativa di CasaPound viene descritta nella nota come un ampliamento delle tematiche di intervento «in passato predominio esclusivo della contrapposta area politica, quali il sovraffollamento delle carceri, o la promozione di campagne animaliste contro la vivisezione e l’utilizzo di animali in spettacoli circensi» e per finire ci sono pure gli aspetti ludici. E sugli atti di violenza ascrivibili al gruppo, la tesi del poliziotto compilatore fu quella di addossarne la colpa a militanti indisciplinati magari troppo facinorosi per via della frequentazione delle curve ultras «ambito in cui l’elemento identitario si coniuga a quello sportivo divenendo spesso il pretesto per azioni violente nei confronti di esponenti di opposta ideologia anche fuori dagli stadi». CasaPound, associazione «rigorosa nel rispetto delle gerarchie interne», non c’entra. «Il sodalizio organizza con regolarità, sull’intero territorio nazionale, iniziative propagandistiche e manifestazioni nel rispetto della normativa vigente e senza dar luogo ad illegalità e turbative dell’ordine pubblico».

Sì, se puede! Un governo per tutta la sinistra

Sono solo le “prime mosse” dopo il voto ma devo dire che le ipotesi che i socialisti avanzerebbero di un loro monocolore per il governo non mi convincono. Per varie ragioni.

La prima è un intestarsi tutta la vittoria. Ora non solo non è cosi per i numeri. Che comunque quelli socialisti non bastano e son lontani dal 40% del vecchio bipolarismo. Che non possono cancellare i quasi 4 milioni di voti ad Unidas Podemos che, sì, arretra ma essendo una nuova forza stabilizza il proprio profilo a sinistra. E non possono non vedere l’avanzata delle forze autonomiste e indipendentiste in particolare progressiste. Ma per la politica. Innanzitutto quella che è stata per cui Sanchez deve molto a chi come Unidas Podemos ha contrastato Rajoy e Ciudadanos mentre interi settori del Psoe li appoggiavano arrivando a “cacciare” lo stesso Sanchez.

E poi per la politica che si intende fare. Che non può che ripartire dalla finanziaria predisposta ma per andare avanti cambiando sul serio le cose in Spagna e in Europa. E affrontando politicamente anche il tema posto dal voto in Catalunia e nei Paesi Baschi. Iglesias ha parlato di Spagna come nazione di nazioni. Mi pare un buon contributo. C’è una spinta all’unità tra i progressisti spagnoli. Lo vediamo anche dal video qui proposto. Sappiamo che senza questa spinta nessun governo funziona.

È una strage ma la chiamano “lavoro”

121 vittime dall’inizio dell’anno. No, no, non sono mica i numeri di una guerra, sono il numero dei lavoratori morti. Le chiamano morti bianche ma sono rosso sangue e molto spesso sono nere come in contratti che ci stanno dietro. Questi poi sono i numeri ufficiali: se muore un clandestino, che è invisibile, per le statistiche ovviamente non è morto nessuno, basta nasconderlo con un po’ di arguzia.

A proposito sempre di statistiche: gli incidenti sono aumentati del 10%. Un aumento del 10% di costo di vite umane riempirebbe le piazze di cortei di indignazione. E invece niente.

L’anno scorso 641.000 lavoratori hanno subito un incidente sul lavoro. Lo so sono un numero enorme. Per avere un’idea: sono uno ogni quattro. E ovviamente stiamo parlando degli incidenti di cui abbiamo contezza. l’84,6% durante l’attività lavorativa mentre il resto durante il tragitto casa-lavoro, che qui da noi sembra non interessare a nessuno. Anche questo qui da noi sembra non avere valore.

Ci sono poi i tumori causati dal luogo di lavoro: «A causare patologie cancerogene nei lavoratori sono soprattutto le fibre di amianto (oltre il 70% dei casi), in particolare nell’industria metalmeccanica» si legge nei dati forniti dall’Osservatorio statistico dei Consulenti del Lavoro che si rifanno agli open data dell’Inail: per quanto riguarda i valori assoluti, specificano come prima sia Taranto, con 164 malattie professionali di tipo tumorale nel solo 2018, seguita da Torino (152), Napoli (106) e Milano (97). «Anche se l’attenzione delle imprese sul tema è cresciuta negli ultimi anni, la sicurezza sul lavoro resta una scommessa da vincere al Sud come al Nord», ha dichiarato il Presidente della Fondazione Studi Consulenti del Lavoro, Rosario De Luca, commentando gli esiti dell’indagine.

Chi muore? Soprattutto over 54 con una percentuale in crescita del 7% per i lavoratori stranieri (quelli che ci rubano il diritto di morire sul lavoro). Nell’ultimo biennio il settore produttivo messo peggio è l’agricoltura (a proposito di caporalato e condizioni indegne di lavoro), poi il settore delle costruzioni, poi il settore minerario e quello dei trasporti.

In tutto questo il governo ha tagliato del 32% l’Inail. Perché fortunatamente per l’esecutivo le morti non fanno notizia, non indignano, non richiamano nessuna élite e così in realtà si consuma una strage ma noi continuiamo a chiamarla lavoro.

Ottimo così.

Buon martedì.

 

Maratona dell’apartheid a Trieste, come è possibile che gli organizzatori siano ancora al proprio posto?

New York Times, Washington Post, The Guardian. L’immensa figuraccia del sindaco di Trieste, della giunta leghista che guida il Friuli Venezia Giulia, degli organizzatori tutti delle giornate di maratona del “Trieste Running Festival”, è rimbalzata in tutto il pianeta anche su le testate sopra elencate, procurando danni e sberleffo. Una storia grottesca il cui il razzismo, l’ignoranza e l’incompetenza hanno realizzato un combinato disposto degno di una farsa recitata malissimo. Ricapitoliamo in breve: gli organizzatori, fra questi la Generali assicurazioni e il comune giuliano, in vista delle ormai tradizionali giornate di corsa popolare, dal 2 al 5 maggio che culminano, l’ultimo giorno con la mezza maratona avevano comunicato, per bocca di Fabio Carini, patron della manifestazione e Presidente dell’Asd Miramar, l’esclusione degli atleti africani dalla gara. Le motivazioni? Gli africani vengono sfruttati da manager che incamerano i loro ingaggi quindi meglio escluderli per salvaguardarli. Il tutto sotto gli occhi della Iaaf, della Fidal e del Coni, il cui presidente regionale, Giorgio Brandolin è stato anche parlamentare, eletto come indipendente, per il Pd. La vicenda ha portato ad una sollevazione pressoché unanime da parte del mondo politico, con gli opportuni distinguo e soprattutto a una diffusa protesta nei social. C’è stato chi ha invitato al boicottaggio della manifestazione, chi ha proposto agli atleti di correre con una mano guantata di nero (Olimpiadi di Città del Messico 1968), chi ha domandato alle associazioni sportive di ritirare il sostegno, chi ha utilizzato le armi dell’ironia amara con frasi come “benvenuti nel 1938”. Dopo il danno è stato un continuo arrampicarsi sugli specchi degli organizzatori. Un turbinio di affermazioni in cui sembra di intravvedere lo zampino di Ionesco. «Non è vero che vietiamo agli “africani” di gareggiare. Possono farlo se vogliono ma non li ingaggiamo per non farli sfruttare». Oppure: «Non ingaggiamo solo quelli che non hanno cittadinanza europea». Fino alla genialata: «Non avete capito…era una provocazione per denunciare lo sfruttamento degli africani».

Quanta bontà mai prevista, chissà se è la stessa riservata ai tanti lavoratori in agricoltura, nel terziario, nel turismo, nel lavoro di cura, presi al nero e pagati un’inezia. Ora la vicenda si è risolta. Gli organizzatori sono tornati sui loro passi e gli atleti di tutto il mondo possono essere ingaggiati ma alcune domande sono d’obbligo. Intanto, invece di attuare il proibizionismo perché non vigilare seriamente sugli agenti di ogni atleta e verificare le modalità di pagamento della partecipazione? Sono solo gli “africani” ad essere sfruttati? E poi, come è possibile che dopo una gaffe del genere, coloro che hanno provato ad imporre la prima maratona dell’apartheid restino ancora al proprio posto? La stessa “provocazione” che fortunatamente verrà portata come interrogazione in parlamento, non è da considerare come discriminazione bella e buona che andrebbe in quanto tale sancita anche penalmente? Sembra che la Fidal abbia aperto un fascicolo ma si tratta solo di giustizia sportiva? Ma ci sono altri elementi che meriterebbero una riflessione maggiore. Intanto il contesto. In Friuli Venezia Giulia, tanti anni fa si era prodotta una delle migliori leggi regionali sull’immigrazione che è stata abrogata con l’arrivo della prima giunta leghista. In molte città e comuni spira un vento xenofobo che fa paura, si pensi solo alla cacciata, ancora non risolta, per esubero, dei bambini stranieri nelle scuole materne a Monfalcone o al tentativo di riaprire un Centro permanente per i rimpatri (Cpr) a Gradisca D’Isonzo, alla repressione contro le associazioni antirazziste. In simile tessuto anche lo sport ed in particolar modo l’atletica che ormai sopravvive solo grazie ai talenti di seconda generazione o che attendono la cittadinanza, risentono del clima di esclusione. Sono molti, non solo in Friuli, i casi che lo dimostrano.

Si respira poi il rigurgito di una grande falsità (oggi diremmo di matrice “suprematista”), ovvero il fatto che l’Europa esista in quanto “bianca e cristiana”, altro che lotta allo sfruttamento. E quale migliore occasione che quella di veder correre, in una delle “terre irredente”, giovani ariani di italica stirpe in grado di riportare in alto il valore di un’Europa che non esiste più? Si perché alla fin fine ha pesato nell’avanzare una proposta tanto sgangherata anche il sogno di rivedere un giovane dalla pelle bianchissima in gare ormai predominio di chi giunge da alcuni paesi africani. Peccato che il paese bianco e cristiano per fortuna non esiste più e in fondo non è mai esistito anche se si fa ancora fatica ad accettare che esistano in Italia milioni di uomini e donne con il colore della pelle leggermente diverso da quello dei legislatori. Colore della pelle e soldi insomma, perché poi i premi riservati ai vincitori, almeno sarebbero restati in casa. Ora ci diranno che esageriamo, che gli organizzatori non sono stati compresi, che lo sport accoglie tutti, che nessuno ha parlato di colore della pelle, che si stanno sfruttando incidenti e fraintendimenti per fini politici. Ma è difficile crederci, il tentativo è andato a vuoto anche grazie ad una spontanea mobilitazione e al fatto che esistono ancora forti anticorpi e questa è una buona notizia. Ma bisogna vigilare, ci saranno altri tentativi di questo tipo.