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«Rifarei tutto»

DOMENICO MIMMO LUCANO

C’è sempre tanta gente intorno a Domenico Lucano. Lo raggiungiamo per telefono e si sentono delle voci sullo sfondo: «Mi sono venuti a trovare degli amici e voglio stare con loro». Gli amici sono della Comunità di Longo Mai che tanta influenza politica e culturale hanno avuto nella realizzazione dell’esperienza di Riace. «Sono tornati da mezza Europa a dare una mano nel momento del bisogno» riprende Lucano colpito da tanto affetto. Ma non c’è da stupirsi. La sua vicenda, quella di un piccolo paesino della Calabria è divenuta non solo in Italia, il simbolo di chi non si arrende di fronte al potere, di chi non ha nulla di cui vergognarsi se non l’aver obbedito alla Costituzione e a valori che non hanno confine. All’assemblea di lancio della lista “La Sinistra” per le elezioni europee, partiva l’applauso ogni volta che qualcuno pronunciava il suo nome. Un applauso divenuto ovazione quando è intervenuto telefonicamente per ringraziare chi lo sosteneva. «È l’effetto di tutte le mie vicende giudiziarie – si schernisce -. Ho incontrato magistrati che si domandano il perché di misure cautelari tanto assurde nei miei confronti. Sto scontando la pena prima del processo». E il pensiero va anche alla decisione del tribunale del Riesame che la scorsa settimana ha confermato il provvedimento che lo obbliga a stare lontano da Riace. «Poi magari riceverò pure le scuse per “non aver commesso il fatto”… ma intanto. Mi hanno accusato anche di concussione. Un pregiudicato è andato alla Guardia di Finanza e ha detto che facevo fatture false. L’ho denunciato e ho ribaltato le accuse. E sono ancora qui. Il Giudice per le indagini preliminari ha chiesto alla Procura le ragioni per cui non sono stati fatti approfondimenti in merito a questa accusa dandomi ragione. I due filoni di inchiesta per “desertificare Riace” si sono arricchiti con un nuovo avviso di garanzia: «Anche questa è assurda. Vengo chiamato dalla Prefettura per dare una mano a risolvere il problema degli sbarchi in Calabria. Noi me….

L’intervista di Stefano Galieni a Mimmo Lucano prosegue su Left in edicola dal 26 aprile 2019


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La maratona musicale per i 25 anni di Emergency si fa “Pe’ strada”

Note jazz e piacevoli ritmi lambiranno le strade della Capitale in occasione dell’evento “Pe’ strada – Musica e parole a braccia aperte”, offerto dalla organizzazione umanitaria Emergency con il patrocinio del Comune di Roma, nei giorni 27 e 28 aprile. Piazza del Popolo ne sarà lo splendido teatro naturale.
La kermesse, un successo sin dall’esordio, grazie a un pubblico numeroso e partecipe, è oggi al suo quinto anno e stavolta ha per tema: pratiche, idee e vite resistenti. Insomma una bella occasione per la capitale di mostrarsi non solo luogo di disagi, tensioni quotidiane e scontri, ma anche (e sarebbe auspicabile più spesso) scenario di sperimentazione artistica, bellezza gratuita e opportunità sul piano dell’offerta culturale. Mettere da parte gli usi e gli abusi della propaganda politica, ma anche il cicaleccio continuo e la distorsione velenosa operata dai social, per riportare le persone “pe’ strada” a braccia aperte, è una bella sfida.
In realtà Emergency, che festeggia i suoi 25 anni di attività, è da sempre avvezza a sfide grandiose e traguardi importanti. 10 milioni di pazienti sottoposti a cure nel mondo dal 1994. In questo caso l’obiettivo, su cui si desidera sensibilizzare i partecipanti alla manifestazione, è il Centro di maternità di Anabah, nel cuore della Valle del Panshir, nord dell’Afghanistan. Un progetto, che nasce dalla necessità di una struttura capace di far fronte all’altissima mortalità materna (99 volte più alta di quella registrata in Italia) e infantile (47 volte più alta). Unica struttura specializzata e completamente gratuita presente in quell’area offre assistenza ginecologica, ostetrica e neonatale e un servizio per monitorare le gravidanze e curare tempestivamente l’insorgere di eventuali patologie. Come in tutti i Paesi in cui opera (Iraq, Sierra Leone, Sudan, Repubblica Centrafricana, Uganda e Italia), Emergency intende fornire strumenti, presidii e competenze al personale locale, affinché in futuro possa affrontare l’emergenza medica in completa autonomia.
Sabato 27 aprile, a partire dalle 17, il programma prevede una maratona musicale, con alcuni dei più grandi nomi della scena jazz italiana (Nina Zilli, Giorgio Cùscito & Swing Valley Band, Nicky Nicolai, Piji, Ladyvette, Maria Pia De Vito, Walter Ricci, Luigi Del Prete, Andrea Rea, Daniele Sorrentino) sotto la direzione artistica del sassofonista Stefano Di Battista e introdotti dal critico musicale Ernesto Assante.
Invece domenica 28 aprile, saliranno sul palco le sei migliori band, che hanno partecipato al “Pe’ strada Music Contest”, concorso dedicato a band emergenti di ragazze e ragazzi tra i 16 e i 35 anni, e si esibiranno di fronte al pubblico e a una giuria composta tra gli altri da Boris Sollazzo, Fabio Magnasciutti, Tony Pujia . Il gruppo designato vincitore dalla giuria ufficiale sarà premiato con la produzione e la pubblicazione da parte di T-Recs Music di brano e video della canzone presentata, mentre il gruppo proclamato vincitore dal pubblico si aggiudicherà il Primo trofeo “Pe’ strada Music Contest 2019”.
L’evento si concluderà con la performance live della band romana Il Muro del Canto, a cui sarà difficile non unirsi, cantando.

Quelli che pagano il prezzo più salato

May 16, 2013 - China Grove, NC, USA - A seasonal guest worker hauls flats of strawberries to a field truck during the harvest at Patterson Farm in China Grove, North Carolina, on Thursday, May 16, 2013. Senate immigration legislation could adversely affect the Patterson's family-run business, which relies on seasonal guest workers to pick their crops of strawberries, tomatoes, bell peppers and cucumbers. Patterson Farms employs 150 local workers and 150 guest workers for 3-6 months every year and has been in operation since 1919. (Credit Image: © Davis Turner/MCT/ZUMAPRESS.com)

Un sistema che vive di tangenti più o meno occulte». Forse, quando ha definito in tal modo il business dei supermercati dove ogni giorno andiamo a riempire frigo e dispensa, l’ex buyer “pentito” Luigi Asnaghi non sapeva cosa avrebbe scoperchiato. Il suo mestiere era quello di “fare la spesa”, per così dire, per una insegna della cosiddetta Grande distribuzione organizzata (Gdo). In concreto, il suo compito era reperire frutta e verdura dai vari fornitori, che sarebbe poi finita sugli scaffali. In bella mostra, tra le corsie dei negozi, di solito all’ingresso, per attirare i clienti con un biglietto da visita “genuino” e “green”. Così, a causa del suo impiego, è venuto in contatto con un mondo che – come ha scritto in una lettera aperta ad un giornale di settore – «si illude di continuare a trarre ricavi e di conseguenza basa i propri conti economici su sconti di fine anno, contributi promozionali, contributi centralizzazione e mille altre gabelle spacciate con giustificativi che farebbero invidia al miglior Machiavelli». Un insieme di “richieste”, in equilibrio sul sottile confine tra legale ed illegale, che la Gdo presenta quotidianamente ai propri fornitori, per dopare il prezzo di acquisto dell’ortofrutta e aumentare i dividendi. In un quadro che di genuino, a ben vedere, ha ben poco. A sostenerlo non è soltanto un operatore “pentito”. Le accuse sono ribadite pure da un’indagine dell’antitrust (Indagine conoscitiva n.43). In cui si fa esplicito riferimento a «elementi di criticità» nel funzionamento della Gdo, rilevati con un sondaggio tra le imprese che la riforniscono. I grossisti lamentano l’imposizione di sconti e contributi non richiesti, col “ricatto” del temutissimo delisting – il loro vero incubo – ossia l’esclusione dai circuiti distributivi. L’antitrust, di queste “gabelle machiavelliche”, ne ha censite di svariati tipi. «Sconti logistici», «premi finanziari», «esposizione preferenziale», «contributo per nuove aperture». In teoria si tratta di servizi accessori. In pratica, per fare un esempio, la catena di supermarket apre un nuovo punto vendita? Tu forn…

L’inchiesta di Leonardo Filippi prosegue su Left in edicola dal 26 aprile 2019


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La sinistra alle europee, forze fresche dalla Slovenia

I candidati di Levica al Parlamento europeo si presentano. Levica è il Partito della sinistra, sloveno, che aderisce al Partito della sinistra europea. È un partito giovanissimo perché fondato nel 2017 grazie alla confluenza tra il Partito per lo sviluppo sostenibile della Slovenia e Iniziativa per il socialismo democratico. Precedentemente si trattava di una alleanza elettorale. Il suo esordio nel voto per il Parlamento nazionale è stato molto positivo avendo superato il 9% dei voti ed eletto 9 parlamentari decisivi per sostenere dall’esterno e in modo condizionato ai contenuti un governo di ispirazione di centro sinistra.

Il leader è il trentunenne Luka Mesec protagonista delle lotte universitarie del 2012/2013. Un altro leader giovane delle sinistre alternative come sono stati prima di lui Tsipras in Grecia e Iglesias e Garcon in Spagna. Tutti con esperienze nei movimenti di lotta giovanili. Insieme a lui Violeta Tomic, candidata dalla Sinistra europea a Presidente della Commissione. Violeta è nata a Sarajevo nel 1967 ed è attrice ed attivista pacifista, femminista e dei diritti civili.

Una nuova sinistra che nasce in Slovenia uno dei Paesi della ex Jugoslavia che ha vissuto le vicende tragiche di fine millennio di cui l’Europa porta non poche responsabilità. La Slovenia fu il primo Paese a distaccarsi dalla Jugoslavia e ad essere prima riconosciuto e poi fatto membro della Ue. Proprio mentre stava entrando nella Ue scoppiò il caso dei “cancellati”, cioè dei cittadini ex jugoslavi non riconosciuti come nuovi cittadini sloveni perché «non in regola» con la nuova Costituzione slovena. Un altro “effetto collaterale” di quella epoca tragica. La rinascita in Slovenia di una Sinistra giovane e alternativa è un fatto, in tal senso e perciò, particolarmente significativo.

Caro Salvini, per combattere la mafia ti bastava una telefonata

Italian Deputy Premier and Interior Minister, Matteo Salvini, attends the Raiuno Italian program 'Porta a porta' conducted by Italian journalist Bruno Vespa in Rome, Italy, 18 April 2019. ANSA/RICCARDO ANTIMIANI

Senza bisogno di sfilare per le strade di Corleone, tra l’altro giocando sull’assioma Corleone=mafia che è il giochetto più stupido e ignorante sulla questione mafie oggi in Italia, Matteo Salvini poteva fare una telefonata al suo sottosegretario Armando Siri per dimostrare di voler combattere efficacemente la mafia senza bisogno di scomodare le forze di Polizia (impegnate a scorazzarlo nella sua campagna elettorale permanente piuttosto che occuparsi della sicurezza del territorio).

Dentro la vicenda Siri (e lo diciamo sciacquandoci la bocca mica per la Lega ma per l’orrore di cui sono imbevuti gli atti processuali) ci sono già dei fatti, al di là della presunta corruzione che dovrà essere poi provata in tribunale, che puzzano di mafia lontano un chilometro ed è un dispiacere che il ministro dell’Interno abbia deciso di non occuparsene preferendo l’ennesima sfilata.

Nicastri (colui che chiese e ottenne dall’imprenditore Arata la promessa di inserire una nuova norma per il biometano) aveva già pronta una società ad hoc per sfruttare l’eventuale emendamento di governo. Questo è un fatto. Ed è un fatto che nelle intercettazioni Arata (grazie anche al ruolo del figlio all’interno della Lega) abbia promesso quella norma in cambio di denaro. Questi sono fatti su cui il ministro Salvini non può fare finta di niente, bontà sua.

Così come non può fingere di non sapere che Nicastri (per diretta corrispondenza suggeritore della norma che avrebbe dovuto fare passare la Lega) sia ritenuto un prestanome di Matteo Messina Denaro e uno dei finanziatori della sua latitanza.

C’è quindi una questione giudiziaria e una questione di opportunità che il ministro ha a disposizione per “liberare il Paese dalle mafie” come promette da mesi e come ha ripetuto pur di non parlare della Festa della Liberazione.

Salvini vuole sconfiggere la mafia? Perfetto, provi a capire perché il biometano per qualcuno andava insistentemente inserito nel contratto e risulterà utile come non lo è mai stato per scoprire che la mafia non sta a Corleone ma si infila tra i colletti bianchi che fungono da anelli di congiunzione con la politica, quelli stessi che già Falcone e Borsellino avevano capito come fossero ben più indispensabili dei mafiosi con la coppola e la lupara.

Farebbe così, un ministro dell’Interno. Chiamerebbe il suo sottosegretario, chiederebbe spiegazioni e ce ne darebbe conto.

Buon venerdì.

La scandalosa normalità dello sfruttamento

«Non certo questa Repubblica pensò Giuseppe Mazzini. Egli voleva una Repubblica laica e questa non è che una Repubblica confessionale; voleva una Repubblica a carattere profondamente sociale, in cui scomparisse il privilegio e su di esso trionfassero le forze del lavoro», scriveva Sandro Pertini su L’Avanti! del 2 giugno 1949. «In questa Repubblica, invece, domina ancora, e più prepotente che mai, il privilegio: i ricchi sono sempre ricchi, più ricchi di prima; i poveri sono sempre poveri, più poveri di prima», denunciava l’ex partigiano e futuro presidente della Repubblica.

Al di là del riferimento a Mazzini (di cui in quell’articolo tracciava un profilo che assomiglia più a un autoritratto che a un ritratto del patriota spiritualista genovese) colpisce quanto la situazione denunciata in quell’intervento del ’49 sia drammaticamente assonante con quella odierna. Benché siano trascorsi settant’anni nulla è cambiato rispetto all’ingerenza del Vaticano nel governo italiano. Allora come ora si registra il tradimento dei valori della Costituzione antifascista e laica che parla di Repubblica democratica fondata sul lavoro e di «pari dignità sociale». «Questa Repubblica è democratica solo nella forma – approfondiva Pertini – perché in essa le libertà politiche, non sorrette da alcuna giustizia sociale, vanno risolvendosi in un beneficio per una minoranza e in una beffa per milioni di lavoratori…Questa Repubblica rimarrà uno strumento di reazione, finché essa sarà dominata dalle forze clerico-conservatrici e lettera morta, quindi, resteranno i principi consacrati dalla nuova Costituzione».

Ancora oggi è drammaticamente disatteso l’articolo 4 della Carta là dove dice che «la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni per renderlo effettivo».

Invece di attuare l’art. 3 della Costituzione, in cui si afferma che è compito della Repubblica «rimuovere gli ostacoli che impediscono l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese» i governi di centrosinistra (quello di Renzi in particolare) e di destra hanno fatto a gara per bypassare la contrattazione, per depotenziare i sindacati e per ridurre, togliere, e negare le tutele ai lavoratori. Provvedimenti come il Jobs act hanno dato il colpo di grazia al sistema delle tutele, aumentando la precarizzazione. Con il decreto dignità e con il cosiddetto reddito di cittadinanza (che tale non è in quanto reddito condizionato) il governo giallonero, lungi dall’aver abolito la povertà, si è limitato a fare un po’ di elemosina senza mettere in atto politiche di sviluppo e di creazione di nuovi posti di lavoro. Intanto, con la flat tax avvantaggia i ricchi.

La festa dei lavoratori 2019 si staglia su una congiuntura drammatica: la crisi del 2008, “curata” con la stessa ricetta neoliberista che l’aveva prodotta, ha desertificato i diritti, frammentato il mercato del lavoro, sospinto ai margini della società, in primis, giovani, donne e migranti. Disoccupazione e sfruttamento intensivo oggi vanno a braccetto, massacrando la vita di chi ha perso persino la speranza di trovare un lavoro e di chi – come emerge dalle inchieste nello sfoglio di copertina – lavora a cottimo schiavizzato dalle catene di distribuzione.

In questo quadro è assordante il silenzio che circonda la precarietà di chi è costretto a fare lavori occasionali, lavori alla giornata e a chiamata che impediscono di fare progetti, di organizzarsi la vita. Chi lavora in queste condizioni senza alcuna tutela e in un quadro di fortissima competizione è ricattabile, non si può permettere di rifiutare nessuna offerta, anche se il salario è da miseria. Così il lavoro povero oggi è diventato una normalità. Una scandalosa normalità.

«È giusto che in Italia, mentre i grandi monopoli continuano a moltiplicare i loro profitti e le loro ricchezze, ai lavoratori non rimangano che le briciole? È giusto che il salario dei lavoratori sia al di sotto dei bisogni vitali dei lavoratori?» si chiedeva un grande segretario della Cgil come Giuseppe Di Vittorio nel suo ultimo discorso nel 1957. È giusto che disoccupazione e disumane condizioni di lavoro arrivino oggi anche a soffocare le proprie esigenze e aspirazioni, la possibilità di vivere gli affetti, la possibilità di una realizzazione profonda di sé nel rapporto con gli altri? è tempo di una vera e propria rivoluzione del sistema di produzione, del mondo del lavoro, immaginando una società diversa che non metta al centro il profitto di pochi ma i bisogni e le esigenze delle persone. 

L’editoriale di Simona Maggiorelli è tratto da Left in edicola dal 26 aprile 2019


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Gli anelli deboli

Forse accadrà già mentre leggete questo numero di Left che il Movimento pastori sardi irrompa di nuovo sulla scena. Perché, dopo le clamorose proteste di questo inverno, «la vertenza si è arenata in cavilli burocratici», spiega Felice Floris, portavoce dello storico movimento nato negli anni Novanta, «indovina un po’ perché?». Il prezzo del latte è ancora inchiodato a livelli bassissimi, 74 cent che diventano 66 al netto dell’Iva, mentre è praticamente impossibile far scendere i costi in capo ai pastori sotto gli 80 centesimi. Il 14 febbraio il ministro dell’Interno e vicepremier Matteo Salvini aveva detto che gli sarebbero bastate 48 ore per risolvere la questione. Per questo i pastori stanno «serrando le fila» e daranno «battaglia». Perché, dicono, «non si è parlato delle responsabilità politiche, perché il problema non si risolve con dieci o venti centesimi ma con la volontà politica di invertire i rapporti di forza. Chi gestisce la distribuzione del cibo non può avere il potere di affamare i popoli».

Floris è di Desulo, sul Gennargentu, «che, come tutti i paesi che hanno poca terra, ha distribuito i suoi figli sull’isola e fuori. Siamo antichi transumanti». Fino al ’75 si transumava ancora per il Campidano, «ma anche questo è un fattore di sostenibilità industriale perché servono mezzi attrezzati e i loro costi sono impossibili – osserva Floris – tutto è cambiato eccetto il livello di sfruttamento. Le materie prime devono sottostare a prezzi bassi e paga chi non riesce a imporre le sue ragioni. È la grande distribuzione organizzata, la Gdo, che crea i nuovi morti di fame, i nuovi schiavi, che “tira le palle” ai trasformatori che, essendo nella scala sociale su un livello superiore a noi, scaricano su di noi la loro impotenza, però chi ha creato questi mostri è la politica, questo liberismo…».

«È normale – Floris lo usa come un intercalare -, quando fai un’asta al ribasso, c…

L’inchiesta di Checchino Antonini prosegue su Left in edicola dal 26 aprile 2019


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Liberazioni, anche in Portogallo è 25 Aprile

Con un bel video il Bloco de Isquierda celebra il 25 aprile portoghese. Una chiamata alla lotta lado a lado, fianco a fianco. Contro i soprusi delle banche ms anche per i diritti degli animali. Contro la precarietà e per i diritti LGTB. Per le pensioni e il salario. Contro il patriarcato. E molto altro che trovate nel video.

Lotte da connettere, intersezionali.

Così si continua il 25 aprile.

Era il 1974 e chi ha qualche anno in più lo ricorda e molti addirittura partirono per raggiungere la Rivoluzione dei garofani.

O povo està co Mfa, il popolo sta con il movimento dei giovani ufficiali e soldati che si ribellarono alla dittatura di Salazar.

Furono momenti esaltanti perché sembrava tornare la Rivoluzione e proprio nel cuore dell’Europa.

Non fu proprio una rivoluzione ma uno straordinario momento di liberazione che diede un colpo al fascismo ancora rimasto questo si.

Il Portogallo cambiò faccia. Poi gli eventi furono complessi e anche difficili. Ma quella spinta è rimasta e ci spiega anche il Portogallo di oggi con il suo governo diverso.

È bello che Italia e Portogallo siano uniti da un 25 aprile. È un’indicazione a lottare insieme lado a lado!

Lettera sulla democrazia

Lettera sulla democrazia

Carissima Tecla,
noi abbiamo lottato per la democrazia, per la libertà, abbiamo regalato al Paese una bellissima Costituzione e un sistema parlamentare all’avanguardia. Ma guardo all’oggi e tutto mi sembra proprio diverso da quello che noi avevano immaginato.
A vent’anni sognavo la democrazia «pura» negli intenti e nei comportamenti, ma la democrazia come viene declinata oggi è tutt’altra cosa.
A vent’anni col mitra in mano, sognavo di ricostruire l’Italia, ci credevo e facevo cose in cui credevo fortemente.
A quaranta sapevo già che tutto questo non sarebbe stato realizzato.
Lo sapevano già prima di noi i nostri genitori che ascoltavano i nostri sogni e progetti. Ma le madri non possono tagliare le gambe agli entusiasmi dei figli ventenni. Quindi, ci guardavano fare le nostre esperienze e lasciavano che fossimo noi a capire, sulla nostra pelle.
L’Italia di oggi mi sembra un Paese incapace di portare avanti veramente le riforme, di mettere in atto i diritti e i principi costituzionali, i valori della Resistenza che hanno plasmato il nostro ordinamento.
La «democrazia» per noi era anche un’idea di comunità.
Ma gli italiani sono individualisti, sono partiti dall’analfabetismo: è stato tutto difficile. Certo, abbiamo fatto passi da gigante verso la modernità. Ma pensavamo di ottenere di più. Di portare più democrazia, più diritti e più uguaglianza per tutti.
Invece le riforme avviate non sono state completate.
C’è l’inquadramento generale che avevano dato i padri della patria nella Costituente, c’è un Parlamento – più o meno cialtrone, a seconda delle legislature – ma manca ancora la comprensione vera della necessità di essere totalmente onesti quando si è nella res publica.
Ma quello che mi fa più male è che c’è qualcuno che osa ancora dichiararsi fascista, che si richiama a quell’ideologia, che si comporta in quello stile, anche se questo sarebbe vietato dalla legge.
E noi che abbiamo lottato per cacciare i fascisti, noi che oggi siamo vecchi, noi pochi rimasti a raccontare, guardiamo allibiti quando vediamo questi rigurgiti, questi fantasmi del passato che riappaiono.
È vero: la libertà oggi sembra acquisita, sembra un dato di fatto. Ma in realtà dobbiamo ancora imparare che cosa sia veramente.
La libertà è difficilissima da gestire, perché la mia finisce dove inizia la tua.
È una questione anche di rispetto degli altri. Questo concetto non è molto chiaro alla maggioranza del nostro popolo.
E poi la libertà comporta una lotta, una difficoltà, e non tutti sono pronti ad affrontarla.
Non tutti hanno la struttura morale, mentale e fisica per affrontarla.
È faticoso insegnare agli italiani che la democrazia, con tutti i suoi limiti, per forza deve essere sempre difesa, che la libertà va conquistata giorno per giorno. Democrazia è onestà amministrativa, rispetto reciproco, giustizia uguale per tutti, solidarietà verso chi soffre.
Ci vorranno forse altri cinquant’anni perché l’Italia diventi davvero democratica, forse di più. E oggi ci sono tanti problemi nuovi che fatico a comprendere.
C’è il razzismo verso gli stranieri, i politici vogliono muri, porti chiusi, nemici e capri espiatori da additare.
C’è il bullismo nelle scuole, c’è l’ignoranza, il menefreghismo, l’abitudine ad avere tutto e a non sapere dare il giusto valore alle cose, ai sentimenti, alle persone.
Noi eravamo poveri, non avevamo niente, ci passavamo i libri, ma a scuola cercavamo di imparare. Nessuno si permetteva di fare le cose che sento succedono oggi nelle classi, verso i compagni e verso i professori. Io a diciannove anni sono entrata nella Resistenza.
Ho una storia da raccontare.
Ma guardo voi ragazzi, cerco di parlarvi dei nostri valori, degli ideali, del coraggio.
Di quando abbiamo combattuto, di quando siamo stati incarcerati.
E a volte mi sembra di parlare una lingua che non viene compresa.
Oggi tutti hanno tutto. Soldi, abiti alla moda, tecnologia, connessione perenne, anche se credo che a molti manchi qualcuno con cui parlare, qualcuno da cui farsi ascoltare.
Anche in famiglia mi sembra che spesso non ci sia dialogo.
La società è fatta di vuoto. Qualcuno lo riempie con il telefonino.
Ma molti mi sembra si sentano tanto soli. Certo, ogni epoca ha avuto i suoi limiti.
Mia madre, per fortuna, ci metteva in mano i libri.
Noi siamo venuti su con i libri. Sarebbe bello che la storia della mia generazione non andasse persa, se venisse letta, se servisse a qualcosa.
Ti ringrazio comunque per tutta la gioia che mi hai dato ascoltando la mia vita.
Te ne auguro una altrettanto bella.
A te e al tuo Sergio.
Viva la libertà e la Costituzione.
La tua amica Laura

Strage di Bologna, al processo spuntano un video sull’esplosione e nuovi legami tra fascisti e 007

19800802-STRAGE DI BOLOGNA: ATTENTATO TERRORISTICO ALLA STAZIONE CENTRALE DI BOLOGNA. Nella foto: Soccorritori a lavoro. ANSA ARCHIVIO 97543

È in corso dal 21 marzo 2018, ormai da più di un anno, il processo nei confronti di Gilberto Cavallini, ex Nuclei armati rivoluzionari, accusato di concorso nella strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980, dove una bomba collocata nella sala d’aspetto di seconda classe causò 85 morti e 200 feriti. La più sanguinosa strage nella storia repubblicana.

L’accusa è di aver partecipato alla preparazione dell’eccidio, oltre ad aver fornito supporti e nascondigli per la latitanza in Veneto di Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini, tutti e tre condannati in via definitiva per la strage, i primi due all’ergastolo e il terzo, minorenne all’epoca, a 30 anni.

Cavallini, 65 anni, detenuto a Terni in regime di semilibertà, già condannato per banda armata (nello stesso processo in cui vennero riconosciuti colpevoli Mambro e Fioravanti), ma soprattutto a otto ergastoli per altrettanti omicidi, tra cui quello del giudice Mario Amato (23 giugno 1980), fu l’ultimo di questa banda di terroristi a essere catturato, a Milano nel settembre 1983.

Dopo una prima archiviazione nel 2013, Gilberto Cavallini era tornato al centro delle attenzioni a seguito del dossier inoltrato alla magistratura nel luglio 2015 ed elaborato dall’Associazione dei familiari delle vittime, che aveva avviato un approfondito lavoro di ricerca, incrociando migliaia e migliaia di pagine di atti giudiziari, sempre analizzati separatamente e mai prima correlati fra loro, non solo relativi a Bologna, ma anche ai tanti processi per fatti di strage e terrorismo dal 1974 in avanti.

Questo dossier, in cui, oltre a mettere a fuoco il ruolo svolto nella strage da Cavallini, si denunciavano le strutture clandestine che avevano operato, i presunti mandanti, i finanziatori e i complici della strage, ha originato, come vedremo, ulteriori filoni di indagine, paralleli al processo in corso.

I fili di continuità tra estrema destra e 007
Dalle indagini e dal dibattimento in corso sono emersi importanti riscontri sui rapporti tra le vecchie organizzazioni stragiste, in primis Ordine nuovo, e i Nar. Conferme giunte anche dal recupero di un biglietto spedito a suo tempo da Carlo Maria Maggi, condannato all’ergastolo per la strage di piazza della Loggia a Brescia (28 maggio 1974), dove si parla di detonatori ed esplosivo T4 da consegnare proprio a costoro. Un dato oggettivo che confuterebbe l’immagine dei Nar come “spontaneisti armati”, evidenziando invece la realtà di terroristi legati alla vecchia guardia di On. Una conferma, invece, delle relazioni politiche tra esponenti di Avanguardia nazionale e Terza posizione è giunta dalle stesse parole di Roberto Fiore, fondatore di Terza posizione e attuale segretario nazionale di Forza nuova, che nella sua deposizione del 31 ottobre ha chiarito come uno dei massimi dirigenti proprio di Terza posizione, Beppe Dimitri, era anche di Avanguardia nazionale, legato a doppio filo a Stefano Delle Chiaie.

A parlare, infine, diffusamente dei rapporti assai stretti tra il neofascismo degli anni Settanta e Ottanta e i servizi segreti, è stata una figura di primo piano dell’eversione nera, Fabrizio Zani (già fondatore di Ordine nero, poi in Terza posizione e nei Nar), che nell’udienza, sempre del 31 ottobre, ha accusato i dirigenti di Ordine nuovo e Avanguardia nazionale, per la precisione Franco Freda, Stefano Delle Chiaie, Massimiliano Fachini e Paolo Signorelli, come organici ai servizi.

Una strage preannunciata
Grazie alla deposizione di Giovanni Tamburino, nei primi anni Ottanta giudice di sorveglianza nel carcere di Padova, si è anche tornati su un episodio decisamente inquietante del luglio del 1980. Giovanni Tamburino ha, infatti, raccontato come l’estremista di destra Vettore Presilio gli disse che, di lì a poco, sarebbe stato realizzato un attentato con una bomba «di cui avrebbero parlato i giornali di tutto il mondo», aggiungendo di essersi «rivolto ai carabinieri, dopo il colloquio con Presilio, per informarli delle sue dichiarazioni» e che, a quel punto, gli fu «suggerito di contattare i servizi, cosa che feci, rivolgendomi a quello che, all’epoca, mi pare fosse il capo o il vicecapo del centro di Padova», vale a dire Quintino Spella. Ora l’ex generale dei carabinieri, a quel tempo a capo del centro Sisde di Padova, è indagato per depistaggio dalla Procura generale di Bologna (oggi 90enne, non si è presentato all’udienza del 22 marzo, recapitando alla Corte un certificato medico, ndr)

Cavallini, Mambro, Fioravante, una girandola di versioni contraddittorie
Gilberto Cavallini si è sottoposto a tre lunghi interrogatori (il 30 gennaio, il 6 febbraio e il 6 marzo), sostenendo che il 2 agosto del 1980 si trovava a Padova con Fioravanti, Mambro e Ciavardini, e di essersi poi spostato al Lido di Venezia per «incontrare un conoscente, detto ‘il Sub’, a cui dovevo far filettare delle armi». «Non intendo rivelare il nome», ha aggiunto, negando che si trattasse di Carlo Digilio, detto ‘zio Otto’, l’armiere di Ordine nuovo, segretario del poligono di tiro del Lido di Venezia. «Tornai da loro dopo un’ora, un’ora e mezza o due». Una ricostruzione diversa da quella fornita da Valerio Fioravanti e Francesca Mambro che dissero che Cavallini aveva incontrato un certo ‘zio Otto’ il 2 agosto. Da parte sua, comunque, l’ex Nar ha confermato che Digilio e ‘zio Otto’ fossero la stessa persona, mentre Fioravanti disse che Cavallini lo aveva sempre negato. Parlando del ‘Sub’, Cavallini ha poi aggiunto: «Andai da lui una prima volta, forse non c’era e ritornai dopo. Ci andavo in media una volta a settimana. Non ricordo se quella volta lo trovai oppure no».

Non una novità questa girandola di versioni diverse. Così è stato, di volta in volta, nei diversi processi da parte di Cavallini, Fioravanti, Mambro e Ciavardini, con il rilascio di deposizioni sempre fra loro palesemente contraddittorie.

Per una breve sintesi, nei dibattimenti precedenti Valerio Fioravanti e Francesca Mambro sostennero di essersi trovati il 2 agosto a Treviso, ospiti di Gilberto Cavallini e della sua compagna Flavia Sbrojavacca. Mambro affermò di aver passato la giornata a Padova, Fioravanti a Treviso. Cambiò versione solo nel 1984 raccontando di aver accompagnato Cavallini a un appuntamento a Padova. «Con noi c’era Luigi Ciavardini», sostenne la Mambro. Fioravanti inizialmente lo escluse. Ciavardini, a sua volta, solo nel 1984 si allineò, ricordando di essere stato a Padova con i due, dopo aver affermato di essersi trovato ai primi di agosto a Palermo. Anche le vetture di questo viaggio da Treviso a Padova non combaciarono mai: una Bmw per Fioravanti, una Opel Rekord per la Mambro.

Le altre piste di indagine: i legami coi “servizi paralleli” e la P2
Gli avvocati di parte civile, riprendendo alcune ipotesi già avanzate nel dossier consegnato nel 2015 alla Procura della Repubblica, hanno nel frattempo presentato più memorie difensive per sollecitare nuove indagini. Tra le richieste di approfondimento è di particolare rilievo l’ipotesi che la base di appoggio degli stragisti si trovasse a Milano, in via Ofanto, presso la carrozzeria Luki di Simone Cosimo, un malavitoso che aveva fornito loro appoggi, dove il 26 novembre 1980, Gilberto Cavallini e Stefano Soderini uccisero, durante un controllo, il brigadiere dei carabinieri Ezio Lucarelli.

Si è anche chiesto di indagare su due altre vicende. La prima relativa all’identità dei tesserini dei carabinieri che furono trovati nel covo di Terza posizione di via Monte Asolone a Torino, uno dei quali sequestrato addosso a Cavallini. Tesserini dell’Arma che risultano provvisti di timbro a firma del comandante Giuseppe Montanaro, risultato affiliato alla P2 (tessera 906). La seconda rispetto alla ricostruzione delle utenze telefoniche indicate in una delle agende di Cavallini, dove compaiono due numeri di telefono «riservati e non rintracciabili», a disposizione esclusiva dei servizi segreti, che proverebbero il collegamento dell’ex Nar con questi ambienti ed in particolare con Adalberto Titta, personaggio legato alla struttura segreta “Anello”, una sorta di servizio parallelo, fondato nel 1944 da ufficiali della Repubblica di Salò, sopravvissuto con vari adattamenti, fino agli inizi degli anni Novanta. Dal canto suo Valerio Fioravanti durante la sua testimonianza nel nuovo processo ha detto di non «mettere la mano sul fuoco» per Cavallini in merito a suoi possibili rapporti con i servizi segreti.

Spunta un nuovo video dell’attentato
Il proseguimento di questo processo potrebbe riservare notevoli sorprese. La Corte ha chiesto di acquisire un filmato girato all’epoca da una televisione privata poco dopo lo scoppio in stazione, per verificare la presenza di esponenti neofascisti al momento della strage (la proiezione è prevista durante l’udienza del 22 maggio, ndr), fatto che emergerebbe in un altro video, un Super 8, che ha portato la Procura generale, sulla base di alcuni fotogrammi, a chiedere la riapertura delle indagini sull’ex esponente di Avanguardia nazionale Paolo Bellini.