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A Verona libere e liberi, colorati, forti del nostro rispetto, delle nostre differenze

Cgil trade unions secretary Susanna Camusso (C) during the meeting with Italian Deputy Premier and Labour Minister Luigi Di Maio (not pictured) about Alitalia, in Rome, Italy, 12 October 2018. I protect all workers, he said. ANSA/ANGELO CARCONI

Quando l’aria si fa opprimente la sensazione è che tutto diventi grigio, scuro, privo della luminosità dei colori. Il colore accompagna la libertà e la democrazia, rappresenta il senso di libertà che si accompagna al vivere bene la propria identità e riconoscere diversità e differenze come ricchezza.

Proprio per questo vogliamo una società colorata, dove l’uguaglianza non è omologazione ma universalità di diritti.

Se invece mancano i colori, il mondo si restringe, viene limitato, deprime e mortifica, perché costringe ognuno a vestire panni non propri; quelli richiesti, imposti, da una morale che qualcuno pretende di decidere per tutti e tutte.

Già qualcuno vuol decidere come ognuno di noi debba vivere, chi debba amare, come vestirsi, che una donna deve stare chiusa nelle mura di casa, morire nel dolore, che bambini e bambine devono abbandonare la scuola per studiare in casa, dove vi è certezza di non confrontarsi con la complessità del mondo.

Il 29, 30 e 31 marzo i fautori di questa visione del mondo si troveranno a Verona per declamare queste ipotesi.

Mentre i nostri colori aprono strade di libertà per ognuno, loro vogliono affermare che esiste un’unica scelta legittima, fatta di divieti, ma soprattutto di supremazia, di ruoli codificati, di subalternità imposte.

Nulla potrà convincerci che dovremmo tornare tutte a casa, che sia l’uomo che sceglie come e se le donne devono procreare, che esista amore e legame solo tra uomo e donna, che l’amore sia astrattamente per sempre, che in suo nome dovremmo sopportare violenza, umiliazione e sottomissione.

Basta aprire una finestra sul mondo per vedere come gli Stati teocratici sono illiberali e repressivi. Spesso li indichiamo come ritorno al passato lontano, basterebbe definirli autoritari, al contrario delle democrazie laiche, che fanno del rispetto del credo di ognuno la condizione per la libertà collettiva. Uno Stato laico dovrebbe garantire universalità dei diritti, non discriminare e non giudicare.

È del tutto evidente la pulsione autoritaria oltre che ipocrita di questi messaggi. Ipocrita perché si potrebbe in lungo e in largo raccontare come almeno una parte degli oratori annunciati al Congresso di Verona non conduca una vita riconducibile al modello che loro stessi promuovono.

Questa contraddizione rafforza il versante autoritario, quello che nega la libertà di scelta che ci siamo conquistate in tanti anni, perché occorre sempre ricordare che la libertà delle donne è metro di misura della democrazia, di un Paese come del mondo. Il rispetto delle scelte di ognuno, la non discriminazione sono essenziali per la vita libera delle persone.

A Verona in quegli stessi giorni in cui si svolgerà il Congresso mondiale delle famiglie, ci dovranno essere tante voci, tante persone per rendere evidente la distanza tra il loro grigio e il nostro arcobaleno, tra chi vuol vivere gioiosamente e responsabilmente le proprie scelte di autodeterminazione e chi invece vuole costringere, perché concepisce solo modelli proprietari e di supremazia, e non afferma se stesso autodeterminandosi ma volendo controllare mente e corpo dell’altro da sé.

Sentenze, disegni di legge, proclami ministeriali, la gogna social per chi afferma opinioni differenti, il rifiuto di ogni diversità appare nelle cronache con cadenza ormai quotidiana, ma nessuno si faccia illusioni: non arretreremo di un millimetro dalle nostre conquiste, anzi sappiamo che tanta strada ancora abbiamo da fare per raggiungere pienamente la nostra libertà.

Troppe ambiguità abbiamo visto nel governo, insopportabile è l’adesione di istituzioni, che non dimostra come qualcuno sostiene libertà di pensiero ma violazione della nostra Costituzione.

Anche per questo saremo a Verona, libere e liberi, colorati, forti del nostro rispetto, delle nostre differenze, certe del diritto di autodeterminarsi.

La sindacalista Susanna Camusso, responsabile delle politiche di genere della Cgil, è stata segretaria generale della Cgil dal 2010 al 24 gennaio 2019. Fa parte del movimento delle donne, è tra le promotrici dell’associazione Usciamo dal Silenzio. La dirigente Cgil partecipa alla manifestazione “Verona libera, Italia laica” che si terrà il 30 marzo pomeriggio a Verona, con la partecipazione di molte associazioni fra le quali la Uaar e Vita di donna.

L’editoriale di Susanna Camusso è tratto da Left in edicola dal 29 marzo 2019


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“I figli (e la madre) sono qualche cosa del padre…”

Il primo Codice civile italiano fu approvato nell’aprile del 1865. Tra le norme che regolavano i rapporti familiari, ve ne era una dedicata al matrimonio dei figli, che getta una luce chiarificatrice su quanto contasse la donna all’interno della famiglia.

Segnatamente, i figli maschi che non avevano compiuto 25 anni e le figlie femmine che non avevano compiuto 21 anni, non avrebbero potuto contrarre matrimonio senza il consenso del padre e della madre, ma se i genitori fossero stati in disaccordo, sarebbe stato sufficiente solamente il consenso del padre, come dire che la madre contava meno di nulla, o comunque che il suo parere aveva valore solo nella misura in cui coincideva con quello del marito.

Proseguendo sulla disamina dei diritti negati, il Codice del 1865 stabiliva che la moglie non avrebbe potuto donare, alienare beni immobili, sottoporli ad ipoteca, contrarre mutui, cedere o riscuotere capitali, né transigere o stare in giudizio relativamente a tali atti, senza l’autorizzazione del marito.

L’incapacità giuridica intesa come cardine fondante della negazione della affermazione individuale e sociale della donna.

Eppure una sensibilità in senso contrario la si poteva registrare già in quel periodo storico.

Un anno prima, nel 1864, era stata pubblicata l’opera più importante di Anna Maria Mozzoni, attivista per i diritti delle donne e giornalista: La donna e i suoi rapporti sociali.

La Mozzoni pose nella centralità dell’affermazione femminile l’istruzione e il riconoscimento dei diritti in relazione allo stato del lavoro femminile.

L’adozione del Codice del 1865, con le sue arretratezze, sollecitò anche Salvatore Morelli, femminista e illuminista, a presentare nel 1867 un progetto di legge dal titolo “Abolizione della schiavitù domestica con la reintegrazione giuridica della donna, accordando alla donna i diritti civili e politici”.

Nel 1875 Salvatore Morelli predispose un disegno di legge che ridisegnava il diritto di famiglia, e che riconosceva alle donne la capacità a rendere testimonianza, a votare, a divorziare, a redigere testamenti per disporre dei propri beni, a mantenere il doppio cognome.

Morelli voleva costruire la società italiana in senso emancipatorio, ma sapeva anche che il freno era costituito dalla grande influenza esercitata sulle masse dall’autorità cattolica.

Fu anche per questo che si oppose con fermezza alla legge sulle Guarentigie, la norma che dava al Capo pontificio soldi e onori sovrani, consentendogli di avere maggiore influenza sulla società italiana, come se non fosse già troppo arretrata di per sé.

Il pontefice, Leone XIII, successivamente alla riaffermata supremazia ricevuta dalla legge sulle Guarentigie, nel 1891 pubblicò la Rerum novarum, una enciclica con la quale introduceva nella società italiana la dottrina sociale cattolica, e nel contempo stigmatizzava l’intervento legislativo dello Stato nella regolamentazione normativa del diritto di famiglia.

La Rerum novarum incise profondamente anche nella qualificazione della tutela dei minori oggettivandone il possesso: «I figli sono qualche cosa del padre…».

Nel 1942, sotto il regime fascista, venne approvato un nuovo codice civile che disegnava per la donna, ancora una cornice normativa di inferiorità e di subordinazione.

Il codice del 1942 si confermava l’impostazione discriminatoria, disciplinando, tra le altre arretratezze, la cosiddetta potestà maritale secondo la quale: «Il marito è il capo della famiglia; la moglie segue la condizione civile di lui…».

Ancor più grave, durante l’epoca fascista, fu la produzione legislativa volta ad esaltare il ruolo della donna in funzione della maternità con il preciso scopo di allontanarla dal mondo del lavoro e dall’autodeterminazione.

Il fascismo e la Chiesa cattolica ebbero una sciagurata convergenza sulla regolamentazione del matrimonio, al punto che quando vennero stipulati i Patti lateranensi nel 1929, si stabilì che il matrimonio stipulato davanti ad un officiante del clero cattolico avrebbe avuto immediata efficacia anche nello Stato italiano.

La Costituzione italiana del 1948 mutò radicalmente il quadro di riferimento legislativo, e introducendo il principio di uguaglianza, pose fine, sotto il profilo formale, ad ogni discriminazione tra uomo e donna.

Ma il principio di uguaglianza non riuscì a scardinare alcune resistenze cattoliche rispetto alla distinzione tra figli naturali e figli legittimi, per non parlare dell’indissolubilità del matrimonio, concetto cattolico che fa discendere dalla divinità la sacralità del legame, e che, di fatto, ha ostacolato per un secolo l’attuazione di una legge sul divorzio.

Nel 1965 venne proposta una legge sul divorzio che fece riferimento diretto ed esplicito alla legge sul divorzio presentata un secolo prima proprio da Morelli, mentre una legge sul diritto di famiglia conforme alla Costituzione, fu approvata nel 1975, 100 anni dopo la proposta di Morelli.

Con la nuova disciplina i coniugi acquistarono pari diritti e doveri; ai figli nati fuori dal matrimonio vennero riconosciuti gli stessi diritti successori dei figli nati all’interno del matrimonio, venne riconosciuto il diritto della moglie ad ereditare; venne introdotta la comunione dei beni con una presunzione di proprietà condivisa di tutto ciò che entrava nella sfera economica dei coniugi.

Il nuovo diritto di famiglia del 1975 aveva determinato l’affermazione di un nuovo modello di società ugualitario, e aveva creato le premesse sulla nuova identità sociale della donna come lavoratrice e non più solo fattrice.

Ed è stato in questo complessivo contesto di autodeterminazione che la società civile è riuscita a maturare, tre anni dopo, la legge sull’aborto, tra i più grandi baluardi di civiltà di questa Nazione.

A distanza di oltre quarant’anni le forze reazionarie clericali e fasciste vorrebbero riaffermare i modelli derivati dalla codicistica del 1865 e dalla Rerum novarum, ma non ci riusciranno.

Il futuro dell’umanità è in direzione opposta e contraria alla loro misoginia.

 

 

L’articolo di Carla Corsetti è stato pubblicato su Left del 29 marzo 2019


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Chiesa e pedofilia, nel motu proprio di papa Francesco non c’è traccia dell’obbligo di denuncia alle autorità civili

«Se i bambini avranno l’accortezza di farsi abusare entro i confini dello Stato di Città del Vaticano, saranno tutelati i loro diritti; al di fuori, non possiamo agire». Il presidente di Rete L’Abuso, Francesco Zanardi, commenta così a Left l’atteso motu proprio emanato da papa Francesco in materia di violenze “sessuali” su minori annunciato al termine del summit che si è tenuto in Vaticano a fine febbraio alla presenza dei capi di tutte le conferenze episcopali del mondo. «Questo – prosegue Zanardi – è ciò che nella sostanza è contenuto nel motu proprio di papa Francesco, che è bene ricordare ha validità nel solo Stato della Città del Vaticano e per i cittadini dello Stato vaticano». Prima del vertice vaticano, il presidente dell’associazione italiana di tutela dei diritti delle vittime di pedofilia di matrice clericale è stato ricevuto dalla commissione pontificia insieme ai rappresentanti di altre sette associazioni nazionali di altrettanti Paesi. E in quella occasione agli emissari del papa sono state fatte delle precise richieste e osservazioni sul modo in cui la Chiesa avrebbe dovuto gestire in particolare l’assistenza alle vittime dei preti pedofili in tutto il mondo. «Pur ammettendo – prosegue Zanardi – che le nostre istanze sono state in qualche modo accolte, in primis quella di legiferare in merito all’assistenza alle vittime, che come leggiamo nel documento sarà gestita Direzione di Sanità e Igiene del Governatorato dello Stato della Città del Vaticano, mi domando in che modo sarà concretamente realizzata. Dovranno andare in Vaticano per essere aiutate?». A tal proposito le associazioni avevano richiesto degli indennizzi proprio per sovvenzionare “in autonomia” le cure necessarie a chi subisce questo genere di violenza. «Si tratta di misure improponibili, anche se ci venisse pagato il volo per andare in Vaticano dallo psicologo». Il presidente di Rete L’Abuso si sofferma infine sull’applicazione delle norme penali emanate da papa Francesco. «Hanno validità solo all’interno di quell’appezzamento di circa un km quadrato che è la Città del Vaticano, ma che comunque il pontefice potrebbe applicare immediatamente, dando giustizia ai chierichetti della Basilica di S. Pietro, abusati proprio in Vaticano, a due passi dalla sua residenza di S. Marta, dove il Motu proprio ha validità».

Vediamo ora nel dettaglio i passaggi più significativi dei tre documenti emanati da papa Francesco che entreranno in vigore l’1 giugno 2019: il Motu proprio sulla protezione dei minori e delle persone vulnerabili, la legge sulla protezione dei minori e delle persone vulnerabili dello Stato della Città del Vaticano e le Linee guida per la protezione dei minori e delle persone vulnerabili per il Vicariato della Città del Vaticano. (LEGGI IL DOCUMENTO COMPLETO)

«Desidero rafforzare ulteriormente l’assetto istituzionale e normativo per prevenire e contrastare gli abusi contro i minori e le persone vulnerabili affinché» scrive Bergoglio «nella Curia romana e nello Stato della Città del Vaticano», «maturi in tutti la consapevolezza del dovere di segnalare gli abusi alle Autorità competenti e di cooperare con esse nelle attività di prevenzione e contrasto». Laddove il papa parla di «autorità competenti» si potrebbe pensare che si riferisca alla magistratura “laica” e invece più avanti chiarisce che: «Fatto salvo il sigillo sacramentale (cioè il segreto che grava su tutto ciò che viene detto nell’ambito del confessionale, ndr), i soggetti (gli ecclesiastici, ndr) … sono obbligati a presentare, senza ritardo, denuncia al promotore di giustizia presso il tribunale dello Stato della Città del Vaticano ogniqualvolta, nell’esercizio delle loro funzioni, abbiano notizia o fondati motivi per ritenere che un minore o una persona vulnerabile sia vittima di uno dei reati (di abuso su minori o persone vulnerabili, ndr), qualora commessi anche alternativamente: nel territorio dello Stato; in pregiudizio di cittadini o di residenti nello Stato; in occasione dell’esercizio delle loro funzioni, dai pubblici ufficiali dello Stato». Più chiaro di così. Dopo di che, in relazione alle osservazioni di Zanardi leggiamo: «Alle persone offese dai reati di cui all’articolo 1 della Legge N. CCXCVII è offerta assistenza spirituale, medica e sociale, compresa l’assistenza terapeutica e psicologica di urgenza, nonché informazioni utili di natura legale, tramite il Servizio di accompagnamento gestito dalla Direzione di Sanità e Igiene del Governatorato dello Stato della Città del Vaticano». Sarebbe questa la tanto pubblicizzata “tolleranza zero” di cui si sente parlare dal giorno in cui Jorge Mario Bergoglio è diventato papa Francesco, ormai sei anni fa? Un summit mondiale in diretta planetaria che si è concluso con l’annuncio di un motu proprio che avrebbe stretto le maglie della giustizia vaticana in materia di pedofilia ed ecco il colpo da maestro: una legge che si occupa solamente della protezione dei minori e delle persone vulnerabili dello Stato della Città del Vaticano. Manca quindi l’obbligo di denuncia e di collaborazione per i vescovi con le autorità civili che tutti si aspettavano, considerando appunto che al summit erano stati convocati tutti i capi delle conferenze episcopali. Ma paradossalmente non può che essere così, dato che questo acclamatissimo motu proprio si occupa solo dei crimini subiti dai cittadini vaticani. Insomma, siamo al solito metodo in voga oltretevere da quasi due millenni per proteggere in primis il potere pontificio: cambiare tutto per non cambiare niente.

“Giù le mani dal parco di Aguzzano, non vogliamo speculazioni”: a Roma si difende un’area protetta in nome della cultura

Il 30 marzo a Roma, con partenza alle ore 15.30 dalla stazione metro di Rebibbia, si svolgerà una manifestazione importante. A determinarne il valore non saranno i numeri o la visibilità mediatica ma il legame stringente con il GlobalStrikeForFuture del 15 marzo e la marcia per il clima e contro le grandi opere di sabato 23 marzo. Un elemento importante. Per chi pensa che le questioni “ambientali” così connesse alla qualità della vita appartengano a chi vive in condizioni di lusso, quella del 30 sarà una lezione ad alto impatto pedagogico. Perché in piazza ci saranno uomini e donne di borgate romane lasciate nel disagio che invece di prendersela con i centri di accoglienza per migranti o di fungere da alimentatori di odio chiederanno a gran voce la salvezza di un parco, di alcuni casali e di attività che rendono l’ambiente circostante non solo più integro ma socialmente utile.

La vicenda del Parco regionale di Aguzzano inizia 30 anni fa, nel 1989, grazie ad una comunità che si è sempre battuta per la sua tutela e per la sua istituzione con la quale gli abitanti hanno strappato questo polmone verde alla cementificazione e al consumo di suolo. Nel 2011, a seguito di una mobilitazione che ha coinvolto gli abitanti dei quartieri vicini, nasce l’esperienza del Casale Alba 2 contro un progetto che avrebbe stravolto la natura del Parco e dei suoi casali. Alba 2, dopo anni di abbandono, dal 2 dicembre 2012 è vivo e aperto alla collettività in maniera totalmente volontaria e senza finanziamenti, al suo interno si svolgono decine di attività gratuite, laboratori, iniziative, dibattiti, concerti, presentazioni, frequentate da centinaia di persone. Numerose le collaborazioni con il territorio, a partire dal Comitato Mammut, l’ASD Mammut Ponte Mammolo, la Scuola Giovanni Palombini, la parrocchia di S. Gelasio, il Museo di Casal dè Pazzi, i comitati e le associazioni della zona. Nel parco sono presenti 5 casali, in gran parte in disuso o in cui comunque andrebbero svolti enormi lavori di recupero. Li chiamano “Casali Alba” seguiti appunto da un numero. Il primo è il più prossimo ad un’area in cui sono stati rinvenuti resti del pleistocene molto ben conservati per essere in un territorio antropizzato. Il Casale Alba 1 potrebbe divenire un importante polo museale per la città in grado di valorizzare i ritrovamenti, in gran parte oggi giacenti in un deposito.

A detta degli attivisti delle varie associazioni presenti nell’area, il Museo di Casal De’Pazzi potrebbe (inserito nella rete dei Musei in Comune – Assessorato alla Crescita Culturale – Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali) essere utilizzato per la costruzione di un polo museale-didattico territoriale con possibilità di spazi multifunzionali e percorsi di partecipazione attiva del territorio, incluse le attività teatrali prescritte nel Piano d’attuazione per il suddetto casale. Nonostante i vincoli a cui è sottoposta l’intera area del parco e nonostante la partecipazione dei cittadini che la vivono come propria, Nei mesi scorsi si è venuti a conoscenza di un interesse della Giunta del IV Municipio per il Casale Alba 1. Con la delibera n.21 del 12/12/2018 la Giunta Municipale ha stabilito di mettere a bando la concessione in valorizzazione per il casale con attività private, anche a scopo di lucro, a tema “food” focalizzate sulla pizza, senza consultare, come prescritto, né l’ente gestore RomaNatura né la Regione, né tantomeno gli abitanti e le realtà del territorio. «Una delibera che – a detta degli attivisti riunitisi il 9 febbraio scorso in un Forum – viola i vincoli sul Parco e ignora la richiesta di processo partecipativo da parte del territorio; inoltre, consentendo l’ingresso nella gestione del Parco di privati a scopo di lucro o di finti “privati sociali” delle grosse fondazioni e cooperative, la delibera costituisce un pericoloso precedente non solo per Aguzzano, ma per l’intero sistema delle aree protette. Siamo di fronte, a tutti gli effetti, al preludio dell’indebolimento dei vincoli sul Parco e dunque al suo progressivo smantellamento. A nulla sono valsi i numerosi tentativi di aprire un’interlocuzione con l’amministrazione municipale sulla vicenda, nonostante anche la Regione e RomaNatura si siano dette disponibili ad aprire un tavolo sul futuro del Casale Alba 1».

Il Forum, ad oggi spontaneo, ma di cui da tempo i promotori hanno chiesto che divenisse pubblico con la presenza delle istituzioni e di tutti i soggetti interessati a parteciparvi, ha formulato una proposta alternativa a quella del Municipio IV: l’affidamento del Casale Alba 1 al Museo La proposta è in corso di implementazione da parte del Forum con dei tavoli tematici ed è stata presentata al Municipio e alla Regione. Uno dei promotori del Forum è il Casale Alba 2, nato nel dicembre 2012 a seguito della battaglia contro un’altra speculazione nel Parco. Uno spazio in cui, grazie all’attività volontaria di decine di persone, senza alcun finanziamento né lucro, si stanno costruendo nuove modalità di organizzazione, condivisione, socialità. Un contenitore in continua evoluzione, riempito dalle centinaia di persone che partecipano attraverso laboratori, iniziative, attività tutte gratuite.

Alba 2 collabora con varie istituzioni del territorio, come l’Istituto comprensivo Palombini, il Museo, il Centro anziani Rebibbia-Ponte Mammolo, l’Associazione “A Roma Insieme” che si occupa di far uscire, di tanto in tanto, i piccoli con meno di 3 anni figli di madri detenute nel carcere di Rebibbia. Da questo esempio sono nate realtà importanti del quartiere, come il Comitato Mammut e l’ASD Mammut Ponte Mammolo. «Nelle scorse settimane, a fronte di una totale chiusura al dialogo da parte della Giunta del IV Municipio, alcuni membri del Forum e del Casale Alba 2 – dichiarano gli attivisti – hanno anche subito gravi attacchi intimidatori con identificazioni da parte della forza pubblica mandata direttamente dal Municipio. La grande partecipazione alle iniziative del Forum e la vertenza sul Casale Alba 1, evidentemente, non sono gradite alla Giunta e alla presidente Della Casa. Si tratta purtroppo di una metodologia non nuova. Nell’affrontare i numerosi problemi del IV Municipio, come l’emergenza abitativa, l’ex Penicillina, la viabilità della Tiburtina, le sale slot, la carenza di spazi verdi e di cultura, la risposta dell’amministrazione municipale è sempre la stessa: muro di gomma e intimidazioni. Un comportamento paradossale per il Movimento 5 Stelle, che faceva dell’ecologia e del coinvolgimento dei cittadini due dei suoi principali cavalli di battaglia».

Questo mentre in tutto il Paese le vertenze ambientali e di salvaguardia si moltiplicano e cercano di connettersi a fronte del tentativo a livello nazionale di smantellamento delle aree verdi protette. Nella scorsa legislatura, ma il tema si va reimponendo, era stato presentato un ddl per riformare la legge 394/91. Il progetto prevede la possibilità di svolgere attività a scopo di lucro nelle aree protette e il progressivo coinvolgimento degli enti locali, oggi strozzati dal pareggio di bilancio e dunque costretti alla dismissione del patrimonio pubblico, nella gestione delle aree. Il comportamento del Municipio pentastellato appare assurdo: da una parte (ottobre 2018) la giunta non partecipa alla riunione della Commissione trasparenza convocata su esplicita richiesta di numerose realtà del territorio, dall’altra, pur di fronte ad una proposta che valorizzerebbe l’area interessata anche attraverso progetti che potrebbero vedere finanziamenti da parte degli enti locali e dell’Unione Europea, preferisce rivalersi considerando le mobilitazioni in atto un problema di ordine pubblico e gli attori sociali come soggetti con cui evitare ogni interlocuzione. A poco sembrano essere servite le sollecitazioni avanzate da altre istituzioni, in primis la Regione, si sta scegliendo la privatizzazione chiudendosi a riccio rispetto ad ogni altra ipotesi di utilizzo pubblico del territorio. Il corteo del 30 marzo sarà festoso, colorato e determinato e vuole servire a mandare un messaggio chiaro: “no alle speculazioni e alle intimidazioni, sì ai percorsi partecipati e alla trasparenza”.

Da legittima difesa a vendetta domiciliare

Il vice premier e ministro dell'Interno Matteo Salvini con il ministro della PA Giulia Bongiorno in Senato durante l'esame sulle disposizioni in materia di legittima difesa, Roma, 28 marzo 2019. ANSA/GIUSEPPE LAMI

Sceriffi a casa vostra: più che una legge è un editto leghista quella approvata definitivamente ieri al Senato e amplia la legittimità dell’uso delle armi per la difesa personale e della proprietà, escludendo la punibilità per chi abbia reagito «in uno stato di grave turbamento». Il giorno dopo, Ennio Amodio, ordinario di Procedura penale nell’Università degli Studi di Milano, ne fornisce una definizione precisa: «È la vendetta domiciliare, non più lo stretto sentiero della vecchia legittima difesa, si autorizza a sparare non solo quando c’è un’attualità del rischio, la subitaneità del pericolo vero e reale».

Patrimonio e vita umana non sono la stessa cosa, ma la Lega e Salvini in particolare hanno compiuto il primo passo per onorare la cambiale con la lobby delle armi leggere, uno dei vanti del made in Italy, inserendo un ennesimo punto alla catena di successi in vista del regolamento di conti tra i due soci di governo. Il prossimo step sarà la legge – c’è una proposta già firmata da 70 deputati – che punta a facilitare l’acquisto di armi per la difesa personale.

Da quelle parti si gongola e si minimizza sull’allarme di magistrati, camere penali, costituzionalisti o semplici cittadini non invasati: «Sulle armi non è cambiato alcunché. Col testo sulla legittima difesa le armi non c’entrano niente. Semplicemente abbiamo tolto il vantaggio della prima mossa al delinquente che entra in casa nostra – dice ad esempio Gianni Tonelli, ex segretario del sindacato di polizia Sap, oggi deputato della Lega e segretario della Commissione parlamentare Antimafia – l’utilizzo delle armi nei casi di legittima difesa è statisticamente residuale. Mi posso difendere con quello che ho in casa e anche semplicemente con un cazzotto». Appunto, residuale visto che, finora, si verifica solo uno o due casi all’anno del tipo di quelli paventati dalla propaganda leghista a dispetto della risonanza mediatica che viene loro dedicata. Chi si occupa di queste storie ripete che non esiste alcuna emergenza, rapine e furti sono in calo da anni: -45% tra 2007 e 2017 a fronte di un altissimo tasso di denunce (90%). Ma al 70% dell’opinione pubblica, intossicata dalla presunta emergenza sicurezza, questa legge piace, e piace di più agli elettori dei partiti ora al governo, l’80% dei votanti cinque stelle. Un italiano su quattro si dice frequentemente preoccupato dal rischio di intrusione e più del 50% pensa che sparare sia giusto, sempre.

Più che una tutela per i rari casi di chi si è difeso sparando, la conseguenza più frequente sarà una corsa al rilascio del porto d’armi e all’acquisto e detenzione da parte dei cittadini di pistole e fucili. Già negli ultimi anni (2014-2017) la corsa è in atto in forma strisciante grazie all’aumento del 41,6% delle licenze per uso sportivo, più facili da ottenere rispetto a quelle per difesa personale. «La legittimazione psicologica fornita dalla nuova legge – osserva Fabrizio Battistelli, presidente di Archivio disarmo – determinerà una proliferazione delle armi da fuoco che moltiplicherà l’eventualità di incidenti, di usi involontari e di usi impropri. In definitiva un aumento del rischio».

L’esempio degli Stati Uniti è estremo ma chiaro. Un’interpretazione strumentalizzata dalle lobby delle armi del II emendamento della Costituzione americana (che originariamente consentiva la detenzione di un’arma al cittadino in quanto membro della milizia di stato) ha condotto all’impressionante situazione di circa 290 milioni di armi “leggere” (poco meno di una per abitante), con un tasso di morti pro capite per arma da fuoco (oltre 38.000 nel 2017) che è il più alto del mondo. In Italia, nel 2017 ci sono stati 16 omicidi durante rapine ma 40 ammazzatine in famiglia, con armi legalmente detenute, tra coniugi, più spesso femminicidi, padri o figli, vicini di casa. Anche suicidarsi sarà più facile.

Per ottenere il porto d’armi è sufficiente essere incensurato, non bere o fare uso di sostanze stupefacenti, e fare un corso di mezza giornata al tiro a segno nazionale. Con la licenza si possono detenere legalmente tre pistole, 12 fucili e un numero illimitato di armi da caccia. In 400mila già possiedono una licenza per uso sportivo ma a tutto pensano meno che fare il tiro al piattello. Anche in Europa esistono aree nelle quali la disponibilità legale e illegale di armi da fuoco alimenta situazioni allarmanti. Come nell’Europa orientale, dove la proliferazione di armi alimenta frequenti casi di ferimenti e omicidi, che tendono ad avere per vittime i settori più esposti della popolazione, come i giovani maschi e, nel 40-50% dei casi, le donne.

Le nuove norme, in dettaglio
Ecco cosa dice la legge approvata giovedì 28 marzo dal Senato in via definitiva con 201 sì, 38 no e 6 astensioni: la difesa diventa sempre legittima, perché la proporzione tra difesa e offesa viene riconosciuta «sempre» c’è sempre quando una persona reagisce con un’arma all’aggressione o alle minacce subite in casa o nel luogo di lavoro, e non è punito chi reagendo in quel modo, era «in stato di grave turbamento». Fortemente voluta dalla Lega, è passata con il consenso anche del Movimento 5 stelle, Forza Italia e Fratelli d’Italia.

Il primo ok risale al 24 ottobre 2018, il 6 marzo il testo è stato votato alla Camera ma è tornato a Palazzo Madama per una modifica su una questione di copertura finanziaria introdotta a Montecitorio. Il provvedimento riforma la legittima difesa domiciliare (disciplinata ora dall’articolo 52 del codice penale) e l’eccesso colposo (articolo 55) e aumenta le pene per i reati di violazione di domicilio, furto e rapina. Nei casi di presunta legittima difesa, resta in piedi la necessità che la magistratura accerti i fatti facendo indagini. In particolare, con l’aggiunta dell’avverbio «sempre», l’articolo 1 della legge introduce un aspetto tra i più controversi: d’ora in poi, di fatto non si mette in discussione la reazione di chi difende se stesso, altri o i propri beni usando un’arma detenuta legittimamente (o un altro mezzo simile), riconoscendo che la sua reazione era «giustificata» e non eccessiva. Di conseguenza non può essere punito. Non è punibile nemmeno se era profondamente turbato dal pericolo che si è trovato di fronte. In questo senso l’articolo 2 modifica l’attuale eccesso colposo (diventa un delitto colposo quello di chi, per difendersi, va oltre i limiti stabiliti dalla legge), superandolo.

Novità anche sul piano del diritto civile: la normativa appena approvata sancisce che non c’è responsabilità di chi ha agito in condizioni di legittima difesa. Ciò significa che, se assolto penalmente, non è obbligato a risarcire – civilmente – eventuali danni provocati all’aggressore o al rapinatore, se ad esempio fosse rimasto ferito o ucciso nell’azione. Una modifica riguarda le spese legali di chi ha agito per legittima difesa: l’articolo 8 prevede che potrà contare sul gratuito patrocinio se il suo procedimento è stato archiviato, prosciolto o si è riconosciuto il non luogo a procedere. Infine, agli articoli 4, 5 e 6 il provvedimento modifica e innalza alcune pene: per la violazione di domicilio si andrà da un minimo di un anno (attualmente sei mesi) ad un massimo di quattro (prima, un anno); per furto in abitazione e furto con strappo si rischierà da 4 anni (attualmente 3 anni) a 7 anni (contro i 6 di oggi); in caso di rapina varia la reclusione minima che sale a 5 anni (oggi 4). Resta invariata quella massima di 10 anni.

Le reazioni della politica
«Il sacrosanto diritto alla legittima difesa è legge. È un giorno bellissimo per gli italiani». Era raggiante e ha ringraziato «gli amici dei 5 Stelle» Matteo Salvini all’ok definitivo al secondo provvedimento-manifesto per il suo partito. In Aula, l’entusiasmo è tutto per fotografi e cameramen: a fine voto, il ministro dell’Interno raggiunge i banchi dei senatori leghisti, e con loro si mette in posa verso la tribuna. Tutti col pollice in alto mentre scorrono i clic a raffica.

«La legittima difesa consente ai cittadini, ma anche agli operatori delle forze dell’ordine, interventi più efficaci e sicuri nel momento in cui si imbatte nei confronti di chi si è introdotto illecitamente nella altrui proprietà», dice Stefano Paoloni, successore di Tonelli alla guida del Sindacato autonomo di polizia (Sap) la sigla che tributò la standing ovation ai quattro colleghi condannati per l’omicidio di Federico Aldrovandi. «Non sarà più necessario – aggiunge – dover valutare la volontà del malintenzionato per reagire in modo proporzionale alla violenza o alla resistenza prodotta. Di fatto è stato esclusivamente rafforzato il diritto di chi subisce una intrusione o è esposto ad un pericolo attuale. Nessuno sarà legittimato a detenere un’arma in più rispetto a prima. Si tratta – conclude – di giustizia sostanziale».

«Ormai è lo stadio!», urla la senatrice del Pd Monica Cirinnà. Come altri 33 Democratici, ha votato contro il disegno di legge che è stato approvato in terza lettura. «Tutti saranno meno garantiti», spiega il presidente dell’Anm Francesco Minisci, che rimarca di nuovo i «numerosi dubbi di incostituzionalità che la nuova legge comporta». A stroncare la legge anche i penalisti: «È inutile e pericolosa e interviene su un’emergenza virtuale, inesistente, visto che i casi di legittima difesa in casa sono due all’anno e si tratta di assoluzioni», ricorda il presidente dell’Unione delle camere penali Giandomenico Caiazza.

Stavolta il provvedimento sarebbe passato anche senza i voti dei forzisti e del partito di Giorgia Meloni, sebbene al pelo. Nella maggioranza sono stati 51 i sì della Lega e 91 dei 5 stelle. La somma fa 142, esattamente il quorum necessario per la votazione rispetto al numero legale. Insomma l’alleanza M5s-Lega ha retto ma nel Movimento non sono mancati i dissensi, come una settimana fa nel voto sul caso Diciotti. Allora, le dissidenti furono tre: Paola Nugnes, Elena Fattori e Virginia La Mura. A loro ora si sono aggiunti Barbara Floridia, Matteo Mantero e Michela Montevecchi. Non a caso a fine votazione, i leghisti si alzano e applaudono. Li imita una parte degli alleati. Tra i ministri invece assenti quelli 5 Stelle: sui banchi del governo c’è il trio leghista Salvini, Giulia Bongiorno della Pubblica amministrazione e Gian Marco Centinaio responsabile delle Politiche agricole. Maggioranza quindi salva ma in continuo calo a Palazzo Madama, dove i numeri sono più stretti della Camera. Complessivamente i due gruppi toccano quota 165 senatori (107 M5s e 58 Lega) e 161 è la maggioranza «utile». Sulla legittima difesa, quindi, sono mancati all’appello 19 senatori.

Il giorno dopo la prima “legittima difesa” è quella di Di Maio che prova a mettere un paletto. «L’approvazione della legge sulla legittima difesa è un proseguimento dell’applicazione del contratto di governo. Io non sono contro la legittima difesa, ma sono contro chi dice “ora compratevi una pistola e difendetevi da soli”. Voglio che lo Stato, le forze dell’ordine difendano i cittadini. Su questo non cambio parere. Ma siamo stati leali al contratto e portato a casa questa legge, che mi trova d’accordo», dice in diretta streaming da Washington, dove ha incontrato il consigliere per la Sicurezza nazionale John Bolton. «Mettiamo un attimo i puntini sulle i: io un Paese con la libera circolazione delle armi non lo voglio» scrive poi su Facebook.

Contraria ovviamente la sinistra radicale. «Pensare di equiparare il bene della vita alla difesa della “roba”, cioè della proprietà privata, è oggettivamente contrario allo spirito umanistico sul cui principio la Costituzione repubblicana ha improntato tutto l’ordinamento giuridico – dichiarano Maurizio Acerbo, segretario e Gianluca Schiavon, responsabile giustizia di Rifondazione – la difesa non è sempre legittima. Si tratta dell’ennesima americanata di Salvini al quale manca solo il ciuffo biondo di Trump! E si tratta dell’ennesima ridicolizzazione del M5s che del contratto di governo è contraente. Questi politici vadano a spiegare alle vittime degli incidenti sul lavoro il fatto che gli assolti per eccesso colposo di legittima difesa sono esentati dalle spese giudiziali, mentre i primi sono costretti a pagarle». «Un altro regalo alla lobby delle armi, un fatto gravissimo per la sicurezza – dice anche Giuseppe Civati, di Possibile – la proposta di legge fatta dalla Lega conferma il vero obiettivo della legittima difesa: spingere le persone ad armarsi».

Altro che “pirati”, è “legittima difesa”

Armed forces stand onboard the Turkish oil tanker El Hiblu 1, which was hijacked by migrants, in Valletta, Malta, Thursday March 28, 2019. A Maltese special operations team on Thursday boarded a tanker that had been hijacked by migrants rescued at sea, and returned control to the captain, before escorting it to a Maltese port. (ANSA/AP Photo/Rene' Rossignaud) [CopyrightNotice: AP]

Dunque a detta del ministro dell’Interno Salvini il Mediterraneo sarebbe solcato da pericolosi pirati che hanno dirottato verso Malta un mercantile, l’Elhiblu1, il cui equipaggio avrebbe voluto riportarli in Libia. Pericolosi pirati che sono stati tenuti sotto tiro dal temibile esercito marittimo maltese finché, su 108, cinque di loro sono scesi in manette «senza opporre nessuna resistenza» dicono gli organi ufficiali.

Che non si capisca che si preferisca essere arrestati a Malta piuttosto che ritornare nelle prigioni libiche è una cosa che mi fa esplodere il cervello. Sono andato a rileggermi gli atti dell’ergastolo che si è preso (qui in Italia, eh) Osama Matammud, detto Ismail, uno dei carcerieri libici. Di lui la Boccassini (che ne ha di pelo sullo stomaco) disse «non ho mai visto un orrore simile».

Tra le testimonianze si legge:

«Ismail si divertiva a picchiarci sempre – racconta uno dei testimoni del processo di cui non si è accorto nessuno – con sbarre di ferro, bastoni, tubi di gomma e calci e pugni. Si accaniva, io più volte l’ho visto con dei tondini di ferro pieni, di quelli che si usano per i lavori di muratura, spaccare le caviglie e i polsi di molte persone». «A volte accendeva un sacchetto di plastica sopra la schiena, facendo colare la plastica incandescente, altre volte torturava con le scariche elettriche. Io stesso sono stato portato nella “stanza delle torture”. Ismail per me aveva trovato una tortura particolare. C’era un punto della stanza dove passava il sole dall’alto dato che questa stanza era in un edificio in parte scoperto. In questo punto della stanza faceva caldissimo. Ismail mi legava mani e piedi dietro la schiena e mi lasciava per ore sdraiato per terra finché mi disidratavo e orinavo addosso».

Ismail che sceglieva le ragazze, tutte le sere: entrava nello stanzone dove si sta tutti ammassati, nuotando nelle proprie feci, e sceglieva le più carine. Si sentivano le urla, dicono, dalla stanza delle torture. E si sentivano le donne, urlare anche loro, finché lo sfinimento non vinceva. E allora si faceva silenzio tutto intorno, fino alla sera successiva. Ismail che se non arrivavano i soldi allora alla fine i prigionieri diventavano solo un costo, perché tocca mantenerli, perché non avrebbero mai potuto proseguire nel viaggio e dare merda da mangiare comunque costa: Ismail che chi non pagava veniva impiccato e poi da morto buttato in mezzo agli altri come un sacco di iuta afflosciato anche se ancora pieno di tendini, come ammonimento a non sgarrare.

E poi ci si chiede perché dirottano su Malta? Questi non sono pirati. Questa è legittima difesa. A proposito.

Buon venerdì.

Le sentinelle dell’odio

All’inizio erano soltanto piccoli gruppi di persone che si ritrovavano in piazza a leggere un libro in silenzio. Erano le Sentinelle in piedi, arrivate in Italia nell’estate del 2013 sull’esempio dei Veilleurs debout francesi. Le incontravi assorte nella lettura e dopo un’ora se ne andavano: niente schiamazzi, niente cartelli, niente rivendicazioni politiche. Che cosa poteva esserci di più innocuo? L’obiettivo dichiarato era «difendere la libertà di espressione» ma in pratica si trattava di manifestare contro le unioni civili e omosessuali, il diritto all’aborto, l’adozione per i gay o la famigerata “ideologia gender”, spauracchio agitato dalle destre ogni volta che in Italia si tenti di parlare di politiche contro omofobia e stereotipi sessisti.

Ora migliaia di sentinelle e pro-life si sono date appuntamento a Verona dal 29 al 31 marzo per il XIII Congresso mondiale delle famiglie (World congress of families) che, in difesa della cosiddetta “famiglia naturale” – quella che si forma dal legame fra un uomo e una donna «santificato» nel matrimonio – dà voce a politici reazionari e integralisti religiosi italiani e stranieri, a partire dai ministri Salvini, Fontana e Bussetti fino a Katalin Novak, ministra del governo Orbán, o all’ugandese della crociata anti-gay Lucy Akello. Il tutto sotto l’egida del presidente del Wcf, Brian Brown, noto esponente del white nationalism americano, e con la benedizione del presidente russo Putin.

Dato il prolungato battage pubblicitario all’evento, i relatori sono per lo più ormai volti noti (ovviamente c’è anche il senatore leghista Pillon), ma è interessante soffermarsi sul comitato organizzativo italiano dell’evento. Il presidente è…

 

L’inchiesta di Federica Tourn prosegue su Left in edicola dal 29 marzo 2019


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Una marea di donne contro crociati e neofascisti

I sovranisti religiosi, bianchi, nordamericani e i loro omologhi russi e italiani puntano il dito contro la pillola e l’autonomia delle donne, a cui imputano il calo delle nascite che,  dal loro punto di vista, sarebbe un danno alla nazione.

Come nella Grecia antica la donna dovrebbe stare al suo posto chiusa nel gineceo, senza istruzione. Il suo compito – così teorizzava Aristotele – sarebbe quello di mera matrice materiale per garantire all’uomo la prosecuzione della stirpe. Zitta e velata, per Paolo di Tarso, la donna era un essere inferiore subordinato in tutto alla volontà dell’uomo, come sua mera appendice essendo nata da una sua costola. Il pater familias aveva potere assoluto sulle femmine, anche di vita e di morte. A quella oppressiva società patriarcale che combattiamo da millenni ci vorrebbero riportare i fautori del Congresso internazionale  delle famiglie che si tiene a Verona dal 29 marzo.

Per tre giorni i fondamentalisti evangelici, ortodossi e cattolici uniscono le forze per imporre la loro antistorica e antiscientifica visione che criminalizza le donne che decidono di interrompere una gravidanza. Stiamo parlando di una congrega di suprematisti nordamericani neonazisti, di convertiti africani diventati feroci quanto i loro colonizzatori, di crociati pro vita che, Oltreoceano come in Italia, vorrebbero imporre la tutela della vita fin dal concepimento. Parliamo di feticisti tanatofili che antepongono la vita solo biologica di un agglomerato di cellule a quella della donna, al punto di arrivare a uccidere in nome della tutela dell’embrione.

Mancano le parole per descrivere tale galleria dell’orrore. E ci risparmieremmo volentieri di parlarne lasciandoli alle loro elucubrazioni perverse, e violente, se questo incredibile congresso (benedetto da sostenitori di Trump e di Putin con lauti sostegni economici) non annoverasse fra i partecipanti ben tre ministri della Repubblica.

Lo abbiamo già scritto e torniamo a denunciarlo, è inaccettabile che tra i relatori figurino il ministro degli Interni, Matteo Salvini, quello della Famiglia, Lorenzo Fontana, e persino quello dell’Istruzione, Marco Bussetti, insieme a una pletora di parlamentari di ultradestra, a cominciare dal leghista Pillon e da Giorgia Meloni di Fratelli d’Italia. Gli articoli che leggerete in questo sfoglio ricostruiscono puntualmente la galassia dei relatori e l’agghiacciante rete di rapporti che li legano a vario titolo a gruppi neofascisti e integralisti religiosi e razzisti. Un esempio per tutti, il portavoce di ProVita Alessandro Fiore è figlio del capo di Forza nuova Roberto.

Leggerete anche le parole del papa che, da Loreto, avverte: «È necessario riscoprire il disegno tracciato da Dio per la famiglia, per ribadirne la grandezza e l’insostituibilità a servizio della vita e della società».

Chiesa e politici genuflessi, con tutta evidenza, cercano di imporre la loro visione medievale a una società italiana sempre più secolarizzata che, sempre più, sfugge loro di mano. Nei fatti le chiese sono vuote e, soprattutto, le donne non sono più disposte a fare un passo indietro sui diritti conquistati, come scrive su Left Susanna Camusso invitando tutte e tutti a partecipare alla manifestazione del 30 a Verona, per un’Italia Laica. La Cgil ci sarà insieme ad un gran numero di altre associazioni, dalla Uaar, all’Anpi, a Di.re e Vita di donna   (da leggere su questo numero l’intervento della ginecologa Elisabetta Canitano e dell’avvocato Carla Corsetti di  Democrazia Atea e di Potere al popolo). 

In piazza a Verona ci saranno, in primis, le attiviste di Non una di meno. «Voi Vandea, noi marea», gridano a gran voce contro i più alti rappresentanti delle istituzioni italiane che, folgorati sulla via di Lepanto, vogliono fare strage di diritti delle donne. E non da ora.

Si chiamava appunto associazione Lepanto la rete ultra confessionale promossa dallo storico Roberto de Mattei, qualche anno fa assurto ai vertici del Cnr. L’esimio professore ebbe a dire che il terremoto era un castigo di Dio contro la promiscuità degli omosessuali. La battaglia di Lepanto del 1571 (data epocale per i crociati che fecero strage di turchi) era incisa, insieme al nome di Breivik e a quello di Traini, sulle armi ricaricabili di Brenton Tarrant fondamentalista bianco e razzista, stragista psicopatico che a Christchurch in Nuova Zelanda ha ucciso 50 persone inermi in due moschee. E oggi il dittatore Erdogan tuona contro l’islamofobia che albergherebbe in Occidente, accendendo il fuoco dello scontro, come ricostruisce il reportage di Roberto Prinzi in queste pagine. L’integralismo religioso e razzista non accetta il diverso, non accetta la dialettica e la pluralità dei punti di vista. E in nome di Dio uccide.

L’editoriale di Simona Maggiorelli è tratto da Left in edicola dal 29 marzo 2019


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Il cupo microcosmo di “Dogman”

Il premio David di Donatello come miglior film (più altri 8 riconoscimenti) è andato aDogman diretto da Matteo Garrone. Pubblichiamo qui la recensione di Daniela Ceselli dopo la Palma d’oro a Cannes per Marcello Fonte, il protagonista.

Il film di Matteo Garrone Dogman – Palma d’oro per la migliore interpretazione maschile a Marcello Fonte che ne è lo straordinario protagonista – è un film potente. Certo, non è un pranzo di gala, come diceva Mao a proposito della rivoluzione, e nemmeno una camminata nella natura per disfarsi del cuore atrofizzato, come suggeriva Thoreau, semmai un viaggio al termine della notte. Doloroso, terribile, cupo nei toni, desolato nelle geometrie spaziali, livido nella partitura coloristica, così efficace e satura di disperazione. Garrone, anche grazie agli sceneggiatori Gaudioso e Chiti ed alla fotografia di Nicolai Brüel, produce nello spettatore – sin dal primo istante allertato da un pitbull ringhiante e feroce come Cerbero latrans – un’esperienza fisica di contatto con l’oppressione, la minaccia e la sensazione incombente di una irreversibilità in atto, e lo fa attraverso un racconto serrato, che brucia i confini dell’iperrealismo e va oltre una vicenda tipica del genere western, per farsi documento antropologico e rappresentazione della follia. Il film trae spunto da un fatto di cronaca nera degli anni Ottanta, ma vira subito altrove, lavorando sui rapporti di forza (tema caro all’autore); la complicità con la violenza; le sorti di un microcosmo che non reagisce all’ingiustizia, perché ha smesso di credere ad ogni forma di giustizia. Un tolettatore per cani di talento, mingherlino e mansueto, amante del lavoro e degli animali, è amico di un pugile cocainomane, Simoncino (Edoardo Pesce), che, confidando nella sua mole, terrorizza il quartiere. Solido il legame con la figlia, con cui condivide le immersioni in acqua, e con i vicini, con cui trascorre il tempo e gioca a calcetto, non manca di spacciare, per arrotondare i proventi del negozio e permettersi una vacanza. La brutalità ingestibile, pazza e pericolosa, di Simoncino affascina e respinge il piccolo uomo, che lo teme, ma, al tempo stesso, lo protegge e aiuta, finché non ne rimane irrimediabilmente invischiato. Perde tutto ciò che ha costruito – immagine pubblica inclusa – e, quando si rende conto di essere solo, non più benvoluto, tradito dal cinismo altrui, decide di riscattarsi. Ma non è la vendetta il tema, semmai il tragico sprofondamento da una follia a due all’allucinazione visiva e uditiva (con uno sguardo al finale di Blow-up), calata dentro un orizzonte desolato (il Villaggio Coppola presso Castel Volturno), dove il mors tua, vita mea diventa mors tua, mors mea e l’ultimo spiraglio di bellezza resta sul fondo del mare.

L’articolo è tratto dal numero di Left del 25 maggio 2018


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Ve la ricordate Silvia Romano?

This photo taken on June 2018 shows Silvia Costanza Romano, 23, the Italian volunteer that was kidnapped Tuesday evening, Nov. 20, 2018, in Chakama, in the county of Kilifi, Kenya. Silvia, who was working with Africa Milele Onlus, was kidnapped by a group of gunmen who also wounded several people when they opened fire in the trading center. (Silvia Cristaldi/UGC via AP)

Ma esattamente cosa deve accadere perché la politica si accorga di avere Silvia Romano ancora lontana da casa, passata come notizia di sfuggita, appena accennata nei discorsi della politica ma quella che sfugge ai media, al discorso generale, al cosiddetto “sentire comune” che decide la priorità delle notizie. 

Perché di Silvia Romano interessa così poco al fantastico trio di presidente del consiglio e vice presidenti, sempre pronti a parlare di tutto, attribuirsi i meriti di tutti e pronti a calzare l’onda lasciata sguarnita dagli altri? Perché Silvia Romano non la prende a cuore nessuno? Davvero credete ancora alla bufala del riserbo dovuto alle indagini in corso? Proprio ieri, 27 marzo, sul Corriere della Sera si ricordava come tra Italia e Kenya sia in atto un vero e proprio scontro per le indagini: «L’ultima richiesta per essere autorizzati a inviare un pool di investigatori a Nairobi è stata trasmessa via Interpol tre giorni fa. Ma, ancora una volta, dalle autorità locali non è giunta alcuna risposta. E così si è inasprito lo scontro tra Italia e Kenya sulla sorte di Silvia Romano, la ragazza di 23 anni volontaria per la Onlus “Africa Milele”, rapita il 20 novembre scorso mentre si trovava nel villaggio di Chakama. Anche perché dallo Stato africano non è giunta alcuna notizia sulla sorte della giovane e con il trascorrere dei giorni aumentano i timori» scriveva Fiorenza Sarzanini.

Cosa deve succedere perché i twittaroli o quelli che si indignano per tutti su Facebook prendano a cuore questa povera ragazza? Non ci siamo dimenticati, vero, che senza una sollevazione pubblica probabilmente sarebbero sconosciute le vicende di Cucchi e non si sarebbe avuto nemmeno quel poco che si è avuto su Giulio Regeni? Questo è uno di quei casi in cui la voce dei cittadini può (e deve) fare tantissimo. E invece niente. Dico, ma non dovevamo aiutare prima gli italiani? E gli italiani a casa loro invece niente? Forse il problema di Silvia è quello di essere andata in Kenya per conto di una Ong proprio nel momento in cui le Ong sono diventate il nemico pubblico? Davvero? Siamo caduti così in basso? Ne ricominciamo a parlare solo se la ritrovano fatta a pezzi?

Dico, ma ve la ricordate Silvia Romano?

Buon giovedì.