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Non si sa dove seppellire Eric

Una veduta della tendopoli di San Ferdinando (Reggio Calabria), 02 dicembre 2018. Un migrante di 18 anni proveniente dal Gambia è morto in un incendio scoppiato nella tendopoli di San Ferdinando, nella piana di Gioia Tauro, dove vivono centinaia di extracomunitari. Secondo quanto si è appreso, il rogo, che ha distrutto due baracche, si sarebbe sviluppato in seguito ad un fuoco acceso da qualcuno tra i migranti per riscaldarsi dal freddo della notte. ANSA/ALESSANDRO SGHERRI

Eric, 32 anni, morto in terra italiana da vero italiano, con la leucemia che ne stende parecchi nella zona di Gioia Tauro. A Gioia Tauro si muore o sparati dalla ‘ndrangheta o lentamente, consumati dai suoi affari legati ai rifiuti. Oppure in baracche bruciate, lì nei dintorni.

Eric, 32 anni, è morto di leucemia come centinaia di italianissimi ragazzi del territorio. La morte non guarda mica il colore della pelle e la provenienza e la qualità dell’aria è argomento buono solo in campagna elettorale.

Raccoglieva agrumi e kiwi. Dicono che facciano benissimo. A lui mica tanto. Qui tutti raccolgono, poi, ciclicamente si raccolgono da morti. È una moria di uomini, oltre che di umanità. Spediva i soldi alla giovane moglie rimasta in Ghana. Li aiutava a casa loro.

Pensa che sfiga: un negro che dovrebbe portare malattie si è italianissimamente malato su suolo italiano. Verrebbe da ridere se non ci fosse di mezzo il morto.

È stato ricoverato per qualche settimana nel reparto di ematologia di Reggio Calabria e poi è morto. Da morto ci si aspetta almeno che qualcuno abbia degna sepoltura e invece niente. Nemmeno quella. Nemmeno come si usa nelle tribù africane. Le istituzioni dicono che non ci sono soldi. Nessuno si è fatto avanti.

Non si sa dove seppellire Eric.

Buon mercoledì.

Brexit, così Corbyn può mettere May sotto scacco

Due mosse di Corbyn per glissare il no deal e sparigliare le carte in Gran Bretagna. La strategia del leader del Labour per evitare lo spauracchio del no deal si comporrà di due mosse. La prima, sarà il tentativo di costringere la premier Theresa May ad adottare l’approccio laburista alla Brexit, presentando oggi stesso un emendamento alla mozione del governo. Nell’emendamento si chiederà all’esecutivo di adottare una serie di paletti. In sintesi: una ampia e permanente unione doganale con la Ue; uno stretto allineamento al mercato unico, sostenuto da istituzioni e obblighi condivisi; allineamento dinamico della legislazione britannica ai diritti e alle forme di protezione Ue; partecipazione nelle agenzie e nei programmi di finanziamento Ue, compresi i settori dell’ambiente, dell’istruzione e delle regole industriali; accordi in tema di sicurezza, compreso l’accesso al sistema di mandato di arresto europeo e alle banche dati Ue. Corbyn, come anticipato nella serata di ieri dai media britannici, intende anche sostenere un emendamento che escluda la possibilità di un’uscita senza accordo dall’Unione europea. Inoltre, il leader laburista intende blindare la sua strategia «presentando o sostenendo un emendamento a favore di un voto popolare per evitare una Brexit dannosa sostenuta dai conservatori». In un primo momento non era chiaro se questa mossa fosse un’apertura al referendum-bis, per ridiscutere tutto e rivotare sulla Brexit tout court. Per dipanare la confusione su ciò che sarebbe stato proposto in quel referendum, la frontbencher (una sorta di senior del governo ombra) del Labour, Emily Thornberry, ha spiegato che agli elettori sarebbe stata data la possibilità di rimanere nell’Ue o di approvare l’accordo di May. Thornberry ha dichiarato che, nel caso, sia lei che Jeremy Corbyn avrebbero condotto una campagna per il Regno Unito affinché restasse nell’Ue in quelle circostanze. «Quello che chiediamo è un referendum per confermare un accordo di Brexit oppure per procedere a nessun accordo», è stato riferito dopo un briefing del gruppo parlamentare.

La decisione di dare il sostegno del partito a un secondo referendum arriva dopo una spinta concertata del segretario ombra per la Brexit, Keir Starmer, e del vice leader Tom Watson, che temono che qualsiasi ulteriore ritardo potrebbe dare la stura a una serie di ulteriori defezioni verso il nuovo gruppo indipendente frutto della recentissima scissione del Labour (TIG ), i cui membri sostengono tutti un secondo referendum. E’ probabile che Corbyn, di converso, dovrà affrontare una consistente opposizione interna, anche in posti chiave, su posizioni leave di uscita dall’Ue. Lucy Powell, ex ministro ombra per il Labour, ha dichiarato di ritenere che almeno 25 deputati avrebbero votato contro le indicazioni di partito di sostenere un secondo referendum, il che significa che la proposta avrebbe dovuto affrontare una dura lotta per passare ai Comuni senza un significativo sostegno conservatore. John Mann, un sostenitore della Brexit, ha detto a Corbyn che la decisione di sostenere un secondo referendum sarebbe costata al Labour l’egemonia nelle Midlands e al nord: «Il prezzo di ciò ti impedirà di essere il primo ministro», ha detto alla riunione dei parlamentari laburisti. Tra gli scettici anche il parlamentare Stephen Kinnock: «Penso che sarebbe profondamente divisivo. Ha un impatto corrosivo sulla sovranità del parlamento e non mi è ancora chiaro quale dovrebbe essere il quesito elettorale». Una dozzina di ministri ombra potrebbero dimettersi se il Labour dovesse appoggiare un secondo referendum, tra loro la ministra-ombra della giustizia, Gloria de Piero, il collega alle politiche abitative, Mel Onn, e quello all’istruzione Tracy Brabin, nonché i backbenchers come Caroline Flint, Gareth Snell e Lisa Nandy. Un totale di 17 parlamentari laburisti, tra cui otto ministri-ombra, hanno votato contro o si sono astenuti sul precedente emendamento di Cooper per estendere l’articolo 50 il mese scorso. I favorevoli a un secondo referendum sono stati cautamente ottimisti all’annuncio del Labour come Clive Lewis che teme che «il Labour non sarebbe mai stato perdonato per aver facilitato la Brexit dei Tory». L’opzione più probabile del primo ministro è l’impegno a lasciare che i parlamentari votino per rimandare la Brexit entro il 12 marzo. Fonti del partito affermano che il Labour non introdurrà o sosterrà alcun emendamento per un secondo referendum questa settimana, aspetterrà proprio il 12 marzo.

Il rinvio della Brexit – a poco più di un mese dalla data ufficiale di divorzio del 29 marzo e dal rischio di no deal potenzialmente catastrofico, in mancanza di un accordo approvato a Westminster – resta in queste ore il convitato di pietra di un negoziato che consuma le sue ultime cartucce: sia sul fronte dell’estenuante trattativa supplementare Londra-Bruxelles, sia su quello interno del rissoso Parlamento britannico. Estendere l’articolo 50, e prorogare i termini dell’uscita per allontanare lo spettro di una Brexit senz’accordo, sarebbe a questo punto «una soluzione razionale», dice, al di fuori di ogni diplomazia il presidente del Consiglio Ue, Donald Tusk, a margine del vertice di Sharm El-Sheik con la Lega Araba a cui presenziano tutti i leader europei, May inclusa. E i 27 sarebbero pronti a manifestare «comprensione», qualora Downing Street si decidesse a chiederla o se non altro a valutarla: come del resto sollecitano non solo molti esponenti dell’opposizione del Regno, Labour in testa, ma anche almeno tre ministri “moderati” della compagine Tory (Amber Rudd, Greg Clarke e David Gaucke) pronti a ventilare l’arma delle dimissioni laddove l’unica alternativa fosse un taglio netto dall’Unione. May, tuttavia, per ora tiene duro, in barba agli emendamenti anti-no deal che l’opposizione laburista intende riproporre ufficialmente ai Comuni contro l’eventuale aut-aut , o la va o la spacca fra la sua linea e un divorzio hard. «E’ alla nostra portata lasciare l’Ue il 29 marzo con un accordo liscio e ordinato», replica dalla tribuna di Sharm, insistendo a dirsi fiduciosa. A suo favore giocano quanto meno le ultime parole del presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker (incontratosi di nuovo con lei nella stessa località egiziana sul Mar Rosso) stando alle quali stavolta ci sarebbero stati in effetti «buoni progressi» su un possibile aggiustamento della dichiarazione politica sulle relazioni future e sull’esame di eventuali «disposizioni alternative» o «garanzie supplementari» rispetto al backstop: la clausola vincolante di salvaguardia del confine aperto post-Brexit fra Irlanda e Irlanda del Nord contestata dai falchi della maggioranza di governo britannica. Progressi ancora tutti da consolidare prima dell’undicesima ora indicata da Juncker, quella del consiglio europeo del 21 marzo. Ma che secondo May stanno comunque a dimostrare «la determinazione» di molti leader a fare di tutto per cercare un’intesa. Come conferma il presidente del Consiglio italiano, Giuseppe Conte, spiegando il modo attraverso cui si dovrebbe provare a venire incontro a lady Theresa: «valutando la possibilità di aggiungere una dichiarazione sul backstop irlandese, una dichiarazione suppletiva all’accordo», per arrivare a un deal, un accordo, che «è nell’interesse di tutti». Meno comprensivo sembra viceversa il premier olandese Mark Rutte, che alla Bbc si dice «non ottimista», guardando alle lancette dell’orologio che continuano a correre. La Gran Bretagna a Rutte pare in effetti come «un sonnambulo» che continua a camminare alla cieca senza pensare che il baratro di «una Brexit senz’accordo» possa essere davvero a pochi passi. «Tutto questo è inaccettabile – conclude – e i vostri migliori amici devono avvertirvi: svegliatevi».

«Il saldo è positivo!»

Ogni maledetta volta che c’è un’elezione funziona sempre così. Hanno vinto tutti. Tanto che uno si domanda se valga davvero la pena votare visto che alla fine vincono anche quegli altri. Così vince Salvini nonostante non sia accorga che si continua a presentare con la sua decennale coalizione di sempre (diversa da quella con cui governa; ma questo è un dettaglio) parlando di un centrodestra che nei fatti non esiste a livelli nazionali. Ma quindi, vincendo lui, vince anche quel pulviscolo di partiti che gli stanno come quegli uccelli che beccano sulla schiena degli ippopotami.

Vince il Pd: ma non c’entra niente, il Pd. Vince il centrosinistra quando non si scanna, quando riesce a stare insieme e soprattutto trova un candidato credibile. Per inciso: non ha vinto, ma visti gli ultimi risultati elettorali qualcuno esulta come se si fosse scalato il Pordoi. Hanno le loro ragioni.

Vince il centro. Che sta dappertutto, polverizzato, (con Calenda come vate) e quindi per forza alla fine da qualche parte vince.

Ma soprattutto vincono i 5 Stelle. Grandissimi. Totalizzano un quarto dei voti delle politiche ma ci ricordano che prima non avevano nemmeno consiglieri. Come se qualcuno domani mi regalasse un bel carro trainato da cavalli ricordandomi che una volta non esisteva nemmeno la ruota. E tutti giù ad esultare.

C’è una storiella a cui sono affezionato: c’è questo Presidente-Dittatore che regna su questo Paese con tutte le autostrade a tre corsie. Un giorno decide di chiuderne una e il popolo si solleva e si indigna. «Ma come», gli dicono? Così ridurre del 33% la strada utilizzabile. E lui chiede a tutti di stare tranquilli. A un certo punto, senza fare nulla, decide di riaprirle e dice: «Avete visto? Voi vi lamentavate del 33% in meno e ora siamo al 50% in più. Il saldo è positivo!» Tutti furono contenti.

Mi sembra utile per spiegare che i numeri possono essere usati ma anche abusati.

Buon martedì.

L’Oscar a “Green Book”, un film che racconta l’arte di sopravvivere nell’America razzista

Già pluripremiato, Green Book di Peter Farrelly, (adesso premio Oscar come miglior film ndr) è il film più politically correct dell’anno per la vicenda che racconta – una storia di amicizia – ed i temi che affronta – discriminazione razziale e alterità. Il buttafuori italoamericano Tony Vallelonga (Viggo Mortensen) resta senza lavoro e viene ingaggiato, dopo un breve e teso colloquio, dal talentuoso pianista afroamericano Don Shirley (Mahershala Ali). Il lavoro consiste nell’accompagnare l’artista in tour per due mesi nel profondo Sud, lì dove il razzismo è più radicato e intransigente, e un nero non può entrare in un bar senza rischiare di essere pestato, non deve mangiare in sala con i bianchi, perché così stabiliscono da tempo le regole di convivenza, e, se fermato dalla polizia, subisce derisione e minacce. Partiti da una situazione iniziale di totale idiosincrasia e apparentemente incolmabile distanza, i due personaggi troveranno occasione di conoscersi e apprezzarsi reciprocamente, pur dentro il conflitto, la diversità dei temperamenti, la differenza dei punti di vista e della formazione, complici la strada, l’intimità di un interno auto e le esperienze che fanno. Il rozzo driver solido e dai modi sbrigativi, pugno facile e slang divertente, legato alla famiglia, innamorato della moglie, non privo di pregiudizi, che parla con il boccone in bocca, ascolta Aretha Franklin alla radio, predilige il fried chicken unto e si volta frequentemente verso il suo interlocutore, distraendo lo sguardo dalla strada, assumerà un ruolo ben diverso dal semplice salariato: sarà uno che tira fuori dalle rogne, se serve; che protegge, se necessario; che ascolta, perché è importante prestare attenzione alle parole altrui, persino scriverle, e saper ascoltare quella musica, magistralmente eseguita nelle eleganti performance serali, che riesce a toccare il cuore degli altri, compreso il suo. Il titolo si riferisce ad una guida-viaggio, The Negro Motorist Green Book, che segnalava alle persone di colore alcuni luoghi, spesso di infimo livello, a cui potevano accedere, per pernottare e mangiare. Insomma un piccolo manuale di sopravvivenza, cortesia apparente e razzismo istituzionalizzato, che cesserà di essere pubblicato solo nel 1966 due anni dopo il Civil Right Act. Tralasciamo le voci intorno al film, compreso il tweet pro teoria della cospirazione di Trump, scritto dallo sceneggiatore Nick Vallelonga; tralasciamo la consuetudine del mercato Usa di lavare ‘i panni sporchi’ della storia nazionale con film edificanti su temi come razzismo; si tratta di un film di struttura classica, un on the road, coniugato con un buddy movie, incentrato su una tematica di forte impatto sociale, edificante e robusto come i personaggi che mette in scena, piacevole e ben girato, che parla di dignità umana, di consapevolezza del proprio agire, della forza dell’arte e del talento, a cui gli attori riescono a dare autenticità e vigore. Raccomandabile la versione originale.

Articolo pubblicato su Left n. 7 del 15 febbraio 2019

Piangere sul latte versato (sul decreto sicurezza)

Dieci pastori indagati a Nuoro. Tutto merito del Decreto Sicurezza del ministro dell’interno Salvini? Stupiti? Vi sbagliate: hanno fatto le leggi per punire i poveracci, i negri e gli straccioni ma sono talmente imbecilli da non capire che una norma si applica al di là del colore della pelle e soprattutto che a tutti può capitare di trovarsi in difficoltà.

Questa volta in difficoltà si sono ritrovati i pastori sardi che nonostante anni di promesse continuano a vedere svalutare il proprio prodotto (ah, il bello della filiera lunga) e stanno trattando per arrivare a redditi più dignitosi.

Di gran lena arriva quel geniaccio di Salvini che dice tutto e niente, spaccia qualche promessa e in cambio si porta a casa un album fotografico degno della prozia americana da sciorinare sui social, tutto oro che luccica per l’affamato social manager Morisi, e mentre si atteggia da grande mediatore (del resto l’economia di base della produzione del latte è un argomento che potrebbe perfino capire davvero) dieci pastori a Nuoro si ritrovano indagati, per alcuni di loro ci sono anche le accuse di blocco stradale. E cos’è ‘sto benedetto blocco stradale?

Presto detto: sono le nuove disposizioni in materia di blocco stradale volute da Salvini (no no non è un omonimia) che è col popolo quando protesta contro gli altri ma è con i manganelli quando protestano contro di lui (anche questa è una storia vecchia, la ricordate?).

Per cui questa volta al posto degli sfrattati stranieri gli sono capitati i pastori sardi e ora si ritrova in un bel casino: diventa sempre più evidente che lerosione dei diritti solo apparentemente riguarda sempre e solo gli altri ma in realtà diventa una limitazione per tutti. Anzi, a dirla tutta: secondo il Decreto Sicurezza i famosi gilet gialli incitati da Luigino Di Maio sono tutti fuori legge. Anche lui, probabilmente, per apologia di reato. Ma per fortuna sono francesi, che ce frega.

I pastori sardi invece sono sardi (come si evince dall’aggettivo) e sono piuttosto incazzati.

Non c’è male, ministro.

Buon lunedì.

Il riscatto collettivo dei Paesi Baschi

SPAIN - SEPTEMBER 15: Bilbao Guggenheim Museum, Iberdrola Tower skyscraper and Red Bridge in Basque country, Spain (Photo by Tim Graham/Getty Images)

Dare un volto ai cambiamenti, un tracciato ai tentativi, ascoltare i programmi di chi ha in testa un’idea, la educa dandogli nomi e destinazioni: parlare di Paesi Baschi, oggi, non è cosa semplice. Occorre capire che delle differenze esistono, come fra la parte spagnola e quella francese della regione, giacché la comunione delle intenzioni, o la velocità dei cambiamenti, può variare con le distanze. È necessario sottolineare che ci sono una pluralità di attori e movimenti in campo (alcuni più politicizzati, o più radicali, altri più impegnati sul fronte culturale o giovanile) che non per forza dialogano unitariamente su questioni comuni rivendicando in maniera energica, ciascuno, le proprie personali finalità. Tocca aver cura, nell’uso delle parole, nei numeri e nell’analisi degli eventi, del passato civile e politico di questa terra come dell’ancestrale attaccamento al senso identitario cui essa è indissolubilmente legata.

Del resto negli occhi dei testimoni di anni incerti e dolorosi permane un velo di incertezza, alcune ferite non accennano a risanarsi, ancora, ma i traumi della storia non possono impedire a nessun corpo di mutare in speranzose e nuove forme, e camminando lungo le rive del Nervión, in una Bilbao che strizza l’occhio all’eclettismo culturale più fervente, guidando attraverso i paesaggi rigogliosi di una natura ribelle, fra la regione di Bizkaia e la parte settentrionale della Navarra, questa potenza rigeneratrice affiora anche nei dettagli: è una lunga scia di intenzioni e iniziative, proclami sui muri, bandiere alle finestre, è un movimento dinamico e partecipato, un gruppo consapevole di persone che, a vario titolo e con molteplici intonazioni, perorano la medesima causa: il diritto di scegliere.

Perché il punto, secondo Angel Oiarbide, portavoce di Gure Esku Dago, movimento socio-culturale in favore della sovranità di decisione e basato sul pluralismo e la partecipazione cittadina, è proprio «quello di…

Il reportage di Giacomo Alberto Vieri prosegue su Left in edicola dal 22 febbraio 2019


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Sánchez ora si gioca tutto

epa07378495 Spanish Prime Minister, Pedro Sanchez (3R), attends the party's Executive meeting at PSOE's headquarters in Madrid, Spain, 18 February 2019. This is the party's first executive meeting after Sanchez called for early elections on 15 February, as the Government did not receive sufficient support to pass the 2019 budget at the Lower House. Spain will be holding general elections on 28 April 2019. EPA/Ballesteros

Nemmeno un anno. Meno di nove mesi è durata l’esperienza del governo di sinistra in Spagna. La maggioranza che era riuscita a scalzare Mariano Rajoy la primavera scorsa si è dissolta come neve al sole nel momento chiave dell’approvazione della legge di bilancio. Il no degli indipendentisti catalani, che hanno votato insieme alle destre, ha obbligato Pedro Sánchez a convocare elezioni anticipate per il prossimo 28 aprile. Mantenersi nel Palacio de la Moncloa qualche mese in più sarebbe stata solo una lenta agonia, questa la riflessione del premier socialista. Meglio votare subito e cercare di capitalizzare quello che si è fatto – o si è tentato di fare – in questi mesi al governo, prendendo in contropiede le destre, sempre più radicalizzate dopo l’ingresso in scena di Vox. Si apre così un intenso ciclo elettorale a cui devono sommarsi le elezioni europee e quelle amministrative di fine maggio. All’inizio dell’estate potremmo avere una Spagna radicalmente diversa dal punto di vista politico. Le incognite sono moltissime.
Tutti sapevano bene che non sarebbe stato facile governare in minoranza con solo 84 deputati in un contesto politico estremamente complesso, con la crisi catalana tutt’altro che risolta. Ma la speranza era che l’eterogenea maggioranza, formata dal Psoe, Unidos Podemos, i nazionalisti baschi e gli indipendentisti catalani, riuscisse a mettersi d’accordo, cosciente del fatto che un fallimento avrebbe riportato al potere la destra. Le elezioni regionali di dicembre in Andalusia avevano fatto capire che l’aria stava cambiando: dopo 37 anni i socialisti hanno perso la regione dove si è formato un governo del Partido Popular e Ciudadanos appoggiato dall’estrema destra di Vox.
Sánchez ha giocato il tutto per tutto con…

L’articolo di Steven Forti prosegue su Left in edicola dal 22 febbraio 2019


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Usurpazione di titoli o di onori

Nella comunicazione di oggi, non solo quella che riguarda la politica ma, più in generale, l’attualità, la ricerca costante del “momento comunicativo”, della frase o dell’immagine che in un solo attimo rimane impressa nella mente di chi assiste passivamente allo “show”, definendo in tal modo l’attribuzione che lo spettatore darà nel futuro a quel soggetto, è un elemento costante della nostra società.

Il simbolismo immediato definisce non solo la natura prima di chi si intesta tale “fotografia immaginaria e immaginifica”, ma, in alcuni casi, agisce nel tempo come “correttore” della cultura di massa, portandosi dietro effetti a lungo termine spesso distorsivi della realtà.

Tale ragionamento nasce in virtù di un processo che dall’inizio degli anni Novanta ha composto, in modo maggiore o minore a seconda dei casi, il nostro Paese, soprattutto avuto riguardo alle varie personalità politiche succedutesi in questi 30 anni.

Da ultimo, non se ne dispiaccia, protagonista di questa ricerca della “fotografia di massa” è certamente il nostro ministro degli Interni, Matteo Salvini.

Quando per la prima volta è apparso con la divisa della polizia di Stato, molti media hanno riportato la notizia con la consueta superficialità, riconoscendone (chi con sarcasmo, chi con simpatia) una naturale prosecuzione dello stile “salviniano” (tutti ricordiamo le variopinte magliette o felpe con il nome dei luoghi dove l’attuale ministro svolgeva i suoi comizi – tale abbigliamento fu un significativo simbolo di come la Lega Nord riconoscesse anche il meridione all’interno del suo processo di crescita e inclusione dell’elettorato).

Eppure, a livello più specifico, alcuni sindacati, rappresentativi dei vari corpi dello Stato che il ministro intendeva “onorare” indossandone la divisa, non hanno visto di buon grado quella rappresentazione feticista, probabilmente preoccupati per un processo di appropriazione che rischia di svuotare il “senso di Stato” e il ruolo che quella divisa riveste nel nostro ordinamento.

E a ben vedere una simile fattispecie viene regolata dal nostro ordinamento penale dall’art. 498 del Codice Penale, articolo titolato come “Usurpazione di titoli o di onori”. Il testo della norma appare chiaro*, nella sua parte punitiva, ma, come spesso accade nelle norme penali, le ragioni stesse per cui il comportamento di usurpazione sia penalmente rilevante non è ben rilevabile dall’articolo.

Analizzando i precedenti della giurisprudenza (le decisioni dei vari giudici che nel corso degli anni hanno applicato questa norma, narrandone nella sentenza i motivi per cui veniva applicata), da tutti viene identificato come bene giuridico protetto la pubblica fede, quella generale fiducia che viene (o dovrebbe essere riposta) dai cittadini nei confronti delle istituzioni pubbliche e di chi ne fa le veci, secondo i compiti e i doveri prescritti dalla legge. Una fiducia che nasce proprio dall’elemento di identificazione della divisa con il potere-dovere di chi la “abita”, formalmente incaricato dal nostro ordinamento di specifiche funzioni, che obbligano il pubblico ufficiale a tenere un comportamento adeguato al suo incarico.

La divisa della polizia di Stato rappresenta quindi un corpo che “dovrebbe” identificare un ruolo ben specifico e alimentare quel generale senso di pubblica fede negli organi costituzionali.

La domanda, a questo punto, appare chiara: può un ministro dell’Interno indossare in modo costante la divisa di un corpo dello Stato?

La polizia di Stato è una diretta appendice (quella operativa e connotata dei poteri di – per l’appunto – polizia e controllo) del potere esecutivo, quindi di governo, facendo direttamente capo al ministero dell’Interno. Ma il ministro dell’Interno è una carica politica, incaricato, a seguito della nomina di un governo, per un periodo di tempo delimitato. Esso quindi, è un cittadino incaricato di un potere rappresentativo di un voto espresso, con poteri certamente ampi ma ben delimitati. Insomma, Salvini non è un poliziotto e la divisa, che definisce il poliziotto, non dovrebbe indossarla.

Ma a seguito di questo distorto simbolismo comunicativo, perché la divisa dovrebbe essere protetta. Ciò che preoccupa chi scrive è la fuoriuscita del simbolo “divisa” dai canoni di comune comprensione e interpretazione della stessa. Se la divisa la indossa un cittadino oggi il pericolo è che il cittadino diventi poliziotto, o si senta poliziotto. Con l’aumento delle regolamentazioni comunali dei c.d. fenomeni delle “ronde di cittadini”, la prossima modifica della legge sulla legittima difesa, i continui tentativi da parte di un ministro dello Stato di mostrarsi in pubblico nelle vesti del poliziotto intento a riportare ordine e sicurezza nel nostro paese, appare chiaro come vi sia il rischio effettivo che, dietro la motivazione di onorare i corpi di Stato, possa verificarsi una pericolosa immedesimazione del cittadino-elettore o simpatizzante in un organo di Stato cui sono delegate specifiche funzioni per legge.

E tale messaggio, in una fase storica nella quale le riforme repressive e securitarie tendono alla marginalizzazione sociale degli ultimi, alla ricerca costante di un nemico invasore (identificato nello straniero) e nell’elevazione della forma apparente (il decoro, le città vetrina con i conseguenti fenomeni di gentrification che svuotano il centro delle nostre città) in danno della forma sostanziale (quella della cultura, della ricerca, dell’innovazione additata come perversione e che viene attaccata da programmi di legge retrogradi e di matrice simil-medievale – il Ddl Pillon ne è un esempio evidente), potrebbe costituire a tutti gli effetti un diretto attacco alla “Pubblica fede”, intesa come fiducia che ogni persona pone nei confronti delle istituzioni dello Stato, costituenti, con i loro poteri e doveri, il nostro ordinamento costituzionale.

Riccardo Bucci, avvocato – Alterego fabbrica dei diritti

*Art. 498 Codice Penale – Usurpazione di titoli o di onori.

Chiunque, fuori dei casi previsti dall’articolo 497-ter, abusivamente porta in pubblico la divisa o i segni distintivi di un ufficio o impiego pubblico, o di un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, ovvero di una professione per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato, ovvero indossa abusivamente in pubblico l’abito ecclesiastico, è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da 154 euro a 929 euro.

Alla stessa sanzione soggiace chi si arroga dignità o gradi accademici, titoli, decorazioni o altre pubbliche insegne onorifiche, ovvero qualità inerenti ad alcuno degli uffici, impieghi o professioni indicati nella disposizione precedente.

Per le violazioni di cui al presente articolo si applica la sanzione amministrativa accessoria della pubblicazione del provvedimento che accerta la violazione con le modalità stabilite dall’articolo 36 e non è ammesso il pagamento in misura ridotta previsto dall’articolo 16 della legge 24 novembre 1981, n. 689.”

L’Iran narrato. Libri per costruire ponti

Il 28 ottobre 2003 all’Institute of Contemporary art di Londra era stato proiettato il lungometraggio Deep Breath. Dopo la proiezione, il regista Parviz Shahbazi rispose alle domande. Sette mesi prima, l’Iraq del dittatore Saddam Hussein era stato attaccato dalla coalizione guidata dagli americani. A questo proposito, Shahbazi osservò che se l’Iraq avesse vantato un cinema come quello iraniano, non sarebbe stato invaso: i film della Repubblica islamica proiettati in Occidente hanno avvicinato il popolo iraniano allo spettatore occidentale. Di conseguenza, l’iraniano non è più considerato “altro”, “diverso”. Perlomeno per un certo pubblico, colto e appassionato.
Sull’Iran soffiano venti di guerra sempre più forti. Incontrando il premier israeliano Benjamin Netanyahu prima dell’apertura della conferenza a Varsavia sul Medio Oriente in funzione anti-Teheran, il segretario di Stato americano Mike Pompeo ha dichiarato che «l’Iran è la principale minaccia in Medio Oriente e affrontare la Repubblica islamica è la chiave per arrivare alla pace nell’intera regione». Mentre pronunciava queste parole, l’Iran veniva colpito da un attentato kamikaze: oltre quaranta i pasdaran morti nella provincia sud-orientale del Sistan e Balucistan. A rivendicare l’attentato, più grave rispetto a quello di settembre nel Khuzestan, era…

L’articolo di Farian Sabahi prosegue su Left in edicola dal 22 febbraio 2019


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Stefania Limiti e lo Stato invisibile della Repubblica

«L’Italia è un Paese tragico» ha scritto Gustavo Zagrebelsky, commentando l’aggressione allo Stato da parte dei poteri occulti. E se c’era qualcuno in grado di raccontare la lunga storia di questa tragedia non poteva essere che Stefania Limiti: la più attrezzata, la più curiosa, la più indefessa cronista dei grandi momenti drammatici della nostra Repubblica. Una storia che comincia all’indomani dello sbarco in Sicilia degli alleati e potrebbe concludersi con la sentenza della Corte d’Assise sulla trattativa fra lo Stato e la mafia: gli anni della rinascita della democrazia dopo quelli della dittatura fascista, gli anni delle grandi stragi dell’eversione, gli anni delle stragi di mafia. Siamo oramai abituati a dirci: oggi si sa tutto, sui singoli episodi di quella storia. Conosciamo gli ispiratori, gli esecutori, i depistatori. Quello però che ancora ci manca e che Stefania Limiti cerca instancabilmente è il filo che collega tutto. Il senso e la spiegazione della storia.

Se le cose sono andate in un certo modo, allora chi sono i grandi responsabili del silenzio? Quante figure di primo piano della politica e del mondo dei servizi italiani sapevano e hanno sempre taciuto? Non troveremo mai un nuovo “armadio della vergogna”, nascosto in qualche ministero, con i nomi di chi sapeva e di chi organizzava. Dobbiamo costruircelo da noi, il nostro nuovo armadio. Stefania Limiti si appoggia alla saggezza e all’intelligenza di Norberto Bobbio, lo studioso che è stato anche il più sensibile al problema del potere occulto e ha scritto pagine importantissime su quanto grande sia il rischio che esso rappresenta per la democrazia. Il potere occulto non si limita a trasformare la democrazia, «la perverte. Non la colpisce più o meno gravemente in uno dei suoi organi vitali, la uccide. Lo Stato invisibile è l’antitesi della democrazia»: parole scritte all’indomani della scoperta degli elenchi della P2, nel 1981. Uno degli aspetti più clamorosi di questa storia Stefania Limiti va a individuarlo negli anni della Liberazione, «nello sdoganamento nelle nuove istituzioni repubblicane di molti uomini che avevano ricoperto ruoli e funzioni centrali nell’apparato repressivo fascista o che erano stati ai vertici del regio esercito.

A loro venne affidata la ricostruzione dei servizi di sicurezza e dei dispositivi per il controllo dell’ordine pubblico nella nuova Italia della guerra fredda». Cuore di questa storia sarà dunque in tutta la prima Repubblica il controllo del ministero degli Interni: la Dc non volle mai consegnarlo ad altri alleati, fino a quando fu in grado di decidere. Nacque un Viminale all’interno del quale operavano centrali diverse: Umberto Federico D’Amato, ufficiale di collegamento con la Nato e capo dell’ufficio Affari riservati; e, ad un altro piano dello stesso palazzo, c’erano funzionari inizialmente legati a Tambroni che operavano in altri ambienti. «La vittoria della Dc alle elezioni del ’48 consolidò i progetti: la rete fascista era ormai cooptata, sarebbero stati loro i migliori baluardi contro il comunismo». Gli strumenti operativi furono preparati con cura: gruppi neofascisti, criminalità comune, logge massoniche, P2, servizi segreti e servizi militari, gruppi dediti alla disinformazione. Una grande e lunga operazione che simbolicamente Stefania Limiti riassume in tre fatti di epoche diverse: «occultamento della verità sulla morte del bandito Salvatore Giuliano (1950); la scelta investigativa fatta dalla Procura di Milano di non seguire la pista dei neofascisti veneti, individuata dal commissario padovano Pasquale Juliano dopo la strage di Piazza Fontana (1969); la costruzione del falso pentito Scarantino che ha imposto per anni una verità “surrogata” sulla strage di via D’Amelio (1992)».

Adesso c’è ancora un importante cammino da compiere per rispondere a questa lettura del potere occulto in Italia. Una lettura che ci consenta di completare la storia politica del dopoguerra. Quanti politici italiani sapevano cosa stava accadendo e avrebbero avuto gli strumenti per intervenire e fermare la lunga sequenza di stragi e di uccisioni? Quanti e quali? E come rileggere definitivamente, ad esempio, l’uccisione di Aldo Moro? Anche per cercare di completare la ricerca di Stefania Limiti, Libertà e Giustizia, con la collaborazione della casa editrice Chiarelettere, ha organizzato un seminario di due giorni (il 23 e il 24 febbraio a Firenze) con storici, magistrati, giornalisti, avvocati. Cittadini che si sono imbattuti per motivi professionali o di studio nel grande problema del potere occulto, che hanno cercato la logica, il senso di avvenimenti che sembrano lontanissimi ma forse non lo sono affatto.

Personalmente (ma credo che Stefania sia d’accordo con me) sono convinta che un grande errore fu fatto proprio al momento di accettare le clausole imposte dal governo alleato che non prevedevano (come invece accadde per la Germania) momenti di autonomia nazionale. De Gasperi non poteva fare altrimenti, forse, o è quasi certo, si trattava di cominciare a ricostruire una nazione distrutta e affamata. Stefania Limiti ricorda un episodio indicativo: Pietro Nenni, alto commissario all’epurazione, chiese di trovare un certo Luca Osteria, uno che risultava nei libri paga dell’Ovra. I suoi collaboratori rimasero sorpresi: il personaggio lavorava qualche stanza più in là, sullo stesso piano della presidenza del Consiglio ed era uomo di fiducia del primo capo del governo, Ferruccio Parri. Stefania cita anche un giudizio dello storico Luciano Canfora secondo il quale il ritorno degli ex nazisti in ruoli di potere nella neonata Germania federale fu «tra i più gravi fattori di arretramento della democrazia all’Ovest durante la Guerra fredda».

Penso che emergeranno, a conclusione della nostra ricerca, le responsabilità di alcuni personaggi di primo piano. E troveranno una spiegazione anche diverse intuizioni che troviamo ad esempio nella relazione finale di Tina Anselmi sulla P2, o nelle commissioni parlamentari come quella presieduta da Giovanni Pellegrino nella dodicesima legislatura sul terrorismo in Italia e sulla mancata individuazione dei responsabili delle stragi. Nel suo importante Poteri occulti (Rubettino editore), con la prefazione di Enzo Ciconte e la dedica a Sandro Provvisionato, Stefania Limiti ha saputo studiare e consegnarci materiale prezioso.

L’articolo di Sandra Bonsanti è tratto da Left n. 4 del 25 gennaio 2019


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