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Chi fa la guerra alla solidarietà

An immigrant man speaks at MOI, in Turin, Italy on 3 December 2016, where now the villages residents include more than 1,000 refugees and migrants (Photo by Mauro Ujetto/NurPhoto via Getty Images)

Complimentandosi con le forze dell’ordine per la mattanza nell’Asilo occupato (quello spazio interesserebbe la Lavazza), Chiara Appendino ha provato a dire che sarebbe un caso isolato, che non esisterebbe un “piano sgomberi”. «Non è molto convincente – spiega Andrea del centro sociale Gabrio – visto che è in corso da mesi lo sgombero dei rifugiati politici dalle palazzine Moi, il villaggio olimpico spuntato nel 2006 di proprietà di un fondo a cui partecipano, tra gli altri, Pirelli e Fondiaria S.Paolo. Ci aspettiamo che succeda altro, che questa giunta continui a sgomberare spazi e palazzi anche perché Torino è strozzata dalla trappola del debito e deve far cassa, probabilmente svendendo i gioielli di famiglia. Il decreto Sicurezza serve a questo». In Regione Lombardia, per esempio, l’ex vicesindaco di Milano Riccardo De Corato (postfascista e nemico giurato dei centri sociali) ha fatto passare una norma che esclude per cinque anni dall’assegnazione di alloggi popolari chi sia coinvolto anche in occupazioni simboliche, ad esempio l’occupazione temporanea di un ufficio durante una manifestazione.

Non è un mistero che dietro la violenza verbale e fisica del salvinismo e della legalità in salsa Cinquestelle ci sia l’ansia di “restituire” alla speculazione quei pezzi di città sottratti negli anni dalle esperienze dell’associazionismo, delle autogestioni, dalle occupazioni di case in nome del diritto alla città. Un attacco bipartisan che non comincia ora, si ricordino i casi Labàs e Crash di Bologna, ma che ha preso nuovo slancio con l’avvento del governo giallonero: «La circolare Salvini sugli sgomberi e il decreto Sicurezza appesantiscono un clima già molto cupo con un’amministrazione ancora incapace di valorizzare le pratiche dell’autogestione», dice Martina di Milano in Movimento, sito di informazione indipendente dove un corposo dossier racconta l’aria che tira in quella città.

MiM ha contato cinquanta sgomberi in sette anni. Mentre sui giornali di destra, incontentabili, compaiono perle come questa: «I centri sociali funzionano così sia da Volante rossa per “punire” i palazzinari ostili al comandero Pisapia, oppure da volano per le nuove imprenditorialità illegali e abusive», come si legge su un sito molto citato da chi si occupa di bufale. Infatti anche stavolta siamo di fronte ad una fake news: l’era Pisapia ha visto più sgomberi di quanti ne ordinò Letizia Moratti. Stessa musica della stagione Sala. Sotto attacco anche esperienze come Macao o il Leoncavallo, attivo fin dal 1975. La famiglia Cabassi, immobiliaristi di lungo corso, rivuole indietro lo stabile e non c’è una soluzione all’orizzonte.

«C’è un disprezzo “fascista” per le…

L’articolo è tratto dal numero di Left in edicola


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La resistenza e la capacità di reagire di Mujica è ciò che ci serve oggi

Uno dei momenti chiave del film Una notte di dodici anni di Alvaro Brechner è un incontro in carcere fra Pepe Mujica e sua madre. Il futuro presidente dell’Uruguay, a quel punto in galera già da qualche anno, dà evidenti segni di cedimento. Dice di sentire delle voci, appare sofferente e smarrito: è stremato dalle torture, dalla brutalità, dall’isolamento in luoghi insopportabili. Il Pepe davanti alla madre cerca complicità più che conforto: sembra chiedere l’autorizzazione ad arrendersi, a cadere in uno stato permanente di semi coscienza, senza più lottare, senza più pensare a un possibile dopo. La madre intuisce lo stato d’animo del figlio e reagisce con forza: «Mamma un cazzo», dice a muso duro, e scuote il prigioniero: non devi mollare, non devi dargliela vinta. È andata proprio così: il Pepe resterà in piedi, lucido e determinato, come i suoi otto compagni di prigionia (nel film se ne vedono due), militanti Tupamaros tenuti in ostaggio dai militari golpisti, che minacciavano di ucciderli in caso di attentati o altre azioni della resistenza armata. Dopo dodici anni – nel marzo del 1985 – otto saranno liberati (il “Nepo” Adolfo Wasem Alaniz è morto in carcere nel novembre del 1984, ndr) al crepuscolo del regime: il Pepe rivedrà sua madre fuori dal carcere. L’incontro in parlatorio è importante perché documenta un aspetto decisivo nella dinamica della tortura (Una notte di dodici anni è un film sulla tortura, come non se ne vedevano da tempo). Mostra che la tortura si combatte attraverso il contatto umano, con la forza dell’empatia. Il Pepe e i suoi compagni resistono agli abusi e all’isolamento perché riescono, sia pure saltuariamente e fra spaventose difficoltà, a comunicare fra loro (a piccoli colpi sui muri) o con altre persone, a volte carcerieri disposti a dismettere per qualche ragione la maschera imposta dal ruolo, a volte familiari ammessi a rari colloqui. Come i vampiri non sopportano la luce del sole, così la tortura può essere sconfitta quando è sottoposta al vaglio delle relazioni sociali, al calore del contatto umano. Vale per l’individuo che deve affrontarla e trae dagli altri l’energia per non soccombere; vale per la società nel suo insieme.

Nei giorni scorsi è stato pubblicato da due agenzie dell’Onu (Unsmil e Ohrhc) un drammatico rapporto su quanto davvero avviene nei centri di detenzione per migranti in Libia. Sono testimonianze angoscianti: stupri seriali, abusi innominabili, violenze continuate, torture in diretta telefonica per estorcere denaro ai parenti, vendite al mercato degli schiavi. Si potrebbe dire: niente di nuovo. Da tempo sappiamo, o crediamo di sapere, che la Libia è il non-Stato canaglia per eccellenza, un Paese dilaniato da signori e signorotti della guerra. Lo hanno documentato giornalisti, registi, ong, la stessa Onu in passato. Ma queste verità non hanno mai fatto breccia: non nelle istituzioni e nemmeno nell’opinione pubblica. Si sono stretti accordi con sedicenti “governi”, “sindaci” e “guardie costiere” della Libia fingendo di non sapere degli stupri, degli abusi, delle torture. Abbiamo chiuso occhi, mente e cuore pur di portare a casa l’unico risultato ambito: poter dichiarare a microfoni aperti «flussi ridotti», «porti chiusi», «basta coi trafficanti d’uomini». Parole false, consapevoli menzogne, ma ripetute così spesso, così a lungo, che alla fine ci troviamo a vivere in una società che non riesce più a comprendere e capire chi sono i 49 della Sea Watch lasciati a vagare in mare per giorni e giorni o che cosa nascondono le cifre sulla riduzione dei flussi (cinica espressione presa dal linguaggio tecnico, tanto orribile quanto indicativa della disumanizzazione in corso). I segregati nei campi in Libia sono come Pepe Mujica: umiliati e torturati, prossimi a cedere, in balìa di carcerieri protetti – di fatto – da chi pretende di “governare” l’immigrazione a prescindere dalle persone, ignorando le loro sofferenze, oltre che le loro aspirazioni. La tortura è fra noi, ne siamo complici, e tutto sta per crollare: il nostro senso di civiltà, la dottrina dei diritti umani, ciò che da tempo intendiamo per “democrazia”. L’indifferenza per la negata dignità della persona, di ogni persona, sta diventando strutturale. Ci vorrebbe qualcuno, come la madre di Pepe Mujica, capace di urlarci: «Democrazia un cazzo».

Lorenzo Guadagnucci, Comitato verità e giustizia per Genova

L’editoriale di Lorenzo Guadagnucci è tratto da Left in edicola dal 22 febbraio 2019


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Al fondo della rivolta dell’Espressionismo

Con una quarantina di opere provenienti dal Von der Heydt Museum di Wuppertal la mostra Dall’espressionismo alla nuova oggettività (nelle sale di Palazzo del Governatore a Parma fino al 24 febbraio) traccia un percorso forse non esaustivo ma assai illuminante nella storia dell’avanguardia tedesca del primo Novecento. Varcato l’ingresso ci troviamo subito immersi nelle atmosfere incandescenti che caratterizzarono gli esordi dell’espressionismo. Siamo nel 1905 a Dresda quando (in parallelo con quel che accadeva in Francia con i Fauves) un drappello di giovani artisti, spavaldi e agguerriti, lanciavano il movimento Die Brücke (Il ponte). Forza interiore, espressività immediata, forme nuove. La nuova estetica sbandierata da Obrist, Bleyl, Heckel, Kirchner e Schmidt-Rottluff dava battaglia alla pittura accademica e polverosa della Germania di allora, fin dal primo manifesto inciso in caratteri moderni e taglienti, che avrebbe attratto poi anche Nolde, Pechstein e Mueller.

Poco oltre la mostra apre una finestra sull’avventura del Cavaliere azzurro (Der Blaue Reiter) di Kandinskij e Marc, punteggiata da paesaggi incantati e xilografie in bianco e nero che emulano i vertiginosi montaggi del nuovo cinema muto; su un versante più fiabesco, di realismo magico, ma anche più aperto a sperimentare con forme astratte siamo ancora dentro un vitale percorso di ricerca. Ma di lì a poco, nella seconda parte del percorso, ci imbattiamo nel muro invalicabile della Nuova oggettività. Un violento ritorno all’ordine segnò il primo dopoguerra insieme al funzionalismo e al razionalismo del Bauhaus. Dai colori accesi, dalle visioni oniriche e vitalistiche di Wilhelm Morger, Alexej von Jawlensky e del primo Nolde passiamo d’un tratto alle architetture metafisiche di Carl Grossberg, alle piatte e magrittiane figure di Gerd Arntz: il salto è abissale. Così il curatore Lorand Hegyi riesce a fare vedere l’invisibile, mettendo lo spettatore di fronte a quell’immane tragedia che fu la prima guerra mondiale che oltre a 16 milioni di morti e infinite schiere di mutilati portò una angosciante desertificazione interiore. Questa mostra accende i riflettori su un fatto doloroso: la fantasia interna degli artisti sopravvissuti appare distrutta. Una visione schizoide si impone senza via d’uscita.

Dal dionisiaco nietzschiano che connotava le opere di Die Brücke siamo passati alla razionalità produttivistica della Neue Sachlichkeit. La furia iconoclasta si esaurì nel piatto realismo di Davrighausen, nei paesaggi pittoreschi di Hofer, nell’arcaismo di Adler che si ritrae con la fissità di una icona bizantina in un cupo autoritratto del 1924. Razionalità lucida, primitivismo germanico, esaltazione della tecnica e spiritualismo: si delinea un’estetica che il nazismo riconoscerà come propria.

Di retrospettive sull’espressionismo tedesco ne abbiamo viste molte negli ultimi anni e anche di recente abbiamo raccontato una interessante mostra vista a Londra (vedi Le ombre della Repubblica di Weimar in Left del 21 settembre 2018). Ma questa piccola collettiva ha il merito di mettere efficacemente in luce l’evoluzione ma anche l’involuzione a cui andò incontro l’espressionismo precipitando nella Nuova oggettività. Portando allo scoperto i segnali di crisi che percorrevano sotterraneamente già il primo Die Brücke a causa delle contraddizioni irrisolte di alcuni artisti che ne furono gli animatori. Non a caso il movimento si sciolse nel 1913 alla vigilia della guerra. Molti giovani pittori, come i loro coetanei, finirono al fronte.

Wilhelm Morgner fu ucciso nel 1917. E con lui tanti altri. Colpisce che alcuni di loro fossero andati in guerra come volontari. Fra questi anche il co-fondatore del Blue Reiter, Franz Marc.

Affascinato dai futuristi aveva atteso la guerra come «apocalisse rigeneratrice». Solo da ultimo arrivò a scrivere che «l’amore per il germanesimo deve lasciare spazio oggi per il buon europeismo… Non bisogna rialzare le frontiere, ma abbatterle». Ma per lui era troppo tardi. Nel 1916 fu ucciso da due schegge di granata nei pressi di Verdun.

 

Kandinsky

Le mani dei gialloneri sul conflitto sociale

All'altezza del bivio per Cardedu i pastori sardi hanno sversato migliaia di litri di latte in strada, Cagliari, 9 febbraio 2019. ANSA/FABIO MURRU

Luigi Di Maio, fa visita ai gilet gialli (una parte e anche assai discutibile) a costo di scatenare una tempesta diplomatica tra Italia e Francia. L’altro, Salvini, si precipita ad appoggiare la lotta dei pastori sardi, magari ricordandosi del sostegno leghista alle rivolte contro le quote latte, anche se si trova fra i piedi un grande sciopero degli studenti che mentre solidarizzano con i pastori contestano il suo decreto sicurezza.

Per l’uno e per l’altro l’assillo elettorale è evidente. I Cinquestelle pensano ad una campagna europea centrata sull’attacco a Macron, simbolo delle élites, e cominciata con le accuse di neocolonialismo. La Lega spera di bissare l’Abruzzo e di diventare alle prossime regionali sarde il primo partito della coalizione vincente. Ma l’accusa di elettoralismo non esime dal guardare più a fondo in questi comportamenti per capire cosa li consente, a cosa mirano, perché possono essere “vincenti”. Sta di fatto che Lega e Cinquestelle reinterpretano il conflitto, selezionandone soggetti e forme secondo la loro visione di società e le loro finalità di potere. Non c’è dubbio che la loro propensione sia al rapporto diretto che salta e smonta la intermediazione sociale. Così facendo tolgono al conflitto autonomia, capacità di connessione, visione generale. Al contrario promuovono divisione e contrasti. «Dopo i clandestini ci occuperemo dei centri sociali» dice lo stesso Salvini che blandisce i pastori. Ma il fatto è che si è arrivati a questo punto attraverso un percorso che ha consegnato alle destre questa possibilità di azione.

Quando irrompe quella rottura del compromesso sociale voluta dalla nuova rivoluzione conservatrice la “convivenza” tra il conflitto ed un esercizio del governo dello Stato, comunque garante dell’ordine ma disposto a interloquire con esso, viene meno.

Sono tempi radicalmente nuovi quelli in cui Di Maio…

L’articolo di Roberto Musacchio prosegue su Left in edicola dal 22 febbraio 2019


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Tav, dietro il rinvio niente. L’ennesimo pasticcio del governo giallonero che prende tempo

Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte con il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Danilo Toninelli durante il Question time in Senato, Roma, 21 febbraio 2019. ANSA/ RICCARDO ANTIMIANI

Se fosse una telecronaca, a questo punto il cronista direbbe che la squadra di casa, sotto pressione, decide di tirare la palla sugli spalti per guadagnare secondi e riorganizzare il gioco. Ma questo è il solito articolo sui pastrocchi della maggioranza giallonera, sul pressing del partito delle grandi opere (di cui la Lega è tassello fondante) e sulla propensione dei Cinque stelle a rimangiarsi soprattutto le istanze ambientaliste ripetute nelle campagne elettorali che hanno preceduto il loro ingresso nella stanza dei bottoni.
«Due settimane al massimo» per trovare «una soluzione» sulla Tav. Danilo Toninelli, il gaffeur ministro dei Trasporti, lo dice in controtendenza rispetto alla propria maggioranza, nel giorno in cui alla Camera si vota una mozione per prendere tempo sul nodo più spinoso del contratto di governo. M5s e Lega, con 261 sì contro 136 no, chiedono di «ridiscutere integralmente il progetto». Il tentativo è rinviare la scelta a dopo il voto per le europee, quando gli effetti di un Sì o un No sui due partiti sarebbe meno doloroso. Le diplomazie sono al lavoro per prendere tempo con il governo francese. Ma di tempo, ricorda Toninelli, non ce n’è più molto. Bisogna dire Sì o No per sbloccare (o bloccare definitivamente) i bandi e non rischiare di perdere 300 degli 813 milioni di finanziamenti europei. Perciò un vertice di governo sul tema potrebbe esserci già la prossima settimana. L’impatto del dossier Tav riemerge in maniera dirompente con il voto a Montecitorio, su iniziativa di FI, delle mozioni parlamentari sull’opera. M5s e Lega votano per impegnare il governo a «ridiscutere integralmente il progetto in applicazione dell’accordo tra Italia e Francia». Un modo per prendere tempo. Ma al mondo imprenditoriale piemontese che si batte per il Sì, quelle parole sembrano un viatico al No. «Pregiudicano seriamente l’opera», denuncia Sergio Chiamparino, presidente della Regione Piemonte, Pd, altra gamba indispensabile del partito trasversale delle grandi opere di cui Left ha scritto anche nel numero in edicola fino a ieri.
E da Torino parte l’idea di una clamorosa protesta. Corrado Alberto, presidente degli impenditori di Api Torino, ventila «un fermo delle attività produttive, d’accordo coi lavoratori, per dire che il sistema imprese e lavoro non cede il passo a chi vuole distruggere il nostro futuro». La richiesta è andare avanti senza aspettare. Temporeggiare diventa in effetti ogni giorno più difficile. Ecco perché dal ministero di Toninelli fanno sapere che la prossima settimana, archiviate le elezioni sarde (non prive di impatto sugli equilibri di governo), il premier Giuseppe Conte, i vice Luigi Di Maio e Matteo Salvini, e i ministri competenti dovranno vedersi per parlarne. Si starebbero studiando contratti e cavilli per rinviare senza perdere soldi.
E nelle scorse settimane le più alte diplomazie si sarebbero mosse anche con il governo francese per ottenere altro tempo. Il tema, secondo fonti di maggioranza, potrebbe essere stato trattato anche nel colloquio tra il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e il presidente francese Emmanuel Macron, che ha posto fine alla crisi diplomatica sui gilet gialli. In rischio a valle della vicenda Tav, secondo le stesse fonti, sarebbe una rivalsa francese su altri contratti di peso con l’Italia. Ma agli interlocutori Salvini si sarebbe mostrato sicuro di poter incassare il Sì, dopo le elezioni di maggio. Ma niente è scontato. M5s vorrebbe accelerare, per dire subito No a spendere «7 miliardi a perdere» (e quietare il suo elettorato storico in vista delle europee). E i leghisti non nascondono il nervosismo per l’accusa, rilanciata dalle opposizioni, di aver “scambiato” il voto per il No al processo di Salvini su Diciotti con il No alla Tav. « Questo è un Paese curioso – dice Nicola Fratoianni, segretario di Sinistra italiana, annunciando il suo voto contrario sia alle mozioni Si tav del Pd e FI sia alla mozione Lega-M5S – nel nome dell’ecologismo si scatena la furia Si Tav, un ecologismo di maniera davvero curioso in un Paese in cui nulla in questi decenni è stato fatto per spostare significativamente sul ferro il flusso delle merci. È ora di investire davvero su quelle che si presentano come delle vere e proprie emergenze e che riguardano il diritto alla mobilità di milioni di persone, studenti e lavoratori. È arrivato il momento di chiudere questa pagina».
«Salva Salvini, boccia la Tav», scrive il Pd, braccio politico dell’Alta velocità e molte altre devastazioni ambientali e sociali, sui cartelli che i suoi deputati agitano in Aula al momento del voto. Se così fosse sarebbe uno scambio «osceno», commenta Roberto Maroni. Ma Salvini, dalla Sardegna, ripete che «l’obiettivo» è fare l’opera: «Rivedere il progetto per risparmiare e andare avanti». Se la galleria di base si fa, «si può rivedere il resto», dice Guglielmo Picchi. Ma il Nord freme. Silvio Berlusconi lo sa e sfida Salvini a pronunciarsi. Il ministro Gian Marco Centinaio entrando in Cdm dice che chiederà se l’opera «è congelata o no». Ma in Cdm non se ne parla. Finché si può, si prende tempo.
Ma il pressing è fortissimo: Sergio Chiamparino va ripetendo da giorni che: «L’Ue ha confermato la disponibilità a finanziare al 50% non solo il tunnel di base della Torino-Lione, ma anche le tratte nazionali di avvicinamento». Notizia ovviamente ripresa da tutte le testate, specie quelle i cui editori hanno le mani in pasta nell’affare. «Siamo quindi andati a cercare – scrive il sito del movimento no tav –  le dichiarazioni della Commissione Ue. Nulla. Dichiarazione della commissione trasporti. Nulla. E in effetti una tale clamorosa notizia non arriva dall’Ue ma da Étienne Blanc, vice-presidente della provincia Rhone-Alpes che avrebbe dato la soffiata al Chiampa. Insomma, andando oltre i titoli si passa da “L’ue conferma…” a “un amico mi ha detto che…”. Eppure, tanto basta alla stampa per strillare che “il costo del Tav si è dimezzato”». Anche il il ministero dei Trasporti francese ha invitato la regione Auvergne-Rhone-Alpes a “non fare confusione” sul collegamento ferroviario Lione-Torino, il giorno dopo l’annuncio del fantomatico accordo con Bruxelles su uno dei capitoli del finanziamento. «Il ministero – si legge in un comunicato – smentisce formalmente che ci sia qualsiasi decisione nuova della Commissione europea riguardante il finanziamento del progetto».
Il 50% del co-finanziamento a cui si riferisce Blanc è un provvedimento della commissione Ue già adottato mesi fa «che prevede – spiegano i No Tav – l’eventuale possibilità di aumentare il tasso di co-finanziamento di una qualsiasi delle opere incluse nel piano Cef (Connecting Europe facility) ma, come attesta un portavoce della Commissione stessa, «non si tratta di una proposta specifica per la Torino-Lione ed è comunque legata all’esito delle trattative sul prossimo bilancio». E il 5 gennaio Karima Delli, presidente della commissione Trasporti del Parlamento europeo ha bacchettato la coordinatrice del corridoio Mediterraneo (che non esiste più dopo varie rinunce) Iveta Radičová che a metà novembre aveva ipotizzato un co-finanziamento al 50% per la seconda linea Torino-Lione dichiarando che «in nessun caso la coordinatrice può incoraggiare o condizionare il sostegno dell’Ue».
Intanto martedì è slittata ancora la pubblicazione dei bandi di gara della Torino-Lione. La decisione è del consiglio d’amministrazione di Telt. Una riunione fiume, a Parigi, durante la quale si è deciso all’unanimità il rinvio. «Breve», però, perché il tempo sta per scadere: a rischio, appunto, ci sono 300 degli 813 milioni di finanziamenti europei per il periodo 2015-2019. A chiedere la «tempestiva pubblicazione dei bandi», durante il consiglio d’amministrazione della società incaricata da Italia e Francia di realizzare la sezione transfrontaliera della nuova linea ferroviaria ad Alta Velocità, è stato il rappresentante della Commissione europea.
«La certificazione dell’inutilità della Torino Lione non ci basta – spiega il movimento No Tav chiedendo la smilitarizzazione della val Susa e rilanciando la manifestazione nazionale del 23 marzo a Roma contro le grandi opere e la giustizia climatica – da sempre pensiamo alle alternative di destinazione di quei fondi per qualcosa di realmente utile al Paese, alla piccole opere indispensabili, alla sicurezza delle scuole, dei territori per combattere l’incuria con cui da sempre abbiamo a che fare». Si chiede anche lo smantellamento del cantiere di Chiomonte, in cui i lavori sono di fatto da oltre 9 mesi fermi, «poiché neanche un metro della nuova ferrovia è stato costruito, solo un piccolo tunnel geognostico per le operazioni di studio propedeutiche al progetto definitivo».
In questi anni migliaia di attivisti No Tav sono stati indagati e denunciati, centinaia di processi sono stati messi in campo dalla Procura, condanne pesantissime e l’assoluta, totale, impunità per gli uomini delle forze dell’ordine coinvolti in violenze e altri tipi di abusi. «Oggi sappiamo che la lotta di queste donne e di questi uomini ha evitato che il Paese sprecasse miliardi per un’opera inutile pertanto dobbiamo impegnarci in una futura soluzione politica, come ad esempio l’amnistia per tutti i reati sociali legati alla lotta contro il Tav», conclude il movimento più antico d’Italia.

Ddl Pillon: il potere della religione, l’impotenza della politica

Pillon è l’espressione di un disagio sociale che per essere eliminato, deve essere studiato, come tutte le patologie. La storia dell’umanità suggerisce qualche sintetica riflessione. Con i primi rudimenti di coltivazione e l’allevamento di piccoli animali, la stanzialità prese il posto del nomadismo, e nei gruppi umani paleolitici subentrò l’accumulo dei beni. Il primato femminile si legò al possesso dei beni nella caverna, o nella capanna o nella tenda, con o senza la componente maschile generalmente assente per la caccia o per la pesca. Piccoli gruppi umani si organizzarono in clan che si configuravano prevalentemente per la parentela uterina, a cui si lega un altro aspetto conseguente, ovvero la poliandria, e con essa l’impossibilità di stabilire la paternità. Tuttavia la centralità della donna nelle società pre-patriarcali non trova una spiegazione solamente nelle ragioni economiche, né in quelle legate alla discendenza matrilineare. Il potere magico della creazione è la chiave di lettura del suo potere, che la rende eterna e autogenerata, autosufficiente e autoesistente, e contrapposta al principio maschile che si subordina all’eterno femminino. Alla creazione le donne hanno affiancato anche la cura della morte, la pulizia del cadavere e la fasciatura, la lamentazione funebre, ma anche l’aiuto ad affrettare la morte dei moribondi. Potere di vita e di morte dunque, rispetto al quale la psicanalisi ha incorniciato la reazione del maschile nelle categorie della paura e dell’invidia, che i rappresentanti maschili delle varie religioni esprimono indossando abiti femminili, adornati con collane e bracciali, riconducibili in tutto il pianeta alla simbologia femminile. Quando e come sia iniziato il “Grande Capovolgimento” è difficile da stabilire. Si sono affermate divinità maschili interpreti di un risentimento malvagio e violento. Il giudaismo biblico è stata l’espressione più diffusa della norma patriarcale. La paura e l’invidia degli uomini verso le donne si sono declinate in maniera drammatica, esprimendo religioni misogine e violente come l’ebraismo, il cristianesimo, e l’islam, per citare le più diffuse. Le società contemporanee si sono modellate sulle devianze monoteiste, quelle asiatiche e africane prevalentemente sulle devianze dell’islam e quelle occidentali prevalentemente sulle devianze ebraiche e cristiane. In tutte, indistintamente, è il sistema patriarcale che ha prevalso, un sistema nel quale il potere politico e il potere economico è degli uomini, nel quale gli uomini preservano la loro posizione imponendo un sistema valoriale che nega alle donne qualsiasi forma di autodeterminazione, che interpreta il femminile come oggetto di possesso, che interpreta la maternità non come creazione consapevole, ma con modalità oggettivizzante e strumentale al seme maschile. Quando le legislazioni moderne hanno cercato di limitare i condizionamenti del patriarcato, la sua riaffermazione è sempre passata attraverso il contrasto al diritto di abortire, perché è il perno della subordinazione femminile: costringere le donne alla gravidanza indesiderata è la stroncatura di tutte le battaglie di emancipazione. Ma un altro spettro si aggira nelle società patriarcali: il piacere femminile. La mitologia greca, con l’indovino Tiresia, ci narra di un piacere femminile nove volte superiore a quello maschile. Soffocare le peculiarità femminili nelle società patriarcali, assume un ulteriore finalità che è quella, per alcuni uomini, di non dover subire l’umiliazione di non essere all’altezza del piacere sessuale femminile. Pillon con il suo disegno di legge, proteso alla neutralizzazione di ogni aspetto dell’autodeterminazione femminile, e alla riaffermazione piena del patriarcato, diventa la risposta anche per tutti quegli uomini che vorrebbero far tacere le donne perché temono che possano rivelare la loro inadeguatezza.

L’avvocato Carla Corsetti è segretaria nazionale di Democrazia atea e membro del coordinamento nazionale di Potere al popolo

L’articolo di Carla Corsetti prosegue su Left del 15 febbraio 2019


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Ricordate i rimpatri promessi da Salvini? Sono meno dell’anno scorso

Il vicepremier e ministro dell'Interno Matteo Salvini al Viminale durante una conferenza stampa al termine del tavolo di coordinamento nazionale, Roma, 7 novembre 2018. ANSA/GIUSEPPE LAMI

Ne aveva promessi 500.000 all’anno. Cinquecentomila. Durante una trasmissione Laura Boldrini gli aveva dovuto far notare che sarebbe stato impossibile per una serie di costi e di accordi internazionali. Ma era il tempo delle promesse a vanvera: qualcuno, cioè proprio lui, il Capitano, aveva convinto molti che i rimpatri non venissero fatti dalla sinistra (li chiama tutti così, lui, proprio come Silvio) perché ci si guadagnava sopra. E tutti a crederci.

Ora Salvini è il Capo. Quindi Salvini è Il Rimpatriatore. No? Abbiamo visto qualche giorno fa che sono aumentati i morti nel Mediterraneo. E con i rimpatri come siamo messi? Maluccio, direi.

I primi progetti dei rimpatri volontari assistiti di quest’anno partono a febbraio. E saranno molti di meno di quelli degli anni precedenti. A conti fatti non solo i rimpatri forzati sono di meno rispetto allo scorso anno, ma anche quelli volontari finanziati dal Fondo asilo migrazione e integrazione (Fami) caleranno. Da 3.200 a 2.700. Senza contare che il bando del Viminale è andato deserto per metà. E alla fine gli stranieri che torneranno con progetti di reinserimento nei Paesi d’origine (che poi sarebbe, pensateci, il famoso “aiutiamoli a casa loro”) saranno ancora di meno.

Anzi, a ben vedere ci sono addirittura 500 posti disponibili in meno. Capite? Sono dati del ministero dell’Interno, quelli di cui non si discute mai preferendo parlare di cibo e di dirette Facebook.

E siamo alle solite: bugie su bugie, numeri falsi su numeri falsi, cazzate su cazzate, promesse strillate e poi fallite.

Nel 2018, i rimpatri completati dall’Italia sono stati circa 5mila, un numero inferiore ai 6.514 registrati nel 2017. E nel primo mese dell’anno i rimpatri, secondo gli stessi numeri dati da Salvini, sono stati 221, oltre 270 in meno dello stesso mese del 2018. Addirittura il leghista Giorgetti aveva detto “sui rimpatri Salvini l’ha sparata grossa”. Ma chi volete che lo ascolti, Giorgetti.

Buon venerdì.

«Il resto è sopravvivere»

A priest takes part in the mass for the Holy Family in Madrid on December 29, 2013. Tens of thousands of believers poured into central Madrid to celebrate an open-air Roman Catholic mass for the Holy Family today, just days after the Spanish government agreed to tighten the abortion law. AFP PHOTO / DANI POZO (Photo credit should read DANI POZO/AFP/Getty Images)

«All’età di 12 anni, nel frequentare il catechismo e in preparazione alla cresima, in occasione delle numerose confessioni settimanali, ho subito delle molestie sessuali e violenze ripetute da questo prete all’interno del confessionale e non solo ma anche altrove al di fuori della parrocchia. Costretto psicologicamente, “intrappolato” dal mio carceriere, ho vissuto due anni in questo incubo. A 15 anni ho trovato la forza di ribellarmi a questi soprusi. Successivamente sono caduto in una forte depressione dalla quale non sono più uscito, ho vissuto il periodo della pubertà rinchiuso in me stesso assieme a tutto il periodo adolescenziale portando problemi di carattere relazionale e vivendo una sessualità in maniera rovinosa con paure e fobie riguardanti la sfera sessuale. Per me il sesso era sporco e contaminante, sentendomi perennemente sporco. Paure e fobie che non mi hanno più abbandonato, limitandomi così nel tempo sempre più la vita al punto di non riuscire più a lavorare precludendomi la dignità personale. Non vi è null’altro da dire, solo che la mia vita è finita a 15 anni. Il resto è sopravvivere». Sono le parole della vittima di un pedofilo sacerdote (che ha chiesto l’anonimato e chiameremo Andrea), che grazie all’associazione Rete L’Abuso possiamo pubblicare. Oltre quanto appena letto, veniamo a sapere che quando Andrea ha trovato l’energia per denunciare alla magistratura civile le violenze subite era ormai troppo tardi: reato prescritto. Il suo presunto violentatore ha potuto dunque proseguire indisturbato l’attività sacerdotale e oggi, a differenza della vittima, passa in serenità la vecchiaia presso una sede ligure della Congregazione a cui appartiene. La storia di Andrea purtroppo è simile a quella di tanti altri “sopravvissuti”. Frequentare l’oratorio, la parrocchia, il catechismo può diventare improvvisamente una trappola senza via di scampo con delle conseguenze devastanti a livello psicologico e nella vita di tutti i giorni. E non tutti riescono a recuperare la forza necessaria per denunciare l’educatore a cui sono stati affidati dai propri genitori. In tanti non ce la faranno mai nel corso della vita, altri ci riescono quando ormai – per le leggi vigenti – è passato troppo tempo. Come da sempre raccontiamo su Left, così accade in tutto il mondo dove le istituzioni cattoliche sono presenti. In Italia, negli ultimi 15 anni, sono state circa 300 le denunce per pedofilia nei confronti di ecclesiastici, quasi 140 di loro sono finiti sotto processo e circa 80 sono stati condannati almeno in primo grado. Considerando che la popolazione ecclesiastica italiana è di oltre 30mila persone si potrebbe pensare che diversamente da altri Paesi – come gli Stati Uniti o l’Irlanda – la situazione sia tutto sommato sotto controllo. Ma stando a quello che nell’agosto 2018 ha dichiarato padre Hans Zollner all’agenzia dei vescovi Sir, purtroppo le cose non stanno così.

La Conferenza episcopale non può più fare finta di niente

«Troppi sacerdoti, tra il 4 e il 6 per cento nell’arco di 50 anni (negli Usa, ndr), hanno agito contro il Vangelo e contro le leggi. Sarebbe stupido pensare che in altri Paesi come l’Italia non sia accaduto lo stesso» ha detto Zollner che non è un prete qualunque ma è membro della Pontificia commissione per la tutela dei minori e presidente del Centre for child protection (Ccp) della Pontificia università gregoriana. Una dichiarazione dal significato inquietante che già allora non era sfuggita al nostro settimanale, eppure è stata inspiegabilmente ignorata dagli altri media italiani che in questo modo – non raccontando – contribuiscono a radicare presso l’opinione pubblica una falsa percezione del fenomeno criminale della pedofilia di matrice ecclesiastica. Prendendo per buone le percentuali paventate dal presidente della Ccp, vorrebbe infatti dire che in Italia non 80 ma almeno 1.200 preti potrebbero esser stati responsabili di abusi su minori nel recente passato. Fermo restando che anche solo una violenza è intollerabile, si tratterebbe di un’orrenda enormità. Soprattutto se si considera che, per certi aspetti, il profilo criminale del pedofilo è equiparabile a quello del serial killer: egli infatti, in estrema sintesi, organizza lucidamente la propria vita sociale in funzione della “caccia”, sceglie professioni che lo portano facilmente a contatto con i bambini, e non si ferma finché non viene arrestato e isolato; infine, non meno importante, «considerando le conseguenze sulle vittime, l’abuso si configura come un vero e proprio omicidio psichico» ci spiega la pediatra e psicoterapeuta Maria Gabriella Gatti. Come quello descritto nelle parole di Andrea con cui si apre la nostra inchiesta. A proposito della serialità, basti qui citare velocemente i casi di padre Lawrence Murphy negli Usa, reo confesso di abusi su oltre duecento minori sordomuti, e quello del parroco don Lelio Cantini, che a Firenze agì impunemente all’interno della sua comunità per oltre un ventennio. E che dire di Marcial Maciel Degollado, fondatore dei Legionari di Cristo e violentatore seriale per decenni “protetto” da Giovanni Paolo II? Tutti sono morti nel monastero dove erano stati inviati dal Vaticano a espiare i propri “peccati”, senza aver mai affrontato un giudizio civile. Come il violentatore di Andrea.

L’Onu all’Italia: rivedere Concordato e obbligo di denuncia per i vescovi

Se i media sono rimasti indifferenti, l’allarme di Hans Zollner avrà per lo meno suscitato l’attenzione delle nostre istituzioni preposte a prevenire certi crimini e a tutelare l’incolumità dei minori? E ancora, cosa fanno le autorità italiane per evitare che luoghi considerati “istintivamente” sicuri diventino invece una fonte di pericolo? L’occasione per rispondere a queste domande è stata data al governo italiano il 22-23 gennaio scorso a Ginevra dal Comitato Onu per i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza. Ma anche in questo caso il silenzio mediatico è calato sulla relazione dell’agenzia Onu incaricata di verificare se e in che modo l’Italia rispetti la Convenzione per i diritti dell’infanzia ratificata nel 1989. In particolare il nostro governo è stato chiamato a rispondere di pesanti accuse di negligenza nella gestione, prevenzione, controllo e giudizio in particolare dei casi di pedofilia clericale, mosse dall’associazione di vittime Rete L’Abuso. Tutto è iniziato lo scorso giugno dopo un incontro a Ginevra con il funzionario dell’Alto commissariato per i Diritti umani, Gianni Magazzeni, al quale ha partecipato anche l’associazione internazionale Eca global (presente in 18 Paesi e 4 continenti, di cui la Rete L’Abuso è uno dei membri fondatori). A supporto della propria denuncia, l’associazione italiana rappresentata dal presidente Francesco Zanardi e coadiuvata dall’avvocato Mario Caligiuri, ha presentato una imponente documentazione sulle gravi lacune che di fatto in Italia permettono l’impunità dei membri del clero. Vale la pena di sottolineare che gli emissari del governo di fronte alle domande e alle sollecitazioni degli investigatori di Ginevra hanno in pratica fatto un’imbarazzante scena muta. Arrivando a trincerarsi dietro la scusa di non essere dei tecnici. E non sono stati nemmeno in grado di sfruttare le ulteriori 48 ore di tempo concesse loro per rispondere in maniera non superficiale. Risultato? Basti qui citare l’incipit delle Conclusioni del comitato delle Nazioni Unite per farsi un’idea: «Il Comitato è preoccupato per i numerosi casi di bambini vittime di abusi sessuali da parte di personale religioso della Chiesa cattolica nel territorio dello Stato italiano e per il basso numero di indagini e azioni penali da parte della magistratura italiana» (il Report dell’Onu è stato reso noto il 7 febbraio 2019, a fine articolo pubblichiamo una sintesi significativa).
Abbiamo chiesto all’avvocato Caligiuri dove secondo lui bisognerebbe intervenire affinché anche nel nostro Paese cessi l’impunità degli ecclesiastici di fatto fino a oggi soggetti solo alle blande leggi vaticane sebbene i crimini siano compiuti sul territorio italiano. Leggi della Chiesa che come tali – va ricordato – si fondano sull’idea (inaccettabile) che lo stupro di un minore sia un delitto contro la morale, cioè un’offesa a Dio (e se avvenuto nell’ambito della confessione, si tratta di un’offesa al Sacramento!) e che nella pratica si traducono in una totale assenza di prevenzione e in una sanzione che consiste in un periodo di espiazione, preghiera e penitenza in strutture “protette” da sguardi indiscreti e senza alcun controllo (v. Left del 9 novembre 2018). Perché per la Chiesa tutti in fondo sono peccatori, vittime comprese che non di rado finiscono per essere considerate responsabili della tentazione diabolica in cui è caduto il “sant’uomo”: il prete violentatore.

La segretezza innanzi tutto, così i vescovi possono insabbiare le denunce
Dal punto di vista giuridico, «alla radice di tutto ci sono i Patti lateranensi» spiega Caligiuri, ricordando che il Concordato con la Santa sede è un prodotto del regime fascista, benché lo si ritrovi incorporato nell’articolo 7 della Costituzione. «Il Concordato va abrogato – prosegue l’avvocato – e le ragioni per abrogarlo, direi con urgenza, come ripetutamente manifestato nelle campagne di sensibilizzazione della Rete l’Abuso e nei report inviati a Ginevra, vanno individuate quantomeno nelle parti che limitano fortemente nelle indagini la magistratura italiana con il rischio di impedire l’esercizio dell’azione penale nei confronti dei preti sospettati di pedofilia e dei loro “superiori” (i vescovi, ndr) che potrebbero averli favoriti insabbiando le segnalazioni o trasferendoli di parrocchia in parrocchia consentendo loro di rimanere in contatto con minori e di poter ripetere l’abuso». Cosa succederebbe se il Concordato venisse abrogato o quanto meno rivisto come auspica anche l’Onu? «La Chiesa, qualora condividesse questa scelta di civiltà con lo Stato italiano, imposta da un’emergenza epocale, farebbe buona prassi concreta della tolleranza zero invocata da papa Francesco, ed il governo in carica concretizzerebbe efficacemente su questo versante l’obiettivo “sicurezza”, preoccupandosi seriamente della incolumità psicofisica dei bambini e delle bambine alla mercé di criminali seriali nelle parrocchie, negli oratori, nei centri sportivi, nelle scuole ecc…».
Caligiuri auspica quindi una sorta di un svolta culturale, a partire dal fatto che la Conferenza episcopale italiana nelle sue linee guida antipedofilia non impone ai vescovi la denuncia alla magistratura laica di un crimine grave come la pedofilia. A tal proposito l’avvocato punta il dito contro l’articolo 4 del Nuovo concordato (rinnovato da Craxi nel 1984) in cui si prevede che gli ecclesiastici non siano tenuti a dare ai magistrati o ad altra autorità civile «informazioni su persone o materie di cui siano venuti a conoscenza per ragione del loro ministero». Lo Stato italiano è quindi formalmente d’accordo nel tutelare il segreto e, di conseguenza, la facoltà per gli ecclesiastici di astenersi dal fornire informazioni.

La violenza su un bambino è considerata dal Vaticano un delitto contro la morale
Poiché questo si combina con il segreto pontificio che grava sugli eventuali procedimenti giudiziari della Santa sede nei confronti di preti pedofili, il risultato è devastante: in caso di condanna del tribunale ecclesiastico, una volta scontata la “pena” in un luogo protetto, se la Chiesa ritiene che vi siano i presupposti, il sacerdote può tornare a esercitare senza che nessuno – a partire dai parrocchiani, adulti e non, fino all’autorità civile – sia a conoscenza di quanto accaduto. Con rischi dolorosamente e facilmente immaginabili per i minori che ignari orbitano nella nuova parrocchia (basti qui citare il caso di G. Trotta di cui abbiamo parlato su Left del 9 dicembre 2017).
Quindi, da un lato del Tevere segretezza e assenza totale di trasparenza, dall’altro invece, in relazione all’art. 4 – sempre nel Concordato – «la Repubblica italiana assicura che l’autorità giudiziaria darà comunicazione all’autorità ecclesiastica competente per territorio dei procedimenti penali promossi a carico di ecclesiastici». Due pesi e due misure, con in mezzo l’incolumità dei bambini.
«Questa prassi – osserva Caligiuri – sostanzia non solo un’impressionante visione del mondo, ma rappresenta un sabotaggio agito in senso anticostituzionale al rispetto dell’esercizio dell’azione penale e al principio di uguaglianza, oltre a minare le garanzie poste a fondamento della tutela del minore. Un principio fondamentale, affermato da giurisprudenza consolidata, è quello secondo il quale ogni volta che è in causa la situazione di un minore, deve prevalere il suo interesse superiore (best interest of the child). Nulla quindi può giustificare l’assenza di provvedimenti che potrebbero incidere profondamente, in senso migliorativo o protettivo, sulla vita stessa del minore. Ciò che suscita sconcerto – conclude Caligiuri – è che l’informazione su questa inaccettabile realtà risulti ancora assai limitata, o fuorviante».

Dal 1996 in poi l’Italia ha fatto molto in termini di tutela dei minori. Resta da indurre la Chiesa a collaborare
Alla luce di quanto detto fin qui, è lecito parlare di “complicità” dei due Stati nel non voler affrontare adeguatamente il crimine della pedofilia? «Da un punto di vista normativo gli ultimi 20 anni in Italia sono stati caratterizzati da interventi adeguati rispetto a queste problematiche» osserva la magistrata Lucia Russo, procuratore aggiunto a Bologna che abbiamo incontrato a Novellara (RE) nell’ambito della manifestazione Nomadincontro 2019 dove è stata premiata per la sua attività in difesa dei diritti e dell’incolumità dei minori.
«Dal 1996 – prosegue Russo – abbiamo la nuova legge sulla violenza sessuale, dal 1998 abbiamo leggi che riguardano la pedopornografia che sono state rinnovate nel 2006 e nel 2012». Quest’ultima in attuazione della Convenzione di Lanzarote sulla protezione dei minori dallo sfruttamento e dagli abusi sessuali. Se è vero, dice la magistrata, che fino a 20 anni fa la situazione era tragica e non solo perché i reati sessuali avevano una collocazione sistematica nell’ambito dei reati contro la moralità pubblica e il buon costume, è anche vero che da allora sono stati fatti passi in avanti: «Questo non vuol dire che oggi la situazione sia rassicurante. La pedofilia è un fenomeno drammatico, che attraversa tutta la società, tutte le confessioni. Il problema è capire come fare per avere anzitutto l’emersione di questi fenomeni, perché quando le denunce arrivano all’autorità giudiziaria, questa si muove e con strumenti investigativi efficaci». Il problema è che all’autorità giudiziaria queste denunce arrivano poco e a volte male o molto in ritardo. Russo porta quindi l’esempio della denuncia nei confronti di un missionario italiano che per anni ha compiuto abusi in Nicaragua. «Non appena la segnalazione è giunta al nostro ufficio ci siamo attivati. Venendo poi a sapere che in Vaticano già dieci anni prima era nota l’attività criminale del sacerdote ma ciò non aveva portato assolutamente a nulla. Quindi se quella segnalazione fosse arrivata a noi per tempo, molto probabilmente sarebbero stati risparmiati a tanti bambini dieci anni di abusi». Il primo problema è dunque come far arrivare le denunce all’autorità giudiziaria. L’altra questione è come collaborare con la Santa sede. «È un dato di fatto che oggi tutte le autorità giudiziarie anche sovranazionali sono caratterizzate da rapporti di collaborazioni molto intensi e proficui anche alla luce di una serie di convenzioni internazionali molto recenti» sottolinea Lucia Russo e aggiunge: «Devo dire che non soltanto in tutta la mia carriera non ho mai ricevuto la denuncia di un vescovo per fatti di pedofilia all’interno della Chiesa, ma non ho neanche mai ricevuto gli atti né ho notizia che gli atti che riguardano il processo istruito parallelamente dalla Chiesa – che abbia portato ad esempio alla riduzione allo stato laicale – siano già stati trasmessi all’autorità giudiziaria ordinaria per le valutazioni di competenza». Addirittura si discute da tempo se a carico degli ecclesiastici esista un dovere di testimonianza oppure no. «Discutono soprattutto loro perché in realtà da noi la Cassazione ha dato delle risposte abbastanza precise e cioè che è un dovere che esiste certamente. Ci sono dei limiti dati dal sigillo sacramentale: non possiamo costringere nessun sacerdote a rivelare cosa è stato detto (o fatto, ndr) nel corso della Confessione. Però è anche vero che se durante l’attività sociale un sacerdote si accorge che sono accaduti fatti gravi o riceve delle confidenze, non c’è dubbio che abbia un obbligo di testimonianza. Mentre al contrario nelle linee guida della Cei addirittura si nega che ci sia un dovere di testimonianza in questo senso. Da un punto di vista normativo italiano, dunque, gravi lacune non ce ne sono. Penso che il problema serio e importante sia quello di incentivare le autorità ecclesiastiche a rapporti di collaborazione con la magistratura ordinaria».

L’impunità dei preti non può essere un dogma
E qui si torna ai paletti che sono nel Concordato. «Deve ammettersi – osserva l’avvocato Caligiuri – che appare questo uno dei nodi fondamentali da sciogliere, trattandosi, in buona sostanza, di un accordo politico intercorso tra Città del Vaticano e la Repubblica italiana, dunque modificabile dalle due Parti senza che ciò richieda procedimenti di revisione costituzionale». Occorre dunque una volontà politica che al momento evidentemente non c’è, da ambo le parti. E il pericolo rappresentato dai preti pedofili resta più che reale.
«Rispetto a un delitto gravissimo e incredibilmente diffuso, così lesivo della realtà fisica e psichica dei minori – spiega in conclusione la psicoterapeuta Maria Gabriella Gatti – non si può rivendicare una extraterritorialità o il diritto di difendere la sacralità, cioè la natura specifica, della dottrina che di fatto garantisce uno statuto speciale per i suoi ministri. I preti pedofili vivono su questa terra e devono rispettare le leggi della società in cui vivono, anche se sono convinti che le credenziali vantate rispetto alla sfera del trascendente consentano loro comportamenti caratteristici dei criminali e dei malati mentali».

Per la parte dell’intervento della d.sa Russo ha collaborato Emanuela Provera, co-autrice di Federico Tulli del libro Giustizia divina (Chiarelettere)

I rilievi dell’Onu all’Italia
Con riferimento alle sue precedenti raccomandazioni (del 2011, ndr) sul diritto del bambino alla libertà e contro tutte le forme di violenza nei suoi confronti e prendendo atto dell’obiettivo 16.2 dello sviluppo sostenibile degli obiettivi, il Comitato Onu per i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza raccomanda all’Italia di:

(a) Adottare, con il coinvolgimento attivo dei bambini, un nuovo piano nazionale per prevenire e combattere l’abuso e lo sfruttamento sessuale dei bambini e assicurarne l’uniforme implementazione su tutto il suo territorio e a tutti i livelli di governo;
(b) Istituire una commissione d’inchiesta indipendente e imparziale da esaminare tutti i casi di abuso sessuale di bambini da parte di personale religioso della Chiesa cattolica;
(c) Garantire l’indagine trasparente ed efficace di tutti i casi di violenza sessuale presumibilmente commessi da personale religioso della chiesa cattolica, il perseguimento dei presunti autori, l’adeguata punizione penale di coloro che sono stati giudicati colpevoli, e il risarcimento e la “riabilitazione” psichica delle vittime minorenni, comprese coloro che sono diventate adulte;
(d) Stabilire canali sensibili ai bambini, per i bambini e altri, per riferire sulle violenze subite;
(e) Proteggere i bambini da ulteriori abusi, tra l’altro assicurando che alle persone condannate per abuso di minori sia impedito e dissuaso il contatto con i bambini, in particolare a livello professionale;
(f) Intraprendere tutti gli sforzi nei confronti della Santa Sede per rimuovere gli ostacoli all’efficacia dei procedimenti penali contro il personale religioso della Chiesa cattolica sospettato di violenza su minori, in particolare nei Patti lateranensi rivisti nel 1985, per combattere l’impunità per tali atti;
(g) Rendere obbligatorio per tutti, anche per il personale religioso della Chiesa cattolica, la segnalazione di qualsiasi caso di presunta violenza su minori alle autorità competenti dello Stato italiano;
(h) Modificare la legislazione che attua la Convenzione di Lanzarote in modo da garantire che non escluda il volontariato, compreso il personale religioso della Chiesa cattolica, dai suoi strumenti di prevenzione e protezione.
In merito alla violenza di genere.
22. Il Comitato attira l’attenzione dello Stato italiano sull’obiettivo 5.2 degli Obiettivi di sviluppo e lo sollecita a:
(a) Garantire che le accuse di crimini legati alla violenza di genere, compresa la tratta di bambini stranieri, in particolare le ragazze, siano accuratamente indagate e che i responsabili siano consegnati alla giustizia;
(b) Fornire regolari corsi di formazione per giudici, avvocati, procuratori, i polizia e altri gruppi professionali pertinenti su procedure standardizzate, di genere e di allerta per i minori per quanto riguarda le vittime e su come gli stereotipi di genere da parte il sistema giudiziario influisca negativamente sulla rigorosa applicazione della legge;
(c) Garantire la “riabilitazione” dei minori vittime di violenze di genere.

Per approfondire: tbinternet.ohchr.org

L’inchiesta di Federico Tulli è tratta da Left in edicola dal 22 febbraio 2019


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Chiesa e pedofilia, tolleranza zero contro il Concordato

Il 16 febbraio, cinque giorni prima del summit mondiale sulla pedofilia convocato in Vaticano da papa Francesco, l’ex cardinale Theodore McCarrick, già arcivescovo di Washington, è stato ridotto allo stato laicale. Un caso senza precedenti nei confronti di un porporato che fa seguito a un’altra rarità: il 28 luglio 2018 Bergoglio gli aveva infatti tolto il cardinalato. La sentenza definitiva della Congregazione per la dottrina della fede che ha riconosciuto McCarrick colpevole di crimini sessuali contro minori e adulti ha messo la parola fine alla sua poderosa carriera ecclesiastica. E la decisione di spretarlo, sottolinea il comunicato della Cdf emanato dalla sala stampa vaticana, è inappellabile, «non soggetta a ulteriore ricorso». Per il cardinale Daniel DiNardo, presidente della Conferenza episcopale Usa, il messaggio è chiaro: «Nessun vescovo, non importa quanto influente, è al di sopra della legge della Chiesa». Tutto qui. Per i vertici della Chiesa togliere la tonaca a un sacerdote che violenta delle persone è una condanna esemplare. E meno male che almeno in questo caso è avvenuto senza il vincolo del segreto pontificio che di norma pende sulle pronunce della Cdf con il risultato che ex preti con storie di violenza alle spalle se ne vadano in giro senza che nessuno abbia informato le autorità giudiziarie dei Paesi interessati. L’epilogo della vicenda di McCarrick è anche per altri motivi una storia interessante. Perché di solito la pena stabilita dalla Chiesa cattolica ai sacerdoti che violano le sue leggi interne consiste in un periodo di silenzio e preghiera in luoghi “protetti” lontano dai clamori mediatici. Cosa che infatti era stata disposta per l’ex cardinale dopo la punizione del 28 luglio scorso in attesa del giudizio definitivo della Cdf. Ma silenzio e preghiera è anche il modo in cui di norma il Vaticano «reagisce» pubblicamente alle notizie sui crimini compiuti da ecclesiastici. Silenzio e preghiera sono le parole usate da papa Francesco per commentare l’accusa – che gli era stata rivolta nell’agosto 2018 dall’ex nunzio vaticano negli Usa, monsignor Carlo Maria Viganò – di aver insabbiato per anni (fino al 2018 appunto) le denunce contro McCarrick. «Perché la verità è mite, la verità è silenziosa, la verità non è rumorosa» e quindi «il giudizio fatelo voi», ha detto Bergoglio il 3 settembre 2018 durante la sua omelia a Santa Marta.

Cosa ha indotto il papa a cambiare atteggiamento? E come si combinano il “silenzio e la preghiera” con i suoi frequenti proclami di «tolleranza zero»? Va considerato in primis che è prassi consolidata in Vaticano intervenire pubblicamente laddove non è più possibile celare e risolvere le situazioni di crisi nelle “segrete stanze”. Si spiegano così, ad esempio, oltre alle ripercussioni pubbliche del dossier Viganò su McCarrick, il secondo summit convocato in Vaticano dalla Santa sede in sette anni, a cui devono partecipare tutti i capi delle Conferenze episcopali del mondo. Inoltre, c’è dietro l’idea che dai peccati “Dio salva”, e che verso i peccatori vanno usati “misericordia e perdono”, perché «chi tra voi è senza peccato scagli la prima pietra». Questa doppia morale è da sempre l’asse portante nel modo in cui la Chiesa (non) affronta la pedofilia al suo interno, e affonda le sue radici nella confusione che fa tra reato e peccato. L’abuso, cioè «l’atto sessuale di un chierico con un minore», è ritenuto un delitto contro la morale, un’offesa a Dio, in violazione del sesto comandamento, e non la violenza efferata contro una persona. Di conseguenza la vera vittima sarebbe Dio e il peccatore (che sotto sotto per certa cultura è anche il bambino) secondo la visione degli appartenenti al clero, deve rispondere alla persona che rappresenta l’Altissimo in Terra (il papa), e non alle leggi della società civile di cui fa parte. Di tutto questo non tiene conto lo Stato italiano nel tenere in vita il Concordato rinnovato nel 1984 con il Vaticano, sebbene dal 1996 in poi la nostra legislazione in materia di reati a sfondo sessuale sui bambini (e le donne) abbia fatto enormi progressi. Con quali conseguenze per l’incolumità dei bambini che frequentano le parrocchie, gli oratori, i seminari minori e le scuole cattoliche?

Lo raccontiamo in questa storia di copertina, prendendo spunto dalla vibrante denuncia del Comitato Onu per i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza che il 7 febbraio scorso ha pubblicato il Rapporto in cui indica al nostro governo tutto quello che andrebbe fatto per dare piena attuazione alla Convenzione di New York ratificata nel 1989. Nell’indifferenza della stampa italiana, che ha dell’incredibile, sono state messe nero su bianco tutte le criticità derivanti dal Concordato che da un lato solleva i vescovi dall’obbligo di collaborare con l’autorità civile, e dall’altro come ci racconta l’avvocato Mario Caligiuri rappresentante legale di Rete L’Abuso, «limita fortemente nelle indagini la magistratura italiana con il rischio di impedire l’esercizio dell’azione penale nei confronti dei preti sospettati di pedofilia e dei “superiori” che trasferendoli di parrocchia in parrocchia consentono loro di rimanere in contatto con minori e di ripetere l’abuso». Questa garanzia d’impunità è intollerabile per un Paese laico e civile ed è ora che Stato e Chiesa ne prendano atto. Facciamo pertanto nostre le parole della pediatra e psicoterapeuta Maria Gabriella Gatti: «Rispetto a un delitto gravissimo e incredibilmente diffuso, così lesivo della realtà fisica e psichica dei minori non si può rivendicare una extraterritorialità o il diritto di difendere la sacralità, cioè la natura specifica, della dottrina che di fatto garantisce uno statuto speciale per i suoi ministri. I preti pedofili vivono su questa terra e devono rispettare le leggi della società in cui vivono, anche se sono convinti che le credenziali vantate rispetto alla sfera del trascendente consentano loro comportamenti caratteristici dei criminali e dei malati mentali».

L’editoriale di Federico Tulli è tratto da Left in edicola dal 22 febbraio 2019


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Perché abbassare l’età imputabile a 12 anni è una proposta inaccettabile

L'area dedicata alle attivita' didattiche educative all'interno del carcere minorile di Casal del Marmo a Roma, dove il giovedi' santo Papa Francesco celebrera' la Messa in 'Coena Domini', 26 marzo 2013.

Pubblichiamo la nota del Coordinamento nazionale Comunità di accoglienza, in cui la rete denuncia la pericolosità del disegno di legge – presentato alla Camera – sull’abbassamento dell’età imputabile da 14 a 12 anni

«I problemi che alcuni minorenni manifestano con comportamenti violenti o devianti non possono essere trattati con il ricorso al carcere, ma piuttosto con politiche e interventi sociali ed educativi appropriati», dichiara Liviana Marelli, responsabile Infanzia e adolescenza del Coordinamento nazionale Comunità di accoglienza (Cnca). «Il disegno di legge n. 1580 presentato alla Camera dei deputati il 7 febbraio che intende abbassare l’età imputabile da 14 a 12 anni, è inaccettabile per diversi motivi. In primo luogo, contrariamente a quanto dichiarato nella relazione di accompagnamento al ddl, non c’è alcuna emergenza criminale che riguardi i minorenni: il tasso di minorenni denunciati nel nostro Paese è molto più basso di quanto riscontrato in parecchi altri Paesi europei e il livello della recidiva minorile in Italia risulta essere fra i più bassi d’Europa. È inopportuno e sbagliato affrontare casi specifici, e circoscritti, che hanno colpito l’opinione pubblica chiedendo un cambiamento di sistema che non trova alcuna giustificazione e che non tiene conto dell’esperienza condotta in questo ambito sia dalla magistratura minorile sia dagli operatori del settore».

«È evidente, poi», continua Marelli, «che la gran parte delle situazioni che hanno rilievo sui media evidenziano le gravissime responsabilità dello Stato circa l’assenza o l’insufficienza di investimenti per le politiche sociali a favore di minorenni, famiglie e contesti sociali determinati, in materia di prevenzione, inclusione, educazione. La colpevole assenza di sostegno alle comunità locali, agli ambienti di crescita, all’educazione (scuola in primis), alla formazione, e l’assenza di futuro e di prospettive credibili che si riscontrano in particolar modo in alcuni contesti non si può risolvere fomentando paure e ricorrendo a pseudo-risposte di ordine penale – punitive e detentive – per bambini di 12 e 13 anni».

«Infine», conclude Marelli, «va ricordato che già esistono oggi, nell’ordinamento, forme di intervento per i bambini di età inferiore ai 14 anni che manifestano difficoltà o atteggiamenti a rischio sociale, come l’inserimento in comunità educativa. Invece di prevedere misure punitive per i bambini, occorre piuttosto sostenere gli adulti nel loro ruolo educativo e ampliare il ricorso a forme alternative alla detenzione e di giustizia riparativa per tutti i minorenni inseriti nel circuito penale».