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Primo Levi, uno scrittore che parla ancora

PRIMO LEVI PREMIO STREGA. PRIMO LEVI. • Data di Rilascio:31/ago/1998 ore 16:46 • Servizio:ANSA • Prodotto:STORICO

In occasione del centenario della nascita di Primo Levi, vi proponiamo l’articolo di Simona Maggiorelli pubblicato su Left n. 3 del 21 gennaio 2017

La prigionia «per me è un ricordo lontano nel tempo e insieme presente. Il mio mestiere è un altro, io sono un chimico. Ma la mia vita è segnata da due fatti fondamentali: l’esperienza della prigionia e l’averne scritto». Così Primo Levi si raccontava in un’intervista tv negli anni 50. «Oggi sono a Milano per parlare con i bambini di una quarta elementare. Accetto sempre molto volentieri questi inviti. I miei libri mi portano a contatto con un pubblico ogni volta diverso per età, per estrazione sociale. Parlando di queste cose a un tempo vicine e remote le persone riescono a ricollegare le azioni delle squadre fasciste in Italia negli anni Venti, come la strage di Piero Brandimarte a Torino, con i campi di concentramento (che non sono mancati anche in Italia) e con il fascismo di oggi; altrettanto violento, a cui manca solo il potere per ridiventare quello che era: la consacrazione del privilegio e della disuguaglianza». Quando il giornalista chiede a Levi se pensa che il ricordo di Auschwitz si sia assopito in Italia, lo scrittore risponde: «È probabile che in Italia sia meno pesante perché la strage – una strage nell’ordine di milioni di persone – è avvenuta localmente in Germania. E questo permette agli italiani di trovarsi un alibi facile. Queste cose le hanno fatte loro, non le abbiamo fatte noi. Ma le abbiamo cominciate noi.

Il nazismo in Germania è stato una metastasi di un tumore che era in Italia. È un tumore che ha condotto alla morte la Germania e l’Europa, vicino alla morte, al disastro completo. Non sono solo per i quattro milioni di Auschwitz, ma anche per i sei o sette milioni di vittime ebree. Per i sessanta milioni di morti della seconda guerra mondiale che sono il frutto del nazismo e del fascismo». E poi Levi aggiungeva: «Questa è una cosa che io non posso dimenticare per ragioni evidenti, ma vorrei che tutti, anche quelli che non sono stati in un lager, ricordassero e lo sapessero: ovvero che era la realizzazione del fascismo, integrato, completato». Già da queste poche frasi occasionali emerge molto della viva intelligenza di Primo Levi e c’è molto del suo pensiero e del suo stile: l’essenzialità, il riserbo, la denuncia fortissima e precisa, la profonda umanità, l’urgenza che motivava la sua scrittura. Aspetti che ritornano in forma alta, rastremata e potente nelle suoi testi letterari raccolti nella silloge Opere complete, che Einaudi pubblica in nuova edizione. L’introduzione di Daniele Del Giudice è ancora quella del 1997 e appare attualissima. Nuove invece sono le note di Marco Belpoliti che recepiscono le recenti acquisizioni della ricerca storica e critica. Ma non solo. Rileggendo alcuni classici di Primo Levi in questi due corposi volumi si scoprono i sostanziosi cambiamenti che egli apportò all’edizione del 1947 di Se questo è un uomo, ripubblicandolo nel 1958 con molte varianti.

In questa silloge di Opere complete (in cui si trovano anche adattamenti teatrali e versioni radiofoniche di Se questo è un uomo e de La tregua), attraverso le note di Marco Belpoliti, si può seguire l’evoluzione continua dello scrittore torinese che ambiva a «realizzare un sogno olistico», facendo incontrare cultura scientifica e letteraria, per dare più forza alla propria testimonianza. Scopriamo così che anche su consiglio di alcuni compagni partigiani, Primo Levi operò un «arrotondamento» della propria esperienza ad Auschwitz; apparentemente smussandone la crudezza. In realtà trovando, per via letteraria, il modo di comunicare una verità storica agghiacciante e insostenibile: il lucido e pianificato sterminio nazista di ebrei e rom.

Dopo aver pubblicato l’importante saggio Primo Levi di fronte e di profilo (Guanda, 2015), che racconta lo spessore di Primo Levi scrittore, in queste nuove note Belpoliti non fa solo una ricostruzione filologica delle varianti («La filologia uccide gli autori», dice un pizzico di provocazione) ma mostra come la formalizzazione dei testi servisse a Levi per raggiungere un doppio obiettivo, di bellezza e insieme di esattezza assoluta della propria testimonianza. Contro ogni tentativo revisionista e negazionista. L’autore di Sommersi e salvati pensava di essere riuscito a sopravvivere al lager anche perché sentiva di avere un compito: raccontare ciò che aveva visto e vissuto. Negli anni Ottanta, di fronte alle inaccettabili menzogne di intellettuali negazionisti, questa esigenza di assoluta precisione nella ricostruzione della verità storica divenne, se possibile, ancora più forte. Al contempo cercava una forma espressiva più consona e elegante. Anche in questo era assolutamente laico. Dal lavoro critico di Marco Belpoliti tutto questo emerge con chiarezza. «Solo la Bibbia, solo i testi sacri, sono immutabili», sottolinea il critico e curatore ricordando lo scandalo ingiustificato che seguì alla “scoperta” che i Diari di Anne Frank erano stati “manipolati” per renderli leggibili.

Presentando questi due volumi di Opere complete alla Casa delle letterature a Roma, l’italianista Gianfranco Pedullà ha parlato di lento processo di «approssimazione al valore» che, passo passo, gli scritti di Levi hanno conosciuto. «Con Primo Levi di fronte e di profilo Belpoliti ha contribuito in modo significativo a far entrare Primo Levi nel canone letterario dalla porta principale, ora con questa silloge punta a recuperare Levi testimone». Perché «solo nella sua complessità inclassificabile, al di là dei generi e degli stili, emerge l’importanza fondamentale del suo lavoro», afferma Pedullà. Primo Levi è sempre, al tempo stesso, scienziato e umanista, senza scissioni, senza compromessi. «La sua grandezza ha a che fare anche con il suo collocarsi su questa soglia, obbligandoci a rifiutare le distinzioni troppo nette».

Di fatto, però, la varietà e la vastità della sua opera di scrittore-testimone, a quasi cent’anni dalla sua nascita, deve ancora essere adeguatamente recepita. Non solo perché non sono stati ancora resi accessibili agi studiosi la sua biblioteca, l’archivio e gran parte dell’epistolario, ma anche perché i suoi testi di science fiction sono poco conosciuti dal pubblico più ampio. Pensiamo per esempio a Storie naturali (1966), pubblicato con lo pseudonimo Damiano Malabaila, a Le meraviglie del possibile, che hanno in qualche modo anticipato Le Cosmicomiche di Calvino e poi a Vizio di forma (1971). «I suoi racconti fantastici non sono un corollario, un’evasione o un’espressione secondaria e tardiva della sua vocazione letteraria, ma affiancano e accompagnano la narrativa di testimonianza a carattere autobiografico», sostiene Franco Cassata in Fantascienza? Science Fiction (Einaudi).

«Chi scrive attinge alla materia che conosce. Le mie miniere – diceva Levi – sono più d’una e diverse». Va anche detto che la fantascienza non aveva radici solo nel trauma del Lager, permettendo allo scrittore di dare una forma a un vissuto così agghiacciante da rasentare l’indicibile. Già da studente Primo Levi aveva manifestato interesse per scenari scientifici “futuribili”. L’elettronica, l’astrofisica, la chimica, la botanica, la zoologia e molte altre discipline innervano i suoi romanzi. Questa nuova iniziativa editoriale contribuisce a far emergere un Primo Levi curioso di tutto, interessato a tutti gli aspetti della vita, pieno di fantasia, anche se una vena di pessimismo affiora quasi sempre.

«Il percorso di scrittura di Primo Levi era molto variegato, laborioso e accidentato, ispirato a un’ idea alta di letteratura», racconta Andrea Cortellessa, autore insieme a Marco Belpoliti e al regista Davide Ferrario de La storia di Levi ( libro con dvd) pubblicato un paio di anni fa da Chiarelettere. Nonostante la sua scrittura sia limpidissima non è un autore facile. Lo ha rimarcato Cortellessa intervenendo alla tavola rotonda alla Casa delle letterature a Roma: «Ci sono ancora critici e perfino scrittori affermati in Italia per i quali Levi quasi non esiste». Difficile dire perché, certamente parliamo di un autore scomodo, capace di mostrare che l’esperienza del lager non è irraccontabile. Levi ci costringe a confrontarci con le responsabilità del fascismo. C’è anche e soprattutto una ragione di memoria storica e politica, secondo Belpoliti, alla base del fatto che Primo Levi non abbia ancora conquistato un posto di primo piano nel canone della letteratura italiana del Novecento.

«Primo Levi è un autore che sfugge alle classificazioni, la sua opera è ibrida, la sua identità prismatica. Anche per questo è uno degli autori più importanti della letteratura del Novecento non solo italiana», dice la scrittrice Premio Pulitzer Jhumpa Lahiri, che al convegno romano su Levi ha raccontato come viene recepito in America e nei suoi corsi di scrittura creativa a Princeton. «Non si può insegnare a scrivere» avverte la scrittrice in Italia anche per presentare il suo nuovo libro Il vestito dei libri (Guanda). «Ma se non si può ma si può insegnare a scrivere un’opera d’arte si può insegnare a leggere, a riconoscere la qualità letteraria di un testo. E i libri di Primo Levi mostrano bene la differenza fra testimonianza e creazione letteraria e come possano concorrere ad un testo profondo e originale». Poi parlando della “fortuna” di Primo Levi oltreoceano, dove molte delle sue opere sono state tradotte, aggiunge: «Mi colpisce molto che i miei studenti universitari non lo abbiano mai letto prima e che , spesso, non lo abbiano mai neanche sentito nominare. Ma in poco tempo scoprono nei suoi libri un autore rivoluzionario, capace di trasmettere un’esperienza fondamentale per ogni autore: scrivere è mettere in pratica una resistenza. Chi scrive lo fa per sopravvivere a qualcosa».

L’articolo di Simona Maggiorelli è tratto da Left n. 3 del 21 gennaio 2017

 

SOMMARIO ACQUISTA

Sgomberare i fascisti invece “non è prioritario”

Casapound far-right wing militants gather in front of the party's headquarter before the 41st anniversary of Acca Larentia killings in Rome, Italy, on January 07, 2019. The Acca Larentia killings refers to the political killing of three fascist activists - Franco Bigonzetti, Francesco Ciavatta and Stefano Recchioni - of the Youth Front of the Italian Social Movement the evening of January 7, 1978, in Rome. In past years, Italian far-right movements such as Casapound have used the Acca Larentia’s anniversary as a main event in their political agenda, gathering thousands of militants from all around the country. (Photo by Michele Spatari/NurPhoto)

Avete presente ogni volta che arrivano a prendere a calci qualche straccione e a caricargli gli stracci e le coperte e le piccole vecchie inutili cose che si porta con se? La domanda, di qualcuno che assiste a questi atti di violenza è quasi sempre la stessa: perché questa fame? questo odio? questa soddisfazione? Ma soprattutto: cosa c’è di così prioritario nello spostare un disperato all’angolo opposto?

Rispondono, quelle poche volte che vi rispondono quando lo chiedete, che è per motivi di ordine pubblico. Per questo la campagna elettorale permanente del ministro dell’inferno ha bisogno di reati, anche piccoli, per poter funzionare:si si riesce a fare passare il concetto che potrebbero essere fuori legge allora gli elettori diventano già accondiscendenti, anzi fanno addirittura il tifo per loro.

Che i top di CasaPound lo dice banalmente la Costituzione, oltre a qualche centinaio di denunce a loro carico. Qualche settimana fa la sindaca di Roma Virginia Raggi, si era rivolta proprio a Giovanni Tria chiedendogli di “avviare le procedure necessarie allo sgombero dell’immobile al fine di ripristinare le condizioni di legalità”.

E sapete qual è stata la risposta? che lo sgombero della sede di CasaPound non è prioritario perché ci sono atri 16 edifici prima di quello che sono a rischio di crollo e a rischio igienico (come possa essere igienico un covo di fascisti, poi, è tutto da vedere).

Il leader di CasaPound come al solito è stato lestissimo a capire: «La sede di CasaPound rimarrà nel palazzo di via Napoleone III e lo stabile non sarà sgomberato almeno finché esisteranno centri sociali: una volta sgomberati tutti i centri sociali, allora vedremo. Difenderemo la nostra occupazione fino alla fine, e su questo si mettessero tutti l’anima in pace perché la questione non sarà risolta a breve».

Difenderanno l’illegalità fino alla fine. Però intanto ci promettono di salvare l’Italia. Ma va là, su.

Buon giovedì.

Ricordando Foster Wallace, nel giorno del suo compleanno

Lo scorso anno, ha visto il ricorrere dei dieci anni dal tragico suicidio di David Foster Wallace. Per nessuno più che per l’autore di Infinite Jest è vero quanto Pasolini, nell’articolo I segni viventi e i poeti morti, sosteneva sulla modalità sempre differente, con cui la morte articola – sigillandola- la vita, grazie alla «luce retroattiva che essa rimanda su tale vita».

E Foster Wallace è finito fagocitato, suo malgrado, dalla propria ipertrofica, sovrabbondante, sovreccitata creatività. I tarli implacabili della depressione, delle ossessioni paranoiche, i masochismi sovversivi di cui sono capaci il paradosso e l’ironia – tutti tratti, che letterariamente hanno dato corpo alle pagine spiazzanti e felicemente discontinue dei romanzi, dei racconti e degli scritti giornalistici di questo scrittore già classico tra i contemporanei – ne hanno acceso e, al tempo stesso, corroso impietosamente la vita.

Il Cambridge Companion to David Foster Wallace da poco pubblicato a cura di Ralph Clare per il decennale, elogia – a farlo è Matthew Luter – il primo romanzo dell’autore statunitense La scopa del sistema per la sua originale rilettura di Thomas Pynchon, laddove l’incompiuto Re pallido, uscito postumo, è qualificato da Clare Hayes-Brady come un felice tentativo «di re-iscrizione all’interno delle convenzioni letterarie ottocentesche». Un’oscillazione, dunque, fra le tradizioni del postmoderno e del moderno, al cui centro orbitano numerosi racconti, che pertengono ora all’uno ora all’altro di tali poli e ora a entrambi. Diversissimi tra loro e formalmente disomogenei, i racconti possono essere fulminanti, come le pagine di Incarnazioni di bambini bruciati, asciutte al punto da toglierti il fiato, con la morte di un neonato descritta come «un tanto di vapore lassù in alto, che cade come pioggia e poi risale». Rabdomantica e magmatica è, invece, una storia come Caro vecchio neon, nella quale la solitudine che conduce al suicidio trova nell’impostura – logico-intellettuale, prima ancora che psicologica – la sua più gelida premessa.

Eppure, a restare ancor oggi vivo e memorabile della torrenziale opera dello scrittore americano è proprio Infinite Jest, cioè a dire il Foster Wallace più provocatorio, vorace e antagonistico. Ed è forse per questo motivo che il libro non cessa di essere tradotto, letto, discusso e riproposto in America e fuori. Non era certo sfuggito – quando a metà degli anni Novanta Infinite Jest si impose – che un qualcosa di anomalo avesse preso forma. Ma ciò che allora poteva sembrare un ambizioso, irritante e grottesco pastiche non faceva certo presagire un futuro così brillante. E Infinite Jest adesso sta lì, specola discorsiva sopra un caos epistemologico che in due lustri – non solo in America, ma a livello planetario – si è fatto sempre più acuto.

Il Pasolini de I segni viventi e i poeti morti definiva la vita un «continuum indecifrabile, approssimativo, mitico e violentemente fisico insieme, ambiguo e menzognero». Gli anni Settanta e Ottanta hanno segnato il trionfo delle filosofie del continuum, del molteplice, della differenza. La letteratura postmoderna ha trovato la strada spianata grazie a categorie teoriche quali flusso rizomatico o divenire molecolare. Anche Infinite Jest s’avventura per tali sentieri, ma in maniera schizofrenica, celebrando del flusso l’impasse e dell’impasse la discontinuità. A tutti i livelli: sul piano ideologico, formale, discorsivo.

Alla fine è soprattutto una dinamica a distaccarsi da quanto uscito dalla penna di Wallace: una scrittura che è incessante creare, divagando e lanciando l’arpione dell’entrelacement programmaticamente a vuoto. Ecco, così, sfilare una giostra di andirivieni narrativi destinati a incepparsi, scivolando via in maniera nevrotica, ma decisamente fascinosa. Come Infinite Jest, il misterioso e sfuggente film che del romanzo è il titolo e il centro. Ammesso e non concesso che di centro ve ne sia uno.

Verona, capitale dell’oscurantismo. Per tre giorni

Non c’è solo Pillon, e il disegno di legge sull’affido condiviso che punta a smantellare i diritti delle donne, e dei bambini, conquistati negli ultimi quarant’anni. Le libertà individuali e il riconoscimento dei diritti civili sono sotto attacco da più fronti. Dal 29 al 31 marzo Verona ospiterà, per la prima volta in Italia, il XIII Congresso mondiale delle famiglie che, come si legge nel sito ufficiale, è «un importante evento pubblico internazionale che cerca di unire i leader, le organizzazioni e le famiglie per affermare, celebrare e difendere la famiglia naturale come l’unica unità fondamentale della società». «Nel 2018 – ricordano gli organizzatori – il Congresso è stato ospitato dal presidente moldavo Igor Dodon, e nel 2017 a Budapest dal primo ministro Viktor Orban».

Tra gli ospiti italiani confermati ci sono il ministro dell’interno Matteo Salvini, il ministro per la Famiglia e la disabilità Lorenzo Fontana, il governatore della Regione Veneto Luca Zaia, mentre l’adesione del presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani, data per confermata in un primo momento, risulta essere al momento incerta. Scorrendo la lunga lista dei relatori si scopre inoltre la partecipazione del ministro dell’Istruzione Marco Bussetti, della presidente di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni e di don Aldo Buonaiuto, il sacerdote che ha accusato Virginia Raffaele di aver invocato Satana in uno dei suoi sketch all’ultimo festival di Sanremo. Ma c’è di più. Se la scelta della città veneta come sede del Congresso risulta coerente con l’impostazione ideologica dell’evento – dato che negli ultimi mesi Verona è diventata una testa d’ariete contro la legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza con l’approvazione di una mozione contro l’aborto poi copiata da altre città italiane – quello che desta preoccupazione è la concessione del patrocinio della presidenza del Consiglio dei ministri, della Regione Veneto e della Provincia di Verona all’evento.

«Innanzitutto è doveroso sottolineare la presenza al Congresso di ben tre ministri della Repubblica, Matteo Salvini, Lorenzo Fontana e Marco Bussetti. È un fatto senza precedenti nell’Europa occidentale – precisa Yuri Guaiana, presidente dell’associazione Certi diritti, tra i primi a segnalare la vicenda e curatore del libro Il lungo inverno democratico nella Russia di Putin (Diderotiana editrice) -. È inoltre inaccettabile vedere il sigillo della presidenza del Consiglio dei ministri affiancato al programma di un evento che prevede, tra gli altri, gli interventi di personaggi che si sono esposti apertamente per la criminalizzazione dell’omosessualità e dell’aborto». Come ricorda Guaiana, al congresso interverranno «personalità note per le loro posizioni antiabortiste e sostenitrici della famiglia tradizionale come il russo Dmitri Smirnov, presidente della Commissione patriarcale per la famiglia e la maternità che ha lo scopo di consigliare la Duma, il Parlamento russo, e di aiutare il presidente Vladimir Putin a sviluppare politiche in linea con le indicazioni della chiesa ortodossa, mentre il presidente moldavo Igor Dodon ha espresso più volte posizioni decisamente omofobe».

Sono inoltre previsti gli interventi di Theresa Okafor, attivista nigeriana tra le proponenti delle legge del 2014 che criminalizza le relazioni tra persone dello stesso sesso e di Lucy Akello, ministro ombra per lo Sviluppo sociale in Uganda che ha chiesto di approvare la legge antigay del 2014, nota come “Kill the gays bill” che prevedeva originariamente la pena di morte, poi l’ergastolo, per “omosessualità aggravata”.

«La scelta di Verona e dell’Italia non è casuale, dimostra al contrario la volontà di imporre un preciso modello di società e di famiglia che pensavamo fossero superate dopo la conquista dei diritti civili negli anni Settanta e Ottanta. Il Congresso delle famiglie è in realtà il congresso della famiglia, intesa in senso tradizionale e patriarcale, in cui non c’è spazio per le persone Lgbt, gli omosessuali e le donne», conclude Guaiana.
Nei giorni scorsi una delegazione di quattro associazioni (Famiglie arcobaleno, Certi diritti, Cgil Nuovi diritti e Circolo di cultura omosessuale Mario Mieli) ha chiesto al sottosegretario alle Pari opportunità, Vincenzo Spadafora, di revocare il patrocinio istituzionale al Congresso veronese.

«Abbiamo avuto la sensazione di avere dinanzi Giano Bifronte – afferma Sandro Gallittu della Cgil Nuovi diritti, presente all’incontro -. Mentre le nostre associazioni discutono con il governo l’importanza di garantire i diritti civili, lo stesso governo partecipa con tre ministri a una manifestazione discriminatoria e omotransfobica. Sul merito della questione, il sottosegretario ha puntualizzato che il patrocinio non è del Consiglio dei ministri ma solo del Ministero della famiglia. Forse Spadafora ha dimenticato che il governo è un organo collegiale». Intanto i parlamentari di Più Europa Emma Bonino e Riccardo Magi hanno presentato, insieme ai deputati Rossella Muroni e Ivan Scalfarotto, un’interrogazione parlamentare per chiedere spiegazioni sul patrocinio istituzionale garantito al Congresso delle famiglie.

Anche le attiviste di Non una di meno promettono battaglia: «Come donne, lesbiche, soggettività Lgbtqi, antifasciste e antirazziste, renderemo Verona proprio nei giorni del Congresso una città aperta a tutte e tutti, organizzando una serie di eventi diffusi che convergeranno in una piazza resistente nel pomeriggio di sabato 30 marzo», si legge in una nota diffusa dalla rete femminista, nella quale si annuncia tra le altre la presenza dell’attivista Marta Dillon, tra le fondatrici di Ni una menos, movimento femminista nato in Argentina nel 2015 e poi diffusosi in tutto il mondo, Italia compresa.

«Verona e l’Italia stanno diventando il punto di riferimento dell’ultra-conservatorismo a livello internazionale e della violenta crociata per imporre modelli tradizionalisti e normativi che negano e attaccano le donne e ogni diversità – precisa Giulia, attivista di Non una di meno Verona -. I corpi delle donne, come quelli dei migranti, sono i corpi che mettono in crisi il sistema del patriarcato tradizionale. Per questo, uno degli eventi centrali nella nostra tre giorni sarà il confronto tra movimenti femministi internazionali che, come noi, si trovano a dover resistere contro la crescente ondata della destra radicale e integralista. La posta in gioco – conclude Giulia – è l’idea stessa di collettività intesa come comunità che si unisce contro l’odio e per i diritti delle donne, delle persone omosessuali e transessuali, e in definitiva di tutte e di tutti».

Scusate, a me sfugge l’interesse pubblico

La home page di Rousseau, 18 febbraio 2019. Militanti M5s al voto sulla piattaforma Rousseau sull'autorizzazione a procedere per Salvini nel caso Diciotti. ANSA/ROUSSEAU.MOVIMENTO5STELLE.IT +++ ATTENZIONE LA FOTO NON PUO' ESSERE PUBBLICATA O RIPRODOTTA SENZA L'AUTORIZZAZIONE DELLA FONTE DI ORIGINE CUI SI RINVIA+++ ++HO - NO SALES EDITORIAL USE ONLY++

Dice Salvini (e dicono ora anche i 5 Stelle, con voto certificato e timbrato da Messer Casaleggio) che il sequestro di qualche disperato sulla nave Diciotti è stato deciso in nome dell’interesse pubblico. La votazione della Giunta al Senato ha deciso proprio questo: Salvini ha agito nell’interesse del popolo italiano. Ma  l’ha fatto secondo la Costituzione e rispettando le persone coinvolte?

Qui ognuno qui ha la propria risposta. E si sa bene quale sia la nostra.

Ma a me continua a sfuggire un punto: quale sia l’interesse pubblico.

Su quella nave c’erano terroristi? E allora perché piuttosto che cuocerli sotto il sole il ministro Salvini non ha deciso di far salire fin dal primo istante le forze dell’ordine per i dovuti accertamenti? Nessuno gli avrebbe mai contestato il non aver fatto scendere qualche pericoloso criminale. Sbaglio?

Quella nave è stata ferma perché sono chiusi i porti come continua a ripetere Salvini? E allora perché gli sbarchi continuano? E, soprattutto, perché Salvini (o Toninelli) non si prendono la briga di mettere nero su bianco un atto che sarebbe illegale e che cancellerebbe qualche decina di trattati?

Salvini ha fermato quella nave perché aveva promesso così in campagna elettorale? Ma stiamo scherzando? Ma che c’entra con l’interesse pubblico che è un concetto ben già alto delle promesse della politica e della sua propaganda? Se io nella prossima campagna elettorale prometto di dipingere tutti gli elefanti di rosa e di insegnargli a volare sarà d’interesse pubblico spendere milioni di euro in vernice e corsi di volo? Dai, su, non scherziamo.

L’interesse pubblico non c’entra nulla con quella che Sabino Cassese descrive come la dittatura della maggioranza. L’interesse pubblico è qualcosa di già alto, di più denso, forse fin troppo per Di Maio e Salvini.

Come giustamente faceva notare Emanuele Fiano «L’interesse pubblico non è che coincida con l’interesse della maggioranza parlamentare. Il fulcro della democrazia è che l’interesse pubblico prescinde dalla maggioranza. Allora se oggi per Salvini è interesse pubblico trattenere quelle persone a bordo e domani arriva un’altra maggioranza di altro colore che invece decide di fare scendere le persone immediatamente a quel punto l’interesse pubblico cambia?».

Io li invidio i grillini che hanno votato con tanta leggerezza. A me incute timore la sola definizione di interesse pubblicoPer interesse pubblico in diritto si intende l’interesse proprio della pluralità o collettività di individui che è la comunità costitutiva dell’ordinamento giuridico di riferimento, considerata come unità.

Buon mercoledì.

 

Da antimilitaristi a guerrafondai: il M5s ora plaude all’export di armi italiane ai sauditi

Giugno 2017, pochi mesi prima delle ultime elezioni politiche. Il Movimento 5 stelle dichiarava: «Da anni denunciamo l’esportazione illegale di armi alla coalizione saudita impegnata nella guerra civile in Yemen. Il Ministro Pinotti (allora titolare della Difesa, ndr) deve rispondere!». Alle (giuste) richieste di allora del Movimento nessuno rispondeva, tanto che pochi mesi dopo, a settembre, la mozione presentata alla Camera dei Deputati da ben 12 parlamentari M5s (prima firmataria Emanuela Corda) che chiedeva l’embargo di armi verso l’Arabia Saudita, venne bocciata dall’allora Parlamento a maggioranza Pd. Cos’è cambiato da allora? Nulla, se non il fatto che il Movimento dall’opposizione è emigrato in maggioranza. Avrebbe i mezzi per frenare questo massacro. E invece, di fatto, non muove un dito.

Come documentato da Left nel numero in edicola, nel silenzio più totale alcuni giorni fa una nave della Marina è partita per partecipare negli Emirati Arabi a Idex (International maritime defence exhibition & conference), una sorta di convention armata, dove le più grandi aziende del settore pubblicizzano mezzi e sistemi militari. Nella lista degli espositori di Idex compaiono ben 31 aziende nostrane, da Leonardo a Fincantieri, da Hacking team fino a Mbda passando per Fiocchi. A quanto pare, dunque, non esiste guerra sanguinosa in grado di fare da deterrente agli affari. Anche quando a rimetterci la vita sono bambini, come nel caso delle 85mila piccole vittime della guerra in Yemen, di cui sono responsabili gli stessi Emirati insieme all’Arabia Saudita.

Ebbene, questo fine settimana a elogiare l’iniziativa tenutasi ad Abu Dhabi è stato il sottosegretario alla Difesa, Angelo Tofalo, che ha partecipato in rappresentanza del governo italiano. Accanto alle foto di rito tra sorrisi e strette di mano quasi come se nel frattempo non esistesse affatto una guerra condannata, tra gli altri, dalle stesse Nazioni Unite, spicca un lungo post dello stesso Tofalo in cui sottolinea come Idex rappresenti «una grande opportunità per stabilire e rafforzare cooperazioni con i principali attori dell’area». Anche, a quanto pare, con chi massacra la popolazione yemenita. «Un’occasione che dobbiamo sfruttare al massimo – rincara la dose Tofalo -. In questo settore, quando viene a crearsi un bisogno, accade che tanti competitor sono pronti a inserirsi e affermare le proprie tecnologie e prodotti». E l’Italia, al di là di ogni etica, pare lo stia sfruttando a dovere: secondo i dati Istat sull’export «munizionamento» dall’Italia ad Abu Dhabi, considerando solo il periodo gennaio-ottobre 2018, parliamo di affari per 10,4 milioni di euro.

«La partecipazione del Tofalo a Idex – commenta Giorgio Beretta, analista dell’Opal (Osservatorio permanente armi leggere) – rappresenta innanzitutto un chiaro messaggio di sostegno politico da parte del governo Conte all’intervento militare che vede protagonisti gli Emirati Arabi insieme ai Sauditi nei bombardamenti indiscriminati e nelle violazioni del diritto umanitario in Yemen. Un sostegno gravissimo e sconsiderato alla luce della relazione dell’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani dell’agosto scorso che documenta come tutte le parti implicate nel conflitto nello Yemen stiano commettendo “crimini di guerra”. Segnalo al sottosegretario che la risoluzione 2018/2853 del Parlamento europeo ha chiesto a tutti gli Stati membri dell’Ue di “astenersi dal vendere armi e attrezzature militari all’Arabia Saudita, agli Emirati Arabi Uniti e a qualsiasi membro della coalizione internazionale, nonché al governo yemenita e ad altre parti del conflitto”».

Ma non è tutto. Perché, a quanto pare, il governo gialloverde sarebbe intenzionato a realizzare «una grande fiera sull’industria della Difesa, magari a Milano, con cadenza annuale per costruire insieme il Sistema Paese». Sono dichiarazioni, spiega ancora Beretta, «che ricalcano, sia nei termini sia nei contenuti, le affermazioni di taluni settori dell’industria militare italiana volte ad enfatizzare le opportunità di mercato e di affari rispetto alle esigenze di sicurezza e di promozione della stabilità e della pace di cui dovrebbe invece occuparsi chi, come il sottosegretario, ricopre una carica istituzionale. È uno stravolgimento della visione e della funzione dell’industria militare che è in atto da anni e che, evidentemente, anche il sedicente “governo del cambiamento” intende sostenere. Senza dimenticare che i principali acquirenti di una potenziale “grande fiera della Difesa”, sono i regimi autoritari e le monarchie assolute mediorientali: gli stessi regimi che sono i principali responsabili della nascita e del sostegno a formazioni di stampo terroristico che questo governo dice di voler perseguire». Il tutto in nome del “Sistema Paese”, come lo definisce Tofalo. Fondato anche sul business delle armi. Lo stesso business che il Movimento solo qualche mese fa diceva di voler tagliare a tutti i costi. Ma si sa, la campagna elettorale è finita: non è più tempo di promesse. Anche quando di mezzo ci sono vittime innocenti.

Rousseau salva Salvini e il governo. Ma sfata il mito della “diversità” dei 5 Stelle

Deputies Premier Matteo Salvini (R) and Luigi Di Maio during a Question Time at the Chamber of Deputies, Rome, 13 February 2019. ANSA/FABIOFRUSTACI

Caso Diciotti: «Si, è avvenuto per la tutela di un interesse dello Stato, quindi deve essere negata l’autorizzazione a procedere». Questo il verdetto pervenuto online dei sostenitori M5s, ai quali era stato chiesto di esprimersi sulla linea da tenere in Aula, dopo la richiesta del Tribunale dei ministri di sottoporre a processo il vicepremier Matteo Salvini. La democrazia diretta, nelle forme opache della piattaforma Rousseau, si riduce a un referendum sulla ragion di Stato. Che poi è una ragion di governo, la traduzione del quesito potrebbe essere la seguente: «Volete voi che la crisi di governo passi per l’autorizzazione a procedere di un ministro dell’Interno indagato per sequestro di persona, omissione di atti d’ufficio e arresto illegale?». La digitalizzazione della democrazia – questione che ha contribuito non poco anche al travaglio di esperienze come quella di Potere al popolo – meriterebbe un respiro diverso. Non ci sarebbe nulla di scandaloso se i cittadini potessero esprimersi sulla processabilità di un ministro ma, almeno, dovrebbero aver letto le carte, la piattaforma dovrebbe essere sufficientemente trasparente, i quesiti formulati senza ambiguità. Non è la prima volta che Left si occupa dell’immaginario e dell’idea di “cittadinanza attiva” a Cinque stelle ma questa volta è un caso di scuola per capire cosa sia, nella neo-lingua di Casaleggio, la democrazia diretta. Diretta da chi, appunto. La vicenda della consultazione on line sul caso Diciotti ci consegna un intreccio di questioni sulla democrazia digitale e sulla natura del M5s.

Nel day after – in attesa dell’esito della votazione vera, quella della Giunta per le immunità parlamentari del Senato – va registrata un’affluenza record, per quanto riguarda le votazioni in una sola giornata, sulla piattaforma Rousseau per la consultazione sul caso Diciotti. I 52.417 votanti di ieri superano infatti i 51.677 per le Quirinarie che, nel 2015, videro Ferdinando Imposimato come candidato degli iscritti del Movimento. Stavolta la base elettronica del partito, che in genere consegna risultati plebiscitari, si è stanzialmente spaccata sulla vicenda dell’autorizzazione a procedere nei confronti di Salvini indagato per i reati commessi quando, nell’agosto scorso, ha dato ordine di non far sbarcare i migranti che si trovavano a bordo della nave militare italiana. In 30.948 hanno votato «no» laddove in 21.469 si sono espressi a favore dopo il maquillage al quesito con l’aggiunta di un inciso sul fatto che l’azione di Salvini fosse, o meno, a tutela dell’interesse dello Stato. E dopo il crashdown della piattaforma: l’inizio delle votazioni slittato dalle 10 alle 11 e il termine dalle 20 alle 21:30 per «l’alta affluenza». Ma la base, in parte, non sopporta bene la scadente prestazione di Rousseau che ha ottenuto circa 1 milione di euro dai parlamentari per implementare il sistema. «Dovrebbe funzionare come un orologio svizzero», dice la parlamentare Elena Fattori attaccando la «trasparenza» dell’associazione presieduta da Davide Casaleggio: «Dei miei versamenti non ho ricevuto neanche una ricevuta». «Io ho votato per l’autorizzazione a procedere, perché ci si deve difendere nei processi e tutti sono uguali di fronte alla legge. Però mi stupisce un fatto: i nostri colleghi del M5s che fanno parte della giunta per le autorizzazioni avevano spiegato di non potersi esprimere senza prima aver letto le carte sul caso Diciotti, e ora invece hanno fatto decidere chi le carte non poteva proprio leggerle», osserva la deputata più o meno dissidente Gloria Vizzini.

Il giorno dopo è anche il trionfo della retorica o dello smarrimento di chi aveva riposto le proprie energie nella diversità. «Far votare i cittadini è parte del Dna del M5s, sono orgoglioso», rivendica Luigi Di Maio. La tensione è altissima anche perché i sindaci pentastellati (Raggi, Appendino, Nogarin) hanno detto di aver votato Sì irritando il vicepremier e in nottata, dopo la consultazione, c’è l’assemblea congiunta tra parlamentari e ministri M5s. Mentre la Lega, al di là delle rassicurazioni di Salvini sulla tenuta del governo, aumenta il suo pressing. Di Maio incassa la «piena fiducia» di Beppe Grillo. Alla fine Salvini ringrazierà «per la correttezza» Luigi Di Maio puntualizzando: «Per me il governo non era e non è in discussione. Il governo va avanti, punto. I Cinquestelle sono stati sempre duri, ma per altri tipi di reati: di solito i parlamentari venivano processati per truffa, corruzione. Questo era un atto politico per il bene degli italiani, ne ero convinto io ed anche la maggioranza dei loro elettori».

Tra i dissidenti c’è chi vede il bicchiere mezzo pieno e chi chiede denuncia il delitto perfetto. L’esito del voto su Rousseau era «scontato, anzi un 40% che resiste è poco usuale, direi un bel segnale» dice la senatrice M5s Paola Nugnes, commentando il responso. «Mi rimangono davvero poche parole, se non quelle per chiedere scusa a chi sperava che fossimo diversi. Non lo siamo», così su Fb il consigliere comunale M5s di Torino, Damiano Carretto. «Io spero solo che quel 59% un giorno possa rendersi conto di quello che ha fatto. E con loro, anche chi ha pilotato la votazione formulando un quesito con lo scopo evidente di manipolare il risultato», aggiunge e conclude: «Ora manca solamente che da Roma autorizzino il Tav e avranno compiuto il delitto perfetto».

In quella che qualcuno chiama la «palestra di democrazia», altri vedono la perdita dell’anima, dimenticando quando in nome della stessa ragion di governo anche a sinistra si votarono crediti di guerra e altre schifezze. «Il M5s fa ormai parte del sistema e salva dal processo il vero capo politico del governo: Salvini – commenta Luigi De Magistris – ormai tutti nel Paese hanno chiaro che non esiste più quel Movimento che avevamo conosciuto dieci anni fa. Forse ci eravamo un pò illusi che la base, attraverso uno tsunami di disgusto, potesse sottrarre la maschera ai vertici del M5s ma questo non è accaduto e non è una bella notizia». De Magistris è detto «convinto» che «tra i militanti M5s tantissimi non condividono questa decisione e forse anche tra alcuni parlamentari, ma il dato che emerge è che oggi nel M5s, componente del governo nero, le posizioni dei meetup che lottavano per la giustizia e contro i privilegi dei politici e dei potenti non esistono più. Il M5s vuole l’immunità per ministri e parlamentari esattamente come i politici della Prima repubblica. È scandaloso per chi ha fatto crescere il proprio consenso attraverso il grido “onestà” non consentire alla magistratura di avviare un procedimento penale per un fatto così grave come il caso Diciotti».

«Salvano il loro amico Salvini dal processo, rinunciando a uno dei loro principi fondamentali. Uno vale uno non funziona per il loro alleati di governo – scriverà su Fb il segretario nazionale di Sinistra italiana Nicola Fratoianni – altro che giravolte, qui siamo ben oltre. Dopo Tap, l’autonomia del Nord, l’articolo 18, arriva il voltafaccia definitivo. Hanno prodotto un quesito costruito ad arte e si sono liberati da ogni responsabilità, chiamando al voto i loro supporter. Sappiano che hanno perso faccia e credibilità, visto che hanno sempre picchiato duro e agitato le manette per tutti e tutte, compresi i poveri cristi e oggi decretano l’impunità per il più potente degli amici di governo. Il più classico esempio della peggior doppiezza morale. Sepolcri imbiancati». «Con la finta consultazione di oggi su Salvini, i capi grillini hanno venduto l’anima del movimento per 4 poltrone», twitta il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti, segretario in pectore, salvo colpi di scena, del Pd.

Al centro della riunione notturna dei 5s, soprattutto l’istituzione di un’organizzazione centrale del partito, di un gruppo di lavoro diviso per aree geografiche e per temi che faccia da coordinamento e aumenti il radicamento sul territorio. Proposta, questa, sostanzialmente accolta dalla maggioranza dei parlamentari presenti. Particolarmente duro, tra gli interventi, quello della vicepresidente del Senato, Paola Taverna. “Chi non è d’accordo con le scelte del Movimento vada via”, è il senso del messaggio che la senatrice ha recapitato all’assemblea, alla quale hanno partecipato tutti i ministri M5s: Trenta, Bonafede, Toninelli, Giulia Grillo, Bonisoli.

Ma cosa faranno i membri a 5 stelle della Giunta per le autorizzazioni? Riccardo Fraccaro, ministro grillino per i Rapporti con il Parlamento e per la democrazia diretta, dice che dovranno allinearsi alla volontà di Rousseau. Per la cronaca lui ha «votato sì all’interesse pubblico e dunque no al processo, perché il vicepremier Matteo Salvini ha applicato sui migranti la linea condivisa da tutto il governo».

Sorpresa! I migranti morti nel Mediterraneo sono sempre gli stessi

Una immagine dell'operazione nel corso della quale sette persone ? di cui cinque donne e due uomini - hanno perso la vita oggi in uno dei soccorsi più difficili effettuati dai team MOAS e Croce Rossa dall'inizio della missione congiunta nel Mar Mediterraneo, 5 settembre 2016. ANSA / US MOAS +++ANSA PROVIDES ACCESS TO THIS HANDOUT PHOTO TO BE USED SOLELY TO ILLUSTRATE NEWS REPORTING OR COMMENTARY ON THE FACTS OR EVENTS DEPICTED IN THIS IMAGE; NO ARCHIVING; NO LICENSING+++

Dai, dite la verità, è la frase che sentite dappertutto, dopo di quella di solito passa addirittura la voglia di rispondere e continuare la discussione: «Meno partenze meno morti» dicono e all’improvviso addirittura quelli passano dalla parte dei buoni, e noi dei coglioni. “Se gli scafisti non scafano i disperati non annegano” è l’assioma idiota del ministro dell’Interno Salvini e fa niente che come al solito i numeri siano assolutamente inventati, nemmeno consultati, buttati a casaccio solo per aggiungere fango al fango. Funziona così: è tutto un gioco a trovare frasi che siano chiuse, che non diano possibilità di controbattere.

Eppure quando qualcuno affronta l’altro con dei numeri verificati in tasca, l’altro di solito ne esce maluccio. E così basta dare un’occhiata al sito Missing Project (probabilmente il più serio circa i morti nel Mediterraneo, nonostante io sia sicuro che qualcuno lo vedrà collegato a Soros e ai buonisti) per leggere i dati inconfutabili: erano 210 nei primi 20 giorni di gennaio dell’anno scorso e sono 200 quest’anno. Differenze minime (che più che la politica decidono i venti e le correnti) senza tenere conto che i morti che noi contiamo sono quelli che riusciamo a vedere e un Mediterraneo sguarnito di soccorsi (e controllato da quella masnada di criminali che sono gli uomini della Guardia costiera libica) è il luogo migliore dove morire senza essere notati da nessuno. Ma c’è un altro dato: nell’anno record degli arrivi (2015 e 1016) i morti erano molti meno. Quindi: quindi l’assioma di Salvini è una cagata pazzesca. Pace all’anima sua.

Ma c’è di più: questo è anche l’anno in cui le prigioni libiche hanno assunto una sorta di quasi ufficialità grazie all’amicizia con il nostro governo e i morti che marciscono lì dentro non ci è dato di saperli. Tanto non li vede nessuno. Tanto non li sente nessuno.

La cosa che rende tutto tragicamente ridicolo è che continuiamo a subire una propaganda completamente basata su dati falsi. Falsi se non addirittura contrari alla realtà. E sembra impossibile provare a farlo notare. È come vivere in un incubo. Solo che muoiono, quelli, non sognano mica. E noi, no, non molleremo di un millimetro. Correremo il rischio di essere monotematici, piuttosto.

 

“Scuole e porti aperti per una società prospera, civile e sicura”, al via la petizione

TO GO WITH AN AFP STORY BY Angus MACKINNON Migrants study in a classroom at the "Lai-Momo" headquarters, a vocational training programme to teach skills in leather bag making to migrants, on November 28, 2017 in Lama di Reno, southern Bologna. The Lama Di Reno project is part of a wider programme overseen by the Ethical Fashion Initiative run by the UN and WTO-backed International Trade Centre with the aim of creating new economic opportunities in developing countries to help curb irregular migration. / AFP PHOTO / MIGUEL MEDINA (Photo credit should read MIGUEL MEDINA/AFP/Getty Images)

Riceviamo e pubblichiamo la petizione contro la legge Sicurezza e per un piano di investimenti straordinario sulla scuola, rivolta alle istituzioni da un gruppo di lavoratori dei Centri provinciali per l’istruzione degli adulti di Torino.

Come docenti e lavoratori dei Centri provinciali per l’istruzione degli adulti (Cpia) non possiamo fare a meno di denunciare le conseguenze tragiche delle politiche sull’immigrazione degli ultimi decenni. Politiche portate avanti da governi di diverso orientamento e colore, che nel decreto Sicurezza e immigrazione (Dl. 113/18) hanno raggiunto livelli di disumanità, oltre che di incostituzionalità, fino a pochi anni fa difficilmente immaginabili.

In nome della “sicurezza” si chiudono i porti, facendo del Mediterraneo un cimitero, e si tratta l’accoglienza come spreco, alimentando – per miopi fini di consenso elettorale – l’ignoranza e il pregiudizio xenofobo in un Paese spaventato dai cambiamenti di questi ultimi vent’anni. Tutto questo è per noi inaccettabile.

In questi anni con il nostro lavoro siamo stati uno degli elementi cardine dei processi di inclusione e di autonomia delle persone che dagli anni Novanta in poi sono giunti nel nostro Paese per migliorare le proprie condizioni di vita. Vogliamo continuare ad esserlo, anche prendendo posizione rispetto a politiche che rendono l’inclusione l’ultimo degli obiettivi.

Dalla Legge Turco-Napolitano in poi abbiamo assistito a una sovrapposizione tra politiche migratorie e politiche securitarie che hanno di fatto allontanato il nostro ruolo dai dettami costituzionali che affidano agli insegnanti il compito di portare al pieno sviluppo della persona e «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese» (come recita l’articolo 3 della Costituzione). L’assegnazione di compiti “impropri” quali la somministrazione del test A2 per conto del ministero degli Interni, insieme a un mancato piano nazionale di investimenti sull’Educazione degli adulti ha snaturato il nostro lavoro e ci ha impedito di sviluppare un’azione didattica e pedagogica efficace. I Ctp, Centri territoriali permanenti, e poi i Cpia, sono nati come luoghi di autonomia e emancipazione delle persone, ma sono stati costretti loro malgrado a gestire l’emergenza di alfabetizzare in lingua italiana in un crescendo di vessazioni burocratiche su tutti i servizi: sanitari, anagrafici, scolastici ecc. Una scuola costretta a gestire l’emergenza con risorse inadeguate non è in grado di innescare virtuosi processi di emancipazione che consentano alle persone di essere cittadini attivi e consapevoli dei propri diritti. Nonostante ciò, abbiamo resistito ogni giorno dentro le nostre aule, cercando di dare a ogni nostro studente l’opportunità e il diritto di “essere di più”.

Vogliamo affermare con forza che i nostri riferimenti restano:
• l’articolo 10 della Costituzione, che riconosce ai cittadini di ogni provenienza, ai quali sia impedito nel loro Paese l’esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, il diritto a chiedere asilo nel territorio della Repubblica;
• l’articolo 34 della Costituzione, che afferma il diritto allo studio e che «la scuola è aperta a tutti»;
• la Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo, in particolare quando afferma il diritto alla libera circolazione e all’istruzione.

Inoltre l’uso strumentale del fenomeno migratorio è facilmente confutabile se si considerano i dati reali. Non c’è nessuna invasione in corso. Il numero dei residenti stranieri in Italia è di poco più di cinque milioni, stabile da 5 anni: l’8,5% della popolazione, nella media Ue (contro l’11,2% della Germania e il 9,2% della Gran Bretagna, e alcuni piccoli Paesi come l’Austria che superano il 15%).

Il numero dei richiedenti asilo non è un problema. I richiedenti asilo e rifugiati presenti in Italia a fine 2017 erano circa 350.000: lo 0,6% della popolazione (Unhrc), una percentuale in linea con la media comunitaria, molto inferiore a quella di Svezia (2,9%) ma anche di Austria (1,9%) e Germania (1,7%). La spesa per l’accoglienza nel 2017 è stata di 4,4 miliardi di euro, una cifra non enorme in relazione alle dimensioni dell’economia italiana: si tratta dello 0,26% del PIL, e dello 0,5% della spesa pubblica.

Come docenti e lavoratori dei Cpia, assistiamo con sgomento ai primi effetti della legge Salvini sulla vita dei nostri studenti. Le persone hanno ancora più paura, interrompono i percorsi di formazione e di inserimento sociale. Il timore di divenire “clandestini” rende ancora più vulnerabili queste persone, che portano sul corpo i segni delle torture subite in Libia (nei campi-lager sulla cui utilità questo governo gareggia con quello precedente!). L’abrogazione del permesso di soggiorno per motivi umanitari e l’impossibilità di avere una posizione regolare nel nostro Paese rende i nostri studenti invisibili, senza prospettive e senza diritti.

Come cittadini, osserviamo che questa Legge, invece di favorire la sicurezza nel Paese, produce effetti esattamente contrari: una società che costringe alla clandestinità è una società che crea disordine e spazi per lo sfruttamento a tutti i livelli. La sicurezza per noi è altro: è garanzia, per tutti, del rispetto dei diritti umani fondamentali. Lo smantellamento degli Sprar gestiti dai Comuni è funzionale all’affidamento ai privati, con il rischio di alimentare situazioni poco efficaci come già accade in altri Paesi europei o addirittura di possibili infiltrazioni di interessi delle mafie. Inoltre, come già denunciato dal Consiglio superiore della magistratura, l’aumento esponenziale dei ricorsi, con il conseguente allungamento dei tempi giudiziari, avrà dei costi pesanti sulla collettività.

Come lavoratori dei Cpia e come cittadini, chiediamo un piano di investimenti straordinario sull’Istruzione che dia ossigeno alle nostre scuole e università, affinché possano adempiere pienamente ai compiti loro assegnati dalla Costituzione. Chiediamo il superamento della legge “Insicurezza” e l’introduzione di un impianto legislativo che permetta di governare i fenomeni migratori nella direzione dell’inviolabilità dei diritti fondamentali dell’uomo, primo fra tutti il diritto alla vita. Una Legge capace di reinterpretare il ruolo delle famiglie migranti e non, come cardine per un nuovo progetto di sviluppo economico, che valorizzi i talenti e le competenze delle persone che giungono in Italia. I dati statistici dimostrano infatti che l’immigrazione è una necessità ineludibile per la società italiana (ed europea) che invecchia, e che la ricchezza prodotta dal lavoro dei migranti è nettamente superiore ai costi spesi per il loro inserimento. Chiediamo, infine, che il Consiglio europeo affronti con urgenza la modifica del Trattato di Dublino già votata da due terzi del Parlamento europeo, perché l’Unione europea dimostri coerenza e coesione sui valori di libertà e dignità delle persone.

Con Paulo Freire condividiamo che «tutta l’educazione è politica», se si considera l’educazione una pratica sociale impegnata in una trasformazione di sistemi oppressivi in cerca di emancipazione e liberazione. Continueremo a impegnarci per condurre la società a livelli crescenti in termini di umanità e conoscenza.

Ci dichiariamo parte integrante e attiva di tutti quei movimenti e quelle istituzioni che in questi mesi hanno denunciato e continuano a denunciare l’iniquità della legge Salvini. Siamo solidali con tutte le persone che con i loro atti hanno salvato e continuano a salvare vite umane.

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Alla petizione “Scuole e porti aperti per una società prospera, civile e sicura” si può aderire online

L’Università di Bologna apre le porte agli studenti rifugiati che arrivano dai campi profughi dell’Etiopia

Non esiste vincolo fisico o quasi che non possa essere scavalcato da un’apertura mentale e là dove c’è chi chiude porti e centri di accoglienza non manca chi invece tende la mano verso altri Paesi, per costruire ponti con mattoni di cultura. Perché non solo non c’è integrazione, non c’è neanche progresso senza conoscenza. La pensano così all’Università di Bologna, dove è stata recentemente presentata l’iniziativa Uni-Co-Re University Corridors for Refugees (Ethiopia-Unibo 2019-21), promossa dall’Alma Mater e Unhcr Italia – Agenzia Onu per i rifugiati, e realizzata grazie al supporto del Ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale e di enti e istituzioni italiane e internazionali.

Il progetto prevede che alcuni studenti fuggiti dai rispettivi Paesi d’origine e attualmente in Etiopia protetti dallo status di rifugiati, una volta conseguita la laurea all’Università di Makelle vengano selezionati per proseguire gli studi in Italia e frequentare un corso di laurea magistrale presso l’ateneo bolognese, grazie a una borsa di studio. «In molti luoghi i rifugiati non hanno accesso all’istruzione pubblica e anche dove questo avviene difficilmente è possibile raggiungere un’istruzione superiore – spiega Barbara Molinario, tra i responsabili del progetto per Unhcr -. Questi corridoi universitari sono quindi parte integrante di quei canali legali attraverso il quale puntiamo a offrire loro la possibilità di cogliere opportunità che difficilmente si presentano nei Paesi di asilo».
Come ogni prima volta anche in questo caso l’emozione è tanta e tutti coloro che hanno contribuito a rendere reale un’idea tutt’altro che semplice da realizzare contano i giorni che li separano dalla fine di aprile. È previsto per quel periodo, infatti, l’arrivo dei cinque ragazzi selezionati per questa esperienza pilota inserita nel più ampio Unibo for Refugees, che ha tutte le carte in regola per divenire un modello da seguire anche da parte di altri atenei italiani.

I ragazzi che saranno accolti nel capoluogo emiliano oltre a studiare verranno coinvolti in percorsi di integrazione nella vita accademica e non solo, affiancati da un servizio di tutorship offerto dal desk internazionale universitario e dall’associazione Next generation, perché non va dimenticato che nonostante si tratti di una grandissima opportunità, questa esperienza rappresenta anche una difficile sfida, impossibile da affrontare da soli. «Non parleranno italiano e saranno umanamente e culturalmente spaesati, per questo è previsto anche un collegamento con famiglie volontarie che seguiranno gli studenti orientandoli all’interno della comunità», continua Barbara Molinario.

Attualmente l’Etiopia accoglie oltre 900mila rifugiati provenienti principalmente da Paesi confinanti quali Sud Sudan, Somalia, Sudan ed Eritrea, e in numeri minori da Yemen e Siria. Non si sa ancora quale sarà l’origine dei ragazzi che troveranno a Bologna la loro ennesima casa, e forse la prima vera occasione di riscatto sociale e personale. Sconosciuto anche il loro futuro più lontano ma di una cosa si potrà essere certi, ovvero che l’Italia avrà giocato un ruolo determinante, sia che ricopra quello di dimora definitiva che provvisoria. Già perché è troppo presto per sapere se saremo stati noi ad offrire loro l’opportunità della vita o avremo solo contribuito a costruire il terreno più opportuno perché questa si concretizzasse altrove. Su una cosa però non vi è alcun dubbio, ovunque il loro destino li porterà non potranno mai dimenticare che un giorno è esistita una parte bella d’Italia, che quando sembrava più difficile farlo ha creduto in loro, preferendo tendere una mano che alzare un muro.