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Un’enorme balena intrappolata nella plastica: al Carnevale di Viareggio sfila l’emergenza ambientale

Ne stanno parlando in tutto il mondo: il video della balena morente che, urlando, piange ha spopolato sul web. Più di quaranta milioni di visualizzazioni. Un successo mediatico pazzesco che nemmeno il suo autore si aspettava. Un’idea sostenuta da Greenpeace che ha voluto partecipare al Carnevale di Viareggio 2019 accanto al gigantesco cetaceo di cartapesta, durante uno dei corsi mascherati che ogni anno colorano il lungo mare della città toscana. Un carro di venti metri che vuole smuovere le nostre coscienze perché “il mare non è usa e getta”. Così come non lo è tutto il pianeta che, di generazione in generazione, ci ospita durante la nostra breve vita. Il mare sembra ormai essere diventato la: “pattumiera dell’umanità”, come sostiene lo stesso Roberto Vannucci, ideatore e costruttore del carro. Per questo la sua balena è costretta a dimenarsi, impotente, tra cumuli di spazzatura con la sola ultima forza di gridare e lamentarsi emettendo un suono soffocato ma al tempo stesso preciso e diretto, rivolto a noi, noi tutti. A pochi giorni dalla conclusione del Carnevale (l’ultimo corso mascherato è fissato per il 5 di marzo, con la conseguente proclamazione dei vincitori), abbiamo chiesto a Roberto Vannucci di commentare con noi il suo successo.

Dal 1999 costruisci carri di prima categoria. Cosa c’è dietro a un lavoro così complesso?
Tutto nasce alla Cittadella del Carnevale. Lì si trovano i laboratori dove noi lavoriamo. È la più grande in Italia. I carri sono collocati all’interno degli hangar, che possono essere visitati durante l’anno. All’inizio di tutto c’è l’idea, alla fine l’emozione di vederla sfilare in mezzo alla gente, perché il nostro carnevale è una manifestazione di strada, di persone che si accalcano attorno alle nostre opere. Io ho iniziato con i giganti di prima categoria nel 1999, prima ho fatto un bel po’ di gavetta: maschere isolate, carri piccoli. Dietro a tutto ci siamo noi e la paziente lavorazione della cartapesta.

Il carnevale in tutto il mondo è considerato un momento di festa e divertimento. Tu con i tuoi lavori hai sempre lanciato dei messaggi forti. Penso ad esempio a quello del 2010: “Una sola madre, la Terra”, che aveva per protagonisti due cigni, uno bianco e uno nero, che si abbracciavano uniti contro ogni forma di razzismo. Come si possono unire il dovere di riflettere su certi argomenti e l’allegria spensierata?
Il carnevale è sicuramente un momento di svago. Dagli anni sessanta iniziano a diventare protagonisti del carnevale di Viareggio la satira politica e il costume. Si diffonde il bisogno di toccare temi molto importanti. Personalmente ho sentito la necessità, attraverso i miei carri, di parlare dei problemi dei cittadini come me. Sicuramente, come dici tu, nel 2011 con “Una sola madre, la Terra”. Ma non solo. Anni prima, nel 2001, con il carro “Il silenzio degli innocenti” ho voluto parlare di pedofilia, di tutti quei bambini che nel mondo continuano a subire ogni tipo di violenza senza potersi ribellare. In quel caso i miei bambini erano farfalle pronte a spiccare il volo, ma interrotte proprio sul più bello. Ecco un tema assolutamente drammatico trattato in modo carnevalesco. L’anno scorso, poi, ho scelto di affrontare il tema delle torture. Spesso pensiamo che la tortura sia un gesto crudele molto lontano da noi, che non ci riguarda. Ma sbagliamo: le torture sono molteplici. Siamo tutti schiavi torturati dagli ingranaggi del potere, del fanatismo religioso e dall’economia mondiale. Chi crede di essere libero deve aprire gli occhi. Molto spesso si è prigionieri del proprio vivere. Ecco che alla festa e al divertimento occorre imprimere un segno che possa smuovere le coscienze. Io penso che il senso del carnevale sia questo. Di satira politica non mi occupo. I politici ci stanno rubando il lavoro: fanno già talmente tanto carnevale per conto loro.

Quest’anno il tuo carro “Alta Marea” vuole smuovere le coscienze spesso troppo indifferenti ai problemi legati all’inquinamento ambientale…
Quando ancora non avevo le idee chiare su quale carro preparare per il 2019, ho partecipato a una manifestazione sulla plastica. È così che è nata in me la voglia di occuparmi di questo fenomeno disastroso di cui, ormai, non si può più nascondere l’evidenza. La plastica è un male inventato dall’uomo. Ricordo bene una pubblicità che girava in televisione negli anni sessanta. Parlava di un catino per il bucato. Un catino definito “indistruttibile”, proprio perché di plastica. Purtroppo è proprio così: noi si muore, la plastica no. Al limite si deforma, ma non si rompe per molti anni. Così diventa microplastica che noi stessi, senza nemmeno accorgercene, ingeriamo quotidianamente. Per questo quello della plastica è un problema che riguarda tutti noi, i nostri figli, chi verrà dopo di noi.

Il 16 febbraio ogni anno si celebra il World whale day, la giornata mondiale delle balene, una specie ormai a rischio di estinzione. La tua balena cosa sta gridando all’umanità?
“Ma cosa mi state facendo?”. La mia balena grida e piange insieme. Piange mentre grida. Questa è la struggente verità di tutto il male che l’essere umano sta compiendo. Per questo il senso del suo grido è quello di smuovere le coscienze. Non si tratta solo di una dolorosa lamentela o di una, seppur doverosa, accusa. La mia balena ci interroga, ci mette spalle al muro. Quello che avete fatto a me non potrete che farlo a voi stessi. Così presto toccherà a noi. O ci diamo un freno o, presto, saremo noi a essere eliminati, ad autoeliminarci. Invece dovremmo considerare la nostra presenza su questo mondo come un passaggio, un momento importante, ma piccolo rispetto a quella che è la notte dei tempi. Banalmente è come quando si prende una casa in affitto, noi gente di mare ne sappiamo qualcosa. Ti consegno una casa con le pareti belle bianche, quando sei andato via voglio ritrovarla così com’era. E se prestiamo attenzione a una casa in affitto per le vacanze perché non dovremmo essere attenti al nostro pianeta?

Prima hai definito la plastica un male inventato dall’uomo che sta uccidendo il pianeta. Quali soluzioni si potrebbero trovare per risolvere questo grande problema?
L’unica soluzione è eliminare il problema alla fonte: chi produce plastica non deve più farlo. È necessario impiegare soluzioni alternative. Più del quaranta per cento della plastica è usa e getta. Viviamo nell’era del consumismo, eppure sarebbe solo una questione di abitudine. Basti pensare a quando si va a fare la spesa. Un sacchetto di carta sarebbe la soluzione più adatta. Ormai è necessario che tutti prendano coscienza del problema. Non si possono più mettere davanti le proprie comodità. Si sta formando un’isola di spazzatura qui, accanto a noi, al largo dell’Isola d’Elba. Ormai tutti lo sanno, è inutile fare finta di nulla.

Oltre che con l’arte ti sei impegnato anche con un gesto concreto. Domenica 24 febbraio su tua iniziativa in tanti si sono ritrovati per “Ripuliamo in maschera”, una mattinata a raccogliere i rifiuti che vengono accumulati lungo le spiagge di Viareggio. Sei soddisfatto del risultato ottenuto?
Soddisfatto perché più di duecento persone hanno risposto al mio appello e all’appello di Greenpeace che ci ha supportati. Non soddisfatto perché abbiamo raccolto più di cinquecento chili di plastica nelle spiagge adiacenti a Piazza Mazzini, che vengono costantemente pulite, eppure la situazione è questa. Greenpeace ha selezionato e analizzato i vari tipi di plastica raccolti. Tra questi c’erano lattine risalenti agli anni ’80. È drammatico, ma è così: una triste e terribile verità. Per questo, per me, il carnevale non può che essere impegno sociale.

Quando la nascita vince sulla leucemia

L'ingresso del Policlinico ''Giaccone'' di Palermo, 20 aprile 2012. ANSA/FRANCO LANNINO

Ogni tanto, non so se capita anche a voi, ho il terrore di rimanere incagliato in tutto quello che c’è di brutto, vergognoso, indegno e cattivo che ci circonda. Come un terrore che mi si incastri il cervello solo su quello (che certo, va osservato e denunciato) ma non riesce a darmi respiro.

Per questo quando ho letto che a Palermo una donna di 32 anni, affetta da una forma di leucemia che le avrebbe dovuto impedire il parto e forse l’avrebbe dovuta uccidere, invece ha felicemente partorito un bambino che non solo è nato, ma è anche sano e che lei si è curata e pochi mesi fa i medici hanno dichiarato la remissione della malattia, allora mi sono detto: c’è bellezza in giro. Allora andiamo a raccoglierla la bellezza. Facciamone ossigeno in questo tempo di fumo, di brutte azioni, di brutti pensieri, di brutte persone.

La donna è stata sottoposta a una cura innovativa presso il reparto del Policlinico, è riuscita a dare alla luce il piccolo Andrea. Il prodigioso traguardo è stato possibile all’interno del reparto di Ematologia del Policlinico di Palermo, il primo ambulatorio d’Italia per la cura delle leucemie in gravidanza e in età fertile.

«Oggi siamo all’avanguardia, riusciamo a cronicizzare molti tumori e a consentire anche una qualità di vita soddisfacente. Il particolare caso della signora Mocera ci ha fatto capire l’importanza di avere una struttura dedicata alle gravidanze, perché è stata la prima volta in cui si è riusciti a pensare a due pazienti contemporaneamente: finora infatti si era potuto salvare o la mamma o il bambino» ha spiegato il direttore del policlinico.

E la mamma? «A tutte le donne che stanno vivendo la mia esperienza – ha detto Marzia Mocera – dico di non avere paura, di fidarsi dei medici e di avere una forte determinazione a portare a termine la gravidanza».

E a me sembra un buongiorno bellissimo.

Buon venerdì.

Ma quale autonomia. Nega i valori costituzionali di uguaglianza e solidarietà

La Lega Nord si è battuta vent’anni per distruggere lo Stato italiano, dividendo l’immaginaria Padania dal resto del Paese. Ora ha tolto il Nord e grida «prima gli italiani», ma non è mai stata tanto vicina a raggiungere lo scopo originario. Per quanto mascherata, la cosiddetta autonomia differenziata altro infatti non è che la vecchia secessione, ovvero la pretesa della parte più forte del Paese di non condividere più risorse e destino con quella più debole. I più ricchi dopo essere diventati tali sulle spalle dei poveri non hanno più voglia di restituire nemmeno il poco che ora concedono.

Si parte sottraendo alla potestà condivisa le decisioni su sanità, scuola, infrastrutture, oltre a cose da nulla come la sicurezza sul lavoro. Si va avanti promettendo maggiori risorse dopo tre anni a Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna, a tutto discapito del resto del Paese. Se infatti si comincia rispettando il criterio della spesa storica, che significherebbe mantenere inalterato il livello delle risorse, pur cambiando il sistema del loro reperimento, si passerebbe poi al sistema della media nazionale, che penalizzerebbe il Mezzogiorno. Da subito peraltro si introdurrebbero macroscopiche discriminazioni, permettendo ad esempio che lo stipendio degli insegnanti delle aree più ricche cresca, a discapito di quello delle aree più disagiate.

È del tutto evidente quanto abbia poco senso continuare a parlare di unità nazionale, in un quadro in cui la Regione di nascita vada a determinare la possibilità di curarsi adeguatamente, di avere un’istruzione di livello adeguato, di godere di livelli accettabili di welfare. Questo è già vero nell’Italia di oggi, e appartiene quindi al teatro dell’assurdo il fatto che anziché cercare di porre rimedio a differenziazioni incompatibili con la Carta costituzionale si cerchi di alimentarle ulteriormente e cristallizzarle. Siamo d’altra parte all’interno di un disegno globale, che ridisegna il mondo concentrando le risorse e espandendo la marginalità. Accade su scala internazionale, come all’interno dei vecchi Stati nazionali e delle stesse aree urbane, come conseguenza dell’accumulazione crescente nelle mani di pochi.

Attraverso la retorica dell’eccellenza, del merito e del territorio, la leva fiscale cessa di essere uno strumento al servizio dell’uguaglianza, per divenire un mezzo di espropriazione a danno di tanti e di ammasso delle risorse. La scuola non è più un veicolo di uniformità dell’accesso alla conoscenza, ma una garanzia di maggior competitività di alcune aree interne a danno di altre. La sanità è appannaggio di chi ha la fortuna di risiedere in luoghi che garantiscano l’accesso, in piena logica privatistica. Le infrastrutture abbandonano il proprio ruolo di collegamento interno, per divenire direttrici di traffico fra le zone più dinamiche e il mondo.

Ogni cosa viene riorganizzata per dividere progressivamente la società in spazi sempre più ridotti di benessere e aree sempre più estese di esclusione. È la logica del prima gli italiani, che porta con sé il prima i lombardi, a cui segue prima i milanesi, per finire con prima quelli di piazza Aulenti. Se si rompe infatti il vincolo di solidarietà fra tutti quelli che hanno di meno, il risultato non può che essere la sempre crescente concentrazione di potere e ricchezza.

Davanti a questo meccanismo perverso, la sinistra non può avere dubbi o esitazioni sulla propria collocazione. È un grave errore quello di chi abbia sottovalutato o addirittura appoggiato i referendum di Lombardia e Veneto, e ancor di più abbia avallato o subito in silenzio la scelta dell’Emilia Romagna di prendere la stessa strada suggerita dai leghisti. Non si è mai trattato infatti di avvicinare le decisioni ai cittadini, né di rendere più efficiente il processo amministrativo. Se questo fosse stato lo scopo, si sarebbero rafforzati gli strumenti di partecipazione e il ruolo dei Comuni. Qui siamo invece davanti a un attacco mortale ai principi costituzionali di uguaglianza e solidarietà, a cui si deve reagire come tale.

* Parlamentare della XVII Legislatura, Giovanni Paglia è esponente di Sinistra italiana

L’editoriale di Giovanni Paglia è tratto da Left in edicola dall’1 marzo 2019


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Autonomia differenziata, il grande inganno

Protest of the Basic Union of Trade Unions with "Potere al Popolo e Noi Restiamo" (Power to the People and We Remain) demonstrated this morning in front of Piazza Montecitorio, on the day when the government was supposed to ratify the separatist agreements of the so-called differentiated regionalism with Lombardy, Veneto and Emilia Romagna. on February 15, 2019 in Rome, Italy (Photo by Andrea Ronchini/NurPhoto via Getty Images)

La vicenda relativa alla richiesta di tre Regioni (il Veneto, la Lombardia e l’Emilia-Romagna) del riconoscimento di una maggiore autonomia in alcuni settori di spesa, sembra ad un punto di stallo. L’esame delle bozze di intesa tra il governo e le tre Regioni interessate, programmato per il Consiglio dei ministri del 15 febbraio, è stato rinviato. Sembra se ne riparlerà a fine marzo. Si spera che questa pausa possa consentire di fare uscire l’intera vicenda dalla totale opacità in cui è stata volutamente mantenuta, aprendo un reale e documentato confronto a livello tecnico e politico.
È una storia nata male. Ha cominciato a bleffare la Regione Veneto, quando, nel 2014, ha approvato una legge per indire un referendum popolare che poneva quesiti come: «Vuoi che una percentuale non inferiore all’ottanta per cento dei tributi pagati annualmente dai cittadini veneti all’amministrazione centrale venga utilizzata nel territorio regionale in termini di beni e servizi?». Si trattava di quesiti non ammissibili nel nostro ordinamento costituzionale, tant’è che la Corte li ha tempestivamente spazzati via. Con essi la Lega riprendeva una propria vecchia rivendicazione, trattenere nel Nord del Paese una maggior quota delle risorse prelevate nel territorio con le imposte (Irpef, Iva ecc.) che attualmente, tramite il bilancio dello Stato, vanno a finanziare la spesa in altre zone del Paese, in particolare al Sud. Il termine tecnico è quello di “residuo fiscale”, che misura la differenza tra le imposte che ciascun territorio paga e le risorse che vi fanno ritorno tramite servizi pubblici.
I meccanismi di redistribuzione impliciti nel bilancio di uno Stato unitario, che eroga servizi tendenzialmente uniformi in un Paese che è caratterizzato da forti differenziali di reddito tra le diverse aree, e quindi da forti differenze nelle capacità di finanziare i servizi pubblici, comporta necessariamente che nelle zone a più alto reddito si paghino più imposte dei servizi che si ricevono, e viceversa in quelle più povere. È l’esito delle politiche redistributive che ogni Stato, dal primo affermarsi dei principi di cittadinanza e di eguaglianza, pone in essere con la propria attività di spesa e di prelievo, in misura più o meno grande a seconda delle fasi storiche e delle tradizioni politiche dei singoli Paesi. Ma si tratta, si badi bene, di una redistribuzione…

L’articolo di Ernesto Longobardi prosegue su Left in edicola dall’1 marzo 2019


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Mimmo Lucano: «Orgoglioso di andare a processo, non farò come Salvini»

Mimmo Lucano durante una conferenza stampa per presentare la conclusione della campagna di raccolta firme per candidare il Comune di Riace al Premio Nobel per la pace 2019, Roma, 30 gennaio 2019. ANSA/ETTORE FERRARI

È come spesso capita di corsa, Mimmo Lucano. Sta per andare al Tribunale di Locri, dove spera di avere notizie positive e parla come un fiume in piena. Non si è arreso e la sentenza del 27 febbraio, della Corte di cassazione gli ha ridato speranza. Il giorno prima il procuratore generale aveva chiesto il rigetto del ricorso presentato dai suoi legali per rimuovere il divieto di dimora a Riace ma il Tribunale, sovvertendo i timori ha risposto ieri diversamente. «Tecnicamente abbiamo fatto un passo avanti – dice quasi commosso -. Mentre è stato rigettato il ricorso in merito al “favoreggiamento dell’immigrazione clandestina” (la celebrazione di un matrimonio ritenuto sospetto fra un cittadino di Riace e una ragazza nigeriana ndr) è stato accolto quello relativo all’affidamento a due cooperative sociali della raccolta differenziata. Tutto è stato rimandato al Tribunale del riesame che dovrà decidere se togliermi o confermare il divieto di tornare a casa mia».

«Nel frattempo – prosegue Lucano – i miei avvocati stanno per fare richiesta al Gip che deve pronunciarsi entro cinque giorni. Potrebbero revocarmi l’esilio. Potrei tornare ad essere una persona libera. Chi non può tornare a casa sua non è una persona libera». Il sindaco di Riace, ad oggi sospeso dalle sue funzioni, parte dal fatto che la sua situazione è certamente migliore di tante persone che subiscono ingiustizie infinite in questo Paese, ma è consapevole di come la sua vicenda sia condizionata da una situazione politica, non solo locale, che lo ha posto sotto i riflettori.

«Ritengo che ci sia stato un metodo scientifico nel perseguitare l’esperienza di Riace e mi piacerebbe comprenderne meglio alcune chiavi di lettura – torna a dire il sindaco -. Contro di noi si è agito in modo graduale, attraverso continui appunti, ricorrendo a critiche riguardanti gli aspetti burocratici e con un ruolo determinante giocato dalla Prefettura e da chi determinava l’accesso ai progetti Sprar. Non voglio riutilizzare il luogo comune dell’accoglienza dei migranti come risorsa, ma come fare a non capire che se un paese semiabbandonato rinasce in maniera trasparente è un bene e non un male per lo Stato? Mi hanno accusato per la gestione dei rifiuti che ho affidato a cooperative di disoccupati e rifugiati del paese ma so bene che la questione rifiuti in questa regione è fondamentale per le mafie. Uno strumento di dominio, basti pensare al controllo criminale del termovalorizzatore di Gioia Tauro. Invece di indagare lì si considera criminosa una cosa positiva come la nostra e come altre simili. Personalmente credevo che avrei avuto tutele dallo Stato che invece mi ha aggredito. Si preferisce lasciare abbandonata a se stessa la Locride».

Ne ha per tutti il sindaco che oggi più che mai ha deciso di non arrendersi: «I poteri dello Stato hanno dimostrato ancora una volta di non essere né asettici né neutrali. Ma vi ricordate Berlusconi, la sua carriera, Mangano, Dell’Utri, i legami con Cosa nostra di cui è stato accusato? Lui non ha pagato nulla, io che non sono niente, che vivo in una casa senza riscaldamento, che ho dovuto fare una colletta per andare avanti mi ritrovo in questa condizione. I poteri forti, la massoneria sono da un’altra parte, quelli come noi che continuano a portare avanti gli ideali della sinistra ne pagano le conseguenze».

Lucano racconta di come la sua non sia una storia individuale. Nell’autunno del 2017 il Comune di Marina di Gioiosa Jonica, da molti chiamata semplicemente Gioiosa Marina, con un’esperienza di trasparenza e di accoglienza simile a Riace, venne sciolto per infiltrazione mafiosa dalla stessa Prefettura. Due giorni fa il Tar del Lazio, accogliendo totalmente il ricorso presentato, ha restituito, come si dichiara in un comunicato Anpi, la democrazia al Comune ribaltando totalmente le accuse e giudicando virtuosa questa amministrazione. E di casi simili ce ne sono molti. «Prima – riprende Mimmo Lucano – le mafie sparavano e penso a Rocco Gatto, a Giuseppe Valarioti, a Pino Puglisi e a Peppino Impastato. Oggi lo Stato o suoi settori deviati quando non la mafia stessa non ti ammazzano ma ti debbono distruggere. Debbono uccidere il messaggio pericoloso di cui si è portatori. Non immagini il piacere che mi ha fatto quando, dopo il mio esilio, ho ricevuto l’invito dai compagni di “Casa Memoria Giuseppe e Felicia Impastato” ad essere ospitato da loro a Cinisi. Mi sono sentito ancora più legato ad una storia che ha segnato la vita di molti di noi. Intanto però mi accorgevo che c’era la volontà di distruggere non solo me ma una intera comunità, una scuola che aveva riaperto dopo l’abbandono, di costringere ancora i miei concittadini ad emigrare come hanno dovuto fare i miei figli».

«C’è chi vuole che vincano la rassegnazione e il silenzio rotto solo dalla violenza – accusa Lucano – chi vuole togliere senso alla vita per chi resta qui. Cosa fanno oggi a Riace quelli in cassa integrazione che lavoravano con noi? Io sono accusato e intanto qui non funzionano né trasporti né ospedali e lo Stato trova solo il tempo per accanirsi contro di me. Dopo 18 mesi di intercettazioni hanno scoperto che non mi sono messo neanche una lira in tasca, ecco il risultato. E io sarò orgoglioso di andare sotto processo, non farò come Salvini che si è protetto anche col sostegno di chi aveva garantito di cambiare l’Italia in nome dell’onestà».

In questi mesi Mimmo Lucano ha girato per molte piazze italiane, ha ricevuto cittadinanze onorarie, in nome della sua esperienza oltre 95 mila persone, 2.400 docenti, 1.400 associazioni hanno proposto la sua candidatura al Nobel per la Pace con un comitato di cui Left è fra i principali animatori. Dovunque andava, in tv come negli incontri pubblici, ha trovato accoglienza, calore e stima e non si è limitato a questo.

Nei mesi passati da esule nel vicino comune di Caulonia, ha continuato ad occuparsi dei temi che lo appassionano e in particolare è stato spesso nel “ghetto” di San Ferdinando, una baraccopoli in cui vivono da oltre dieci anni centinaia di persone in attesa di essere sfruttati sui campi. In poco tempo, tre persone, tre giovani, vi hanno trovato una morte atroce, arsi vivi mentre tentavano di riscaldarsi dal freddo. È sorto un comitato, animato anche da Alex Zanotelli che ne chiede la chiusura, non per fare altri container ma per garantire accoglienza e vita dignitosa a tutti.

«Anche Salvini dopo l’ennesima morte dice di volerlo chiudere ma per lui il problema è solo cacciare le persone – riprende Lucano -. Quando giro fra queste baracche mi si conferma la sconfitta dello Stato. Sfruttamento lavorativo, pagando chi raccoglie le arance 70 centesimi a cassetta, degrado umano e ambientale, capanne, fognature a cielo aperto e melma che galleggia nell’acqua. Ecco quello che vedo. Un ragazzo mi diceva giorni fa “voi parlate ma sono anni che viviamo così”, era arrabbiato e sconfortato e aveva ragione. Ma qui nessuno apre inchieste, nessuno indaga, nessuno finisce sotto processo. Si processa l’accoglienza e la capacità di vivere insieme. È questo il nostro vero crimine».

Pisa città della guerra. La zona militare di Camp Darby si amplia, e ospiterà anche militari italiani

Alcune decine di militanti aderenti ai movimenti pacifisti e alla sinistra di base di Pisa e Livorno hanno effettuato un presidio pacifico davanti alla base americana di Camp Darby a Tombolo (Pisa) per dire no alla costruzione di "una nuova linea ferroviaria per potenziare il collegamento tra la base e il porto di Livorno trasportando armi ed esplosivi attraverso un territorio densamente popolato", 2 giugno 2017. ANSA/ GABRIELE MASIERO

Pisa, 2007. Il Consiglio comunale di Pisa approva, a maggioranza, una mozione per lo smantellamento della base militare Usa-Nato di Camp Darby che si trova al confine tra le province di Pisa e di Livorno, immersa nella macchia mediterranea e in prossimità del mare. Citiamo solo alcuni passi di questa mozione, votata dal centrosinistra e da Rifondazione che insieme avevano la maggioranza dei seggi nel Consiglio:

«Considerato che la base di Camp Darby rappresenta un corpo estraneo all’interno dell’Area pisano-livornese e che rappresenta un ostacolo al pieno sviluppo sociale, economico ed industriale dell’area, oltre che essere un serio elemento di preoccupazione per la sicurezza dei cittadini. Considerato che già oggi i cittadini di alcuni paesi subiscono quotidianamente le conseguenze delle armi di distruzione di massa che partono anche da Camp Darby. Tenuto conto che oltre ad essere pericolosa per il nostro territorio ed i suoi abitanti, essa, come ogni altra base militare, rappresenta una minaccia sia per i popoli i cui Paesi sono teatro di guerre, sia per i popoli di quelle nazioni considerate pericolose e minacciose dall’attuale politica militare statunitense».

Trascorsi 12 anni, gli scenari e le opinioni a riguardo di Camp Darby sono profondamente cambiati. A Palazzo Gambacorti oggi la maggioranza è in mano al centrodestra, all’opposizione ci sono Pd e il candidato eletto da Città in Comune, Rifondazione e Possibile.

Nel 2007 i consiglieri comunali del centro e della destra votarono contro la mozione, e gli stessi non sembrano avere cambiato idea, giudicando la base Usa e Nato una risorsa per il territorio pisano. Ora, mentre la destra è coerente con una lettura della realtà guerrafondaia, stessa coerenza ci si aspetterebbe dal centro sinistra. Ma così non è. Le sue posizioni sono radicalmente cambiate rispetto a quanto sostenuto anni fa.

Facciamo un altro passo indietro nel tempo, ad una calda giornata del giugno 2017, mentre la città si prepara alla Festa patronale di San Ranieri e al Gioco del Ponte e le spiagge di Marina e Tirrenia iniziano a riempirsi. Consiglio comunale dell’8 giugno 2017, sindaco Pd al secondo mandato (Marco Filippeschi), in quella occasione la sala consiliare è invasa da attivisti contro la guerra, sindacalisti ed esponenti del No Camp Darby di Pisa e Livorno. Gli attivisti consegnano un documento al consigliere Ciccio Auletta (Città in Comune – Rifondazione), «l’amministrazione comunale da un anno è al corrente del potenziamento della base militare Usa e Nato di Camp Darby, ne hanno parlato in Regione ma la notizia non è trapelata». Come la si mette con l’ordine del giorno di dieci anni prima? Semplice, il Pd sceglie di dimenticare la volontà di smantellamento della base, e esponenti dem accusano Auletta e i comitati contrari al potenziamento di Camp Darby di disonestà intellettuale, di attacco politico pretestuoso.

Il potenziamento della base Usa – Nato viene accettato e sublimato dal Partito democratico, si scopre invece la contrarietà del Parco di San Rossore (il cui territorio di pertinenza è direttamente interessato) che in Regione, mesi prima, ha presentato un documento di critica ai lavori che prevedono l’abbattimento di quasi mille alberi; uno storico esponente dei movimenti contro la guerra, Manlio Dinucci, ricorda che da anni il Comando militare Usa e Nato aveva avanzato la richiesta di collegamento della base di Camp Darby al porto di Livorno (attraverso il Fosso dei Navicelli dove imperversano da anni lavori per favorirne la navigabilità) e via ferrovia con la stazione di “Tombolo dock” direttamente connessa alla base, il tutto – ci dice Antonio Piro del Sindacato generale di base – per poter gestire il trasporto di armi con due due treni al giorno (fino ad oggi un treno ogni due o tre mesi).

Nel giugno 2018 si tengono le elezioni comunali e il Pd viene sconfitto. Ad essere eletto sindaco è il leghista Michele Conti. La sua maggioranza, al pari di quella precedente, è rassicurante verso il Comando militare americano, i lavori non subiranno alcun rallentamento, il collegamento della base di Camp Darby alla ferrovia e al porto nucleare di Livorno è assicurato, inutili le proteste dei movimenti contro la guerra (3mila mila in marcia il 2 Giugno scorso), intensificati i lavori per l’abbattimento degli alberi e la costruzione di infrastrutture indispensabili per l’ammodernamento della base.

E se inspiegabilmente una parte della sinistra radicale tace di fronte al potenziamento della base, il 22 febbraio sul quotidiano locale Il Tirreno un ampio reportage parla della restituzione di una piccola area della base Usa all’Italia. Ne aveva parlato anche l’assessore Zambito (Pd) nel giugno 2017, il quotidiano fa una sintesi perfetta spiegando come «l’area ricreativa di Camp Darby sia uno dei punti della “spending review” militare elaborato negli anni scorsi dagli Usa. Il processo prevede minori spese per circa 500 milioni di dollari l’anno e la chiusura entro il 2021 di 15 basi statunitensi presenti in Europa con una riduzione di personale di circa 2mila unità rispetto agli oltre 62mila militari presenti nel Vecchio Continente».

Mentre i politici e i media locali esultano per la restituzione di una piccola parte della base Usa all’Italia, questa porzione è stata scartata dal comando militare Usa perché da tempo inutilizzata e comunque sacrificabile rispetto al collegamento di Camp Darby al mare e alla ferrovia. Anzi, sempre il Sindacato generale di base precisa che a fine 2019 in questa area saranno dislocati i reparti speciali dell’esercito italiano oggi alla caserma Gamerra dei parà, insomma una area militarizzata dagli Usa diventerà area militare italiana, così in un colpo solo vengono cancellati non solo i buoni propositi della mozione, approvata in Consiglio comunale nel 2007 sulla riconversione della base Usa – Nato, ma si va verso l’ulteriore militarizzazione del territorio pisano e livornese come da mesi documenta Franco Busoni della rete civica livornese.

Pisa è sempre più area di guerra, ad Ospedaletto (la decadente area industriale alle porte della città) è stato recentemente inaugurato uno «stabilimento dedicato al programma per l’elicottero a controllo remoto Awhero. Il velivolo prodotto da Leonardo si basa su un elicottero senza pilota già prodotto a Pisa».

Pisa “città della pace”, come venne ribattezzata dai manifestanti che bloccavano con i loro corpi il trasporto delle armi a inizio secolo, si va trasformando in “città della guerra”, i soldi dei cittadini italiani sono in parte impiegati per i lavori infrastrutturali attorno a Camp Darby (in buona parte finanziati dagli Usa), la ricerca pubblica e privata guarda con sempre maggiore interesse all’industria di guerra, del resto proprio negli ultimi giorni numerose università italiane hanno stretto legami con le industrie di armi finanziando appositi corsi e progetti di ricerca.

E cosa hanno da dire gli intellettuali e il mondo della docenza sotto la torre pendente che ospita ben tre università? Niente, silenzio assoluto, vige ormai il famoso silenzio assenso.

Lo Stato che s’è dimenticato un (altro) pezzo di Stato

Linosa è bellissima. Andateci. Non adesso però. Perché ora Linosa è ferma. Ferma proprio nel senso di ferma, immobile, ferme le auto, i motorini, a singhiozzo al massimo qualche mezzo di soccorso, ferme le barche (e sì, per un’isola è un problema).  Fermi tutti. Manca la benzina. Nel 2019 in Italia, a Linosa, manca la benzina da Natale. Babbo Natale ha portato in dono lo scenario apocalittico che leggiamo in giro. Sembra una cosa incredibile vero? E infatti è incredibile, e disgustosa.

L’unico benzinaio è fuori uso, il pezzo di ricambio che serve non arriva, e in un’isola di 500 abitanti che sta circa a 160 km dalle coste ci si sente isola per davvero con questo problema. Tagliati fuori dal mondo. Hanno provato a interpellare tutti, ma proprio tutti. Niente. Nessuno si muove. Hanno anche restituito le tessere elettorali perché se al posto di togliere le accise togli proprio la benzina forse c’è anche un problema politico. Niente.

«All’inizio – racconta Cristina Errera – ci è stato detto che mancavano delle autorizzazioni, questioni meramente burocratiche. E invece pochi giorni fa ci è stata comunicata una novità: manca un pezzo di una pompa, pezzo che deve essere inviato dall’Italia a Lampedusa e da qui a Linosa. Se tutto va bene ci aspettano ancora 15 giorni di disagi», si legge sul Corriere.

Una soluzione c’è: farsi cinque ore di nave (cinque ore di nave) per andarsi a pendere la benzina che serve per portare i figli a scuola.

C’è un passaggio nella lettera che hanno scritto al presidente della Repubblica che merita una lettura:

«Essere un’isola lontana è difficile. Comporta una necessaria dipendenza dai collegamenti navali. Qualche nodo di vento inverso può bastare a segnare la differenza tra isolani e isolati. Fare i conti con l’attuale questione trasporti a Linosa vuol dire non essere liberi di programmare le proprie vite. Vi sembra possibile? Siamo stanchi di questi viaggi della speranza. Per questo vorremmo chiedervi di intervenire sui trasporti, in quanto ne va della nostra sopravvivenza. La guardia medica è l’unico presidio medico presente sull’isola. In un posto come questo servirebbe un piccolo pronto soccorso, di medici capaci di prestare le prime cure. Invece siamo costretti a considerare normale che un padre provveda a suturare la ferita della propria figlia».

Buon giovedì.

Caso Cucchi, il pm: «Una partita truccata, con carte segnate»

Il generale Vittorio Tomasone, ex comandante provinciale dei carabinieri di Roma, testimonia nell'ambito del processo bis per la morte di Stefano Cucchi, Roma, 27 febbraio 2019. ANSA/MASSIMO PERCOSSI

«Una partita truccata, con carte segnate. Una partita giocata sulle spalle di una famiglia: qui c’è in gioco la credibilità di un intero sistema». Ricordiamoci di queste parole. Le ha pronunciate il pm Giovanni Musarò, in apertura di udienza del processo bis sulla morte di Stefano Cucchi che vede imputati cinque carabinieri. Perché la vicenda Cucchi, così come la dipana il processo e la parallela indagine sui depistaggi, è la storia di un violentissimo pestaggio e di una strategia scientificamente orchestrata per allontanare i sospetti dai carabinieri che lo arrestarono, e che ebbe un braccio “militare” ma anche uno politico. Ora le indagini e il processo stanno spiegando con una precisione sempre maggiore le attività del braccio militare. Però, prima di entrare nel merito dell’udienza di oggi 27 febbraio vale la pena ricordare le parole con cui il governo di allora contribuì – magari anche solo per un malinteso senso dello Stato – a dare copertura a chi segnava le carte e truccava la partita. «Di una cosa sono certo: del comportamento assolutamente corretto da parte dei carabinieri in questa occasione», ebbe a dire una settimana dopo la morte di Stefano il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, all’epoca di Alleanza nazionale, oggi vicepresidente per Fdi del Senato.

Alfano indotto a riferire il falso
Probabilmente l’attività di depistaggio potrebbe essere iniziata già la mattina dopo l’arresto nel momento in cui i carabinieri hanno provato ad appioppare alla penitenziaria un detenuto ciancicato parecchio nelle operazioni seguite all’arresto e poi imboscato in fondo a un reparto di medicina penitenziaria dove morirà sei giorni dopo, alle 6.45 del 22 ottobre del 2009, senza poter parlare con nessuno, né l’avvocato né i genitori che ogni mattina bussavano alla porta del Pertini. Il 26 ottobre Patrizio Gonnella di Antigone e Luigi Manconi denunciarono pubblicamente che Stefano Cucchi al momento dell’arresto stava bene e che non aveva segni sul volto, visti poi dal padre il giorno dopo nel processo per direttissima. A partire da quella denuncia «iniziano a pullulare richieste di annotazioni su ordine della scala gerarchica dell’Arma, comprese quelle false e quelle dettate. Cosa successe quel giorno?», ha detto in aula Musarò. «Il lancio di agenzia delle 15.38 scatena un putiferio. Dal Comando generale dell’Arma partono richieste urgentissime di chiarimenti. E tutte queste annotazioni non servivano al pm ma all’allora ministro della Giustizia Angelino Alfano che avrebbe dovuto rispondere al question time alla Camera». Il pm aggiunge che «il ministro, per paradosso, si limitò a riferire il falso su atti falsi». Insomma, secondo l’accusa, fu inconsapevolmente indotto con atti falsi a riferire il falso. Una scheda riepilogativa redatta da tre carabinieri della stazione Appia sull’arresto di Cucchi fu l’unico documento che l’allora capo di Gabinetto del ministero della Difesa inviò il 2 novembre del 2009 all’omologo del ministero della Giustizia in vista del question time che il ministro Angelino Alfano doveva svolgere sul caso il 3 novembre in Parlamento. È quanto emerge dalle carte depositate dalla Procura di Roma nel processo che vede imputati cinque carabinieri. Nel documento i rappresentanti dell’Arma scrivono «che sia la fase dell’intervento e del fermo» di Cucchi, «sia la successiva operazione di redazione degli atti e di perquisizione, si sono svolte senza concitazione, nè particolari contatti fisici, in quanto il fermato, in condizioni fisiche particolarmente debilitate a causa di importanti patologie pregresse, si è dimostrato da subito remissivo e orientato a giustificare la propria posizione giudiziaria piuttosto che contestarla». Nella relazione, inviata al dicastero, si afferma inoltre che «il carabiniere scelto Gianluca Colicchio, alle 3.55 della notte del 16 ottobre, quando Cucchi si trovava nella stazione dei carabinieri di Tor Sapienza, si intratteneva a dialogare con l’arrestato facendosi raccontare la vicenda e trovandolo lucido, cosciente e in condizioni di salute compatibili con lo stato di detenzione (no ferite, non contusioni o ecchimosi diverse da quelle tipiche della tossicodipendenza in fase avanzata)».

L’autopsia scritta prima che i periti fossero nominati
«In atti interni dell’Arma dei carabinieri che risalgono al periodo compreso tra l’ottobre e l’inizio novembre del 2009 compaiono già le conclusioni a cui sarebbero giunti i medici legali nominati dalla Procura sei mesi dopo» e che indicavano come «responsabili del decesso solo i medici», ha rivelato sempre Musarò illustrando i nuovi documenti depositati. Una circostanza che il magistrato stesso definisce «inquietante». «Già in quegli atti si affermava che non c’era un nesso di causalità tra le botte e la morte di Cucchi, che una delle fratture era risalente nel tempo e che i responsabili del decesso erano solo i medici. Tutto ciò era stato scritto non solo quando i consulenti erano ben lontani dal concludere il loro lavoro ma quando la procura doveva ancora nominarli. Ciò lascia sconcertati». E sulle annotazioni dello stato di salute di Cucchi si susseguirono «circostanze false che ritroveremo anni dopo nelle relazioni peritali del gip e della prima corte d’assise».
«Alfano nel corso del question time disse, tra l’altro, che Cucchi era stato collaborativo al momento dell’arresto, omettendo ogni passaggio presso la compagnia Casilina e che era già in condizioni fisiche debilitate quando venne fermato. Da qui parte una difesa a spada tratta dell’Arma e si traduce in una implicita accusa nei confronti degli agenti di polizia penitenziaria che avevano preso Cucchi in custodia per il processo». Musarò fa presente che in quel momento «il fascicolo dei pm Barba e Loy era contro ignoti ma per un gioco del destino il 3 novembre del 2009, quando Alfano ha finito di rispondere all’interrogazione, nel pomeriggio compare davanti ai magistrati il detenuto gambiano Samura Yaya che riferisce di aver sentito nelle camere di sicurezza del tribunale una caduta di Cucchi. Dichiarazione che è stata ritenuta inattendibile con sentenza definitiva».

L’anoressia inesitente
«Ho risentito l’audio del processo per direttissima: Stefano Cucchi disse di avere l’anemia e l’epilessia. I carabinieri, nelle loro annotazioni a verbale, parlano invece di anoressia, dato non vero, che poi diventa sindrome da inanizione nel processo, cioè causa della morte». Il magistrato ha aggiunto inoltre che il comando provinciale dell’Arma nel 2016 ha scritto in un altro verbale che Cucchi a Tor Sapienza ebbe un attacco epilettico in due diverse occasioni. «Non è vero perché il maresciallo Colicchio in servizio in quella caserma ce lo ha negato».

Parla Tomasone ma non ricorda
«Chiesi a tutti coloro che avevano avuto a che fare con la vicenda Cucchi di fare relazioni e di venire al comando da me per dire quello che avevano fatto, dal momento dell’arresto e fino alla consegna alla polizia penitenziaria: il motivo della riunione era anche quello di cogliere dal loro viso la reazione a quanto avevano scritto». Così il generale Vittorio Tomasone, ex comandante provinciale dei carabinieri di Roma, sentito come teste. «Seppi della morte di Cucchi dalle agenzie di stampa e da giornalisti che mi chiamarono», ha detto Tomasone. Da quella riunione emerse che «le condizioni fisiche generali di Cucchi non erano ottimali. Un carabiniere che lo ebbe in custodia la notte dell’arresto disse che aveva avuto dolori e aveva chiesto l’intervento del 118. Proprio per questo decisi di ascoltare per scrupolo la telefonata con la quale fu chiesta l’ambulanza. Era un elemento importante». E poi, una seconda riunione tra ufficiali dell’Arma, il 15 novembre 2009, «con a tema aspetti organizzativi e due episodi: la vicenda Cucchi e la vicenda che riguardò l’ex presidente della Regione, Marrazzo. Riunioni come queste ci sono sempre state». L’arresto di Cucchi, per il generale Tomasone «era normale, come tanti altri». E quella nota al Comando generale con i dati parziali dell’autopsia che ancora non era stata terminata? Il generale replica di non ricordare come fosse stata assunta quell’informazione. Il Pm ha fatto emergere che il 23 novembre fu disposta l’autopsia, il successivo 6 dicembre il medico incaricato auspicava la nomina di altri specialisti, «ma il primo novembre il generale Tomasone, in un atto indirizzato al Comando generale, scrive dei risultati “parziali” dell’autopsia che ancora non era stata fatta». «Sul modo con il quale è stata assunta l’informazione non ricordo. Non ho memoria».
L’ultimo dei testi di oggi 27 febbraio è Nicola Minichini, uno degli agenti della Polizia Penitenziaria imputati nel primo processo per la morte del geometra 31enne e poi assolti per non aver commesso il fatto. «Io mi sono trovato da innocente in una cupola, in una rete senza via di uscita che è stata architettata nei nostri confronti. Ad un mio collega, abbiamo tolto la pistola dalle mani, stava per compiere un gesto insano», ha raccontato in aula in Corte di Assise. Ascoltato per la prima volta in aula al processo bis, ha ricordato il vero e proprio incubo vissuto per dieci anni. «Per noi ha significato sprofondare nell’inferno più totale, non lo auguro a nessuno. Per settimane non sono potuto rientrare a casa perché avevamo i giornalisti sotto casa, a caccia di mostri. Sono stato rincorso da persone che guardando erroneamente le foto dell’autopsia mi chiedevano: come avete fatto a tagliarlo dalla gola allo stomaco?». «Vidi Stefano Cucchi che camminava da solo ma a fatica, aveva dei lividi sul volto. Si sedeva a fatica e su un fianco. Rifiutò di spogliarsi davanti al medico e chiese una pillola perché aveva mal di testa, alla schiena e al fianco. “Come ti sei fatto questi segni?” gli chiese il medico. E lui: “Sono caduto ieri sera dalle scale”». Il 22 ottobre quando si apprese della morte di Cucchi al reparto detentivo del Pertini, Minichini venne sentito dal pm Barba e il 14 novembre viene indagato: «Sul documento c’era scritto: “con calci e pugni dopo averlo fatto cadere in terra ne cagionavano la morte”. Da quel momento la mia vita e quella della mia famiglia è cambiata per sempre».

Chi disse a Casarsa che non ci furono percosse?
Nel filone di indagine sui depistaggi c’è anche un tenente colonnello indagato per falso, Alessandro Casarsa, all’epoca dei fatti a capo del Gruppo Roma dell’Arma: «Non sapevo che fossero state redatte due versioni delle stesse annotazioni sullo stato di salute di Cucchi. Il tenente colonnello Cavallo si rapportava direttamente a me ed eseguiva le mie disposizioni, ma sicuramente non ebbe da me la disposizione di modificare le annotazioni». Casarsa dice questo ai pm nell’interrogatorio svolto il 28 gennaio scorso. Secondo quanto ricostruito dagli inquirenti il il 30 ottobre del 2009 il colonnello firmò una nota, poi recepita il 1 novembre 2009 dall’allora comandante provinciale di Roma, Vittorio Tomasone, nella quale, tra le altre cose, anticipava che la Procura di Roma avrebbe nominato il 2 novembre come periti un collegio di medici patologi per effettuare esami specifici sul corpo di Cucchi. In quel documento Casarsa afferma, inoltre, che i risultati parziali dell’autopsia «sembrerebbero non attribuire le cause del decesso a traumi, non essendo state rilevate emorragie interne né segni macroscopici di percosse». Sul punto, rispondendo alle domande del procuratore Giuseppe Pignatone e del sostituto Giovanni Musarò, Casarsa afferma di non essere in grado di dire da chi ebbe «le informazioni che sono riportate nella nota che mi esibite e che attengono ai preliminari accertamenti di natura medico-legale eseguiti sul cadavere di Stefano Cucchi. Prendo atto che Cavallo ha dichiarato che questa nota l’aveva scritta lui su mia dettatura, io escludo tale circostanza».

Ancora sul giallo delle annotazioni falsificate
Tra le carte depositate oggi dalla Procura c’è anche il verbale di interrogatorio di Lorenzo Sabatino, indagato per favoreggiamento, e all’epoca dei fatti comandante del reparto operativo di via In Selci. «Mi chiedete – fa mettere a verbale – per quale ragione nella nota del 14 novembre del 2015 indicammo le annotazioni sullo stato di salute di Cucchi a firma Colicchio e Di Sano fra gli allegati senza precisare che avevano contenuto diverso. In quel periodo io ero molto impegnato e mi limitai a fare un controllo sommario, fidandomi del capitano Testarmata (altro ufficiale indagato ndr), nel senso che pensai avesse evidenziato la circostanza nell’annotazione a sua firma. Intendo aggiungere che, per quello che è il mio ricordo, che il 17 novembre del 2015 ci recammo in Procura per consegnare la documentazione acquisita, io e il generale Luongo dicemmo che c’erano due annotazioni con la stessa data, ma diverse, ma evidentemente non ci spiegammo bene. Non parlammo di falso perché a me nessuno aveva parlato di falso», conclude Sabatino.

Chiesa e pedofilia, la condanna del card. Pell in Australia. L’alto prelato mai sfiorato dalla magistratura ecclesiastica

Pedofilia nel clero: il card. Pell mai sfiorato dalla magistratura ecclesiastica e il Concordato che in Italia garantisce l’impunità dei preti. Sono alcuni dei temi di cui ha parlato il giornalista di Left Federico Tulli intervistato dal Alessandro Principe durante la trasmissione Radar su Radio Popolare.

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Il cardinale George Pell, principale consigliere finanziario di papa Francesco e ministro dell’Economia vaticano, è stato giudicato colpevole da un tribunale in Australia di abusi sessuali su due ragazzini di 13 anni e rischia fino a 50 anni di carcere. Secondo quanto riporta l’Ansa, l’udienza di condanna inizierà il 28 febbraio. Pell continua a dichiararsi innocente e il suo avvocato prevede di ricorrere in appello. Il verdetto unanime dei 12 membri della giuria della County Court dello stato di Victoria è stato emesso l’11 dicembre dopo oltre due giorni di deliberazione, ma reso pubblico solo oggi. Nel frattempo al cardinale è stata revocata la libertà su cauzione ed è detenuto nella Assessment Prison di Melbourne, in attesa della sentenza prevista per il 13 marzo.

Stando ai giudici, il cardinale, 77 anni, avrebbe molestato i due bambini di 13 anni componenti del coro dopo aver servito messa nella cattedrale di San Patrizio a Melbourne nel 1996, quando all’epoca aveva 55 anni. La giuria ha anche dichiarato che Pell si è reso colpevole di aver aggredito in modo indecente uno dei ragazzi in un corridoio più di un mese dopo.

Il 12 dicembre scorso siamo stati tra i pochi a dare la notizia della condanna comminata a Pell ora divenuta pubblica.

Il cardinale Pell condannato in Australia per violenza su due minori

Per approfondire ulteriormente vi proponiamo l’articolo di Elena Basso in cui si ricostruiscono i motivi che hanno portato il porporato alla sbarra nel suo Paese.

Chiesa e pedofilia, le spine del cardinale Pell

La mobilitazione per i piccoli ospedali scuote la Sardegna. In nome della sanità pubblica

La protesta dei pastori non è stata l’unica a scuotere la Sardegna alla vigilia delle elezioni regionali del 24 febbraio. Da tempo è in corso anche una battaglia popolare contro la riforma sanitaria, approvata sette mesi fa dalla giunta Pigliaru di centro-sinistra, giudicata inadeguata per il territorio e troppo compiacente con il privato. Sono casalinghe, fotografe, librai, medici e operai. Come tanti Don Chisciotte con la lancia in mano, combattono contro i mulini a vento delle “norme parametriche e volumetriche” che impongono, in nome della razionalizzazione, la chiusura dei piccoli ospedali periferici, ritenuti non sufficientemente “performanti”. A differenza dell’hidalgo spagnolo, questi moderni Don Chisciotte hanno i piedi ben piantati per terra: hanno studiato, proposto modifiche, organizzato picchetti e riunioni. Fino ad occupare pacificamente gli ospedali, da La Maddalena a Isili, nel cagliaritano, per scongiurarne la chiusura definitiva. Una lotta che si è fatta più intensa nelle ultime settimane, alla vigilia delle regionali, di cui la sanità è diventata inevitabilmente uno dei temi principali.
Emanuela Cauli abita alla Maddalena, è una fotografa anche se preferisce definirsi “un’attivista”. Da ottobre a dicembre dello scorso anno, insieme ad altri cittadini, ha occupato il piccolo nosocomio locale, il Paolo Merlo, per denunciarne il progressivo ridimensionamento a causa della chiusura di numerosi reparti.
“Sono stati mesi infernali, ma era necessario protestare in maniera decisa. Abbiamo allestito un punto informativo aperto giorno e notte, stampato volantini, organizzato incontri e riunioni, e promosso delle collette per i malati oncologici che devono recarsi ad Olbia per la chemioterapia, affrontando un lungo viaggio nonostante le loro condizioni” ricorda Cauli.
“La situazione è drammatica in tutta la regione ma La Maddalena è il simbolo, in negativo, delle scelte fatte sulla pelle dei cittadini. Chi deve fare la chemio o la dialisi – prosegue – deve raggiungere l’ospedale di Olbia, il che significa affrontare un viaggio dalle due alle tre ore, a seconda della stagione, su una strada provinciale oltre al traghetto, spendendo delle cifre non alla portata di tutti; in caso di emergenze è necessario l’intervento dell’elisoccorso ma se c’è molto vento, come qui capita di frequente, questo non può atterrare”.
I problemi all’ospedale Paolo Merlo sono iniziati più di dieci anni fa, con la chiusura del reparto di chirurgia, poi ostetricia e il punto nascita, la pediatria garantita solo parzialmente (l’ambulatorio ma non la degenza) fino alla soppressione della camera iperbarica, un servizio fondamentale per un’isola: “In realtà c’è ma non viene utilizzata, così chi ha ne ha bisogno viene dirottato a Cagliari” precisa Cauli.
A Isili, nell’entroterra cagliaritano, a quasi trecento chilometri da La Maddalena, la situazione è simile. Luigi Pisci, libraio, è il portavoce di un’altra occupazione pacifica, quella all’ospedale San Giuseppe e da tre anni si batte, da “militante di strada di estrema sinistra” come si presenta, per salvare l’ospedale: “Se crolla la sanità – esordisce Pisci – crolla l’ultimo baluardo contro il dominio totalizzante del mercato. Il nostro ospedale è il punto di riferimento per tanti altri comuni della zona, distanti da Cagliari anche alcune ore. Al San Giuseppe il reparto di chirurgia è stato chiuso tre anni fa, e si è assistito ad un taglio del 28% dei posti letto di medicina generale, mentre il pronto soccorso è costantemente a rischio per mancanza di medici”. Il motivo dei ridimensionamenti, come spiega Pisci, “è dovuto all’applicazione delle norme parametriche e volumetriche del decreto ministeriale 70 del 2015 che stabilisce gli standard qualitativi e strutturali dell’assistenza ospedaliera. Questi parametri, recepiti dalla riforma regionale, comportano la chiusura degli ospedali o di alcuni reparti quando il numero degli abitanti di quel territorio, o gli standard del servizio offerto, sono ritenuti insufficienti da giustificarne l’apertura”.
Il comitato in difesa del Paolo Merlo e quello del San Giuseppe fanno parte della “Rete Sarda in difesa della sanità pubblica”, confederazione nata nel 2016, che accorpa una decina di comitati sparsi in tutta la Sardegna, e che negli anni ha portato in piazza circa 40mila cittadini esasperati dai tagli alla sanità.
“Come “Rete Sarda” abbiamo presentato degli emendamenti al testo di riforma, cercando di correggere gli aspetti maggiormente inadeguati al contesto sardo,- aggiunge Pisci – ma nessun consigliere regionale ha preso in carico le nostre richieste”.
Claudia Zuncheddu, medico ed ex consigliera regionale di opposizione all’epoca della giunta Cappellacci di centro-destra, è stata la portavoce della “Rete Sarda” fino a poche settimane fa, quando ha deciso di autosospendersi perché candidata con la coalizione “Sardi Liberi” alle regionali.
“Sia con Cappellacci sia con Pigliaru, secondo il classico schema in perfetto stile neoliberista, è stato deciso di depotenziare gli ospedali periferici, e in generale la sanità pubblica, in nome della razionalizzazione delle spese a discapito della salute dei cittadini. La riforma sanitaria – spiega Zuncheddu- è irricevibile per due motivi: in primis è inadeguata alla geografia e all’orografia del nostro territorio, nel quale molti comuni risultano difficilmente raggiungibili e spesso mal collegati dal punto di vista infrastrutturale; in secondo luogo è una riforma che smantella il servizio pubblico a favore della privatizzazione”. Zuncheddu ricorda, a tal proposito, la nascita dell’ospedale Mater Olbia, struttura privata convenzionata, dalla costruzione pluridecennale, che è stata inaugurata nel dicembre dello scorso anno: “Il Mater Olbia, creatura condivisa dalla politica di destra e di sinistra, è l’emblema del nostro sistema sanitario che dimentica la sua natura pubblica a favore del privato. Basti pensare che è una struttura sfornita del pronto soccorso, così che può liberamente selezionare i ricoveri”.
L’idea del Mater Olbia risale a trent’anni fa quando Don Luigi Verzè, fondatore del San Raffaele di Milano, sceglie Olbia come sede del San Raffaele sardo. Fallito l’impero del presbitero e imprenditore veneto, nel 2014 lo stato islamico del Qatar ottiene il via libera dal comune di Olbia per la nuova struttura privata.
Le mobilitazioni contro il Mater Olbia sono state numerose, come quelle organizzate dal movimento indipendentista Caminera Noa che da anni organizza delle manifestazioni contro i finanziamenti pubblici alla struttura privata olbiese.
“È un ospedale che costa ai cittadini sardi 58 milioni all’anno – conclude Zuncheddu – e non risolve i problemi della gente comune. La nostra è una lotta di speranza ma le prospettive sono decisamente preoccupanti. Oltre il 14% dei sardi rinuncia alle cure in quanto non può pagare il ticket o non può attendere lo scorrimento delle lunghe liste d’attesa. La legge del 1978 sul servizio sanitario nazionale, che ha reso grande l’Italia nel mondo, sta per essere smantellata pezzo per pezzo”.