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Muri. Di gentilezza

No, niente primarie per oggi. Ne abbiamo di mesi davanti per parlare di quelli. Complimenti segretario. Ora, come nella celebre scena del film di Nanni Moretti, per favore dica una, almeno una, una soltanto, una cosa di sinistra.

Mi interessano di più quelli che chiamano i “walls of kindness”, ovvero “i muri della gentilezza” che secondo alcuni dati statistici si stanno moltiplicando a una velocità impressionante. Si tratta di muri qualsiasi, sui quali la gente lascia in dono i propri abiti che non usa più e altro materiale che può ritornare utili a chi ne ha bisogno. Una sorta di caffè sospeso che però tratta articoli diversi (cappotti, coperte, ombrelle, giubbotti.

Il primo muro della gentilezza non poteva che nascere in un Paese in cui vivere è un mestiere difficile:  in Iran nel 2015 nella città di Mashad alcuni ragazzi hanno pensato di lasciare i propri indumenti non utilizzati per i più poveri e cenciosi. Che meraviglia.

Ma l’iniziativa è arrivata anche in Italia, grazie ai ragazzi del liceo Marymount e degli scout all’interno della sede dell’AMA di Roma. Poi ce n’è uno in Svezia, dove addirittura il muro è stato costruito apposta a forma di cubo e la Caritas a Monza e a Cerreto Sannita (Benevento).

Voi appendete quello che non serve e uno sconosciuto gira più caldo per la città, grato a uno sconosciuto. Una sorta di vitalità della bontà, un virus che farà parecchio incazzare i cattivisti di questo tempo. Tanto che l’iniziativa si è divulgata perfino in Medio Oriente e addirittura nella lontana Nuova Zelanda.

Grumi di umanità che invertono gli usci dei muri che ne vorrebbero fare i sovranisti. Ed è questo che è bellissimo: le cosiddette razze umane hanno sentito, a migliaia di chilometri di distanza, il bisogno di riprendere l’iniziativa. Ora basta trovare il capo del filo rosso che fa tutto il giro del mondo e il gioco è fatto. No?

Buon lunedì.

Adelaide Gigli, una vita tra due lingue

Alla fine degli anni Ottanta, quando ero arrivato da poco in Italia, ho avuto la fortuna d’incontrare, seduta in un bar di Recanati, davanti a un bicchiere di whisky, Adelaide Gigli, l’artista argentina che aveva vissuto due esili sulla propria pelle e alla quale la dittatura militare aveva portato via due figli poco più che ventenni, i suoi due unici figli.
Conoscevo un po’ la sua storia prima di incontrarla, perché era stata una delle fondatrici della rivista Contorno di Buenos Aires. Era nata a Recanati nel 1927. Suo padre, il pittore Lorenzo Gigli, dopo aver partecipato a due edizioni della Biennale di Venezia, nel 1930 aveva deciso di emigrare in Argentina con la sua famiglia. Non voleva vivere sotto il fascismo e così aveva deciso di partire, senza immaginare che trentasei anni dopo avrebbe trovato un’altra dittatura, per certi aspetti peggiore della prima. Negli anni Cinquanta Adelaide aveva frequentato la facoltà di Filosofia e lettere di Buenos Aires e nel novembre del 1953 aveva creato, insieme al marito David Viñas e ad altri noti intellettuali (quali Juan José Sebreli, Oscar Masotta, Ismael Viñas, ecc.) il gruppo culturale che aveva dato vita alla rivista Contorno, punto di riferimento essenziale della letteratura argentina di quell’epoca. Questo gruppo, in cui lei era l’unica donna a farne parte, era il referente intellettuale che si opponeva alla rivista Sur (vincolata alla figura di Borges e Silvina Ocampo) e riapriva la tensione tra letteratura e società; inoltre, raccoglieva l’influenza di Sartre e il suo velato avvicinamento al peronismo. Parallelamente ai suoi interessi intellettuali, Adelaide Gigli coltivava la passione per la ceramica; aveva creato un proprio laboratorio e veniva partecipando a diverse esposizioni. Ma dopo il fatale colpo di Stato del 1976 da parte della giunta militare, capeggiata dal generale Videla, la vita di Adelaide Gigli venne segnata da una delle vicende più drammatiche della storia argentina. I figli, María Adelaide soprannominata Mini e Lorenzo Viñas Gigli, furono entrambi considerati desaparecidos, rispettivamente nel 1978 e nel 1981.
Dunque, per mezzo secolo aveva vissuto a Buenos Aires e nel 1977 era tornata in esilio, paradossalmente, nella città che l’aveva vista nascere. «Mi mancano i luoghi dove non sono stata felice, / quelli che non ho voluto amare, / dove sono invecchiata, scappando», aveva scritto in una poesia del 1973, nel suo impulsivo spagnolo, senza sapere, o forse intuendo, che il suo destino sarebbe stato marcato da quella tragica e feroce vicenda. Dunque lasciò l’Argentina nel 1977 e tornò a Recanati, con il bisogno di…

Adrian N. Bravi è uno scrittore argentino che vive in Italia e scrive in italiano. Per Exòrma è uscito L’idioma di Casilda Moreira. Il libro sarà presentato a Bookpride, Milano, il 16 marzo e il 17 marzo a Libri come, Roma.

L’articolo di Adrian Bravi prosegue su Left in edicola da venerdì 1 marzo 2019


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Quell’asse tra populisti ed élite pro-austerity

Questi trenta anni che vanno dal 1989 ad oggi hanno cambiato, sconvolto l’Europa, come se ci fosse stata una lunga guerra. E in effetti una lunga guerra c’è stata: quella del neo-liberalismo contro il modello sociale europeo, il compromesso sociale più avanzato. Una guerra che continua e che vede scendere in campo nuovi spettri reazionari.
Lo scenario è quello delle prossime elezioni europee, che, probabilmente, vedrà un arretramento delle forze politiche che congiuntamente hanno dominato negli scorsi vent’anni il Parlamento europeo dettandone l’agenda. Popolari e Socialdemocratici, entrambi a guida tedesca, infatti non potranno contare, per la prima volta, su una maggioranza assoluta. Certo non sarà la fine delle politiche di austerità e l’appoggio del gruppo dei liberali (Alde) offrirà ancora loro la possibilità di perseverare, ma certo il tema del rapporto con le destre populiste è all’ordine del giorno.
Lo sfondo, come dicevamo, è quello che potremmo chiamare la “guerra dei Trent’anni”. Se le guerre spesso, e purtroppo, sono servite a cambiare i rapporti di forza e gli equilibri economici e geopolitici, possiamo pensare che una guerra guerreggiata è stata sì evitata, come rivendicano i cantori di questa “Europa reale”, ma perché effetti molto simili sono stati ottenuti attraverso un’altra forma di guerra e cioè quella di classe rovesciata, per citare Luciano Gallino.
I dati demografici che raccontano i mutamenti epocali intervenuti in Europa in questo trentennio sono impressionanti, ed assomigliano a quelli causati da un conflitto. La crescita demografica sostanzialmente si arresta in gran parte d’Europa restando confinata nelle aree nordiche più ricche. Ci sono intere aree dell’Est ma anche del Sud dove c’è uno spopolamento, frutto di fattori combinati quali la riduzione della natalità, della aspettativa di vita e l’aumento della emigrazione.
Ma, nei Paesi dell’Est e in particolare nell’area di Visegrad, si sta irrobustendo una risposta popolare a questi fenomeni. Nuovi movimenti sono scoppiati in Ungheria e stanno unendo lavoratori, studenti e intellettuali. Questo in una zona dove invece c’è un significativo connubio tra movimenti di destra, nazionalismi xenofobi, nostalgie reazionarie e “moderni” differenzialismi con i populismi al governo che arrivano fino al cuore del Partito popolare europeo, di cui ad esempio Orbán è un membro.
Mentre, nel Sud Europa, spicca in questo momento l’aggravarsi della situazione spagnola dove…

Transform Europe! la fondazione politica del Partito della Sinistra europea, promuove l’incontro che si svolgerà a Torino il 9 e 10 marzo dal titolo “La sinistra al tempo del populismo”.

L’articolo di Roberto Morea e Roberto Musacchio prosegue su Left in edicola da venerdì 1 marzo 2019


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Social in camicia nera, il dopolavoro dei razzisti

Migranti da «ammazzare tutti» compresi «donne e minori» perché anche questi ultimi sono pericolosi dato che «sono soggetti che poi formano le baby gang». Il sindaco Orlando «da denunciare e condannare», mentre De Magistris da mandare direttamente «nel forno». E poi, ancora, odio contro i magistrati che hanno osato chiedere un processo per Matteo Salvini; odio verso Gino Strada, l’Anpi, Laura Boldrini, solo per citare i più drammaticamente gettonati. Il mondo social della galassia nera si muove sottotraccia, in gran segreto. Al suo interno però si dà libero sfogo a odio, razzismo incontrollato, nei confronti di chi è ritenuto diverso e, solo per questo, pericoloso. A essere difeso a spada tratta, invece, lui: Matteo Salvini. Unico eroe per il quale si rincorrono i più classici degli hashtag (#nonmollare, #miocapitano e via dicendo). Un’indagine degli anni scorsi del periodico online dell’Anpi Patria indipendente, ha rivelato che sono oltre 4mila le pagine facebook neofasciste, neonaziste, razziste, per un totale di milioni di “mi piace”. «Ma nella modalità dei gruppi segreti – spiega Carla Nespolo, presidente nazionale dell’Anpi – non ci sono più remore di alcun tipo». Left è riuscito a entrare in questo mondo segreto, e quello che abbiamo scoperto lascia senza fiato. A cominciare dalla valanga di gruppi chiusi. C’è chi rivaluta la storia del fascismo, come il gruppo Le guerre degli italiani i cui iscritti ritengono sia in atto una nuova «invasione della Nostra Nazione» ad opera di «orde di profittatori, scansafatiche e malavitosi, che vengono in Italia a non far niente». In ognuno di questi gruppi, gli iscritti si danno del «camerata», si salutano con il classico «a noi», pubblicano rime e motivetti come «Cuore nero batte fiero», si augurano una «buona giornata fascista». Gli stessi gruppi hanno nomi evocativi: Per l’onore d’Italia, Amici a cui piace Avanguardia Nazionale, Ultima Legione, Movimento nazionalista, Destra federale, Fronte nazionale italiano. Ma la rete è ancora più vasta. Gli stessi iscritti, e spesso anche i medesimi post xenofobi e incitanti alla violenza, si ritrovano anche in…

L’articolo è tratto dal numero di Left in edicola


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Se un ministro dichiara guerra al patrimonio d’arte

l’anfiteatro Alba Fucens a pochi chilometri da Massa d’Albe nell’aquilano

Da quattro anni e mezzo assistiamo a una narrazione – più martellante nei primi tempi, più cauta nell’ultimo anno – intorno a una rivoluzione profonda avvenuta nel sistema della tutela, della gestione e della messa in valore del patrimonio culturale italiano. Il pubblico che non ha dimestichezza professionale con la storia dell’arte e l’archeologia, non fa ricerche d’archivio e non si occupa di restauro dei monumenti, avrà probabilmente inteso che parecchi grandi musei italiani sono diventati autonomi, hanno molti più visitatori e funzionano come mai s’era visto prima. Ma il resto funziona? I palati un poco più fini avranno inteso che quegli uffici territoriali noti come soprintendenze e tanto invisi a un giovane premier di Rignano sull’Arno non si occupano più ciascuno di una particolare tipologia di beni, ma di tutti quanti insieme (e per questo si chiamano «Archeologia Belle Arti e Paesaggio»). Ora la soprintendenza è unica ed è guidata da un dirigente che può essere architetto, storico dell’arte, archeologo, ma anche un amministrativo.
Se la soglia di attenzione è più alta, ci si può rendere conto che i musei statali non autonomi dipendono ora dai poli museali, che hanno dimensione regionale indipendentemente dalla dimensione effettiva del patrimonio: così quelli di Lazio e Toscana comprendono decine di siti e musei, laddove i luoghi di Lombardia e Liguria si contano sulle dita di una mano. Infine, molti tra gli stessi addetti ai lavori ancora non afferrano le funzioni di nuovi uffici di coordinamento, denominati segretariati regionali.
Quella narrazione parla quasi soltanto dei musei, lasciando il resto in ombra. In genere ci vogliono delle catastrofi, come il terremoto del 2016 in Italia centrale, perché sia la base sia i vertici della nazione si rendano conto che il patrimonio artistico italiano è letteralmente impastato col suolo patrio, e che la tutela di tale impasto richiede energie competenti e mirate. In questi frangenti si scopre molto spesso che l’armata della tutela non ha sul campo che poche truppe e ancor meno ufficiali – magari bravissimi ma demotivati e malpagati – mentre quasi tutti gli ufficiali che servirebbero sono finiti nei musei. Nell’autunno del 2016, ad occuparsi del patrimonio devastato dal sisma nelle Marche, c’era un solo funzionario storico dell’arte in tutta la Regione. E non è che da allora la situazione sia granché migliorata. Se la mancanza di personale è un dato quasi cronico, ad accentuarla è una distribuzione fortemente squilibrata, per non dire schizofrenica.
La struttura della tutela territoriale, un modello tutto italiano capace di imporsi al mondo come un paradigma, era certo in sofferenza già prima della riforma legata al nome di Dario Franceschini, ma dopo la riorganizzazione degli uffici ne è uscita con le ossa frantumate. Perché il personale di musei autonomi, poli e segretariati viene in misura larga proprio dalle soprintendenze di ieri, col risultato che in quelle di oggi i diversi profili appaiono letteralmente decimati. All’emorragia di personale si è tentato di porre rimedio con un reclutamento concorsuale apprezzabile – i 500 funzionari del concorsone Franceschini più le 3.500 unità garantite dal ministro in carica, Alberto Bonisoli, fino al 2021 – che peraltro non copre il fabbisogno ma rischia addirittura di creare nuovi squilibri. Ogni archeologo, storico dell’arte, restauratore non può funzionare se non è sostenuto da amministrativi e da figure non direttive che sviluppino il suo lavoro e lo mettano in condizione di lavorare al meglio. Il funzionario avrebbe anche bisogno di strumenti di lavoro che sono anche fondamentali depositi di conoscenza, a cominciare dagli archivi cartacei e fotografici. Ma il piano di accorpamenti e smembramenti non ha tenuto conto che tutti questi uffici avevano degli archivi che non potevano essere divisi e/o trasferiti, pena l’impossibilità stessa di lavorare. Con la forte burocratizzazione del lavoro di soprintendenza, cresciuta ulteriormente negli ultimi anni, accade invece che il funzionario tecnico tenda a diventare un amministrativo, perdendo gradualmente specificità professionale, appiattendosi in una zona grigia in cui ogni profilo può risultare indistinguibile l’uno dall’altro, e sostanzialmente intercambiabile. Per cui la funzione, poniamo, di uno storico dell’arte può essere svolta da un architetto, un archeologo, un comunicatore o magari un economo. Il passo successivo è quello di vedere un direttore amministrativo a capo di un museo, di un archivio, di una biblioteca. E poi di un ufficio dirigenziale. E magari con efficacia, se proprio una fisionomia amministrativa gli viene richiesta.
A capo di una soprintendenza mista, la sua neutralità potrebbe anzi armonizzare le anime diverse di architetti, archeologi, storici dell’arte. Ma costui saprebbe di che cosa si occupa? Può davvero tutelare il patrimonio culturale più importante del pianeta se non ne conosce le forme nel tempo? Uno svilimento delle competenze professionali che trascolora dall’esautoramento al dileggio è in corso ormai da tempo, con ricadute che possono risultare devastanti sulla stessa formazione. Proprio la storia dell’arte appare ulteriormente indebolita dalla dispersione dei pochi tecnici, minimamente avvicendati dal concorso dei 500: tanto da far pensare a una marginalità non intenzionale, e comunque figlia di ondate antistoriciste che ammorbano la vita politica e sociale del nostro tempo. Un fenomeno che sta cambiando il nostro modo di guardare, studiare e vivere il patrimonio e che nondimeno è stato molto sottovalutato, a cominciare dagli stessi praticanti della disciplina. In questa luce (cioè in questa tenebra), della storia non devono occuparsi gli storici, anche perché la storia ha perduto la sua centralità.
Proprio la commissione istituita dal ministro Bonisoli per avviare la prima fase di un processo di riforma del Mibac sembra già confermare questo orientamento: «La più tecnica possibile», l’ha definita lo stesso Bonisoli. «È una sorta di laboratorio di analisi. Inutile avere medici esperti di una patologia se prima non si capisce qual è questa patologia. È per questo che ho voluto dei “tecnici di laboratorio”. Sono loro che faranno la “risonanza magnetica”, l’analisi del sangue». Il ministro ha un’idea di tecnica che non coincide con quella dei tecnici, perché la commissione è composta da giuristi e dirigenti amministrativi. Che possono verificare norme e processi, certo: ma applicati a cose di cui nessuno di loro ha esperienza diretta, perché nessuno di loro ha mai riordinato un archivio, compiuto uno scavo o restaurato un dipinto.
Dunque non possono davvero conoscere la risonanza magnetica né il sangue. La commissione deve consegnare i suoi risultati ai primi di marzo. Poi si avvierà una seconda fase, che dovrebbe comprendere anche un più largo ascolto di tutte le parti in causa, compresi i tecnici veri. Ma la partenza sembra quasi porsi in continuità con la riforma Franceschini, che pure era stata partorita da menti non propriamente esperte del lavoro quotidiano di una soprintendenza. Vien quasi da pensare che la tutela territoriale, già in forte crisi di risorse, sia ulteriormente scomparsa dalle agende governative quattro anni fa, e continui a non essere pervenuta. Ma chi si occuperà delle opere d’arte che non stanno nei musei, ovvero di quelle che non stanno nei musei di fascia alta? A questo modello di Stato culturale – mai discusso davvero con chi la cultura la fa e la difende – interessa ancora difendere il patrimonio? Il 20 febbraio Alberto Bonisoli ha dichiarato la volontà di proporre alla Conferenza episcopale italiana un «tavolo di confronto permanente sui beni culturali ecclesiastici», partendo dal principio che «è necessario pensare alla tutela del patrimonio culturale italiano come unicum, indipendentemente da chi ne sia direttamente responsabile». Nell’attesa di verificare come sarà articolato questo dialogo, va rilevato che un confronto tra Stato e Chiesa è implicito nelle leggi vigenti, nelle prassi di tutela, nei protocolli metodologici condivisi. Ma lo Stato, in quanto competente per legge sulla tutela, dovrebbe dettare una linea politica e scientifica che è possibile solo attraverso uffici forti e strutturati.
Lasciare alle diocesi la gestione del patrimonio terremotato, come hanno fatto i governi Renzi, Gentiloni e Conte, significa sottoscrivere una professione di impotenza che vale come la resa di uno Stato che rinuncia a tutelare il patrimonio sul territorio. Le annunciate devoluzioni di competenze alle Regioni, con Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna a far da apripista, rischiano di avviare una deriva che potrebbe coinvolgere proprio i beni culturali: in una prima fase il quadro sarà parcellizzato e disomogeneo, ma potrebbe davvero segnare il decentramento generale di forme di tutela che invece richiedono energie fortemente centralizzate. Siccome il patrimonio è la spina dorsale della nazione, e dunque nessun atto politico – riguardi esso il lavoro o l’immigrazione, le opere pubbliche o la sicurezza – può eluderne la coscienza critica e civile, non solo è doveroso capire dove quella riforma ci abbia portato, ma anche e ancor più lavorare a un percorso di crescita e di sviluppo della nostra cultura patrimoniale coinvolgendo tutte le parti in causa ma privilegiando proprio la competenza tecnica. Bisogna ritornare dunque a discutere delle soprintendenze e del loro lavoro fondamentale e negletto. Per capire come si sono ridotte, e se ancora servono al Paese. Ma bisogna farlo in una prospettiva larga e condivisa, in cui i tecnici ministeriali e quelli universitari escano dal silenzio e riprendano a parlare tra loro e con la politica. O, meglio: a fare la politica.

Fulvio Cervini, docente di Storia dell’arte all’università di Firenze il 5 marzo a Roma partecipa insieme ad altri colleghi ed esperti di beni culturali alla tavola rotonda “Soprintendenze uniche e musei 2014-2019, prime riflessioni”. Introduce Rita Paris presidente dell’associazione Ranuccio Bianchi Bandinelli. 

L’articolo è stato pubblicato nel numero di Left del 1 marzo 2019 


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La scuola regionalizzata è un attacco alla democrazia

Italy, Rome:A student carries signs with the face of Italy's Minister of Interior Matteo Salvini during a protest for the right to study in Rome, Italy, on February 22, 2019. Thousands of students took to the streets in Italy against financial cuts and the new baccalaureate exam.At the head of the procession dozens of signs with the faces of Salvini, Di Maio, Bussetti and Renzi with the message 'Rejected'!. (Photo by Christian Minelli/NurPhoto via Getty Images)

Alla fine la vera opposizione all’autonomia differenziata, alle Regioni che vogliono prendersi tutto, compresa la scuola, la stanno realizzando proprio loro, gli insegnanti. Tutti, dal Nord al Sud. E chissà che non c’entri anche questo, nella decisione di far slittare l’intesa governo-Regioni, visto che il M5s alle ultime elezioni politiche aveva trovato un bacino di elettori proprio tra gli insegnanti. Non si era mai vista una unità così massiccia di tutte le sigle sindacali, associazioni, reti degli studenti. Mai, nemmeno ai tempi della battaglia contro la Buona scuola, nel maggio 2015. Basti pensare che contro la regionalizzazione della scuola hanno redatto un documento unitario sindacati che vanno dalla Cisl ai Cobas, associazioni professionali come Cdi, Mce, l’associazione per la scuola della Repubblica, il Gruppo No Invalsi, gli autoconvocati della scuola, i comitati Lip scuola e i movimenti degli studenti: una trentina di sigle sotto l’hashtag #RestiamoUniti. Se tutto il mondo della scuola si è mosso all’unisono e gli studenti hanno fatto della regionalizzazione uno dei bersagli delle proteste del 22 febbraio – insieme al nuovo esame di Stato – significa che l’attacco portato all’istruzione pubblica è di proporzioni gigantesche. «La scuola non è un semplice servizio – sottolineano i firmatari dell’appello unitario – ma una funzione primaria garantita dallo Stato a tutti i cittadini», al di là del reddito e naturalmente al di là della regione dove vivono. L’istruzione, ricordiamo, è una delle materie – secondo l’articolo 117 della Costituzione riformata nel 2001 – che Veneto e Lombardia chiedono di gestire in toto, mentre l’Emilia Romagna si è ritagliata una fetta più esigua, quella dell’istruzione professionale. Lo scenario che si prospetta, almeno dalle bozze delle intese governo-Regioni – rese note da Roars l’11 febbraio – è quello di un controllo generale sul sistema scolastico, come si deduce leggendo l’articolo 10 “Competenze in materia di istruzione” della bozza d’intesa del Veneto (sovrapponibile a quella della Lombardia). Alla Regione spetta «la potestà legislativa» su finalità, funzioni, organizzazione del sistema educativo di istruzione e formazione regionale, compresi il sistema di valutazione e naturalmente i percorsi di alternanza scuola-lavoro e l’istruzione professionale. E nell’articolo 11 si spiega come. Semplice: vengono trasferite alla Regione…

L’articolo di Donatella Coccoli prosegue su Left in edicola da venerdì 1 marzo 2019


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Devolution non vuol dire diritto alla salute

Un momento della protesta dei giovani medici in Piazza Montecitorio che rivendicano il loro diritto di accedere alla specializzazione, Roma, 2 Aprile 2014. ANSA/ UFFICIO STAMPA +++ NO SALES, EDITORIAL USE ONLY +++

Un milione e mezzo di professionisti sanitari dicono “no” al regionalismo differenziato. Per la prima volta in Italia, il 23 febbraio tutti gli ordini professionali del mondo della salute si sono alleati, per difendere «l’unitarietà del Servizio sanitario nazionale», minacciata dalle richieste di autonomia delle Regioni ora sul tavolo del governo. Un grido di allarme contro la “secessione della sanità dei ricchi” che si unisce a quello, convinto, della Cgil. Come ribadito dal segretario Landini in questi giorni: «Quest’idea di dividere il Paese, più di quanto non lo sia già, è sbagliata. Il problema non è che ognuno deve tenere le tasse sul proprio territorio ma bisogna far pagare le tasse a quelli che non le pagano e tenerle sul territorio non significa combattere l’evasione fiscale».
E, mentre l’opposizione in Parlamento balbetta, e slitta ancora la trattativa sulle proposte di autonomia di Veneto, Lombardia ed Emilia, dal canto suo il ministro della Salute Grillo ribadisce che, fermi restando i principi di solidarietà e di coesione nazionale, «siamo favorevoli ai processi di attuazione dell’autonomia differenziata».
E anche alla differenziazione degli stipendi dei medici. «Non mi vedrete mai schierata contro forme di valorizzazione della professionalità dei nostri medici – ha ribadito al Messaggero -. Se alcune Regioni possono gratificare meglio la grande professionalità dei nostri medici le altre dovranno prendere esempio, combattendo sprechi e inefficienze per investire sui servizi e sul capitale umano». Insomma, anche dal dicastero pentastellato – lungi dall’opporsi alle insistenze di Lega e buona parte del Pd – arriva un timido semaforo verde.
«Certo – ci spiega Andrea Filippi, segretario nazionale Fp Cgil medici – la regionalizzazione può avere due strade. Quella organizzativa, legittima, per adattare le risorse alle specificità locali, calcolando gli standard e i fabbisogni del mio territorio. Oppure quella che portano avanti le regioni del Nord, ma anche l’Emilia, richiesta a causa di un aumento dei bisogni …

L’intervista di Leonardo Filippi ad Andrea Filippi prosegue su Left in edicola da venerdì 1 marzo 2019


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Il gregge fascista sta avanzando

TOPSHOT - A woman walks past a painting of US President Donald Trump in Caracas on January 29, 2019. - Venezuelan President Nicolas Maduro moved Tuesday to try to check the growing clout of opposition rival Juan Guaido as the United States tightened its stranglehold on the leftist regime's main source of revenues. (Photo by Juan BARRETO / AFP) (Photo credit should read JUAN BARRETO/AFP/Getty Images)

«Il fascismo non morirà con Mussolini» disse il presidente Truman ai rappresentanti delle neonate Nazioni unite due mesi dopo la resa della Germania. «Hitler è finito, ma i semi sparsi dalla sua mente disturbata hanno attecchito in troppi cervelli esaltati. Spodestare un tiranno e distruggere un campo di concentramento è cosa più semplice dell’uccidere le idee che li hanno concepiti».
Ed è questo ancora oggi un grido di allarme che Madeleine Albright, già segretario di Stato a Washington negli anni di Bill Clinton, nata a Praga nel 1937 e ancora professoressa alla John Hopkins, ha coltivato durante la sua lunga vita di bambina ebrea scampata all’Olocausto, e che ora ha deciso di raccontare in un libro di memorie e di analisi storica. Si chiama Fascismo e ha un sottotitolo che spiega già tutto: “Un avvertimento” (Chiarelettere).
Anche lei, come Truman, ha avuto modo di riflettere sulle insidie del fascismo dagli anni Venti alla guerra: come si affermò, quali erano le sue radici. E, soprattutto, ha potuto analizzarlo attraverso i vari fermenti e le molte dittature del secolo breve: una esperienza, la sua, diretta assolutamente preziosa, fino alla conoscenza degli ultimi dittatori, fino a Putin e soprattutto, fino a Trump. «L’ombra che incombe su queste pagine è ovviamente quella di Donald Trump, il primo presidente antidemocratico nella storia moderna degli Stati Uniti. Troppe volte, dalle prime ore in cui ha messo piede nello studio ovale, ha ostentato disprezzo per le istituzioni democratiche, gli ideali di uguaglianza e giustizia sociale… i leader di tutto il mondo osservano, prendono esempio… seguono gli uni le orme degli altri, come fece Hitler con Mussolini; e oggi il gregge sta avanzando verso il fascismo».
Un avvertimento, dunque, non campato per aria e per nulla inficiato dal suo esser stata una donna dell’establishment democratico, compartecipe di scelte criticabili della diplomazia americana. «Ad alcuni lettori questo libro e il suo titolo potranno apparire allarmistici. Trovo che sia un bene. Dobbiamo restare vigili di fronte all’attacco ai valori democratici che è in atto in molti Paesi e sta dividendo l’America. La tentazione di chiudere gli occhi e aspettare che il peggio passi è forte, ma la storia ci insegna che per salvaguardare la libertà bisogna difenderla e per fermare le bugie bisogna smascherarle».
In fuga dalla Cecoslovacchia verso Londra dopo l’invasione tedesca del ’39. È lì che nell’aprile del ’42…

L’articolo di Sandra Bonsanti prosegue su Left in edicola da venerdì 1 marzo 2019


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L’umanità nello sguardo e sulla tela di Velàzquez

Velazquez, Diego (1599-1660): Las Meninas (The Maids of Honor), 1656. Madrid, Prado *** Permission for usage must be provided in writing from Scala. ***

Tomaso Montanari non è solo uno dei maggiori esperti della pittura del Seicento oggi in Italia ma è anche un appassionato divulgatore – in incontri pubblici e in tv – capace di fondere impegno civile, lettura attenta della storia, dell’opera d’arte e del contesto in cui è nata.

Lo abbiamo visto anche nella recente serie tv su Rai 5 dedicata alla pittura di Vermeer, dove una raffinata e approfondita lettura delle opere non era disgiunta dall’indagine sulle dinamiche sociali che attraversavano il Seicento olandese.

Il viaggio nei luoghi del pittore (Delft in primis) e della sua formazione (di cui poco sappiamo) nella trasmissione Il silenzio di Vermeer non trascurava mai ciò che in quegli stessi luoghi sarebbe successo molti secoli dopo. Impossibile non ricordare Anne Frank davanti alla sua casa ad Amsterdam.

Un nesso stringente tra arte, città e vicende politiche, fra passato e presente, coraggiosamente ritorna in questo nuova serie di Montanari su Rai 5 diretta da Luca Criscenti e dedicata a un maestro assoluto della pittura spagnola del Seicento come Diego Velàzquez (1599-1660), a cui lo storico dell’arte fiorentino una decina di anni fa ha dedicato una bella monografia, che all’epoca uscì fra gli allegati de Il Sole 24 Ore e che ora torna in libreria nella collana Einaudi con il titolo Velàzquez e il ritratto barocco. Con stile narrativo ed efficace in questo volume Montanari affresca la straordinaria personalità di Velàzquez, artista dalla visione libera, laica e profonda (anche quando divenne pittore di corte), straordinario ritrattista capace di cogliere l’individualità e l’umanità dei soggetti rappresentati, al di là e a prescindere dal rango, dall’abito, dalle circostanze. Se nei ritratti di Filippo IV Diego Velàzquez ci fa scorgere sotto l’armatura un uomo solo, malinconico, imprigionato nel proprio destino, ancor più impressionante, fa notare Montanari, è ciò che l’artista riesce a illuminare sulla tela dell’animo violento di papa Innocenzo X, uomo temutissimo e brutale, nel ritratto avvolto in fiammeggiante rosso che diventerà angoscioso viola nella versione ghignante che nel 1953 ne fece Francis Bacon.

Dicevamo appunto della capacità di Tomaso Montanari di suggerire nessi e letture inedite lungo la diacronia, ma anche di suggerire analogie evitando le scorciatoie dell’attualizzazione.

Sotto questo riguardo il programma televisivo Velàzquez. L’ombra della vita contiene passaggi paradigmatici come quello, incisivo e pungente, che il critico e storico dell’arte dedica alla cacciata dei Mori dalla Spagna.

A ben vedere fu una espulsione in massa, con una violenta campagna ideologica, al grido “prima gli spagnoli”, nonostante la cultura araba già allora innervasse l’identità spagnola. In questo contesto storico ancor più straordinario appare il ritratto che Velàzquez fece a Juan de Pareja, il servo con il quale fece il viaggio in Italia, per anni suo aiuto in bottega, al quale aveva vietato di dipingere.

Proprio a Roma, ricostruisce Montanari, fu ritrovato il documento autografo con cui l’artista spagnolo restituiva a Juan la sua libertà.

Macinando i colori e seguendo il lavoro del grande pittore, Juan de Pareja aveva sviluppato un proprio talento, ma all’epoca in cui Diego Velàzquez lo ritrasse era ancora un suo servo, con l’abito liso da lavoro, ma lo sguardo vivo e penetrante. L’identità e la presenza di Juan come essere umano sono rappresentati in quest’opera, a tutto tondo.

Seduto davanti al quadro al Metropolitan museum di New York, nella seconda puntata tv Montanari invita a confrontare questo ritratto con quello attiguo del cardinale Camillo Astalli-Pamphili (1650): sguardo vacuo, espressione fatua, presenza effimera. Non bastano i ricchi paramenti a coprire la pochezza umana del personaggio che Velàzquez rivela impietosamente, con un colpo da maestro.

L’articolo di Simona Maggiorelli è tratto da Left del 22 febbraio 2019


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“Uncut”, immagini di donne in lotta contro le mutilazioni genitali femminili

Trentacinque immagini a colori e in bianco e nero, un cortometraggio e un web documentario per raccontare la tenacia delle donne di tre Paesi africani nella ribellione alla logica patriarcale delle mutilazioni genitali femminili. E’ Uncut, una mostra vincitrice di numerosi premi internazionali – tra cui il Premio per il miglior cortometraggio di documentario al 14esimo Festival de cine y derechos humanos di Barcellona, il Premio per il miglior documentario al 19esimo Genova Film Festival, Sony World Photography Awards e altri ancora – e che sarà esposta, dall’8 marzo prossimo a Roma, nei locali dell’Ex Mattatoio, che rompe gli stereotipi massificanti sulle culture di quei Paesi in cui vige questa pratica. “Da decenni, infatti, le donne di quegli Stati stanno portando avanti una battaglia per affrancarsi dalla consuetudine delle mutilazioni genitali”, dice a Left, Valentina Pescetti, dell’associazione Differenza Donna, coordinatrice del Progetto Before, nell’ambito del quale è inserita la mostra.
“E’ per dimostrare loro la solidarietà di tutte le donne – continua Pescetti – e per rafforzare il loro ruolo nella lotta contro le mutilazioni genitali che è nato il progetto”, cofinanziato dall’Unione europea, oltre che per promuovere un profondo cambiamento politico e culturale e potenziare la capacità di risposta da parte delle istituzioni in Italia, Francia e Belgio. “Non vogliamo sostituirci alle istituzioni pubbliche ma avanziamo proposte affinché la legge numero 7 del 2006, che considera reato questa pratica dolorosa e irreversibile, venga applicata adeguatamente”, continua Pescetti. E non solo in senso meramente punitivo (e scoraggiante) ma nella direzione della prevenzione sul cui versante la legge deve essere applicata in modo strutturato, trasparente, permanente. Coinvolgendo anche i centri antiviolenza che “sono e devono essere riconosciuti come strategici per la prevenzione e per la loro funzione di accompagnamento delle donne che hanno subìto la mutilazione – o che vogliono salvare le loro figlie – nella rivendicazione dell’applicazione della legge”, prosegue.
Bisogna che l’approccio cambi e che gli interventi siano effettuati “insieme alle donne e non al loro posto affinché dell’esistenza dei loro diritti siano consapevoli non solo sulla carta”, aggiunge Valentina Pescetti. E sebbene in Italia siano stimate circa ottantamila donne vittime delle mutilazioni dei genitali femminili e che, solo a Roma, le bambine che provengono dai sette Paesi a maggior rischio nel mondo siano almeno cinquecento, “le istituzioni – ammonisce Pescetti – omettono interventi di sensibilizzazione e di formazione, soprattutto in ambiti quali la sanità, le scuole e gli enti che lavorano con persone migranti, trascurando il fatto, anche, che il 52 per cento di queste, nel Belpaese, sia di genere femminile”.
Per un cambiamento radicale “i centri antiviolenza vogliono poter contribuire a migliorare la capacità di risposta e tutela dei diritti da parte delle istituzioni, offrendo il sapere e l’approccio femminista e di sinistra, ovvero le competenze maturate sul campo del contrasto alla violenza contro le donne, lavorando insieme alle donne, su un piano di parità, di laicità, di rispetto e di riconoscimento dei diritti”, chiosa Valentina Pescetti. Perché la legge c’è. Il numero verde (800 300 558) pure, ma non è attivo da anni. Così, da un anno, Differenza Donna ha attivato un telefono – 349 4393267 – per offrire sostegno, informazioni, tutela legale e accompagnamento per l’accesso alle cure sanitarie. E che, certamente, non squillerà invano.

Uncut è un progetto di Emanuela Zuccalà, fotografie di Simona Ghizzoni, video di Emanuela Zuccalà e Simona Ghizzoni.