Fa freddo a Sesto San Giovanni, il clima di gennaio è ostile e invita a stare in casa il più possibile. Quando è necessario però i sestesi si mettono il cappotto e scendono in piazza, e così faranno oggi, venerdì 18 gennaio, in quella della Resistenza, dando vita dalle 16 a un presidio contro il meeting di CasaPound dal titolo “Nessuna Europa è possibile se non ci liberiamo dell’Unione Europea”, in programma lo stesso giorno nella sala comunale Spazio Arte. «Appena saputo della richiesta di CasaPound Milano di uno spazio pubblico abbiamo invitato la giunta di centro destra a rispondere negativamente ma ciò non è avvenuto, quindi ci siamo mossi su altri fronti perché non possiamo tollerare che questo paese, Medaglia d’oro al Valor militare della Resistenza, apra le porte a una realtà le cui idee si ispirino dichiaratamente al fascismo», spiega Mari Pagani del Comitato Antifascista di Sesto San Giovanni, promotore insieme a Anpi e Anpc di questa iniziativa che per alcuni momenti ha rischiato, se non proprio di saltare, di subire un forte ridimensionamento e soprattutto lo spostamento di location visto che i permessi tardavano ad arrivare.
Alla fine però la Sesto antifascista ha avuto la meglio e il presidio, al quale parteciperanno anche esponenti locali di Pd e Movimento 5 stelle, si farà nella piazza più importante, dove si erge un monumento ai deportati contenente alcune pietre portate dai sopravvissuti ai campi di concentramento. Sono 570 i deportati originari della cittadina lombarda, quasi tutti prelevati dal complesso di fabbriche di Sesto San Giovanni-Bicocca nel 1944, 233 dei quali non fecero più ritorno a casa. Un numero spaventoso, il più elevato nei campi di concentramento rispetto alla popolazione del tempo.
Proprio per questo l’aria che si respira per le strade è quella di un luogo ferito e offeso da chi della memoria non ha alcun ricordo, o peggio, rispetto, da chi nei comizi reali nelle piazze e in quelli virtuali dei social network difende ancora Benito Mussolini, definendolo il più grande statista d’Italia, difensore di onore e patria. «La scelta di venire a Sesto non è casuale – continua Mari Pagani – gli esponenti di CasaPound conoscono la nostra storia e con questo evento sanno di giocarsi una partita importante perché se riescono a ottenere un buon successo qui possono farlo ovunque».
Non a caso dall’idea iniziale di allestire un semplice convegno sulla figura simbolo della resistenza anti sovietica Jan Palach si è passati a un incontro che verterà su temi ben più ampi e vedrà la presenza di esponenti di spicco, primo tra tutti il segretario nazionale di CasaPound, Simone Di Stefano, oltre agli onorevoli Fabio Boniardi della Lega Nord e Paola Frassinetti di Fratelli d’Italia e al consigliere comunale milanese di Forza Italia, Alessandro De Chirico.
«Adesso abbiamo capito perché la giunta non abbia avuto alcuna difficoltà ad offrire a questa forza di estrema destra uno spazio comunale, vi siedono allo stesso tavolo», si legge in uno dei comunicato del Comitato antifascista, chiaro riferimento al sindaco di Forza Italia, Roberto Di Stefano.
Ma quello di venerdì sarà solo il momento conclusivo di una protesta ben più articolata, arricchitasi in questi giorni di nuovi supporter e altrettante iniziative.
Incontri e letture sul tema dell’antifascismo, propaganda social, raccolta di firme in piazza e una petizione su change.org, nata con l’ambizione di rendere inclusiva e di dominio pubblico una vicenda che altrimenti avrebbe corso il rischio di restare imprigionata in una polemica locale o poco più. Dura una parte del testo che accompagna la richiesta di firme virtuali, ad oggi vicine alle 7000: «CasaPound è un movimento corredato da un’organizzazione mirata della violenza fatta di azioni di guerriglia contro il “diverso”. Chi crede nella democrazia come bene supremo deve manifestare contro coloro che vorrebbero cancellarla e farci tornare indietro verso un passato atroce».
L’appuntamento è lanciato: chiunque, di Sesto San Giovanni o non, voglia dire no a ideologie che nascondono spettri terribili perfino da citare, oggi 18 gennaio potrà farlo con fermezza dalle 16 alle 23 circa, partecipando a quella che sarà soprattutto una festa fatta di canti, balli, esibizioni teatrali e molto altro. Un modo per contrapporsi alla violenza parlando una lingua diversa, quella della cultura, del rispetto, del dialogo e del ricordo. Sempre.
Sesto San Giovanni antifascista dice no a CasaPound nella sala comunale
Adolescenti online, come evitare le trappole della rete

In un arco di tempo relativamente breve stiamo assorbendo un cambiamento epocale riguardante le nostre modalità di comunicare, sia con singole persone o con la collettività, di sperimentare nuovi percorsi intellettuali e acquisire nuove conoscenze. Tutto questo grazie alla rivoluzione digitale che con la creazione di Internet, ha reso disponibile a chiunque l’accesso ad enormi quantità di informazioni e offerto infinite opportunità di comunicazione. Per la prima volta nella storia dei sistemi di comunicazione, da fruitori passivi di carta stampata e palinsesti imposti da un’élite intellettuale e politica, siamo diventati soggetti attivi, produttori di opinioni, di tendenze e mode, spodestando l’auctoritas dei centri riconosciuti di informazione e produzione culturale. Tutti possono immettere in rete notizie esclusive, prodotti artistici, commentari fatti di cronaca, costruire blog e raccogliere consensi più di quanto ne possa raccogliere un giornalista titolato ed esperto presente sulle pagine di un quotidiano cartaceo. Ovviamente proprio per questa smisurata partecipazione di massa nessuno può garantire sulla veridicità di ciò che consultiamo e sempre più è richiesta una specifica intelligenza, una information literacy, per selezionare, comprendere, ordinare e finalizzare le informazioni digitali verso un reale processo di conoscenza. Un grosso equivoco sembra infatti oggi radicarsi sempre più in atteggiamenti culturali e in scelte politiche che nella informatizzazione della società vedono la creazione di nuovi modelli di conoscenza. Gli studi ci dicono che si apprende da internet solo se si conosce già ciò che si sta cercando e assorbire tante informazioni senza una formazione personale, una capacità di riflessione critica può essere controproducente e vanificare le opportunità che la rete può offrire. La conoscenza di base è un processo lento e faticoso, necessita di tempi di assorbimento e lavoro mentale che mal si conciliano con la velocità e la sovra stimolazione sensoriale dei dispositivi digitali. In sostanza se entriamo ignoranti in rete ne usciremo ignoranti e confusi. Sicuramente l’aspetto socialmente più rappresentativo di questa rivoluzione è stata la creazione di piattaforme comunicative di cui Facebook è il dominatore assoluto. Nato nel 2004 come annuario online degli studenti di Harvard si è subito esteso in altre università americane dilagando poi nel mondo come il social network più utilizzato. Nel 2018 gli utenti hanno raggiunto la quota di 2,2 miliardi e in Italia ogni giorno vi accedono 31 milioni di persone. Questa meravigliosa rivoluzione della comunicazione ha però un prezzo che riguarda l’influenza che un sistema introdotto per favorire i sistemi produttivi può avere sulla nostra natura umana. L’ibridizzazione tra esperienze virtuali ed esperienze vissute nel mondo fisico ad es. sta producendo cambiamenti nel nostro modo di percepire ed elaborare la realtà, di esperire il tempo e lo spazio, di vivere la socialità e le relazioni personali. Profondi mutamenti che interessano in particolare le generazioni dei nativi digitali che sin da piccoli vengono abituati a fare esperienza del mondo attraverso lo schermo di un ipad. Gli adulti che hanno fatto fatica ad adattarsi al nuovo sistema rimangono meravigliati osservando le abilità che i bambini mostrano nell’usare questi dispositivi, in realtà dovrebbero chiedersi quale esperienza sia in atto quando con le mani poggiate sulla fredda superficie dello schermo non riescono a toccare oggetti reali ma solo figure piatte. Una cosa sembra certa, non si tratta solo di nuove abitudini mentali di cui ci si può facilmente liberare, ma di un processo che sta modificando le architetture anatomo-funzionali del nostro cervello. Le indagini nel campo delle neuroscienze lo confermano mostrando come nel cervello di chi è esposto all’uso della tecnologia digitale durante il periodo di accrescimento delle strutture nervose le cose funzionino in modo diverso ed è per questo che molti studiosi parlano di una nuova antropologia cognitiva. Un altro aspetto legato alla diffusione degli strumenti digitali come lo smartphone, oggi posseduto da molti giovanissimi, riguarda aspetti personali legati alla vita affettiva, relazionale, emotiva. Si tratta di una tecnologia che ci aiuta certamente nel mantenere attive le nostre relazioni, ma anche di aprire canali di comunicazione con persone mai conosciute e che mai incontreremo, amicizie virtuali o amori a distanza che affollano la bacheca virtuale ma non la vita reale. Tanto più la tecnologia avanza nella nostra vita privata e ci condiziona nei comportamenti e nel pensiero tanto più dovremmo aver chiaro cosa distingue una reale esperienza affettiva ed emozionale da una relazione puramente virtuale.
In un arco di tempo relativamente breve stiamo assorbendo un cambiamento epocale riguardante le nostre modalità di comunicare, sia con singole persone o con la collettività, di sperimentare nuovi percorsi intellettuali e acquisire nuove conoscenze. Tutto questo grazie alla rivoluzione digitale che con la creazione di Internet, ha reso disponibile a chiunque l’accesso ad enormi quantità di informazioni e offerto infinite opportunità di comunicazione. Per la prima volta nella storia dei sistemi di comunicazione, da fruitori passivi di carta stampata e palinsesti imposti da un’élite intellettuale e politica, siamo diventati soggetti attivi, produttori di opinioni, di tendenze e mode, spodestando l’auctoritas dei centri riconosciuti di informazione e produzione culturale. Tutti possono immettere in rete notizie esclusive, prodotti artistici, commentari fatti di cronaca, costruire blog e raccogliere consensi più di quanto ne possa raccogliere un giornalista titolato ed esperto presente sulle pagine di un quotidiano cartaceo. Ovviamente proprio per questa smisurata partecipazione di massa nessuno può garantire sulla veridicità di ciò che consultiamo e sempre più è richiesta una specifica intelligenza, una information literacy, per selezionare, comprendere, ordinare e finalizzare le informazioni digitali verso un reale processo di conoscenza. Un grosso equivoco sembra infatti oggi radicarsi sempre più in atteggiamenti culturali e in scelte politiche che nella informatizzazione della società vedono la creazione di nuovi modelli di conoscenza. Gli studi ci dicono che si apprende da internet solo se si conosce già ciò che si sta cercando e assorbire tante informazioni senza una formazione personale, una capacità di riflessione critica può essere controproducente e vanificare le opportunità che la rete può offrire. La conoscenza di base è un processo lento e faticoso, necessita di tempi di assorbimento e lavoro mentale che mal si conciliano con la velocità e la sovra stimolazione sensoriale dei dispositivi digitali. In sostanza se entriamo ignoranti in rete ne usciremo ignoranti e confusi. Sicuramente l’aspetto socialmente più rappresentativo di questa rivoluzione è stata la creazione di piattaforme comunicative di cui Facebook è il dominatore assoluto. Nato nel 2004 come annuario online degli studenti di Harvard si è subito esteso in altre università americane dilagando poi nel mondo come il social network più utilizzato. Nel 2018 gli utenti hanno raggiunto la quota di 2,2 miliardi e in Italia ogni giorno vi accedono 31 milioni di persone. Questa meravigliosa rivoluzione della comunicazione ha però un prezzo che riguarda l’influenza che un sistema introdotto per favorire i sistemi produttivi può avere sulla nostra natura umana. L’ibridizzazione tra esperienze virtuali ed esperienze vissute nel mondo fisico ad es. sta producendo cambiamenti nel nostro modo di percepire ed elaborare la realtà, di esperire il tempo e lo spazio, di vivere la socialità e le relazioni personali. Profondi mutamenti che interessano in particolare le generazioni dei nativi digitali che sin da piccoli vengono abituati a fare esperienza del mondo attraverso lo schermo di un ipad. Gli adulti che hanno fatto fatica ad adattarsi al nuovo sistema rimangono meravigliati osservando le abilità che i bambini mostrano nell’usare questi dispositivi, in realtà dovrebbero chiedersi quale esperienza sia in atto quando con le mani poggiate sulla fredda superficie dello schermo non riescono a toccare oggetti reali ma solo figure piatte. Una cosa sembra certa, non si tratta solo di nuove abitudini mentali di cui ci si può facilmente liberare, ma di un processo che sta modificando le architetture anatomo-funzionali del nostro cervello. Le indagini nel campo delle neuroscienze lo confermano mostrando come nel cervello di chi è esposto all’uso della tecnologia digitale durante il periodo di accrescimento delle strutture nervose le cose funzionino in modo diverso ed è per questo che molti studiosi parlano di una nuova antropologia cognitiva. Un altro aspetto legato alla diffusione degli strumenti digitali come lo smartphone, oggi posseduto da molti giovanissimi, riguarda aspetti personali legati alla vita affettiva, relazionale, emotiva. Si tratta di una tecnologia che ci aiuta certamente nel mantenere attive le nostre relazioni, ma anche di aprire canali di comunicazione con persone mai conosciute e che mai incontreremo, amicizie virtuali o amori a distanza che affollano la bacheca virtuale ma non la vita reale. Tanto più la tecnologia avanza nella nostra vita privata e ci condiziona nei comportamenti e nel pensiero tanto più dovremmo aver chiaro cosa distingue una reale esperienza affettiva ed emozionale da una relazione puramente virtuale.
Nella esperienza di rapporto umano non possiamo separare gli aspetti cognitivi dalla sensibilità del corpo, dalla dimensione affettiva e pulsionale. Scindere queste realtà può farci sprofondare nella dissociazione mentale di Theodore, il protagonista del film Lei, dove la voce umana femminile simulata di un sistema operativo è in grado di attivare fantasticherie ed emozioni in un corpo che non potrà mai realizzare un reale rapporto umano. Tornare all’umano per comprendere la natura di questo particolare rapporto con la tecnologia sembra oggi ineludibile per comprendere fenomeni che oggi ci preoccupano per la rilevanza sociale e le conseguenze psicopatologiche che possono determinarsi soprattutto in bambini e adolescenti. Dipendenza da internet, sexting, relazioni virtuali, cyberbullismo, sono alcune di queste realtà problematiche che oggi segnano la vita di molti adolescenti. Cosa fare? Imporre regole di comportamento? Adottare misure restrittive come molti genitori sono propensi a fare? Incolpare la tecnologia? Pensiamo che sia arrivato il momento di riflettere tutti insieme sui motivi umani e non tecnologici alla base di comportamenti alterati che dobbiamo pensare come spia di un profondo malessere delle realtà mentali umane coscienti e non coscienti. Su questo filo si muove il lavoro di Assunta Amendola e di Alessandra Maria Monti che insieme a chi scrive sono le autrici del libro in uscita per i tipi dell’Asino d’oro ed. Adolescenti nella rete. Quando il web diventa una trappola.
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“Adolescenti nella rete. Quando il web diventa una trappola” di Assunta Amendola (psicologa dell’età evolutiva e docente di informatica e matematica nei licei), Beniamino Gigli (psicologo clinico, psicoterapeuta) e Alessandra Maria Monti (psicologa clinica e psicoterapeuta), viene presentato venerdì 18 gennaio presso il liceo Artistico “Pablo Picasso” di Anzio (ore 16.30). Insieme agli autori interviene Simona Maggiorelli, direttrice responsabile di Left.
Opposizione a colpi di “fannulloni”

Quindi il governo ha finalmente scritto il decreto che contiene il cosiddetto reddito di cittadinanza. Spetta a chi ha la cittadinanza (o comunque Ue) e a chi risiede con una permanenza almeno decennale sul nostro territorio. Sarà vincolato all’Isee e farà riferimento a chi non oltrepassa la soglia dei 9.360 euro. Si riceverà su una carta ricaricabile a disposizione per gli acquisti (esclusi ad esempio i giochi a premi) oltre a coprire le utenze domestiche. I Centri dell’impiego si occuperanno (speriamo meglio di come facciano ora) dell’inserimento lavorativo mentre durante la giornata i beneficiari avranno il dovere di dedicare tempo a lavori di pubblica utilità in attesa di un’offerta congrua che arriverà nell’arco di 18 mesi. Anche le aziende beneficeranno di uno sgravio fiscale nel caso in cui decidano di assumere qualcuno dei destinatari dell’iniziativa. I controlli saranno affidati a Inps e Guardia di finanza.
Il reddito di cittadinanza (che non è un reddito di cittadinanza vero e proprio) potrà funzionare o meno ma era fin da subito uno dei punti chiave del programma di governo del Movimento 5 Stelle. È anche uno dei punti fondamentali del cosiddetto contratto di governo con la Lega.
Si tratta senza dubbio di un provvedimento di grande portata, ciccia o no. Servivano più soldi? Sì, certo, ma questi sono. Criticarne le modalità però non può permettere di negare che si tratti di una grande manovra di ridistribuzione della ricchezza a favore dei più svantaggiati. In mezzo a loro ci saranno furbi e delinquenti? Certo che sì, ci sono anche nel governo, per dire. Da qui all’accusare i beneficiari come fannulloni però il passo mi sembra molto ardito. L’italia ha un serio problema di povertà. I poveri saranno sempre grati a chi si occupa degli ultimi.
Migliorarlo è lecito. Prendere per il culo i poveri (tutti) personalmente, umilmente, mi pare un pessimo modo per fare un’opposizione che funzioni.
Buon venerdì.
Le relazioni pericolose

Già da settembre scorso, il ministro dell’Interno fra un tweet e l’altro trovava il tempo per partecipare a trasmissioni sportive in cui cominciare a proporre il proprio pensiero da tifoso, rivendicando di avere alle spalle anni di curva. «Incentivi economici, defiscalizzazione, aiuti e contributi per le società che investono nei giovani italiani» chiedeva, senza aver alcun titolo per farlo se non quello del tifoso milanista, preoccupato per la partenza non proprio esaltante della squadra del cuore che però, rispetto alle altre, «faceva giocare più italiani». Nessuno gli ha chiesto se per italiani intendesse anche i nati in Italia da genitori stranieri e poi naturalizzati o quelli che, grazie alle proprie prestazioni sportive, avevano avuto maggiore agevolezza per ottenere la cittadinanza. Riproponendo 20 anni dopo la preoccupazione di Jean Marie Le Pen, rispetto poi alla nazionale, voleva forse assicurare un futuro “bianco” in cui riconoscersi anche dal punto di vista somatico? Avendo sentito a tal proposito mai smentiti esponenti del suo partito preoccupati per la «sostituzione etnica», il dubbio viene. Ma forse partiamo prevenuti. Tanti infatti i tweet (altro che leggi) dedicati alle sportive che in atletica come in pallavolo, pur avendo origini “straniere” portavano in alto “l’italico orgoglio”. Ma questa è un’altra storia. Si trattava infatti solo del primo assaggio. In breve tempo c’è stata una accelerazione che ha portato l’inquilino del Viminale a occupare uno dei pochi spazi giornalistici e radiotelevisivi da cui era rimasto fino ad allora distante, le trasmissioni “sportive”. Non certo da atleta – magari a breve lo vedremo anche in questa di divisa – ma da capitano, da potente veicolo di un messaggio che intercetta lo stadio come centro di uno spazio esteso, in cui imporre un proprio impianto ideologico egemonico. Nessuna teoria complottista ma un semplice susseguirsi di eventi, non certo determinati dal ministro, ma che al suddetto sono serviti per…

L’inchiesta di Stefano Galieni prosegue su Left in edicola dal 18 gennaio 2019
Fischia il vento
Da oltre venti anni, ai primi di luglio, in Emilia si giocano i Mondiali antirazzisti di calcio, un evento sportivo amatoriale non competitivo che si fonda su una formula semplice ma rivoluzionaria (specie di questi tempi): coinvolgere e mettere in contatto tra loro realtà considerate di solito contrastanti e contraddittorie, quella dei gruppi ultrà, spesso etichettati come razzisti, e quella delle comunità di immigrati e delle associazioni impegnate nel volontariato. Nel corso degli anni, i Mondiali – che ora si giocano sui prati di Bosco Albergati – si sono trasformati in un vero e proprio festival multiculturale e in esperienza concreta di lotta contro ogni forma di discriminazione grazie all’impegno della Uisp-Emilia Romagna e di Progetto Ultrà e alla collaborazione dell’Istoreco (Istituto storico per la resistenza) di Reggio Emilia. Una lotta pacifica portata avanti con convinzione da migliaia di persone. Abbiamo visto giocare all’insegna del fair play squadre miste di ragazzi e ragazze, di associazioni attive nell’accoglienza ai migranti, oppure formate solo da bambini saharawi rifugiati, oltre che compagini composte da sole donne italiane e straniere oppure da rifugiati e richiedenti asilo di ogni parte del globo. Abbiamo visto rappresentanti di tifoserie di norma ostili tra loro come Lazio e Marsiglia scambiarsi le magliette, cantare “Bella ciao” e brindare insieme dopo essersi affrontati sotto il sole cocente della Pianura padana.
Le formazioni provenienti da decine di Paesi diversi sono state sempre circa 200. Nel 2018 erano poco più di 130. Come mai? Chi scrive venne a sapere che poco prima dell’inizio del torneo il ministero dell’Interno aveva sollecitato le prefetture a non rilasciare il nulla osta ai richiedenti asilo per allontanarsi dalle strutture in cui erano ospitati. E così almeno una trentina di squadre composte per lo più da profughi avevano dovuto rinunciare all’appuntamento. Salvini si era insediato un mese prima e – forte con i deboli – poco più di un mese dopo segregando 137 profughi sulla nave Diciotti della Guardia costiera avrebbe definitivamente fatto capire in che modo avrebbe gestito la questione immigrazione.
Il 31 agosto, cinque giorni dopo lo sbarco dei migranti nel porto di Catania, su Left anticipammo i contenuti chiave del cosiddetto decreto Sicurezza nel quale il ministro si è accanito contro i diritti dei richiedenti asilo e degli stranieri in possesso del permesso di soggiorno per protezione umanitaria. Poi, in ottobre, c’è stato l’arresto del sindaco Mimmo Lucano e la fine del modello di accoglienza Sprar a Riace e di tutto quello che rappresenta. Almeno per ora.
Tutto questo mi è venuto in mente vedendo nei giorni scorsi le famose foto che ritraggono il responsabile del Viminale insieme al pregiudicato e ultras del Milan Luca Lucci. Stretta di mano e abbraccio tra i due nell’ambito della festa per i cinquant’anni della curva rossonera.
Praticamente uno spot all’insicurezza sociale che ha per protagonista l’uomo che ha giurato sulla Costituzione di “servire lo Stato” garantendo l’ordine e la sicurezza pubblica. Per scoprire a che gioco sta giocando il ministro, che un giorno indossa la sciarpa da ultras e il giorno dopo la divisa da poliziotto, abbiamo chiesto a Stefano Galieni e Saverio Ferrari di aiutarci a ricostruire il contesto in cui si muove Matteo Salvini. Considerando il bacino di voti per la Lega rappresentato dalle tifoserie di destra è oggi lecito chiedersi senza voler demonizzare il tifo né alcuni aspetti della cultura ultrà, cosa possa accadere in prossimità delle elezioni europee in caso di nuovi episodi di razzismo e di antisemitismo come quelli accaduti di recente a Milano, Bologna e Roma: «Si accanirà col manganello contro chi il mese dopo gli porta voti o – come scrive Galieni – durante i match dimenticherà, come spesso gli capita di essere un ministro»? Staremo a vedere. Ma l’Italia che vogliamo raccontare in questo numero non è solo quella lugubre e sguaiata che Salvini vorrebbe plasmare a sua immagine e somiglianza. Scoprirete insieme a noi tutto un mondo, di cui i Mondiali antirazzisti sono uno dei numerosi esempi, che all’insegna dell’integrazione, dell’accoglienza, della collaborazione e della coesione sociale non si arrende al senso di oppressione generato dalle politiche xenofobe e nazionaliste del governo giallonero mettendo in campo proposte e attività di resistenza e rifiuto di ogni forma di discriminazione.
Un ultimo pensiero va a Cecile Kyenge, le cui figlie spesso abbiamo visto lavorare come volontarie ai Mondiali antirazzisti. Il leghista Calderoli è stato condannato in primo grado a un anno e sei mesi dal Tribunale di Bergamo per aver definito l’ex ministra «un orango». I giudici hanno riconosciuto l’aggravante razziale. Esultiamo insieme a lei. Avanti così, forse il vento sta cambiando.

L’editoriale di Federico Tulli è tratto da Left in edicola dal 18 gennaio 2019
La resistibile ascesa dei concerti nazirock

Non c’è più lo spazio. Il teatro della Congregazione delle Sacre stimmate che avrebbe dovuto ospitare il concerto per Jan Palach ha ritirato nella sera del 16 gennaio la propria disponibilità. Il discusso evento in programma sabato 19 gennaio, patrocinato da Comune e Provincia di Verona, viene dedicato al cinquantesimo anniversario di morte del giovane che a Praga si diede fuoco per protestare contro la repressione sovietica.
Sulla locandina del concerto sono riportati i nomi dei gruppi musicali che si esibiranno: Gabriele Marconi, Topi Neri, Hobbit e la Compagnia dell’Anello. Gli ultimi tre sono alcune delle band più seguite nel circuito dell’estrema destra e dei naziskin. Per questo da diverse settimane la manifestazione, organizzata da “Nomos-Terra e identità” è finita nel mirino delle associazioni democratiche scaligere e delle opposizioni.
Per la verità, il panorama musicale dell’estremismo è oggi uno degli elementi che ha agevolato maggiormente il rimontare del fascismo sulla scena politica. Ha creato rapporti (non solo a livello personale), ampliato legami e oltrepassato i confini. Alcuni cantanti in origine semisconosciuti si sono addirittura trasformati in leader politici da seguire e imitare. Festival come ad esempio “La tana delle tigri” a Roma non sono eventi per pochi intimi nostalgici. Piuttosto si tratta di serate che si trasformano in occasioni uniche per sventolare la propria rabbia verso il multiculturalismo e il diverso. Momenti in cui viene elogiata dunque la figura del combattente virile che vive devoto alla vittoria. Di conseguenza, diventano immancabili le magliette nere e i saluti romani.
Il mondo musicale dei fascisti del terzo millennio è ormai diventato un perfetto luogo di recluta per nuovi militanti. Concerti in cui si cementa il cameratismo, si fa propaganda politica e a torso nudo ci si mena con violenza. Il ballo a suon di “cinghiamattanza” è una tendenza che deriva dall’omonimo brano degli Zetazeroalfa, il cui leader è Gianluca Iannone, fondatore di CasaPound.
Da Nord a Sud, l’agenda dei concerti rock di stampo nazionalista è molto fitta. Non serve chissà quale strumento per consultare le date, le vecchie fanzine sono state ormai sostituite da pagine social ben aggiornate. Tuttavia, scatta la polemica quando ad ospitare l’evento non è un semplice magazzino di proprietà di un privato, piuttosto un’area comunale.
Nel Bresciano, precisamente nella tranquilla Prevalle, accade infatti che nell’indifferenza generale il 22 settembre 2018 in una struttura del municipio si svolga il terzo Memorial Simone Riva. La serata è in ricordo di un giovane ardito, deceduto tre anni prima in un incidente in montagna. Riva era uno storico militante di Forza nuova nonché ideatore del movimento Brescia ai Bresciani. Sul palco per l’occasione si esibiscono band riconducibili alla galassia nera come gli Skoll, Rdd e i Decima balder. In realtà, il luogo dell’evento come sempre viene tenuto nascosto fino all’ultimo e raggiungibile soltanto grazie alle informazioni che si possono ricevere tramite mail oppure telefonando. I camerati non aprono la porta a chiunque, soprattutto a nemici oppure a giornalisti che si infiltrano. Inoltre, si cerca spesso di non attirare l’attenzione dei media. Ed è proprio questo, forse, il nostro errore più grande. Aver esplorato troppo poco un oscuro fenomeno in continua crescita.
Pap correrà alle europee con De Magistris. Carofalo: «Rompere i Trattati, siamo per un’Europa solidale»

*** AGGIORNAMENTO del 27 gennaio alle ore 23:30 ***
Un’alleanza con la piattaforma di De Magistris, in vista delle elezioni europee. È l’opzione che i militanti di Potere al popolo hanno scelto attraverso il voto online del 24-26 gennaio. L’esito segue quello del 12 gennaio che aveva determinato – in via preliminare – la partecipazione del movimento alle europee. I quesiti in ballo erano due. Nel primo, si chiedeva se competere alle elezioni di maggio all’interno di un’alleanza (53% di favorevoli), oppure da soli (43%). Nel secondo, in caso di coalizione, si interrogava la base circa gli alleati da scegliere: il rassemblement del sindaco di Napoli Luigi De Magistris (70% di preferenze), oppure il Pci (20%). Il voto del fine settimana segue quello del 12 gennaio che aveva dato il via libera – in via preliminare – alla partecipazione del movimento alle europee (vedi intervista a Viola Carofalo, ndr).
La scelta degli attivisti di Pap modifica dunque gli equilibri a sinistra, andando nella direzione di un’offerta politica meno frammentata. Alla piattaforma lanciata il 1 dicembre da De Magistris, partecipano Rifondazione Comunista, L’Altra Europa, Diem25, Sinistra Italiana, DeMa, Rete delle Città in Comune ed altre associazioni e liste civiche. La stessa Rifondazione Comunista, in una nota del 25 gennaio (precedente alle ultime consultazioni di Pap), ribadiva la volontà di lavorare per un «fronte popolare ampio», e di «allargare il coinvolgimento anche ad altre formazioni che per ragioni diverse – Potere al popolo, Pci e Sinistra anticapitalista, Possibile – devono ancora decidere se partecipare o meno al confronto programmatico e alla coalizione».
Il 27 gennaio, inoltre, si è tenuto il coordinamento nazionale di Pap, che ha registrato l’andamento dei voti (ad esprimersi online sono state 2030 persone, secondo i dati diffusi dal movimento).
I militanti si sono espressi: Potere al popolo parteciperà alle elezioni europee. Nelle consultazioni online che si sono svolte tra il 6 e il 12 gennaio, e che hanno eletto Viola Carofalo e Giorgio Cremaschi a portavoce nazionali, il 73% della base di Pap ha acceso il semaforo verde per scendere in campo in vista del voto di maggio.
Ancora non è chiaro, però, in quale assetto. Agli iscritti erano state infatti proposte tre opzioni: andare da soli (55% favorevoli), verificare convergenze sui contenuti (48%), oppure aderire a proposte elettorali già in campo (9%). Poiché da regolamento è necessaria una maggioranza dei 2/3, tra le due ipotesi più votate si terrà un ballottaggio entro due settimane. Fondamentale, per capire come si riconfigureranno le geometrie a sinistra.
Nel frattempo, Potere al popolo ha comunque deciso di aprire un confronto pubblico con le forze potenzialmente interessate ad un’alleanza. Piazzando quattro paletti: la rottura dei trattati europei, la revisione delle spese europee e della adesione alla Nato, il No a chiunque dialoghi col Pd, e l’attenzione alle questioni di genere. Con Viola Carofalo, abbiamo fatto il punto della marcia di avvicinamento al voto europeo.
Il 73 per cento dei militanti ha chiesto a Pap di partecipare alle elezioni europee. Non c’è stata però una prevalenza netta tra chi vorrebbe andare da solo e chi preferirebbe trovare alleanze con altre forze a sinistra. Che fase si apre adesso per potere al popolo?
In queste consultazioni si sono scontrate due tendenze e desideri opposti, che comprendo entrambi. Perché sono il frutto di ciò che abbiamo vissuto a sinistra gli anni passati. C’è chi dice “abbiamo bisogno di unità”, perché stanco di una sinistra frammentata, e chi risponde “basta con gli accrocchi, con i cartelli, che negli anni ci hanno portato a perdere consensi”. Il tentativo, non semplice, che stiamo provando a fare, è quello di ribadire che evocare l’unità come fosse un mantra, capace di risolvere ogni problema, non ha senso. Così come sarebbe sbagliato pensare di andare a tutti i costi da soli. Per questo stiamo valutando se sia possibile una unità, a partire però da contenuti chiari. In modo tale che una convergenza, nel caso, avvenga su una reale condivisione di contenuti.
Proprio per questo, avete già aperto canali di comunicazione con altre forze politiche. Con la preclusione verso chi si allea col Partito democratico. A chi vi state rivolgendo, dunque?
Innanzitutto abbiamo escluso di allearci con chi “va col Pd”, sia per ragioni ideologiche che per ragioni legate alla possibilità di costruire un progetto che abbia consenso in Italia. Da un lato, il fatto che abbiamo un governo con Salvini vicepremier non può farci dimenticare ciò che il Pd ha fatto negli anni scorsi, e le sue responsabilità. Se ora i consensi verso il M5s e la Lega sono alle stelle, é perché la gente ha completamente perso la fiducia verso tutto ciò che sta sotto il nome di “sinistra”, a causa delle scelte che ha fatto. Dall’altro lato, è chiaro che il Pd è ancora un partito forte, che ha dei numeri, una struttura, una storia. Ma è una formazione in caduta libera dalla quale è indispensabile marcare una distanza se si vuole costruire qualcosa che sul medio periodo abbia possibilità di ricostruire egemonia, tentare una saldatura con le classi popolari. Tra gli interlocutori a cui invece abbiamo scelto di rivolgerci c’è senza altro DeMa (Democrazia e autonomia, il partito di Luigi de Magistris, ndr). Nel dialogo con loro, valgono le stesse regole che adottiamo per l’interlocuzione con le altre forze politiche. Abbiamo steso un agile comunicato, con quattro punti dirimenti di cui chiediamo la condivisione, che poi sono anche i temi che fondano l’accordo che siglammo a Lisbona con Bloco de esquerda, France insoumise e Podemos. Li abbiamo indicati per evitare che si finisca a confrontarsi solo sui posti e sui seggi.
E tra le altre forze europee, a chi vi sentite più vicini in questo momento?
Abbiamo un rapporto privilegiato con France insoumise. Ad uso dei militanti, abbiamo tradotto il loro programma. Certo, nessuna realtà politica può essere la fotocopia di un’altra in un altro Paese, ma credo che loro abbiano ben interpretato alcune questioni. Innanzitutto la loro forte opposizione all’Ue, l’idea di intervenire in modo netto sui Trattati. E poi anche la loro rivendicazione di essere una storia “a parte” rispetto a quella del centrosinistra classicamente inteso.
Uno dei punti dirimenti è la volontà di rompere i Trattati europei, ok. Ma è giusto volerlo fare, anche a costo di rinunciare al progetto di una Europa unita? In questo particolare momento storico, dove i sovranismi di destra avanzano e diventa verosimile un pericoloso ritorno alle piccole patrie, non c’è il rischio di buttare il bambino con l’acqua sporca?
La questione va letta su un altro piano. Bisogna capire se siamo davvero disposti, per l’Europa, a morire. Siamo disposti a capitolare, per il pareggio di bilancio o per i Trattati europei? Noi crediamo di no. Ma questo non significa rifiutare l’idea dell’Europa, perché un’Europa solidale, in cui i parametri economici vengono calibrati non sull’austerità ma sulla sostenibilità sociale delle misure dei singoli Paesi, è una prospettiva positiva. Ma a questo si arriva continuando a contrattare, a pagare. Premesso che non c’è niente di più lontano da me di questo governo, per mesi l’esecutivo guidato da Conte ha detto di voler affrontare a muso duro l’Ue, e poi quando gli è stato chiesto di passare dal 2,4 al 2,04 di rapporto deficit/Pil, lo hanno fatto senza esitazione. Se ciò avesse impedito la realizzazione della flat tax, che peraltro sembra invece al sicuro, non sarebbe stato un problema grave. Ma questo arretramento ha comportato anche tagli alla spesa sociale, la più penalizzata nella legge di Bilancio. E allora, perché continuare a pagare ed a sottostare al ricatto del debito? Solo tenendo la barra dritta su questo tema si può evitare di risultare irrilevanti in Europa.
Oltre al rapporto deficit/Pil, un altro dei tanti dietrofront del Movimento 5 stelle è stato quello sul taglio alle spese militari. Basti vedere come sono andate le cose con l’acquisto degli F35 e con il Muos. Voi invece avete scelto di indicare tra i “valori non negoziabili” anche l’antimilitarismo.
Certo, va subito rimesso al centro. Per quanto riguarda il governo, mentre su altre cose potevamo sperare, su questo tema avevamo pochi dubbi su come sarebbe andata a finire. Ormai questo esecutivo è chiaramente a trazione leghista. E la rincorsa dei suoi ministri ad indossare le divise delle forze dell’ordine, per quanto possa fare di primo acchito sorridere, è inquietante. La Lega ha ormai fagocitato l’alleato pentastellato, sia in termini di comunicazione che di proposta politica.
Stando agli ultimi sondaggi, avreste raggiunto il 2,5%. Più che bissando, dunque, il risultato delle politiche 2018. Quali sono state le chiavi di questa crescita?
Per quanto i sondaggi valgano fino ad certo punto, questo è il segno di una crescita importante. Che deriva da due fattori. Innanzitutto dalla nostra presenza constante, nelle mobilitazioni sociali, nelle vertenze sul lavoro, nei temi di immigrazione e questioni di genere. Sin da giugno abbiamo organizzato cortei nazionali. E tutto ciò paga. Poi siamo riusciti a raggiungere una buona presenza mediatica, fermo restando che non abbiamo lo spazio di formazioni più grandi. Ma a fare la differenza sono i temi che portiamo nei media, e il nostro linguaggio semplice, lontano dal politichese.
Morire surgelati
Spegnete Netflix, se vi serve una trasmissione distopica tendente all’orrore, una di quelle che vi fa addormentare tranquilli pensando che no, non possa essere vero. Ci sono i morti surgelati in giro per l’Italia che funzionano benissimo per raccontarvi un Paese che sembra uscito da qualche mente spinta di qualche sceneggiatore che ha osato troppo: l’ultimo si chiamava Cornel, aveva 62 anni e da tre anni viveva a Roma da tre anni dopo essere scappato dalla Romania dove aveva perso un figlio colpito da un fulmine. Dite la verità, non vi sareste mai riusciti a immaginare una sceneggiatura che sanguinasse così meravigliosamente, vero? A piazza Irnerio Cornel si era preparato un giaciglio di cartoni dietro a un’edicola. L’hanno ritrovato lì. “Morte per cause naturali” dice il verbale dei medici. Cosa ci sia di naturale nel morire di freddo non non ci è dato di saperlo.
Nicolae invece è morto nel suo giaciglio al Parco della Resistenza. La prima vittima di questo inverno risale al 29 ottobre, per uno scherzo del destino proprio a San Pietro. Poi il 22 novembre un uomo l’hanno ritrovato surgelato in una cabina balneare a Ostia. Sei giorni dopo un cinquantenne vicino alla saracinesca di un negozio in zona San Lorenzo. Il 7 dicembre una donna in piazza della Rovere. Poi un tunisino rinchiuso in una topaia sul lungo Tevere. Poi Davide, 53 anni, belga, appassionato di libri di Kerouac. E così via.
Dieci morti solo a Roma durante questo inverno. Solo a Roma. Morire di freddo in Italia è un accidente che può capitare se sei troppo povero, cencioso, senza un tetto. Rifiutato, si potrebbe dire. Ai margini: una volta si diceva così ma oggi è la questione che è diventata terribilmente marginale, ancora più delle perone. Le associazioni provano a parlarne. Figurati, i buonisti. Eppure la civiltà di un Paese forse si misura nella capacità di accoglienza dei fragili e viene da chiedersi, se proprio odiate i neri che arrivano dal mare, cosa invece impedisce di salvare gli italiani troppo poveri? Il razzismo verso la povertà. Solo quello. La paura di riconoscere i fallimenti di una società che non ha bisogno degli arrivi dal Mediterraneo per scoprirsi incapace di salvare. E di salvarsi.
Così, anche nel 2019, morire di freddo in un continente che parla di finanza, di alta industrializzazione e di tutto il resto, è qualcosa che succede.
Ecco tutto.
Buon giovedì.
Salviamo l’archivio di Stato di Caserta
L’allarme che abbiamo lanciato da tempo come Comitato per il futuro del nostro archivio di stato oggi rimane di grande attualità, nonostante le assicurazioni che ci sono state fornite dalla direzione Nazionale Archivi Mibact – e dallo stesso nuovo direttore della sede di Caserta (al quale abbiamo augurato il benvenuto). Infatti, lo stato dell’arte appare sempre più preoccupante, per certi versi scandaloso per la superficialità e l’incompetenza degli organi che finora hanno gestito il processo di delocalizzazione in una nuova sede. Sembrava cha la soluzione di trasferimento nei prestigiosi spazi del Palazzo Reale poteva essere la più idonea. Invece, si è rivelata una vero e proprio disastro.
Dopo una attenta verifica ad oggi risulta che l’Archivio non è accessibile né può essere fruibile per studiosi e cittadini, in quanto le sale dell’ex aeronautica messe a disposizione non sono a norma e richiedono interventi strutturali di manutenzione. Sembra che i lavori siano stati appaltati ed iniziati, con un cronogramma di consegna al committente entro fine marzo 2019. Fino a quella data sarà quasi impossibile consultare i documenti.
Ma la beffa non finisce qui. Siccome il deposito della sede del palazzo di via dei Bersaglieri è risultato a rischio, è stata definita una soluzione cosiddetta ponte per tutelare l’integrità del ricco patrimonio ivi contenuto. Con una decisione discutibile il Mibact ha deciso di traslocare i 12 km di materiale e di documenti (così viene stimato per rendere l’enorme dimensione) in un deposito di Pastorano. Dopo aver trasferito i primi 2 km la ditta si è dovuta fermare per una diffida da parte della proprietà. E non finisce qui. Siccome la precedente direzione Archivio aveva fatto richiesta agli enti locali di un locale in prestito per la biblioteca, non avendo ottenuta nessuna disponibilità è stato deciso di portare a Benevento i volumi e documenti dei fondi storici (purtroppo si sono dimenticati di interpellare altre istituzioni, come la Biblioteca Diocesana).
A seguito di questo modo di fare dilettantesco in pratica l’Archivio risulta chiuso fino a nuova data, con la dispersione e frantumazione di pezzi fondamentali della nostra identità e memoria storica. E tutto questo sta avvenendo in un silenzio assordante e nell’indifferenza quasi totale da parte delle forze politiche e delle istituzioni locali, a partire dal Comune di Caserta che in diverse occasioni si era impegnato ad intervenire a fianco del Comitato.
Prendendo a prestito il titolo del recente saggio dello storico Giovanni Cerchia, ci viene da commentare che la nostra identità culturale e la memoria storica viene “tradita”, anzi viene “abbandonata” al suo destino da chi dovrebbe tutelarla e valorizzarla in sede istituzionale.
Per queste ragioni come Comitato abbiamo deciso di sollecitare di nuovo il Mibact con una richiesta per un nuovo incontro di merito con il ministro Bonisoli ed al Direttore Generale Archivi Mibact, anche per capire i tempi e le modalità di un’altra opera che appare indefinibile: i lavori di ristrutturazione dell’Emiciclo di Piazza Carlo III, dove dovrebbe trovare sistemazione definitiva tutto il materiale e gli stessi uffici dell’Archivio di Stato (anche riportando a gestione unica l’altro pezzo di archivio storico che ancora rimane impropriamente custodito nelle sale della Reggia). Nello stesso tempo ricordiamo di aver fatto analoga richiesta formale al Sindaco e Presidente del Consiglio Comunale, al Prefetto ed alla Direttrice dell’Archivio (riportiamo testualmente), in attuazione e nel rispetto “di una norma di legge stabilita con il Piano Soragni di destinazione nei locali della Reggia Vanvitelliana”.
In particolare ci aspettiamo che il Sindaco di Caserta (insieme con le altre istituzioni del territorio, a partire dal presidente della Provincia) si occupi con serietà del futuro del nostro Archivio, anche portando all’odg del Consiglio Comunale il seguente argomento: “Situazione Archivio di Stato di Caserta trasferimento in Reggia- attuazione Piano Soragni Progetto di rassegnazione e di restituzione degli spazi del complesso della Reggia alla loro esclusiva destinazione culturale, educativa e museale. Legge 29 luglio 2014 n.106. – così come è stato sollecitato con una formale richiesta presentata prima dell’estate al presidente del Consiglio ed ai gruppi.
Infine, non sarebbe male che anche i deputati europei, nazionali e regionali eletti in Terra di Lavoro dedicassero un poco del loro tempo a questo argomento e facessero sentire la loro voce a sostegno di una battaglia fondamentale di civiltà e di cultura per il futuro della nostra comunità
L’universo degli adolescenti alle medie. Un film li racconta dal vero
Gli adolescenti nel complicato percorso della scuola media sono lo specchio più disarmante e puro della nostra società. È riduttivo chiamare Basileus – La scuola dei re un documentario. Racconta la vita e il percorso formativo di un gruppo di adolescenti nella scuola media Federico Fellini nel quartiere San Basilio a Roma. Si tratta di un quartiere tristemente noto alla cronaca nera e giudiziaria, dove i percorsi di vita sono spesso obbligati e dove la scuola svolge il ruolo di contenitore delle speranze e dei sogni, ma anche di valvola di sfogo delle paure e delle incertezze che questi ragazzi hanno verso il futuro. Fuori dai canali tradizionali di distribuzione, Giovedì 17 gennaio, nell’ambito della rassegna “Racconti dal vero”, il film verrà proiettato presso il Centro aggregativo Apollo 11 in via Bixio 80/A, Roma alle ore 21. Sarà un’occasione per parlare di scuola insieme al regista e ad alcuni dei protagonisti. Alessandro Marinelli, 41 anni, calabrese, romano di adozione, è il regista e, insieme alla moglie Simona Messina, lo sceneggiatore, il padre di Basileus. Ci vediamo a cena per parlare del film e lui ne parla proprio con lo stesso affetto ed entusiasmo con il quale un padre parlerebbe del figlio: «L’idea è nata circa 7 anni fa. Mi trovavo al Cinema Aquila per seguire un festival che si chiama “Visioni fuori raccordo” e hanno proiettato il film di Vittorio De Seta Diario di un maestro. Mi piacque moltissimo. Non sapevo ancora come, ma mi ronzava in testa l’idea di fare un film in una scuola. Volevo in qualche modo riprendere l’idea di Vittorio De Seta ed andare a girare in una scuola di periferia romana. Invece di far interpretare i ruoli ad attori che seguivano le direttive del regista, io volevo andare nella scuola, usare quegli stessi luoghi, ma fare un film di osservazione, anche un po’ antropologico; raccontare la realtà che si vive in una scuola di periferia, in una scuola difficile. Volevo raccontare come era cambiata la scuola dal film che avevo visto, quali sono i metodi di insegnamento, ma soprattutto volevo raccontare il mondo dei ragazzi. E una sera parlando con un’amica educatrice, Maria Rosaria D’Agostino, mi ha detto che lavorava in una scuola a San Basilio e questo mi ha fatto partire la scintilla. Sono andato a trovarla, ho visto dove lavorava. Aiutava i ragazzi nel doposcuola a fare i compiti in una struttura che si chiama Frequenza 200 . Mi ha presentato la vice preside della “Federico Fellini” e così ho cominciato a frequentare la scuola. All’inizio sono solo andato ad ascoltare le lezioni e poi ho trovato un modo carino e graduale per entrare in contatto con i ragazzi. Ho fatto un laboratorio di cinema ed ho aiutato i ragazzi a realizzare un cortometraggio. Questo ha permesso di stabilire un rapporto fra me e i professori e di ottenere la fiducia sia dei professori che dei ragazzi. Poi ho chiesto le autorizzazioni ed ho cominciato a girare. Piano piano. Ovviamente all’inizio i ragazzi erano ancora un po’ incuriositi dalla camera e non usciva la verità che cercavo, l’osservazione pura. Quello a cui miravo era raccontare senza ideologie, solo osservando la realtà, raccontare quello che avveniva di fronte ai miei occhi. Continuando a filmare sono diventato in qualche modo parte della classe, sono diventato un loro compagno di banco e nessuno ha più notato la camera. È stato un percorso di avvicinamento in tutti i sensi. Ancora non sapevo chi fossero i protagonisti però continuando a girare ho iniziato a stringere il campo. Partendo da un campo largo ho iniziato a stringere e a focalizzare su alcuni ragazzi che mi interessavano di più, perché avevano qualcosa da dire di profondo. Il lavoro di ripresa è durato da novembre fino a giugno. Un venerdì abbiamo incontrato un professore un po’ particolare che stava suonando la chitarra in sala professori. E abbiamo pensato: “Questo potrebbe essere il nostro aedo”. Gli abbiamo chiesto se potevamo infilargli un microfono sotto la maglietta, entrare in classe e seguire le sue lezioni. Lui ha risposto “Sì, è una scuola pubblica. Non ho niente da nascondere. Faccio comunque lezione. Potete registrarla tranquillamente”. Non ha chiesto chi eravamo, per chi lavoravamo, se ci mandava il Miur. Grazie alla complicità di questo professore, ma anche degli altri professori e della vice preside, la professoressa Pellizzaro, abbiamo seguito le lezioni per arrivare alla fine dell’anno con circa trecento ore di materiale registrato. Sandro Bartolozzi di Clipper Media ha creduto subito nel nostro lavoro e grazie a lui abbiamo ottenuto anche l’interesse di Rai Cinema che lo ha affiancato nella produzione. Il lavoro di montaggio è durato circa un anno. Avevamo a che fare con tantissimo materiale ed era difficile montarlo. Il film non è fatto da interviste ma solo da osservazione. Avevo frammenti di realtà da mettere insieme. Con un grosso lavoro di montaggio insieme a mia moglie e montatrice Simona Messina abbiamo organizzato la realtà, mi piace dire così. Abbiamo creato dei collegamenti emotivi, trovato dei ponti, delle corrispondenze fra le varie storie e siamo arrivati al montaggio del film. Nel 2018 è stato finalista al “Giffoni Film Festival” nel “Concorso internazionale documentari” ed ha riscosso un bel successo. Non ci aspettavamo nulla. Non sapevo quello che sarebbe successo ma sapevo che c’era qualcosa di buono in quella scuola. Mano mano che andavo avanti capivo sempre di più che era una periferia da raccontare, che mi avrebbe dato delle risposte. Quando i ragazzi si sono aperti è stato bellissimo. Il film pone molti interrogativi. Cosa deve fare un insegnante? Deve trasmettere conoscenza, educazione? Deve incuriosire i ragazzi alla vita, allo studio? Oppure deve fargli imparare a memoria la lezioncina? Ma io nel film non do risposte. Spero soltanto che chi vede il film, se ha a che fare con l’insegnamento, si ponga qualche domanda sul proprio lavoro».
Il professore con la chitarra si chiama Marco Maugeri, 43 anni, da 12 anni insegna Italiano storia e geografia nelle scuole medie. Viene dal mondo del giornalismo e dell’editoria ed è arrivato a scuola per scelta: «In classe, durante le riprese, usavo la Lim per un fatto drammaturgico, per aumentare i punti di fuoco e abbattere la noia. Il meccanismo è lo stesso di quando guardi una partita a tennis: giri continuamente la testa da destra a sinistra e non ti pesa. Stare in una classe ha sempre una componente teatrale. Non tanto teatralizzare la lezione, ma teatralizzare il sapere è inevitabile. Hai 20 ragazzi, ognuno con un suo livello di interesse, ognuno con una sua quota di interesse. Se non porti l’elemento comunicativo, la lezione non funzionerà. Ma la scuola, anche se inevitabilmente risente delle innovazioni tecnologiche, nella sostanza, nello spirito, nell’anima è ancora la scuola di Gentile. Soffro moltissimo quando vedo l’insegnamento delle lingue perchè lo trovo identico a quello che ho vissuto io. Se non funzionava per noi perchè l’insegnante lo ripropone così. La mia percezione è di muovermi nello stesso spazio nel quale mi sarei mosso da ragazzino. Non mi è capitato ad esempio di vedere lezioni di arte basate sulla fotografia, sul cinema, sull’immagine. Le lezioni di arte sono disegno, matite, pastelli a cera. Il contesto è cambiato. Ci sono le Lim, c’è la rete, c’è la banda più o meno larga, però lo studente va a scuola con la stessa cassetta degli attrezzi che portavo io. E allora bisogna chiederci se c’è qualcosa che non va. Abbiamo correttamente recepito che dobbiamo occuparci dei ragazzi, dei loro pensieri, dei loro problemi, delle loro sofferenze, ma abbiamo anche subito questo fenomeno. C’è tanto pressappochismo. L’insegnante deve inevitabilmente gestire la parte psicologica di un gruppo. L’insegnante non è molto diverso dall’allenatore di una squadra di calcio: è inutile avere un grande portiere, o un fenomeno buttato in mezzo a campo. La classe deve andare avanti insieme. Non si sta lì solo per apprendere delle nozioni. Il gruppo deve funzionare ed i ragazzi devono essere sereni in classe. La scuola serve a due cose. Una è la trasmissione dei saperi. Poi c’è un secondo elemento per me fondamentale. Il ragazzo deve essere stimolato, deve essere chiamato a provare a costruire un suo punto di vista. A me è capitato, come a molti colleghi, di avere ragazzi che hanno molti più colpi di quelli che vedi tu, ma anche di quelli che hai tu. C’è tanto talento nelle nostre classi. Dai ragazzi non voglio temi che siano sempre e soltanto un bignamino di quelle quattro cose che abbiamo scritto alla lavagna. Voglio sentire come la pensa lui. Una volta parlando con un amico professore universitario, gli ho letto un tema su “Pirandello e le maschere” e poi gli ho chiesto: “Secondo te quanti anni ha chi lo ha scritto?”. Quella ragazzina aveva dato una possibilità ad una lettura delle maschere e della relazione con la personalità di Pirandello che butta giù tutto il nostro modo di raccontare Pirandello. C’era una ragazzina di tredici anni che aveva visto cose che nè io nè lui avevamo visto. Questa è la parte emozionantissima della scuola. Quando un ragazzo entra a scuola, anche in una scuola di periferia, una parte della sua vita potrebbe cambiare, alcuni dei suoi talenti potrebbero trovare spazio. La domanda che mi faccio è: “Siamo disposti a dare una possibilità ai talenti dei nostri ragazzi?».
Basileus – La scuola dei re non cerca risposte ma ci pone tante domande. Alessandro Marinelli crede molto nella potenza delle domande: «Per un adulto vedere il film è ritornare ai tempi della scuola, con nostalgia forse, ma è anche mettersi in gioco, farsi delle domande, porsi degli interrogativi. È una storia irripetibile nata dentro una classe dove si è creata un’alchimia unica. Dentro quella classe c’è tutta la nostra società. È un film su di noi. È uno specchio, un modo per vederci nelle storie di questi ragazzi”.
Le nuove date di proiezione:
BASILEUS TRAILER from alessandro marinelli on Vimeo.




