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Festa della lettura per combattere stereotipi e pregiudizi

Era un giorno d’estate di 5 anni fa quando inventammo Pezzettini. In pausa davanti al sole Alessandra ed io, dopo anni spesi nella nostra associazione Altra Mente a realizzare doposcuola per bambini/e ragazzi/e ed incontri seminariali nazionali ed internazionali, con il pensiero al territorio di Tor Pignattara a Roma dove operavamo, alle sue complessità e alle sue energie, ci dicemmo che il piacere che mettevamo entrambe nella lettura poteva diventare una scintilla per motivare ragazzi ed adulti alla creatività e a coltivare il proprio giardino segreto.

Così nacque Pezzettini la Festa di lettura a Tor Pignattara come dono al quartiere e alle scuole (quest’anno si svolge dal 21 al 26 gennaio ndr) Perché Pezzettini? Nella società frammentata in cui viviamo ci sentiamo un po’ tutti pezzettini. Oggi sempre più isolati, circondati da rancori e pregiudizi che arrivano all’intolleranza verso l’altro e financo a espressioni razziste. Soli anche se impegnati. Come contribuire alla coesione, a contrastare l’odio, a decostruire stereotipi che escludono ed ergono muri? La lettura può essere un collante prezioso come l’oro per riparare le ferite, proprio come l’arte giapponese del Kinsugi utilizzata per riparare la ceramica. Le ferite non si nascondono bensì si coprono con cura, perché le fragilità non sono una vergogna. Leggere insieme, condividere, discutere, scambiare può contribuire a riunire, a curare la solitudine e l’indifferenza.

Pezzettini è arrivata alla quinta edizione ed ogni anno è un’avventura. Si comincia a settembre a contattare autrici e autori disponibili a venire gratuitamente nelle scuole a presentare i loro libri e a dialogare con studenti della scuola elementare fino a quelli del liceo. E poi a inventare gli incontri per adulti, consapevoli di quanto sia difficile in questo nostro Paese uscire dalla cerchia ristretta degli amanti della lettura e coinvolgere la comunità territoriale, le famiglie, i giovani adulti. In questo faticoso ma bellissimo percorso ci aiutano tante persone del mondo della cultura che accettano di buon grado di accompagnarci mettendo a disposizione tempo e competenze. E alla fine la festa diventa proprio una bella festa ricca di stimoli. È una maratona di letture con libri dappertutto, anche quello che pubblichiamo con gli elaborati scritti da giovani scrittori frequentanti le scuole che partecipano alla festa e al concorso che ogni anno riproponiamo. I vincitori ricevono in premio una valigia di libri diversi per fascia di età. Questo è possibile perché la festa non è un evento spot. Ormai, diciamo, che realizziamo Pezzettini tutto l’anno. Infatti c’è ogni mese l’appuntamento del Book party dove si arriva con un libro in una mano e un bicchiere di vino dall’altra, c’è il circolo di lettura per condividere un libro letto, c’è il “Mostro dei libri” dedicato a letture ad alta voce per i più piccini, ci sono i laboratori di lettura nelle scuole e tante presentazioni di libri.

Tor Pignattara è un quartiere meticcio abitato da persone nate in Italia e da tante altre venute da paesi lontani: Bangladesh, Cina, Filippine, Romania, Egitto, Algeria ed altri ancora. Ci sono certamente problemi di convivenza ma sostanzialmente i bambini sono bambini e i compagni di scuola sono compagni di scuola siano essi di pelle chiara o scura. Altra Mente favorisce l’incontro interculturale nel suo frequentatissimo doposcuola. “Soccorso scolastico-cooperare per imparare” lo abbiamo chiamato perché la cooperazione è elemento fondamentale per un’educazione non formale orientata all’inclusione. Altra Mente è uno spazio di studio e di gioco, luogo di confronto e di socializzazione che si arricchisce ancor di più con i corsi di lingua italiana per le donne straniere per lo più mamme dei ragazzi/e che partecipano al doposcuola. Le donne vengono ai corsi perché hanno bisogno di imparare la lingua ma anche perché, dicono, “ho voglia di scuola”. Nasce tra noi così anche un’amicizia che si consolida nelle quattro chiacchiere stentate ma sempre belle, sui figli, sulla spesa, sul loro Paese di origine, e sul cibo, punto forte di alcuni incontri festosi con piatti preparati da ognuna con orgoglio e generosità. Tutte le nostre attività sono gratuite per comunicare l’importanza delle pratiche extra mercantili, soprattutto nel fare sociale, in un mondo che sempre più sembra fare del denaro e delle merci la cifra delle relazioni.

Altra Mente ha scelto un’altra strada, quella della condivisione e del mutualismo, mossa dall’idea della necessità di cambiare il mondo uscendo dal dominio del mercato. Chi opera con noi dedica il suo tempo volontario perché fa pratica di relazione non certo per fare un lavoro surrettiziamente non pagato o per supplire a servizi pubblici insufficienti. Le nostre pratiche hanno a che vedere con la cittadinanza attiva, con un fare politica costruendo anche se lentamente la disposizione al cambiamento. In altri anni per tanto tempo ho fatto politica nei sindacati e nei partiti della sinistra anche ricoprendo ruoli dirigenti e partecipato ad Istituzioni locali e nazionali. Ma il crescente potere tecnocratico e securitario che avanzava dall’Europa e arrivava fino ai governi nazionali facendo smarrire la strada via via anche alle opposizioni mi ha fatto sentire quella politica inadeguata e comunque non per me. E allora ne ho scelta un’altra, quella che cammina insieme ai movimenti e all’associazionismo, che sono stati sempre i miei interlocutori e riferimenti, per un altro mondo possibile.
Qualcuno mi dice che ho fatto un passo indietro. Penso invece che il mio sia semplicemente un altro passo.
Non sono ingenua da pensare che le associazioni da sole possono farcela. Conosco le fragilità e le fatiche, anche quando ci si prova, a fare densità e ad entrare in relazione.

E le cose che non vanno sono gigantesche.
C’è il mondo intero che sembra imbarbarito da guerre diffuse.
C’è L’Europa che si fa matrigna scegliendo il domino della finanza e dei confini contro i migranti scalciando via il sogno di Spinelli e di coloro che hanno a cuore la pace e la giustizia sociale.
Ci sono le politiche del nostro Paese che iniettano odio e rancore.
C’è la povertà che cresce e il blaterale politicista che consuma fiducia e precarizza la vita.
Da soli sia i movimenti che l’associazionismo non ce la fanno.
Pur tuttavia mi sembra che nel fare società si avverta un’utilità immediata, uno scambiare doni per resistere all’indifferenza e creare coesione. In questo tempo di austerità e scardinamento dello stato sociale hanno dato più loro in sicurezza sociale e cultura diffusa di quanto abbia fatto la politica dei partiti. Anzi spesso proprio le istituzioni sono state le più ostili all’autonomia e autogestione dei soggetti sociali preferendo il controllo e la cancellazione dei diritti. Altra Mente prova a fare inclusione e coesione favorendo incontro e solidarietà, stando nei conflitti generando coscienza critica e consapevolezza critica.
Ho chiesto a chi opera con noi di scrivere qualche riga per dire cosa è per ognuno di loro Altra Mente.
Non è questo il contesto per citarle tutte anche se tutte sono ricche di suggestioni ed energie. Ne trascrivo una per rendere meglio cosa significhi ciò che ho provato a dire: «Altra Mente è un porto di destini incrociati. Un incontro di saperi e a volte di sapori. Un laboratorio di idee e di esperienze creative. Un esercizio concreto di condivisione per restare umani».
www.altramente.org

Il programma della rassegna

Si comincia il 21  alla Scuola Media Alberto Manzi  a Roma con il libro di  Vichi De Marchi Le ragazze con i numeri (Editoriale Scienza) e  Flore Murard-Yovanovitch (giornalista e scrittrice). Il 22  gennaio alle 11 alla scuola elementare Enrico Toti: Federica D’Ascani  Cole Tiger e l’esercito fantasma (Sinnos) presentato da Rossella Gaudenzi (viadeiserpenti.it). E ancora: il 23 gennaio alle 9.30  alla scuola elementare Grazia Deledda: con Chiara Ingrao Mal di paura Edizioni Corsare. Facilitatore e Francesco Maria Salimbeni, il 24 gennaio alle 11 alla scuola media Laparelli Anche Superman era un rifugiato (Piemme) con Carlotta Sami (portavoce UNHCR per il Sud Europa) e Fabio Santomauro (illustratore). Facilitatrice: Patrizia Sentinelli (Altramente – scuola per tutti).  Il 25 gennaio, alle 12.30 alla scuola media Beccadelli: Ritanna Armeni Marina (Ed. Perrone) con Elena Zizioli (Scienze della Formazione Roma Tre). La rassegna entra nel vivo sabato 26 gennaio nello Spazio Altramente in via Laparelli, 60 con un ricco programma: alle ore 10.30 Emanuela Valentini  Grotesquerie (Dana Edizioni) con Barbara Ferraro (Libreria Il Giardino Incartato). Alle 11.30 Pierluigi Sullo La rivoluzione dei piccoli pianeti. Un romanzo nel 68 Lastaria Edizioni. Ne discute con l’autore Monica Di Sisto (giornalista). Alle Michele Colucci Storia dell’immigrazione straniera in Italia (Carocci Editore). Ne discutono con l’autore: Della Passarelli (direttrice editoriale Sinnos), Rosa Jijon (segretaria culturale dell’istituto italo-latinoamericano) e Pilar Saravia. Alle 17 Andrea Cotti Il cinese Rizzoli. Con l’autore c’è il giornalista Sandro Medici, alle 18 Luca Mascini (Militant A) Conquista il tuo quartiere e conquisterai il mondo (Goodfellas) Letture a cura Teatro Studio Uno. Alle 18,15 proclamazione dei vincitori del corso di scrittura, con Antonio e Marco Manetti (registi), Giuseppe Antonelli (linguista), Rosella Postorino (scrittrice). E molto altro ancora.

Jimmy Nelson: Quei popoli che sanno ascoltare il mondo

È da più di 34 anni che Jimmy Nelson, fotogiornalista britannico, cattura nei suoi scatti le popolazioni indigene più remote della nostra terra. Le sue foto, di una bellezza artistica unica, hanno girato il mondo, con l’intento di far vedere che esistono comunità e culture molto diverse dalla nostra, ma spesso più ricche perché non contaminate dal materialismo della società moderna.
Lo scorso anno lei ha pubblicato uno dei suoi lavori più importanti Homage to Humanity, che tipo di progetto è?
Il progetto è durato circa tre anni. Il fine è quello di consolidare il lavoro fatto con il mio primo libro Before they pass away, uscito nel 2014. Homage To Humanity è stato pubblicato per permettere alle persone di “viaggiare” con me, guardare il mio lavoro e discutere con me mentre creo le immagini. È il primo libro interamente digitale e interattivo: ogni singola pagina può essere analizzata attraverso una applicazione sullo smartphone, che permette di accedere a video, interviste e tanti altri contenuti digitali. Quindi, l’idea è quella di condividere la mia prospettiva con il mondo e permettere ad ognuno di farne parte. L’obiettivo è quello di celebrare tutte le culture indigene in via di estinzione e presentarle, metaforicamente, come eroi umani. Ma voglio anche sostenere che, per quanto il nostro mondo sia avanzato, la nostra sovrapproduzione e il nostro consumismo non sono necessariamente le risposte che cerchiamo. È tutta una questione di equilibrio culturale e umano, e forse noi stiamo perdendo tanto di ciò che è intrinsecamente umano.
Quale approccio ha usato per entrare in contatto con le comunità indigene?
L’approccio è fidarsi. Presentarsi come un essere umano umile ed essere molto paziente. Mai far vedere, per esempio, le telecamere prima che le persone siano a loro agio in tua presenza. Una volta ottenuto ciò, bisogna creare un rapporto di fiducia, ma ci vuole tempo.
Lei fa questo lavoro da anni. Cosa l’ha spinto a fotografare queste popolazioni?
Ho cinquantuno anni e ho iniziato a scattare foto di questo tipo quando ne avevo diciassette. Sin da bambino sono cresciuto in questo tipo di ambienti, fino a quando…

L’intervista di Youssef Hassan Holgado a Jimmy Nelson prosegue su Left in edicola dal 18 gennaio 2019


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Nei Territori occupati rinasce la sinistra e stavolta è unita

Jan. 26, 2015 - Gaza City, Gaza Strip, Palestinian Territory - Palestinian supporters of the Popular Front for the Liberation of Palestine (PFLP) gather during a rally marking the 7th anniversary of the death of the front founder George Habash, in Gaza city on January 26, 2015 (Credit Image: © Ashraf Amra/APA Images/ZUMA Wire)

Undici anni fa un infarto si portava via «la coscienza della rivoluzione palestinese», il leader politico che più di altri ha incarnato la spinta popolare verso una lotta comprensiva, di liberazione nazionale e di liberazione degli oppressi. Ai funerali di George Habash, fondatore del partito marxista-leninista Fronte popolare per la liberazione della Palestina (Pflp), una folla immensa sventolava le bandiere rosse, mentre la bara avvolta nel vessillo palestinese fendeva la gente fino in chiesa.
Habash, nato a Lod nel 1926, medico, cristiano, rifugiato, è ancora oggi il volto della sinistra palestinese. Che c’è ancora, seppur sepolta sotto le macerie di una crisi strutturale e globale. A undici anni dalla sua scomparsa, qualcosa si muove. Alla fine di dicembre cinque partiti hanno deciso di mettersi sotto un unico ombrello, una nuova federazione battezzata Unione democratica, che si pone come alternativa credibile ai due pesi massimi (o, viste le crisi di visione e consenso, sarebbe meglio dire pesi piuma) di Fatah e Hamas. Ne fanno parte anime diverse della sinistra palestinese: Pflp e Dfpl (Fronte democratico per la liberazione della Palestina), entrambi di estrazione marxista; Fida, socialdemocratica; il Partito del popolo palestinese, ex comunista; e la riformista Iniziativa popolare. Accanto, una galassia di organizzazioni per i diritti umani e associazioni della società civile. Un passo verso la ricostituzione di un movimento di idee e strategie che ha avuto il suo apice nel secolo scorso e che ha…

L’articolo di Chiara Cruciati prosegue su Left in edicola dal 18 gennaio 2019


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Partigiani della verità. A colloquio con Filippo La Porta

Il nuovo libro di Filippo La Porta riporta in primo piano intellettuali capaci di unire ricerca, studio e impegno civile; donne e uomini di cui ci sarebbe un gran bisogno oggi. Pensiamo per esempio a figure come quella dell’antifascista Carlo Rosselli che, al confino, scrisse il saggio Socialismo liberale criticando il liberismo economico ma anche una certa antropologia marxista, riduzionista nel considerare solo la realtà materiale. Come molti altri «maestri involontari», «inattuali ed eretici» che incontriamo in questo volume pubblicato da Edizioni di storia e letteratura, Rosselli nutre una grande fiducia nella democrazia, nel progresso, inteso anche come emancipazione personale e trasformazione interiore.

Un pensiero che Rosselli cercò di tradurre in prassi politica con Giustizia e libertà fondata nel 1929, da cui poi nacque l’esperienza del Partito d’Azione. «Se qualcuno oggi mi chiedesse con chi ti riconosci? Io risponderei con la sinistra di Giustizia e libertà», dice La Porta, che pur avendo scritto molti altri libri sugli intellettuali qui distilla il suo libro forse più politico. Saggista e critico letterario che collabora con Left fin da quando si chiamava Avvenimenti, nel corso degli anni spesso ci ha stimolati con domande, proponendo riflessioni e provocazioni per crescere e approfondire. In occasione dell’uscita di questo suo Disorganici. Maestri involontari del Novecento, che molto gli somiglia, gli abbiamo chiesto di tornare a conversare con noi, questa volta in pubblico. (Filippo La Porta presenta il volume sabato 11 maggio alle 16 al Salone del libro a Torino, ndr)

Cominciamo dall’espressione gramsciana “intellettuali organici”, tu ce ne mostri tutta la dolorosa inattualità. I partiti di sinistra oggi soffrono di una grave crisi di rappresentanza. Gli intellettuali a che cosa dovrebbero essere organici? Ai salotti tv? All’industria culturale? In molti lo fanno ridotti al ruolo di pubblicitari e cortigiani…
Nella visione di Gramsci l’espressione intellettuale organico, distinta da quella dell’intellettuale puro, aveva una accezione positiva. Doveva essere organico al proletariato e si doveva battere per l’egemonia di quella classe. Questa figura nobilissima si è degenerata nel tempo. Dagli anni Quaranta agli anni Sessanta si era organici a un partito politico in cambio di potere e privilegi, anche nel Pci.
A me interessano, invece, figure che non sono organiche né ai salotti, né a una lobby, né a corporazioni. Ho cercato personalità «non allineate», per dirla con Fossati. Qualcuno mi ha rimproverato poiché alcuni di loro erano intellettuali di successo per niente ai margini. Si è vero, ma io cercavo l’aspetto più dissidente della loro biografia e del loro pensiero.

Non riconciliati, eretici, indocili, involontariamente contro corrente, soli, non identificati con maestri, i tuoi intellettuali disorganici agiscono sulla scena pubblica come individui. La coerenza fra biografia e pensiero è importante?
Tutti gli intellettuali che ho raccontato qui hanno cercato di vivere le proprie idee. Forse non potremmo dire che siano sempre coerenti, ma sono credibili come intellettuali perché hanno provato in tutti i modi a vivere secondo un proprio pensiero.

Dalla non violenza di Capitini, al dialogo laico di Guido Calogero, dalla democrazia mite di Bobbio alla testimonianza viva di Primo Levi, fino all’azione del partigiano Bentivegna, perché figure così diverse fra loro?
È una mia costellazione personale, non è un pantheon omogeneo: esordisco con l’antifascista Carlo Rosselli, ma cito anche autori lontani da me, che tuttavia- insieme a lui – mi fecero capire da giovane che stavamo usando un linguaggio marxista para religioso e avevamo sostituito dio con il futuro. Dall’altra parte – e questo ti farà piacere – racconto autori super laici come George Orwell che dubitava anche di Gandhi per una certa sua religiosità.

Libertà uguaglianza, inclusione, sono temi che percorrono tutto il volume, è quasi una libro sul futuro della democrazia?
All’inizio uso un’immagine (colpiscono più delle parole), parlo della “democrazia della Ginestra”, citando Giacomo Leopardi. Oggi purtroppo rischiamo di avere un’idea di democrazia solo come tecnica procedurale. Così viene svuotata di contenuti e diventa una mera tecnica di governo, in mano ai poteri invisibili, ad oligarchie. La democrazia, a mio avviso, presuppone dei cittadini con una propria autonomia, responsabili, consapevoli. Io credo che il popolo sia bue nei sondaggi, nelle piazze tv, ma non sia bue quando è autonomo, istruito. Vittorio Foa, che è uno dei miei punti di riferimento, si diceva un estremista moderato. Era un estremista della fiducia nella democrazia, come auto governo delle persone, tutto questo è molto forte in un filone libertario, socialista, anarchico, non violento. La distinzione destra e sinistra c’è ancora.

Chi dice che non c’è più distinzione fra destra e sinistra è di destra, abbiamo scritto in copertina.
Sono d’accordo, ma penso che tutto questo valga soprattutto nella nostra vita quotidiana. Ho capito in età matura che l’impegno politico è fondamentale, ma viene prima quello etico, personale. Una cosa importante è partire da sé. Quanto spazio diamo all’uguaglianza delle persone, al fatto che poi siamo tutti molto diversi, ma abbiamo tutti un destino comune come dice Leopardi nella Ginestra? Il cuore della democrazia è il principio egualitario. Dopo la repressione del G8 Alessandro Leogrande ha scritto che la rinuncia al potere, è l’azione più alta. Trovo sempre più interessante un filone di pensiero che privilegia soprattutto la democrazia di base, le buone pratiche, le azioni dirette, i contro poteri.

Per questo hai incluso personaggi, poco noti, come S. D. Alinsky?
Ha vissuto negli anni Venti, è quasi sconosciuto da noi. È stato uno dei maestri di Obama. Ha inventato a Chicago il sit in, un tipo di azione dimostrativa non violenta, che ha caratterizzato soprattutto il pensiero libertario americano. Nel libro cito anche Colin Ward, anarchico inglese scomparso qualche anno fa. Ipotizzava un welfare che possiamo creare dal basso.

Per restare in America citi anche Christopher Lasch, che analizzò la società del narcisismo, fu tra i primi a criticare il postmoderno e il neoliberismo.
Lo cito in polemica con Eugenio Scalfari, il quale, con Nicola Chiaromonte, era esponente della cosiddetta terza forza, de Il tempo presente. Doverebbe essere la stessa area da cui è nata La Repubblica, ma secondo me si è persa completamente la radicalità di pensiero. Scalfari dice che è fondamentale il riconoscimento da parte degli altri, insiste sul riconoscimento sociale, Chiaromonte invece parlava, addirittura, del diritto a restare in disparte, a restare invisibili. Quel bisogno anche ossessivo di riconoscimento, può diventare quell’ansia di visibilità di cui parlava Lash. Un’esistenza non è degna quando viene riconosciuta dagli altri, altrimenti finiamo nella società dello spettacolo. Io penso che sia importante il modo con il quale ci relazioniamo agli altri. Alla personalità narcisista interessa solo essere ammirata, nemmeno stimata. Anestetizza le emozioni.

Nel confronto fra Sartre e Camus tu ti schieri chiaramente con quest’ultimo. Non stai dalla parte di Sartre che orchestrava campagne contro Albert Camus, perché non era filo stalinista.
Sartre è stato un pensatore importante per la mia generazione. E alla fine mi stava anche simpatico. Era uno che faceva volantinaggio davanti alle fabbriche. Una volta lo avevamo invitato ad un incontro con gli studenti in università, lo abbiamo atteso tutta la sera, non è mai arrivato! Il punto dirimente è che Sartre ha difeso le cause peggiori, era un esempio di intellettuale organico e ha difeso perfino lo stalinismo. In polemica con Camus, Sartre disse che non bisognava far sapere la verità sull’Urss agli operai perché si sarebbero demoralizzati. Camus rispose, guarda che ti sbagli, la verità va detta sempre, se non la dici oggi, prima o poi la pagherai; mette al primo posto un impegno innanzi tutto etico. La sua famosa frase «mi rivolto dunque siamo» ci dice che la ribellione nasce come atto individuale ma prefigura una collettività.

Il direttore di Radio3 Marino Sinibaldi ha notato che questo libro è anche un’autobiografia. A me pare di cogliere anche spunti di riflessione filosofica, quando accenni a un’idea di natura umana fondamentalmente «buona», di interesse naturale per gli altri, quando privilegi una critica anche aspra, ma non distruttiva, perché nasce da un profondo interesse verso l’altro. Sbaglio?
Negli anni 70 ero un estremista. Ovviamente non me ne pento. Anche perché quegli anni mi hanno formato. Ma poi ho capito che in effetti c’era un’idea di rivoluzione come negazione; c’era in quegli anni, in gran parte del movimento. Intendiamoci, criticare il mondo è importante, tutto il pensiero occidentale nasce da questo. Socrate criticava il sistema, ma è importante sapere in nome di cosa critico l’esistente. Se una critica all’esistente non si alimenta dell’amore per qualcosa, rischia di restare arida.

Parli di autori del Novecento, ma li connetti al presente. Scrivendo di Carlo Levi lo definisci un No global ante litteram. Perché oggi abbiamo politici di destra che si fingono No global mentre gli intellettuali di sinistra tacciono. Che succede?
Mi fai ricordare che Salvini ha impunemente citato Simone Weil qualche mese fa, come se fosse una sua pensatrice di riferimento. «Le idee sono delle puttane vanno con tutti», diceva Diderot. Oggi tutti possono citare tutti, dunque è tanto più importante il rapporto fra le idee e il proprio modo di vivere, per questo all’inizio parlavo di credibilità. Da ultimo Andreotti citava Pasolini. Ognuno può dire quello che gli pare ma questo è un pessimo sintomo di una cultura svuotata, ridotta a retorica.

L’intervista di Simona Maggiorelli a Filippo La Porta è stata pubblicata su Left del 18 gennaio 2019


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Pakistan, il sapere è la libertà delle donne

TOPSHOT - In this photograph taken on February 18, 2016, Pakistani children ride on swings in the predominantly Pashtun Korangi District of Karachi. In a rundown district of Karachi, Rabia balks at a neighbour's proposal to vaccinate her children, demonstrating one of the biggest hurdles to eradicating polio in Pakistan by the end of the year: confused and frightened parents. AFP PHOTO / ASIF HASSAN / AFP / ASIF HASSAN (Photo credit should read ASIF HASSAN/AFP/Getty Images)

La nostra storia inizia a Karachi, nello slum Qayyumabad. La prima immagine che affiora da questo quartiere è quella di una diga enorme, con cumuli di immondizia. Ma l’immagine fatiscente di questa parte della città viene spezzata dalla presenza di una scuola e di due bambine in uniforme scolastica che giocano proprio accanto a questa diga. In un momento storico segnato dal movimento #metoo, partiamo da quello che potrebbe rappresentare la radice del problema dell’uguaglianza di genere: l’istruzione femminile.
Siamo in Pakistan, reduce dalle ultime elezioni che hanno visto vincere l’ex stella di cricket Imran Khan, e all’indomani dalle proteste degli estremisti islamici contro la sentenza di assoluzione della cristiana Asia Bibi, accusata di blasfemia. In questo quartiere di Karachi, la quarta città più popolosa al mondo, con i suoi quasi 22 milioni di abitanti, abbiamo visitato la scuola della Citizen foundation, un’associazione pachistana nata 23 anni fa. Fondata da cinque imprenditori pachistani di successo, inizialmente contava 5 scuole. Oggi sono circa 1500 in tutto il Paese, per un totale di 220 mila studenti. Qayyumabad è uno dei quartieri più disagiati di Karachi e, proprio per questo, la Fondazione ha deciso di costruire una scuola qui come in altre zone simili. Entriamo in uno degli istituti più grandi della rete che, come tutte gli altri, si trova su un terreno donato, questa volta, dalla polizia della regione di Sindh (Pakistan meridionale). A guidarci è Nabila Mustafa, una delle coordinatrici delle scuole di Citizen foundation. «Non troverete nessuna delle scuole Tcf (The Citizen foundation) in una zona prestigiosa della città», mi spiega Nabila. «Considerando…

L’articolo è tratto dal numero di Left in edicola


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Ministro Salvini, te lo buchiamo quel pallone

Players vie for the ball during a local third league football match Atletico Diritti vs Cetus Roma at the Campo Gerini ground by the Felice Aqueduct in Rome on May 8, 2016. Atletico Diritti was created in September 2014 when two Italian NGOs, Associazione Antigone and Progetto Diritti, concerned with protecting the rights of prisoners, refugees and migrants, had the idea of trying to further the cause of human rights, and most specifically the values of integration and anti-racism, through sport. / AFP / FILIPPO MONTEFORTE (Photo credit should read FILIPPO MONTEFORTE/AFP/Getty Images)

Mentre le pagine sportive dei quotidiani ospitano interventi sull’allarme razzismo in Serie A, le cose non vanno meglio in periferia. Nei campetti dove ogni weekend si confrontano le squadre dei campionati cosiddetti minori, o amatoriali, gli episodi di intolleranza e discriminazione sono all’ordine del giorno. Anche tra i più piccoli. È dello scorso novembre il caso della partita persa 3-0 a tavolino dal Cartura contro il Pegolotte, in Veneto. L’arbitro ha deciso di non soprassedere ad insulti razzisti e incitamenti alla violenza dei genitori sugli spalti nei confronti di un baby calciatore. Di undici anni. Un caso forse più unico che raro di partita sospesa per questi motivi, con quel “pugno duro” che continua a chiedere Ancelotti, dopo l’amara vicenda di Koulibaly durante Inter-Napoli lo scorso 26 dicembre.
Un caso sacrosanto, da prendere ad esempio. Certo. Ma solo chi fantastica sullo sport, immaginandolo come una galassia del tutto isolata dal mondo reale, può pensare di fermare la xenofobia negli stadi solo con multe e punizioni, senza un lavoro quotidiano nel rilancio di una cultura antirazzista, anche nei campi di pallone.
Ossia la mission che – tra le altre realtà – persegue la Uisp. «Le esternazioni indulgenti di Salvini sui cori razzisti diventano una giustificazione all’intolleranza che si manifesta nei campetti di provincia», denuncia Carlo Balestri, responsabile politiche internazionali dell’associazione sportiva amatoriale, che conta oltre un milione e trecentomila tesserati e più di 17 mila società affiliate (dati 2017).
«Proprio per arginare questi fenomeni – spiega – portiamo avanti un’opera capillare nei territori». I progetti sono molti, in tutto il Paese. Solo per fare alcuni esempi…

L’articolo è tratto dal numero di Left in edicola


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Torna la Women’s March a Washington e in tutto il mondo: una grande onda in difesa dei diritti

Assistenza sanitaria per tutti, azzeramento del debito studentesco e paghe egualitarie. Sono solo tre dei ventiquattro punti compresi nella Women’s Agenda, il programma dietro alla manifestazione che si terrà oggi, 19 gennaio, a Washington e in oltre 100 città in tutto il mondo.
La Women’s March è giunta alla sua terza edizione. La prima si tenne il 21 gennaio 2017, il giorno dopo l’insediamento di Donald Trump. Lo scopo era quello di dimostrare al neo presidente che le donne non avrebbero subito in silenzio, nel caso, molto probabile, di trovarsi di fronte a tentativi di limitare i loro diritti. Il messaggio di base è che “i diritti delle donne sono diritti umani”. La manifestazione del 2017 è diventata il trampolino di lancio per la creazione di un movimento collettivo che riunisce non solo le associazioni femministe, ma gran parte delle minoranze presenti sul territorio statunitense.

Ad oggi, la Women’s March viene definita la prima piattaforma intersezionale femminista, che parte cioè dai diritti delle donne per attraversare trasversalmente il tema più generico dei diritti civili. Non a caso uno dei partner della manifestazione è l’Naacp (la National Association for the Advancement of Colored People), storica associazione che si occupa delle discriminazioni nei confronti delle persone di colore. Si marcia non solo per riaffermare i diritti umani, ma anche per quelli lavorativi (quest’anno è molto sentito il tema dello shutdown, la chiusura degli uffici pubblici a causa di problemi nel bilancio). A Washington sarà presente una delegazione della Coalition of Labor Union Women, le sindacaliste d’America.
L’organizzazione dietro alla Women’s March, di cui Rachel O’Leary Carmona è il leader ufficiale, non è ben vista da alcune parti del governo federale. Ad esempio non ci sarà la manifestazione ufficiale a Chicago, cancellata con la motivazione di alcuni episodi di antisemitismo che sarebbero avvenuti in precedenza. Un imprevisto che non ha scoraggiato Jazmine-Marie Cruz, diciannovenne che guiderà la Young Women’s March per le strade della capitale dell’Illinois. Jazmine-Marie è una delle giovani statunitensi che si è interessata alla politica lo scorso anno, dopo aver partecipato alla marcia del 2018 che aveva come tema le elezioni di Midterm.

Lo scopo della Women’s March è dare coraggio alle donne nell’affermare e pretendere il rispetto dei propri diritti. È un’occasione per aumentare la consapevolezza di avere una voce che può e deve essere sentita. Ci sono vari sottogruppi divisi per argomenti di interesse, come l’ambiente o la legge sulle armi, oppure per credenze religiose. Una diversità che non divide, ma unisce ancora di più le manifestanti che invaderanno le strade di Washington. Nelle scorse edizioni si è parlato di milioni di partecipanti, di cui circa 500mila solo nella capitale. Nel 2017 tra i presenti c’era anche Alexandria Ocasio-Cortez, nuova icona del Partito democratico e più giovane deputata mai eletta al Congresso. Il movimento ha accolto con molto favore la sua vittoria, dedicandole un post sulla propria pagina Facebook subito dopo il risultato positivo delle primarie di New York.

La mobilitazione di oggi non sarà circoscritta ai soli Stati Uniti. Sul sito della Women’s March è possibile visualizzare su una mappa del mondo su cui sono segnate tutte le “sister march”, le manifestazioni parallele che si terranno in varie parti del globo. In Italia, ad esempio, si manifesterà a Roma, Firenze, Venezia e Milano.
La #WomensWave sta per infrangersi di nuovo contro i tentativi discriminatori e machisti di chi ancora tenta di negare l’identità delle donne.

Disobbedire è giusto ma non è sufficiente

LUIGI DE MAGISTRIS SINDACO DI NAPOLI LEOLUCA ORLANDO SINDACO DI PALERMO

«Disobbedisco», dicono i sindaci Orlando e De Magistris. «Ne risponderete al popolo e alla legge», tuona il ministro Salvini. E subito la polemica invade le pagine dei mass media e diviene il centro dell’attenzione. Anche perché ai sindaci fanno seguito i presidenti di Regione, che non disobbediscono ma impugnano il decreto Sicurezza di fronte alla Corte.
La discussione su questo scontro va aldilà dello scontro stesso. Per molti, commentatori e politici, la rivolta di sindaci e presidenti è il fulcro del conflitto col governo gialloverde e consentirebbe anche la rinascita di un “nuovo” centrosinistra, o nuovo Pd, o soggetto largo, tante sono le definizioni che si danno.
Al fondo c’è l’idea del pendolo che è stata predominante in questi decenni. E cioè che ad una fase di avanzata di destre “pericolose” (prima Berlusconi e ora il pentaleghismo) segua un ritorno del fronte del “progressismo”, con tanto di sollievo per lo scampato pericolo.
Il pendolo ha ancora più valore, specie per i settori economici e di opinione che hanno largamente egemonizzato questo lungo periodo, perché l’oscillazione avviene intorno ad un perno che resta fisso, ossia l’ordine esistente. Che prevede oscillazioni ma non rovesciamenti. Tant’è che mentre si attaccano i gialloverdi per le loro misure discriminatorie ci si guarda bene dal fare autocritica su quelle fatte in proprio, come i decreti Minniti. Anzi la critica si avvale di un certo argomentare (Salvini crea insicurezza) e ci si compiace delle misure “fotocopia” come il salva banche. Di questa confusione risente anche la questione sindaci, che non è né nuova né tantomeno univoca, ad una lettura delle dinamiche in cui si situa. Se ad esempio De Magistris può rivendicare una polemica ed una azione frontale anche contro i decreti Minniti, così non si può dire per altri rappresentanti dei territori.
E se sempre De Magistris accompagna alla lotta contro le discriminazioni quella contro le politiche di austerità, di privatizzazione o di grandi opere non certo la stessa cosa si può dire ad esempio del presidente del Piemonte Chiamparino che…

L’articolo di Roberto Musacchio prosegue su Left in edicola dal 18 gennaio 2019


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Bandiera nera sulla Scala del calcio

MILAN, ITALY - DECEMBER 26: Kalidou Koulibaly of Napoli leaves the pitch after a red card during the Serie A match between FC Internazionale and SSC Napoli at Stadio Giuseppe Meazza on December 26, 2018 in Milan, Italy. (Photo by Tullio Puglia/Getty Images)

Lo scontro violentissimo tra ultras dello scorso 26 dicembre a Milano, fuori dallo stadio, prima di Inter-Napoli, con l’accoltellamento di tre tifosi napoletani e la morte di un interista, prima sbalzato a terra da un’automobile, poi schiacciato da una seconda facente parte della colonna assaltata a colpi di roncole, mazze e coltelli, ha riempito le cronache e suscitato allarme non solo nel mondo del calcio.
Solo dieci giorni prima il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, aveva incontrato e stretto la mano al capo della curva milanista Luca Lucci, pluricondannato per gravi violenze. Una costante, questa, tra chi guida i gruppi organizzati delle tifoserie milanesi, che vedono da tempo la penetrazione di estremisti di destra e criminalità organizzata.

La sponda rossonera
Lo spostamento a destra del tifo organizzato nella curva milanista risale a metà degli anni Novanta ed è all’origine della drammatica vicenda dell’assassinio del tifoso genoano Vincenzo Spagnolo, di 25 anni, il 29 gennaio 1995, nella zona antistante lo stadio Luigi Ferraris, prima dell’inizio della partita di calcio Genoa-Milan. Nel successivo processo conclusosi con diverse condanne (la più alta a 14 anni e otto mesi) si ricostruì la genesi del gruppo degli assalitori, ovvero le Brigate rossonere due, nate a seguito di una scissione dal gruppo storico delle Brigate rossonere, ritenute a quel tempo troppo di sinistra. A ribadirlo fu anche il pm che si occupò della vicenda, sottolineando come alla nascita del gruppo «non furono estranee motivazioni politiche». A confermarlo la presenza al suo interno di conosciuti personaggi dell’estrema destra, uno successivamente coinvolto in un caso di omicidio.
Ma la trasformazione definitiva della curva milanista si concretizzò nell’autunno del 2005, con…

L’inchiesta di Saverio Ferrari prosegue su Left in edicola dal 18 gennaio 2019


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Come e perché Arafet è morto durante l’arresto?

Due pattuglie, due agenti in divisa e tre in borghese. Prima lo hanno circondato, legato e, forse ucciso. Aveva le manette ai polsi, Arafet, e i piedi legati con una corda quando “ha accusato un malore”, formula insapore con cui gli inquirenti riferiscono alle agenzie i fatti, avvenuti “mentre era a terra contenuto dagli agenti”. Si chiamava Arafet Arfaoui, di origine tunisina, sposato con una donna italiana, morto la sera di giovedì 17 gennaio durante un controllo di polizia in un money transfer di Empoli, nel fiorentino.

Tra le banconote che avrebbe voluto spedire dal negozio Taj Mahal, nel centro cittadino, una, da 20 euro, è stata ritenuta falsa dal gestore che ha subito avvisato la polizia. Arafet, fino a poco tempo fa, lavorava a Livorno. Aveva appena preso una parte dell’indennità di disoccupazione e voleva spedire cento euro ai parenti in Tunisia. È quando è arrivata la prima pattuglia che il ragazzo si sarebbe agitato. Il racconto che mettono insieme testimoni e attivisti di Acad è molto diverso dai dispacci di agenzia da cui sembra che agenti e 118 sarebbero arrivati insieme. Gli attivisti di Acad si sono mossi ieri sera tardi, non appena la notizia ha iniziato il suo giro del web. Chi era nel Taj Mahal ha riferito che Arafet s’era rifugiato in bagno dove i poliziotti poi sono riusciti a bloccarlo, immobilizzandolo. Si sentiva un gran fracasso, rumore di botte, forse. Tutto dovrà essere chiarito. Poco dopo, in un’altra ala del negozio, è avvenuto l'”arresto cardiocircolatorio” che ha provocato la morte dell’uomo “contenuto”.

La famiglia della vittima non vuole parlare con i giornalisti. È sconvolta perché è difficile credere all'”arresto cardiaco” di un uomo forte, uno che faceva l’operaio di fatica nell’indotto del porto di Livorno. Sua moglie conserva ancora le foto di quando la polizia lo ha pestato a Pisa qualche tempo fa. La scientifica di Firenze, ieri sera, ha comunicato la morte solo due ore dopo essere entrata in casa della vittima e al termine di una sorta di interrogatorio che, probabilmente, potrebbe essere servito a comporre la versione da dare in pasto alla stampa. «Sappiamo anche che è stato impedito ai familiari di vedere il corpo se non da lontano, non sappiamo quali siano le reali condizioni», spiega a Left un attivista di Acad raccontando che la famiglia è sconvolta «perché la pena di morte in Italia non dovrebbe esistere anche nell’eventualità che il loro caro fosse stato incapace di gestire la rabbia o avesse problemi con l’alcol, come si affrettano a riportare i primi resoconti. I dettagli dei racconti dei testimoni ci hanno lasciati sconvolti, abbiamo fatto tutto il possibile per far capire alla famiglia che non è sola e che se vorrà potrà contare sulle forze di una rete solidale che sarà al suo fianco, e su avvocati preparati che sono stati già allertati e sono pronti insieme a periti legali a scrivere la vera verità sulla morte di Arafette. Ora inizia una corsa contro il tempo».

Oltre alle urgenze legali e agli accertamenti medici da richiedere nelle ore a ridosso di questa ennesima morte avvenuta a una persona la cui incolumità doveva essere responsabilità di chi lo aveva in custodia, c’è anche la necessità, che emerge nell’incontro tra i volontari di Acad e i familiari della vittima, di restituire la dignità umana a una persona dopo l’assoluzione preventiva via tweet da parte del vicepremier Salvini, ministro di polizia. «Totale e pieno sostegno ai poliziotti che a Empoli sono stati aggrediti, malmenati, morsi. Purtroppo un tunisino con precedenti penali, fermato dopo aver usato banconote false, è stato colto da arresto cardiaco nonostante gli immediati soccorsi medici. Tragica fatalità. Però se un soggetto violento viene ammanettato penso che la polizia faccia solo il suo dovere», ha scritto il noto statista leader di uno dei due partiti di governo, quello più allergico alle denunce di eventuali abusi in divisa.

Come alcuni sindacati di polizia, il Sap, ad esempio (celebre la standing ovation del congresso nazionale per i quattro colpevoli dell’omicidio Aldrovandi già condannati in giudicato) che poche ore dopo il fatto di Empoli ripete le litanie in favore dell’uso di presunte armi non letali: «Torniamo ancora una volta a ribadire quanto sia essenziale la dotazione di taser e telecamere per gli uomini in divisa operativi su strada. Sono strumenti necessari per la tutela e la trasparenza – scrive Stefano Paoloni, segretario generale del sindacato autonomo di polizia, Sap -. Con il taser, soggetti che danno in escandescenze, possono essere bloccati evitando il contatto fisico. Con questo strumento non letale, che chiediamo a gran voce, si tutela sia il poliziotto che il fermato». Paoloni, che si «augura che nessuno strumentalizzi la vicenda, come avvenuto in passato in casi analoghi», ignora i dossier di Amnesty international sulle centinaia di morti causati proprio dall’uso delle taser o sulla montagna di vittime delle pallottole flashball come sta avvenendo anche in Francia in queste settimane nella repressione scatenata contro i gilet gialli. Il taser, tra l’altro, è stato sperimentato proprio a Firenze alla fine del 2018, contro una persona con disagio psichico.

La Procura di Firenze ha aperto un fascicolo, per ora contro ignoti, ipotizzando il reato di omicidio colposo per la morte del 32enne tunisino. Il pm Christine Von Borries ha ascoltato come persone informate sui fatti tutti gli intervenuti presso il money transfer, dove il tunisino Arafet Arfaoui è deceduto per un probabile arresto cardiocircolatorio mentre si trovava con le manette ai polsi e con una cordicella ai piedi. Lunedì prossimo sarà effettuata l’autopsia. Le indagini sono condotte con la collaborazione dalla squadra mobile della Questura di Firenze secondo un discutibile costume per cui la polizia indaga su sé stessa come i carabinieri indagarono, sempre a Firenze, sulla morte in circostanze simili di Riccardo Magherini, il 3 marzo del 2014. Il magistrato ha disposto anche l’acquisizione delle immagini riprese dalle telecamere di videosorveglianza presenti nella zona.

Nel paese dei casi Cucchi, Aldrovandi, Budroni, Rasman, delle “celle lisce” in carcere, delle mattanze di Bolzaneto e della Diaz, dove non esiste un codice alfanumerico per identificare gli autori di reati commessi travisati e in divisa e dove non c’è una legge degna di questo nome contro la tortura (ed è un catalogo estremamente incompleto) suonano assolutamente fuoriluogo le dichiarazioni del segretario generale Fsp, Federazione sindacale di polizia, in relazione alla ennesima morte sopravvenuta durante un fermo: «I poliziotti italiani sono un modello per l’intera Europa e sono certamente i più preparati al mondo a gestire le situazioni limitando al minimo l’utilizzo della forza a costo di pagarne le conseguenze sulla propria pelle, come purtroppo è accaduto molto spesso. Eppure temiamo che adesso parta la solita campagna di delegittimazione della divisa da parte di coloro i quali quasi attendono con ansia vicende del genere pur di poter crocifiggere chi appartiene alle forze dell’ordine. Quel che va detto, invece, è che i poliziotti non sono medici non possono essere lasciati da soli di fronte a situazioni in cui è palese la necessità di una gestione da parte di personale sanitario».