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Un Paese incapace di provare speranza

Proviamo a uscire per un attimo dal gioco xenofoboadolescenziale del ministro dell’inferno: se la tracimazione dello sfogo, della rabbia, della cattiveria e della predisposizione alla vendetta fossero gli effetti della disperazione? Attenzione, per carità, qui non si vuole fare un trattato spiccio di sociologia ma la disperazione ha tutto il senso nel suo nome: è disperato chi non riesce più a fabbricarsi speranza ed è quindi afflitto da un inconsolabile sconforto.

Pensateci: non è sconforto appoggiare la testa sul proprio posto nel treno regionale che riporta a casa gente consumata dalla stanchezza eppure che ha guadagnato troppo poco per poter rispettare gli impegni?  Non è sconforto rinunciare al necessario per pagare servizi che dovrebbero essere garantiti? Non è sconforto sdoganare odio tra disperati, tutti preoccupati che qualcuno gli rubi un pezzo di disperazione?

Il Censis (che invece con i numeri fa sul serio, mica a sensazione) nel suo ultimo rapporto parla di un’Italia in preda a «una sorta di sovranismo psichico prima ancora che politico» che «talvolta assume i profili paranoici della caccia al capro espiatorio, quando la cattiveria – dopo e oltre il rancore ‒ diventa la leva cinica di un presunto riscatto e si dispiega in una conflittualità latente, individualizzata, pulviscolare». E no, non c’è solo l’ostilità contro i migranti, come farebbe comodo a qualcuno: l’Italia è il Paese europeo con la più bassa percentuale (23%) di cittadini convinti di aver raggiunto una condizione socio-economica migliore dei loro genitori (la media Ue è il 30%, il 43% in Danimarca, il 41% in Svezia, il 33% in Germania). Il 96% delle persone con un basso titolo di studio e l’89% di quelle a basso reddito non pensano di poter migliorare la propria vita. E il 56,3% degli italiani dichiara di non credere che le cose stiano veramente cambiando.

Sempre a proposito di numeri: il 35,6% degli italiani è pessimista per il futuro, il 31,3% è incerto e solamente il restante 33,1% sfoggia ottimismo. Ovvero speranza.

Il problema è complesso, ahinoi, molto di più di come viene raccontato. Nonostante si insista sui migranti per raccattare voti e fomentare paura (nei telegiornali del 2018 sono stati dedicati 4.068 servizi all’emergenza immigrazione, con la stessa ossessione di alcuni potenti) siamo un Paese che ha perso manualità nel provare speranza, semplicemente. E la soluzione richiederebbe passione per la complessità, in questo tempo di banalizzazioni. E invece tutto intorno si spande un po’ di superficialotto paternalismo (chi per i compiti delle vacanze, chi per i tradizionalismi e le buone maniere passate) che viene facile facile per rimpiangere il passato. Perché rimpiange il passato (anche quello che non c’è mai stato) chi è incapace (o disperato) nel futuro.

Buon mercoledì.

Aggredirono un corteo antifascista a Bari: indagati 28 adepti di CasaPound, sequestrata la loro sede

La sede di CasaPound a Bari è stata sottoposta a sequestro preventivo su disposizione della magistratura barese. L’indagine riguarda l’aggressione compiuta da militanti del movimento di estrema destra il 21 settembre scorso nei confronti di manifestanti che avevano appena partecipato ad un corteo antifascista e antirazzista. Nell’aggressione rimasero ferite tre persone.

E ora chi glielo spiega al solerte funzionario del Viminale che produsse una relazione in cui dipingeva questo sodalizio criminale come una confraternita di filantropi? E chi glielo annuncia al capo di tutte le questure, Salvini, che manda precisi messaggi indossando magliette di una marca (Pivert) riconducibile a questa “holding” di squadristi del III millennio?

Stando alle indagini della Digos, coordinate dal procuratore aggiunto Roberto Rossi, la sera del 21 settembre dieci militanti di CasaPound, dinanzi alla sede di via Eritrea, «in esecuzione di un medesimo disegno criminoso giustificato dalla ideologia fascista» con «sfollagente, manubri da palestra, manganello telescopico, cintura dei pantaloni» e con premeditazione, hanno causato lesioni personali ad almeno quattro manifestanti. Dopo l’aggressione un gruppo di attivisti antifascisti, compagni delle vittime, avrebbero minacciato e colpito con calci, pugni e spintoni poliziotti e carabinieri intervenuti per sedare gli animi e contenere il tentativo di sfondamento del cordone. Così, per bilanciare salomonicamente l’inchiesta, sette antifascisti sono invece accusati di violenza e minaccia a pubblico ufficiale.

Nell’aggressione rimasero feriti Giacomo Petrelli del Pdac, Antonio Perillo, assistente parlamentare dell’eurodeputata Prc Eleonora Forenza (anche lei presente al momento dell’aggressione) e Claudio Riccio di Sinistra Italiana.

Il provvedimento di sequestro è stato disposto dal gip del Tribunale di Bari Marco Galesi. Sono contestati i reati di «riorganizzazione del disciolto partito fascista» e «manifestazione fascista». In particolare, la Procura contesta di «aver partecipato a pubbliche riunioni, compiendo manifestazioni usuali del disciolto partito fascista e di aver attuato il metodo squadrista come strumento di partecipazione politica».

«Un fatto importante non solo per me e per chi ha subito l’aggressione il 21 settembre ma per tutte le antifasciste e gli antifascisti di questo Paese – commenta a caldo Eleonora Forenza -. Partigiane e partigiani, questo dobbiamo essere, ancora di più in un momento in cui il ministro dell’Interno indossa un giorno abiti griffati dagli amici di CasaPound e l’altro magliette della polizia. Questo dobbiamo essere in un tempo in cui tre manifestanti antifascisti della Ex Caserma Liberata vengono denunciati per blocco stradale proprio a Bari, rischiando fino a 6 anni. Lo abbiamo denunciato fin da quella sera, fatta di sangue, di paura, di rabbia: si trattava di una aggressione squadrista, premeditata, partita dalla sede di CasaPound in via Eritrea. I camerati ne hanno inventate di ogni, persino accusandomi di aver guidato un assalto contro di loro. Oggi le loro ridicole bugie ricevono una smentita anche dalle indagini del tribunale di Bari. E non finisce qui».

Un’inchiesta che conferma i ripetuti allarmi delle reti antifasciste e perfino le relazioni dei servizi segreti che già nel febbraio del 2017 smentivano il Viminale che, solo nel 2015, aveva avuto parole di elogio per le attività di CasaPound in una corposa informativa della polizia di prevenzione. Da allora la cronaca nera non ha potuto evitare di riempire pagine e pagine sulle gesta belliche dell’organizzazione dei fascisti del III millennio.

«L’allarme legato ai flussi migratori – si leggeva nel documento dei servizi – ha favorito l’accelerazione di maggiori forme di coordinamento, peraltro già esistenti, tra formazioni dell’ultradestra che hanno ottenuto un notevole aumento di consensi, grazie all’uso strumentale di una efficace propaganda sempre più marcata da accenti nazionalisti e xenofobi (…). Il ventaglio di scelte nella frammentata galassia dell’estremismo di destra è ampio. Sempre secondo gli inquirenti «in seno all’area identitaria, spicca l’associazione CasaPound Italia» con le proprie articolazioni nel contesto studentesco Blocco Studentesco, sindacale Blu – Blocco Lavoratori Unitario e ambientalista L.F.C.A. – La Foresta che Avanza. CasaPound resta tra le formazioni più attive a Roma dove, dietro la copertura dei comitati di quartieri «organizza, gestisce e dirige, di fatto, ogni fase della protesta».

Un film completamente diverso da quello “girato” dalla Direzione centrale della Polizia di prevenzione (protocollo N.224/SIG. DIV 2/Sez.2/4333 dell’11 aprile 2015) con sigla in calce del direttore centrale, prefetto Mario Papa, che aveva definito Cpi una organizzazione di bravi ragazzi molto disciplinatii, con «uno stile di militanza fattivo e dinamico ma rigoroso nelle rispetto delle gerarchie interne» sospinti dal dichiarato obiettivo «di sostenere una rivalutazione degli aspetti innovativi e di promozione sociale del ventennio». Il testo della informativa fa ricorso ad un’abile strategia linguistica evitando come la peste l’utilizzo della parola fascismo, al suo posto si usa un sinonimo “neutralizzante” come “ventennio”. Quel rapporto valorizzava la “progettualità” chiaramente xenofoba del gruppo «tesa al conseguimento di un’affermazione del sodalizio al di là dei rigidi schemi propri delle compagini d’area», proprio nei giorni in cui Cpi saldava le proprie energie con quelle dell’allora emergente Salvini. Prova ne sarebbero – prosegue la nota – «le recenti intese con la Lega Nord, di cui si condividono le istanze di sicurezza e l’opposizione alle politiche immigratorie, con la creazione della sigla Sovranità – Prima gli Italiani a sostegno della campagna elettorale del leader leghista».

Il 13 dicembre saranno sette anni da quando, a Firenze, un neofascista uccise due migranti senegalesi prima di uccidersi a sua volta mentre stava per essere catturato. Le vittime si chiamavano Samb Modou e Diop Mor, l’omicida Gianluca Casseri, considerato fino ad allora un intellettuale di riferimento proprio da CasaPound (che poi ne prese le distanze). CasaPound, spesso camuffata da comitato di cittadini, è spesso in prima fila nelle manifestazioni razziste contro i migranti, i rifugiati, gli assegnatari stranieri di alloggi popolari, nelle aggressioni a studenti di sinistra, nelle esibizioni muscolari sotto il Parlamento contro lo ius soli e in altri fatti di cronaca nera. La sede nazionale di CasaPound Italia è in un palazzo storico e pregiato nel quartiere romano dell’Esquilino, un edificio pubblico occupato senza titolo dal 27 dicembre 2003 con la benedizione di Storace, Alemanno e la distrazione delle giunte di centrosinistra. Sei piani sulla centralissima via Napoleone III, una terrazza con vista panoramica. Quindici anni senza nemmeno un tentativo di sgombero mentre ogni giunta e ogni governo si sono accaniti con violenza su migranti e italiani poverissimi.

Coccolatissimi dall’attuale inquilino del Viminale, lo furono anche dal ministro Alfano che provò a minimizzare l’allarme su Cpi. Perfino lui però dovette fornire alcune cifre: nel quinquennio 2011-2015 – spiegò – sono stati tratti in arresto 19 militanti o simpatizzanti di CasaPound, mentre 336 sono stati deferiti a vario titolo all’Autorità giudiziaria.

Nelle interrogazioni parlamentari sono riportati parecchi episodi. Come quello del 2 gennaio 2012, quando quattro esponenti di CasaPound aggrediscono a Lecce uno studente universitario di diverso schieramento politico, lasciandolo a terra esanime, fino alla recente aggressione di una diciassettenne a Bolzano per futili motivi (quotidiano on line Alto Adige, 26 gennaio 2016), per la quale è avvisato di garanzia un consigliere comunale altoatesino di Cpi. Il leader nazionale di Cpi Iannone picchiò un carabiniere a calci e a pugni a Predappio nel 2004 in occasione dell’anniversario della morte di Mussolini, cosa per la quale fu sottoposto a processo. Nel novembre 2011 a Roma un gruppo di iscritti al Pd, evidentemente non dei centri sociali, mentre affiggevano manifesti vengono aggrediti e massacrati di mazzate, in particolare Paolo Marchionne, poi presidente del III municipio. Verrà identificato tra gli aggressori un dirigente nazionale della giovanile di Cpi, Alberto Palladino, oggi dirigente di Cpi; Palladino viene condannato durante i primi due processi. Nel luglio 2012 dai giornali si apprende di accuse per il numero due del movimento di destra Andrea Antonini per favoreggiamento personale e falso materiale. Assieme a un complice avrebbe testimoniato per far rilasciare una carta d’identità, intestata a un’altra persona, a un latitante narcotrafficante. Siamo nel giugno 2014: viene arrestato Ruffini, leader di Cpi a San Benedetto del Tronto, pugile professionista che aveva in vari episodi riempito di pugni vari passanti per la strada a San Benedetto. Nel luglio 2014 viene arrestato dalla Mobile di Roma Giovanni Ceniti, leader fino almeno a tre anni prima leader di Cpi Verbania, in quanto implicato nell’omicidio Fanella a Roma, una storia connessa al tesoretto nascosto del maxitruffatore nero Mokbel. Nel novembre 2014 ha avuto luogo a Magliano Romano un’aggressione di incappucciati ad una tifoseria composta anche di donne e bambini con feriti che hanno avuto decine di giorni di prognosi; le indagini hanno svelato alcuni autori dell’aggressione tra cui il capo di Cpi a Viterbo, Diego Gaglini, candidato sindaco, e Erwin Maulo, noto violento, daspato, candidato consigliere comunale a Viterbo. Il 19 dicembre 2014 Lirio Abbate su l’Espresso scrive “Ci potrebbe essere un collegamento fra il capo di “Mafia Capitale”, Massimo Carminati e il leader di CasaPound, Gianluca Iannone. A far da ponte fra i due sarebbe un uomo, di cui non si conosce ancora l’identità, che emerge nelle intercettazioni e su cui i carabinieri del Ros hanno avviato accertamenti per individuarlo. L’ipotesi emerge dai pedinamenti effettuati durante l’indagine su “Mafia Capitale”.

Nel luglio 2015 in occasione di scontri con la Polizia durante una kermesse anti immigrati di Cpi a Roma vengono feriti alcuni poliziotti, cosa per la quale vengono emessi 13 avvisi di garanzia contro esponenti romani e nazionali di Cpi. Un articolo pubblicato dal quotidiano la Repubblica edizione romana, in data 23 marzo 2009, a firma Rori Cappelli dal titolo «CasaPound, slogan choc contro i disabili», si dà conto di come militanti di CasaPound avessero esibito uno striscione con la dicitura «travestiti da disabili, ma con le pance piene, siete sempre e solo iene». La giornalista, nell’articolo, riporta la reazione di un ragazzo minorenne down il quale alla vista dello striscione, piangente, dice «io non sono travestito da disabile, io sono down». Ancora, l’articolo pubblicato dal quotidiano la Repubblica del 6 febbraio 2009, a firma del giornalista Paolo Berizzi, narra di come un circolo neofascista milanese denominato «Cuore Nero» e gemellato con CasaPound, avesse pubblicato una fanzine, la cui copertina rappresentava un brindisi all’olocausto. Un fotomontaggio, al posto della famigerata scritta «il lavoro rende liberi» posta sopra il varco di accesso al campo di sterminio di Auschwitz, compare «Cuore nero brewery»: letteralmente, «Birrificio Cuore nero». La copertina è del numero di giugno 2008; in altra occasione, un esponente di CasaPound, consigliere della circoscrizione ovest di Prato per il partito delle libertà, inneggiava ad Adolf Hitler, come risulta dall’articolo pubblicato il 23 aprile 2011, pubblicato sul sito del quotidiano «Il Tirreno» dal titolo «Consigliere del Pdl fa l’elogio di Hitler»; altro episodio di xenofobia e razzismo si è verificato in occasione dell’anteprima nazionale dello spettacolo teatrale di Ascanio Celestini dal titolo: «Il razzismo è una brutta cosa», tenutasi a Viterbo il 24 settembre 2009. In quella occasione, CasaPound Viterbo, con numerose scritte murali attaccò l’assessore provinciale Picchiarelli, il consigliere Riccardo Fortuna e l’attore Ascanio Celestini; volantini vennero affissi sui muri della città e buttati dentro la sede dell’Arci di Viterbo: le scritte murali ed i volantini attaccavano le persone, ma in realtà il bersaglio politico era lo spettacolo di Ascanio Celestini contro il razzismo.

Nel gennaio 2013, un’inchiesta della procura di Napoli portava all’arresto di 7 esponenti di CasaPound e all’applicazione dell’obbligo di dimora per altri 3 nelle città di Napoli, Salerno e Latina. In rete è possibile reperire diversi articoli sulla vicenda, pubblicati dal Corriere del Mezzogiorno tra il 24 ed il 29 gennaio 2013, nei quali si dà conto della vicenda, al di là degli sviluppi processuali, ciò che interessa è quanto emerge dalle intercettazioni captate tra gli aderenti di CasaPound, i quali esprimono chiaramente sentimenti antisemiti: si arriva a dire di voler violentare una studentessa ebrea, che gli ebrei con la kippah fanno schifo, altri dicono che le camere a gas non sono esistite, ma non bisogna dirlo pubblicamente, altri discutono del Mein Kampf di Adolf Hitler e si ricostruiscono episodi di pestaggi ai danni di giovani di sinistra in occasione di una campagna elettorale; nel 2014 è accaduto che, a seguito del diffondersi di una falsa notizia relativa ad una presunta aggressione compiuta da nomadi, gli aderenti al «Blocco studentesco», articolazione di CasaPound, hanno di fatto impedito a 90 ragazzi e ragazze del campo nomadi di Via Cesare Lombroso a Roma di recarsi, rispettivamente, alle scuole materne, elementari e medie. I giovani di CasaPound, si sono presentati in circa 500, esibendo uno striscione con su scritto «No alle violenze dei Rom. Alcuni italiani non si arrendono», accendendo fumogeni e scandendo cori contro i nomadi. Tale iniziativa venne stigmatizzata dall’allora vice-Sindaco di Roma, che ha visto la partecipazione di 500 persone di fronte alle quali i genitori dei bambini non si sono sentiti sicuri di uscire, un gesto meschino, un atto di razzismo che va contro ogni principio democratico».

Il gruppo musicale Zeta0alfa, ZOA che in greco significa Animali, come un famigerato battaglione delle SS, citato dall’informativa Papa come positivo momento ludico e culturale di rifermento per CasaPound, il cui leader musicale è sempre Iannone, si caratterizza per canzoni di omaggio a Hitler e Mussolini; “Primo mi sfilo la cinghia, due inizia la danza, tre prendo bene la mira, quattro cinghiamattanza”, è solito urlare dal palco e dal microfono Iannone, il cantante degli Z0A, mentre la platea in sala mette in pratica la strofa iniziando a colpirsi. Ripetutamente. Con tanto di ferite che, finito il ballo, rappresentano medagliette di cui esser orgogliosi. La Cinghiamattanza appare come un rito di iniziazione. Ed è forse l’unica nota di colore in questa lista di reati.

Qualcuno ha fatto i calcoli ma certo per difetto: dal 2011 al 2017, fra militanti e simpatizzanti di CasaPound, potrebbero essere state arrestate almeno una cinquantina di persone, ma alcune questure potrebbero aver omesso il legame con Cpi derubricando i fatti a banali aggressioni. In pratica, mediamente ogni tre mesi uno è finito in manette. Nello stesso periodo i denunciati sarebbero stati, secondo Alfano, 359: uno ogni cinque giorni.

Ma la firmerebbero oggi?

Fiaccolata in occasione del 70esimo anniversario della dichiarazione universale dei diritti umani presso Piazza Castello, Torino, 10 dicembre 2018. ANSA/ ALESSANDRO DI MARCO

Dico la Dichiarazione universale dei Diritti dell’uomo, quella che ieri un po’ tutti hanno agitato come un feticcio, quella che ormai è diventata un Colosseo sotto vetro da agitare per sollevare la neve finta e illudersi di essere a Roma.

«Considerato che il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo», lo firmerebbero oggi, quelli che governano? Riuscirebbero a pronunciare famiglia umana oppure esploderebbero le teste dei sovranisti dallo sguardo largo quanto il loro cortile? Davvero, per sapere.

«Considerato che l’avvento di un mondo in cui gli esseri umani godano della libertà di parola e di credo e della libertà dal timore e dal bisogno è stato proclamato come la più alta aspirazione dell’uomo», lo firmerebbero oggi? La libertà dal timore non è proprio l’esatto opposto delle fondamenta di tutta questa propaganda che proprio sul timore ha costruito il suo successo? Dai, non scherziamo su.

E poi.

«Nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a trattamento o a punizione crudeli, inumani o degradanti», lo firmerebbero? E se sì, lo spedirebbero poi controfirmato a quel Al Sisi regnante d’Egitto che ci parlò di Giulio Regeni come di un ragazzetto coinvolto in un incidente stradale? Ma davvero?

E poi.

«Tutti sono eguali dinanzi alla legge e hanno diritto, senza alcuna discriminazione, ad una eguale tutela da parte della legge». Ma sul serio? Come i bimbi della mensa di Lodi? Come i richiedenti asilo che non hanno diritto al normale dibattimento di un altro qualsiasi processo?

E poi.

«Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi Paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio Paese». E su questa non c’è nulla da aggiungere. È già agghiacciante letta così.

Le convenzioni internazionali non si sventolano e non si tengono sulla giacca come se fossero stellette. Si praticano, semplicemente. Oppure almeno la dignità di tacere. Per pietà.

Buon martedì.

 

Accoglienza o barbarie, verità e giustizia per i nuovi desaparecidos

La barbarie-Europa sono le 15 persone lasciate morire di stenti su una barca alla deriva per 12 giorni nella cosiddetta zona Sar libica. Nel silenzio.

La barbarie-Europa ha il nome di Suruwa Jaithe, un giovane rifugiato gambiano di 18 anni, morto carbonizzato il 2 dicembre scorso nel rogo della baracca dove abitava, nel campo-ghetto di San Ferdinando, nella piana di Gioia Tauro.

La barbarie-Europa ha il volto di Nassim, annegato in un torrente in Slovenia, già all’interno della “fortezza”, non lontano dall’Italia.

La barbarie-Europa è responsabile del suicidio di Amadou Javo, 22 anni, impiccato al cornicione della casa di Castellaneta Marina (Taranto) dove viveva con altri migranti.

La barbarie-Europa ha la follia di un gesto di un profugo nigeriano di 33 anni, morto lanciandosi dal treno tra le stazioni di San Germano Vercellese e Olcenengo, in provincia di Vercelli, forse perchè non aveva il biglietto.

La barbarie-Europa sono i tre ragazzi senza nome morti per assideramento, un giovane afghano e due suoi compagni, respinti dalla polizia greca e costretti a salire su una barca per riattraversare il fiume Evros e tornare in Turchia: i loro corpi sono stati trovati il dieci dicembre in tre villaggi della provincia turca di Edirne: Serem, Akcadam e Adasarhanli. Afghani, pakistani, siriani e iracheni che fuggono le guerrre. Al gelo sulla rotta Balcanica.

La barbarie-Europa sono i futuri casi di ipotermia di quest’inverno senza tende e ripari lungo tutta la rotta balcanica o sulle isole greche. Migliaia di persone al gelo: non è Siberia, è Europa.

La barbarie-Europa sono le migliaia di uomini, donne e ragazzi detenuti e torturati nei lager libici da cui giungono le inguardabili foto di arti amputati e orrende cicatrici: giovani venduti o uccisi, il cui grido estremo – una disperata richiesta di soccorso – non giunge alle nostre orecchie.

Non sappiamo quanti vengono venduti come schiavi o uccisi in Libia, quanti rifugiati muoiono di sete, stenti e maltrattamenti nel deserto del Sahara, non sappiamo quanti annegano a qualche passo dalle nostre coste, quanti vengono torturati in Sudan, Eritrea, Niger, Libia, quante donne vengono stuprate sulle rotte, nelle prigioni, nei campi di smistamento, quanti vengono uccisi appena rimpatriati (in Afganistan in guerra), quanti muoiono di freddo sulle rotte o sui sentieri delle Alpi tra Italia-Francia, salvo scoprirne i corpi dopo il disgelo; quanti restano feriti cercando di superare le barriere di lame e filo spinato, quanti annegano e vengono respinti nell’Egeo o sull’Evros, quanti alla frontiera ispano-marocchina, quanti scompaiono sulle rotte e nei lager libici. Quanti vengono uccisi.

Chiediamo Verità e Giustizia per i nuovi desaparecidos. Su tutti confini esternalizzati da barbarie-Europa si sta commettendo un crimine, un genocidio del popolo migrante di cui siamo oggi responsabili.

Mille scuole aperte per una società aperta: Contro il razzismo, per i diritti umani

Mentre i diritti umani vengono calpestati dalla politica xenofoba del governo legastellato, con il cosiddetto Decreto Sicurezza e immigrazione, nelle scuole si tenta di reagire, di mantenere saldi i principi costituzionale dell’istruzione uguale per tutti, della libertà di insegnamento e del dovere di accoglienza e d’asilo. Per contrastare il razzismo bisogna cominciare da lì, dalle scuole. Per “rimuovere quegli ostacoli che impediscono lo sviluppo della persona umana”, come dice l’articolo 3 della Costituzione.
Proprio oggi, 10 dicembre, anniversario della Dichiarazione universale dei diritti umani il Tavolo Saltamuri lancia la campagna Mille scuole aperte per una società aperta.

Fino al 17 dicembre si raccolgono adesioni e informazioni presso associazioni, scuole, comitati, gruppi di scuole o singoli cittadini. «Chiediamo a tutte e tutti gli insegnati che hanno progettato o stanno realizzando percorsi di educazioni ai diritti, alla cittadinanza, allo studio delle migrazioni e alla comprensione delle diverse realtà del mondo, di informarci su ciò che stanno
realizzando nelle scuole o in altri luoghi educativi».

Nel sito Saltamuri ci sono materiali didattici e in quello del Mce c’è un’apposita scheda da riempire. In questo modo sarà possibile avere una mappa di un’altra Italia, quella delle scuole e della formazione, quella dove le differenze culturali e la diversa provenienza geografica degli studenti costituiscono una ricchezza e non un minus.
Saltamuri, ricordiamo, è nata questa estate dopo gli episodi di Lodi dove un’ordinanza del sindaco leghista aveva impedito ai bambini di origine straniera di accedere ai servizi della mensa e dei trasporti e di Monfalcone dove, sempre un’amministrazione leghista, aveva messo un tetto al numero di bambini stranieri.
Il tavolo Saltamuri di cui fanno parte un centinaio di associazioni, e di cui un animatore è il maestro Franco Lorenzoni, è stato presentato alla Camera il 17 ottobre 2018. «Come ad Adro anni fa – aveva spiegato al’Ansa Giancarlo Cavinato, responsabile del Mce e portavoce del Tavolo – funzionari, enti locali e dipendenti del Miur operano scelte che discriminano bambini per censo e provenienza, relegandoli in classi ghetto, separandoli da momenti essenziali della vita scolastica».
Adesso la campagna vuole promuovere «percorsi didattici, iniziative, dibattiti, manifestazioni e concerti per contrastare la povertà educativa, la disgregazione sociale e la crescita dell’intolleranza».

Schiavitù made in decreto sicurezza

È passata quasi in silenzio, il 2 dicembre, la Giornata mondiale per l’abolizione della schiavitù. Sono passati 69 anni, si era nel 1949, quando questo venne sancito dall’Assemblea generale della Convenzione delle Nazioni Unite per la repressione del traffico di persone e dello sfruttamento della prostituzione. Entrata in vigore nella primavera successiva, ci vollero 16 anni, nel 1966, perché il Parlamento italiano la recepisse e la facesse propria nell’ordinamento. Un ritardo che dovrebbe far riflettere. Ma perché parlarne nel 2018? Forse perché nel 2018, a 70 anni dall’entrata in vigore della Dichiarazione universale dei diritti umani (10 dicembre 1948), un ragazzo del Gambia di 18 anni, rifugiato e accolto in Italia, finito a farsi sfruttare nei campi in Calabria e a dormire nella tendopoli di San Ferdinando, ha perso la vita nell’incendio della sua baracca. Perché quando fa freddo e ti devi riscaldare, spesso non hai modo di pensare alle precauzioni.
O forse perché dopo l’approvazione in Parlamento delle leggi razziali contenute nel dl 113 del ministro della ruspa, sono stati cacciati dai centri d’accoglienza migliaia di uomini, donne, bambini, ora senza prospettive e senza futuro. Senza il tempo neanche di trovare una soluzione provvisoria. Qualche caso di maggiore vulnerabilità ha creato indignazione come quello di Crotone, di una famiglia con un bambino piccolo e una donna al sesto mese di gravidanza. Tanti altri sono invece passati sotto silenzio. Penso alle retate fatte a Catania, nei centri di accoglienza del quartiere di San Berillo. Presi, portati in questura e convinti a firmare la disponibilità al “rimpatrio volontario assistito”. Come saranno stati convinti ad andarsene volontariamente? E mentre si dimentica l’abolizione del traffico di esseri umani si lasciano per giorni 12 persone, soccorse da un peschereccio, in balia dei marosi, solo dopo un lungo peregrinare si è trovata a Malta la disponibilità di un approdo per terminare l’odissea. Per fermare il traffico, si continua poi a sostenere gli schiavisti in Libia, lasciando fare ad altri il lavoro sporco. Chi, grazie alle missioni italiane ed europee, viene riaffidato alle “amorevoli cure” della cosiddetta Guardia costiera libica, conosce bene il destino che lo attende. Violenze, torture, lavoro schiavo e ricatto alle famiglie rimaste nei Paesi di origine, “o pagate o ammazziamo il vostro figlio, la vostra figlia”. E, restando in Italia – ma nel resto del continente le differenze sono labili – sempre in virtù delle leggi che dovrebbero far sentire le “nostre” città finalmente più sicure, si rende più difficile alle ragazze che arrivano dalla Nigeria sfuggire alla tratta, si riempiono i luoghi della miseria di persone in condizioni di totale insicurezza e vulnerabilità, ci si prepara a spendere milioni di euro per costruire Centri permanenti per il rimpatrio, ci si prepara, magari impugnando la croce e inchinandosi un momento dopo davanti ad un altare, a ordinare lo sgombero di stabili inutilizzati e occupati da famiglie senza casa, ad arrestare chi esprime dissenso, a vomitare parole d’odio dagli schermi Tv messi a disposizione. Si crea il caos per avere nuovi schiavi a disposizione, per il lavoro sfruttato, per il mercato del sesso, per la criminalità organizzata. E lo chiamano “decreto sicurezza” (diventato legge, con la firma di Mattarella). E il 2 dicembre ho risentito la voce di Mimmo Lucano, finalmente di un essere umano. Era indignato per le famiglie di Crotone, per le notizie che gli giungevano da tutta Italia, indignato e deciso ad agire, a non obbedire alle leggi ingiuste. E ci siamo ritrovati a parlare di quanto sia inaccettabile parlare, di fronte a tutto ciò di obbedienza. L’obbedienza non ha alibi, non offre attenuanti, non garantisce scontri. Mi diceva il sindaco che in questi giorni sta vedendo come fra le forze dell’ordine stia prevalendo la cattiveria, il sentirsi investiti del potere di fare ciò che si vuole contro chi si vuole. Obbediscono o sono parte attiva dell’ingranaggio crudele di un sistema autoritario?
Noi stiamo con Mimmo Lucano.

L’articolo di Stefano Galieni è tratto da Left del 7 dicembre 2018


SOMMARIO ACQUISTA

È ossessione per le vittime. Ebbasta

Rescuers assist injured people outside the nightclub 'Lanterna Azzurra' in Corinaldo, near Ancona, central Italy, 08 December 2018. A stampede that occurred overnight outside the nightclub killed six people and injured more than 100, after someone probably caused a panic with a stinging spray. The incident took place at the packed club hosting a concert by popular Italian rapper Sfera Ebbasta. ANSA/ STRINGER

È ossessione per le vittime. Semplicemente. Senza troppi giri di parole si tratta di una stortura che non riusciamo a scrollarci di dosso e che riaffiora in continuazione, talvolta con ferocia, talvolta come putrido maschilismo e ancora più spesso come catrame benpensante. 

È colpa della vittima se è donna, magari svestita, magari in giro a un’ora che non si addice alle donne, peggio ancora se all’estero e peggio del peggio se probabilmente si divertiva. 

È colpa della vittima se è nero, meglio se cencioso o affamato.

È colpa della vittima se è uno sconfitto che non accetta di subire la “lezione” dei vincitori, che si lamenta di essere trattato da perdente ed è punito come si puniscono i perdenti. 

È colpa della vittima se “se l’è cercata”. E dentro la moderna definizione del “cercarmela” c’è di tutto: basta un po’ di “diversità” (ovviamente certificata dal benpensare del pensiero dominante), basta qualche “stranezza” (certificata da una “normalità” che non ha mica il metro della legge ma quello di quelli che benpensano), peggio ancora se c’è la colpevolezza. La colpevolezza (di un presunto reato qualsiasi) di questi tempi, qualunque essa sia, invoca la morte, l’annullamento, l’eliminazione, la condanna perenne. 

È colpa della vittima se si oppone alla “maggioranza degli italiani”, dove la maggioranza (piuttosto teorica e tutta uscita da alambicchi percentuali di detestabili leggi elettorali) viene agitata come una scure. Non è nemmeno una spada di Damocle. Non basta. Troppo buonista. È una ghigliottina. 

Comunque la si voglia vedere sono anni che in molti si spremono per dirci che noi siamo così perfetti (noi italiani appartenenti alla loro schiera) che se accade qualcosa di marcio deve essere per forza colpa delle vittime. Vorrebbero convincerci che senza vittime (colpevoli di essere diventate vittime) qui invece andrebbe tutto benissimo. Sembra una teoria strampalata, vero? Eppure funziona. 

Le ultime vittime sono i giovani morti alla Lanterna Azzura nell’anconetano. Colpevoli di essere in discoteca (“così giovani, così tardi!”, strillano i benpensanti), colpevoli di ascoltare Sfera Ebbasta e i suoi testi che non si confanno alla buona educazione (e poi sono quelli che fischiettano i Rolling Stones, i Doors e leggono Verlaine e Baudelaire). 

Eppure, credetemi, basterebbe poco per smontarli. Basterebbe chiedergli se un uomo merita di morire per uno dei motivi elencati qui sopra, qualunque vittima sia. Vi diranno che no, certo che no e poi inizieranno un panegirico per dirvi che comunque loro, i loro figli e bla bla. E invece è una cretinata. È ossessione per le vittime. Semplicemente.

(A proposito: si potrebbe chiedere, ai sacerdoti della difesa fai da te che regalavano spray al peperoncino ai propri elettori, cosa succederà quando sarà una pistola al posto dello spray. Ma sarà colpa delle vittime, ancora. Vedrete)

Buon lunedì.

A 40 anni dalla rivoluzione iraniana

Quella iraniana fu l’ultima grande rivoluzione del Novecento, la prima ad essere trasmessa in tv e a essere immortalata dai reporter di tutto il mondo. Esistono quindi moltissime immagini di quegli eventi, oggi facilmente reperibili sul web: le manifestazioni di massa, la fuga dello scià Mohammad Reza Pahlavi dall’Iran, il ritorno dell’ayatollah Ruhollah Khomeyni e l’instaurazione della Repubblica islamica. Eventi noti pressoché a tutti. Ma conosciuti probabilmente in modo superficiale proprio perché dati ormai per assodati, come se l’Iran fosse da sempre una Repubblica islamica, un antagonista degli Usa e un nemico di Israele. Il “peccato originale” dell’Iran contemporaneo – agli occhi dell’osservatore occidentale – è proprio la rivoluzione del 1979. Una rivoluzione quasi sempre bollata come “irrazionale” e retrograda, colpevole di aver inaugurato la stagione del fondamentalismo islamico. Una narrazione semplicistica che non prende in considerazione i perché di quella rivoluzione.

Da Mossadeq a Khomeyni: dove lo scià fallisce
Dal 1963, con la cosiddetta “Rivoluzione bianca”, lo scià vara una serie di riforme con cui vuole scardinare l’impianto “tradizionalista” della società iraniana: concede il diritto di voto alle donne, vara la riforma agraria, tenta di creare una burocrazia manageriale, combatte l’analfabetismo inquadrando i giovani universitari nel cosiddetto «esercito del sapere» e inviandoli a insegnare nei paesini più sperduti. Incoraggia i giovani ad andare a studiare in Europa e negli Usa perché sogna di creare una nuova classe dirigente di stampo occidentale. Paradossalmente, moltissimi di questi studenti all’estero costituiranno un nucleo fondamentale dell’opposizione allo scià: a contatto con altri modelli di partecipazione politica e di potere, trovano…

 

Antonello Sacchetti è l’autore di Iran, 1979 La Rivoluzione, la repubblica islamica, la guerra con l’Iraq  pubblicato da Infinito edizioni (prefazione di Chiara Mezzalama).  Il libro sarà presentato l’8 dicembre alle 13 a Più libri più liberi, nella Sala Vega della Nuvola di Fuksas. Oltre all’autore intervengono Luca Giansanti e Farian Sabahi.

 

L’articolo di Antonello Sacchetti prosegue su Left in edicola dal 7 dicembre 2018


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Presentazione di Left a Più libri più liberi 2018 (video)

“La rivista Left nella promozione del dialogo interculturale”.

Incontro organizzato da Cric-Coordinamento delle Riviste Italiane di Cultura nell’ambito di Più libri, più liberi 2018

Roma, 7 dicembre 2018 – Nuvola di Fuksas

 

I desaparecidos del Paese dei cedri

TOPSHOT - Mothers and relatives of Lebanese citizens who disappeared or went missing since the Lebanese civil war in 1975, carry their pictures during a press conference that revolves around the newly voted law regarding the missing during the civil war, held next to the tent of the families of the missing at the entrance of the United Nations headquarters in downtown Beirut on November 28, 2018. - Lebanon has passed a law to investigate the fate of thousands of people who disappeared during the country's civil war, a move that answers a longstanding demand from human rights groups and families. Around 17,000 people are believed to have been "kidnapped or 'disappeared'" during the 1975-1990 conflict in Lebanon, human rights groups estimate. (Photo by JOSEPH EID / AFP) (Photo credit should read JOSEPH EID/AFP/Getty Images)

La professoressa Carmen Husun Abu Jaudé dell’università Saint Joseph di Beirut non si dà pace: «Come possiamo cambiare la percezione della politica in Libano? Qui si ha l’idea che sia corrotta perché a farla sono dei corrotti, ma in realtà è la fonte per raggiungere la soluzione dei problemi». Ad ascoltarla, in un locale della capitale libanese Beirut, ci sono una sessantina di studenti universitari incuriositi dal tema trattato. Politica è una parola carica di accezioni negative nel Paese dei Cedri: basta vedere l’affluenza alle urne storicamente bassa. Del resto, se per legge le cariche e seggi vanno divisi tra le comunità religiose presenti nel Paese, allora che senso ha andare al votare? Il rigetto della politica istituzionale si riflette negativamente anche nella società civile che, frammentata e sempre più attenta alla difesa della propria setta-gruppo, stenta a creare una vera opposizione dal basso. «Thawra» (Rivoluzione), «Abbasso ai corrotti» gridavano alcuni attivisti durante una manifestazione di protesta tenutasi in occasione del giorno dell’Indipendenza lo scorso 22 novembre. Il titolo dell’iniziativa era tutto un programma: «La nostra indipendenza dal vostro sfruttamento». Ancora una volta nel mirino dei dimostranti era finita l’intera classe politica locale: le voci e cartelli riecheggiavano in parte quelli del movimento You Stink che nel 2015, con il pretesto della crisi rifiuti, era riuscito a creare in Libano per alcuni mesi una vera opposizione dal basso capace di sfidare l’ingessato mondo politico locale. Quell’esperienza…

Il reportage di Roberto Prinzi prosegue su Left in edicola dal 7 dicembre 2018


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