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Le certezze della sinistra

Non sembrano esserci più certezze, a sinistra. In effetti la sinistra viene ormai data dai più come non esistente, come potrebbero esserci certezze in qualcosa che non esiste più? Ma cosa è un’idea di politica se non un sistema di certezze con il quale leggere la realtà? In base a quelle certezze, derivate da un rapporto con la realtà, si fa poi la Politica. Allora l’esistenza della sinistra coincide con l’esistenza (o meno) delle sue certezze.

Le certezze sono una conoscenza della realtà. È quando si è certi di qualcosa perché si è avuto esperienza che le cose stanno in quel certo modo: se quando esco di casa e per terra è bagnato allora significa che prima ha piovuto. È una certezza che non ha bisogno di verifica di quanto affermato. È un istintivo, immediato rapporto con la realtà. Il nostro corpo ha bisogno di nutrirsi con un certo quantitativo di energia ogni giorno che deriviamo dal cibo e di scaldarsi e riposarsi in luoghi protetti dalla violenza dell’ambiente. Se piove ho bisogno di un ombrello per ripararmi. Se c’è un sole molto forte avrò bisogno di un po’ d’ombra.

È un ovvio rapporto con la realtà che tutti abbiamo e che tutti esercitiamo senza nemmeno pensarci. La nostra realtà del corpo ha necessità di mantenere un equilibrio termodinamico. Abbiamo necessità di energia a bassa entropia, ossia energia che possa essere poi usata per ricostituire l’equilibrio che continuamente si perde proprio per l’aumento inevitabile di entropia del sistema termodinamico “corpo”. Ed è anche per questo che il rapporto con la realtà materiale è ripetitivo e monotono.

La vita biologica è questo: è la ricostituzione continua di un equilibrio che continuamente si perde. Il corpo, la realtà biologica nostra e degli animali, ma anche delle piante, è una macchina termodinamica che oscilla, più o meno rapidamente, attorno ad un equilibrio. Quando ci si allontana troppo dall’equilibrio, per malattia, per un incidente, e non si riesce a ricostituire lo stato precedente, il corpo muore. La macchina biologica si ferma perché non funziona più quel meccanismo termodinamico che oscilla attorno all’equilibrio. Ma l’essere umano non è solo termodinamica. La nostra vita non è un ciclo che ruota fisso attorno ad un punto di equilibrio. Nessuno pensa la propria vita in questo modo. La mente umana comprende spontaneamente un’idea di evoluzione, di nascita, evoluzione e morte che non comprende una oscillazione continua attorno allo stesso punto per tutta la vita. Anzi nella misura in cui ci sia una staticità, una fissità di solito questa è associata con un malessere o una malattia. Perché la mente umana è in continua evoluzione, in continuo movimento. Nella misura in cui la mente umana si ferma l’essere umano è morto o è come se fosse morto. Come il catatonico che rimane immobile senza battere gli occhi o muovere nemmeno un muscolo anche se gli si punge una mano con un ago.

Cos’è o cosa dovrebbe essere la Sinistra? È fare quelle cose che perseguano e favoriscano la realizzazione degli esseri umani. È un pensiero di organizzazione della società di modo che vengano eliminati o contrastati quei comportamenti, azioni o pensieri che ostacolano la realizzazione degli esseri umani. Quindi senz’altro deve permettere alla macchina termodinamica di oscillare attorno al suo equilibrio. Ossia è necessario pensare ai bisogni materiali e che essi siano soddisfatti per tutti.

Ma deve anche favorire “l’evoluzione” di ognuno, la propria storia personale fatta di realizzazioni che sono per ognuno diverse. Ma cosa sono le realizzazioni? Sono nascite che determinano separazioni.* Le certezze della politica dovrebbero ripartire da qui. Dalla comprensione di ciò che fa una vita piena e realizzata e quindi favorendo la realizzazione delle condizioni materiali perché quella strada sia percorribile da tutti. Si potrebbe obiettare che la politica è invece assicurare la libertà e la sicurezza da coloro che sono “cattivi”. La verità è che in realtà i cattivi non esistono. Esistono persone che esercitano violenza, più o meno esplicita, perché hanno perso in maniera più o meno profonda la propria nascita, ovvero la capacità di saper stare con gli altri senza un fine utilitaristico. In questo senso la violenza andrebbe codificata non solo come violenza materiale. Si comprende facilmente osservando i bambini, che fanno l’esatto opposto della violenza: essi vogliono solo e soltanto realizzare ed esprimere l’amore per gli altri che hanno dentro di sé. Amore che è volere che l’altro sia.

Pochi giorni fa Melania, mia figlia, mi ha regalato un libro per il mio compleanno. Lo ha scritto e disegnato lei stessa. È una storia con cui mi ha spiegato come riuscire a non avere paura del buio e quindi a trovare la mia nascita. E poi mi ha spiegato come poter diventare un guerriero con un piccolo cuore blu che mi guidi attraverso il labirinto. La sinistra deve rinascere da qui, guardando e prendendo esempio dalla genialità dei bambini.

Le certezze vanno cercate della bellezza dei bimbi, negli affetti, nello stare insieme, nelle immagini belle dell’arte, della poesia, nelle idee di uomini e donne che hanno amato gli altri più che se stessi. Già perché il prossimo lo si deve amare più di se stessi e non come se stessi. Perché è la realizzazione dell’altro che fa la nostra realizzazione. È il volere la capacità di amare dell’altro che fa la nostra capacità di amare. È l’amore della donna che fa l’identità dell’uomo e l’amore dell’uomo che fa l’identità della donna. Ed è l’identità di ognuno di essi che fa l’amore dell’uomo per la donna e della donna per l’uomo. E poi… poi c’è l’amore infinito di una bambina che fa piangere il padre e non lo fa più essere padre per farlo essere uomo.

 

(*) Qui mi riferisco al concetto di nascita e separazione per come li intende Massimo Fagioli ai cui libri il lettore può fare riferimento per approfondire. Per esempio con Istinto di morte e conoscenza, l’Asino d’oro edizioni, 2017.

L’editoriale di Matteo Fago è tratto da Left in edicola


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Non bastano le elezioni a ricucire l’Iraq ferito

Displaced Iraqis from the former embattled city of Mosul sell goods in front of an election campaign poster, at the Hasan Sham camp, some 40 kilometres east of Arbil in northern Iraq, on May 1, 2018, two weeks before Iraqis are set to vote in the parliamentary elections. (Photo by SAFIN HAMED / AFP) (Photo credit should read SAFIN HAMED/AFP/Getty Images)

«Ho aspettato la caduta di Saddam Hussein dagli anni Settanta. Vi ho aspettato, leader sciiti, ma guardate cosa ci fate? Le strade sono sporche, ci sono buche ovunque. Venti anni fa Bassora era terribile, ma si stava meglio di ora». Le parole del professore in pensione Mowafaq Abdul Ghani esprimono meglio di qualunque analisi politica il sentimento di delusione degli sciiti a 15 anni dalla caduta di Saddam Hussein. Uniti durante i decenni di oppressione del rais, gli sciiti (circa il 60 per cento della popolazione in Iraq) si presentano divisi in cinque blocchi alle elezioni parlamentari del 12 maggio quando 24,5 milioni di iracheni dovranno eleggere i 329 membri del Consiglio dei rappresentanti che nomineranno presidente e primo ministro. Elezioni importanti (le prime dopo la sconfitta dell’autoproclamato Stato islamico) che giungono dopo una lunga campagna elettorale dai toni aspri e intervallata dai sanguinosi attacchi jihadisti.

I due principali raggruppamenti nascono dalla divisione del blocco Stato di legge in due differenti liste: l’Alleanza della vittoria del primo ministro al-Abadi e quella dell’ex-premier Nuri al-Maliki. Al-Abadi, che ha scalzato al-Maliki alla guida del Paese nel 2014, si presenta a capo di un blocco non settario capace di mettere insieme «tutte le etnie e confessioni» e ha provato a capitalizzare in questi mesi la vittoria militare del suo governo contro i jihadisti dello Stato islamico, l’Is. Contrariamente ad al-Abadi, al-Maliki ha provato a riconquistare la premiership proponendosi come il paladino degli sciiti, vantandosi di essere stato colui che ha firmato la condanna a morte di Saddam nel 2006 e che non ha permesso alle truppe di occupazione statunitensi di restare in Iraq oltre il 2011.

Leader settario vicino all’Iran, contrariamente ad al-Abadi che ha aperto ai sauditi, nei suoi 8 anni di governo al-Maliki ha creato un sistema politico intriso di clientelismo e corruzione, la cui debolezza è…

L’articolo di Roberto Prinzi prosegue su Left in edicola


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Petros Markaris: Sogno un movimento europeo degli intellettuali

epa03487376 Greek writer Petros Markaris poses during an interview in Madrid, Spain, 26 Novermber 2012, where he talked about the crisis in his country and his book 'Termination'. EPA/EMILIO NARANJO

Petros Markaris è il Tonino Guerra ellenico. Anche se ogni volta che si sente definire così allarga il viso in un sorriso di quelli sinceri e, schiarendosi la voce, dice, senza autocompiacimento, ma con autentico divertimento: «E se fosse stato lui il Markaris italiano?». Originario di Istanbul, dove ancora trascorre una parte dell’anno, Markaris vive ad Atene e, ad 81 anni, non ha smesso di fare la cosa che gli viene meglio, osservare il reale, per raccontarlo. In autunno il suo nuovo romanzo sarà tradotto e pubblicato in Italia dalla Nave di Teseo. «Non conosco ancora il titolo italiano – sottolinea – quello greco significa Laboratorio sulla morte, e sto scrivendo un nuovo romanzo, ma è presto per parlarne».  Grande autore di Theo Angelopoulos, con il quale ha firmato diverse sceneggiature, tra cui L’eternità e un giorno, Palma d’Oro a Cannes nel 1998, Markaris ha regalato alla letteratura mondiale il suo commissario Kostas Charitos, forse il più bell’esempio di serie letteraria, dopo Simenon.

Dove si trova Markaris in questo momento?
Sono ad Atene, fa un freddo cane, c’è il vento, ma il sole è ancora alto.

Come vanno le cose ad Atene? Ha poi fatto pace con Alexis Tsipras?
(Sorride) Le cose vanno meglio di due anni fa, ma la popolazione soffre ancora tanto. Io non ho mai litigato con il presidente Tsipras, anche perché personalmente non lo conosco. Sa, non credo che occorra essere a favore o contro Tsipras, sono solo stato critico con lui, come con tutti i governi precedenti. Contro le imposizioni dell’Europa occorreva avere ancora più forza. E invece perfino Tsipras, che pure, all’inizio, con Varoufakis, sembrava avere voce in capitolo, ha dovuto cedere.

È interessante questa idea di valutare le politiche dei governi, più che il singolo uomo politico. In Italia negli ultimi vent’anni la politica è diventata molto personalizzata.
Mi pare l’unico modo serio di parlare di politica. Torno a dire, il punto non è che io sia a favore o contrario di Tsipras, ma che possa aderire alla sua politica di governo o meno. E le volte che sono stato in disappunto con lui, anche critico, è perché vedevo la situazione della gente greca. Sa che cosa è mancato davvero in tutti questi anni? Un piano dei governi che disegnasse la nuova Grecia e che potesse essere preso in seria considerazione da tutti, anche dall’Europa.

È quindi mancata la governance?
Credo proprio di sì.

Conosce la situazione italiana, non siamo messi molto bene nemmeno noi. Lei, che è sempre così attento, che idea si è fatto?
Vedo un’Europa più attenta all’economia, alla finanza che alle persone e le devo dire la verità: anche io sono abbastanza preoccupato per l’Italia, perché osservo, anche nel vostro Paese, una deriva a destra. Mi posso permettere il lusso di essere quanto mai onesto, ho 81 anni, sono abituato ad esserlo e voglio esserlo. Viviamo in un momento così difficile… La destra estrema che sta crescendo in Germania, in Austria, un po’ ovunque in Europa, a me preoccupa molto.

Ne ha paura?
Non proprio. Non ancora. Però mi sento molto a disagio. Ho imparato ad accettare il reale, lo osservo, lo descrivo. A volte, spesso, ne prendo le distanze, ma non mi piace provare disagio e rispetto all’avanzata delle destre estreme io sono fortemente a disagio.

Riconosce a Tsipras il tentativo di cambiare l’agenda europea, con temi di sinistra e il tentativo di unire i paesi del Mediterraneo in un progetto comune? Tentativo fallito, ad onor del vero, anche perché l’Italia non ha creduto in questa opzione.
Questo è il problema. Assieme, i Paesi del Mediterraneo avrebbero potuto avere maggior forza, ma non ci sono riusciti e da soli rischiano di soccombere. Le posso dire un’altra cosa? L’Ungheria e la Polonia, quelli sono i Paesi che mi preoccupano, perché sono antidemocratici, governati da un’ideologia di destra, pericolosa e con un progetto che è contrario all’Europa. Guardi come trattano i migranti. Sa, io credo che all’Europa faccia comodo che Grecia e Italia diventino dei grandi campi di migranti. Solo la grande solidarietà greca e italiana ha affrontato con serietà il tema dei rifugiati. Gli altri cosa fanno?

La solidarietà greca e italiana prima di tutto, poi gli accordi con la Turchia e con la Libia.
Crede che gli sbarchi in Italia riprenderanno in primavera?

In effetti non si sono mai arrestati del tutto e certo l’inverno non incoraggia a partire. Mi dica, invece, come vede la Turchia in questo momento?
Come sempre. Mi fa sempre un po’ sorridere questa domanda, perché la Turchia in effetti non è mai stata una democrazia e oggi non è peggio di un tempo. Mi fa sempre specie il perbenismo europeo, la Turchia non ha proprio niente di europeo e, a parte le dichiarazioni di qualche tempo fa, non ambisce nemmeno a diventare europea. Quindi non vedo niente di nuovo. O almeno niente che possa turbarmi.

Lei conosce Erdogan? Intendo personalmente?
No, non l’ho mai incontrato.

Parliamo di un’altra questione, la Brexit: che cosa ne pensa?
Tutto il male possibile. Accetto quasi sempre le cose che avvengono, così come avvengono, ma la Brexit è una cosa inaccettabile. Quello che vedo, in questo caso, non mi piace per niente. Non sono mai stato un euroscettico, ho sempre creduto nell’Europa, ma ora, come si fa a crederci? Sono una persona che guarda le cose che accadono, come osservatore, ma ci sono così tanti episodi che non mi piacciono.

Passeggiando per Atene, si ha l’impressione, a dispetto della crisi e perfino di Bruxelles, che esista una cultura comune europea. Inoltre il nuovo centro Stavros Niarchos, inaugurato proprio ad Atene, firmato da Renzo Piano, è un po’ un inno di speranza, come un “inno alla gioia” in architettura per tutti, non crede?
Credo che questo suo pensiero sia molto bello e confortante e che se l’Europa esiste è grazie alla nostra cultura comune e alla civilizzazione, eppure i burocrati di Bruxelles pensano solo all’economia. Quando parliamo e scriviamo di Europa sembra che non esista altro che l’economia. Quella che in questi anni ha affamato le persone, in Grecia, ma anche in Spagna, in Portogallo, in Italia. Dovremo fare un movimento europeista della cultura. Avremo davvero bisogno di questo e sarebbe forse una cosa nuova, diversa, positiva, bella.

Lei è un faro di questa cultura, crede che gli intellettuali possano ancora avere un ruolo significativo?
Dovremo fare un piano assieme e provare a contrastare con il nostro piano culturale la gerarchia dei burocrati in grado solo di parlare di economia. Sarebbe così bello se ci fosse un movimento di intellettuali europei, che ricordano a tutti il motivo reale per il quale ci siamo messi assieme.

L’autore ha presentato il suo ultimo romanzo giallo, “L’università del crimine” (La Nave di Teseo), all’edizione 2018 del Salone internazionale del libro di Torino

L’intervista di Letizia Magnani allo scrittore greco Petros Markaris è tratta da Left n.7 del 16 febbraio 2018


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Non si vive di solo petrolio, quanti guai per l’Eni dalla Basilicata alla Nigeria

«Quali risorse finanziarie e tecniche Eni pensa di mettere in campo per intervenire efficacemente e concretamente sul piano della tutela ambientale e sanitaria della popolazione in Val d’Agri?». Domenico Nardozza oltre a essere videomaker e autore insieme al sociologo Davide Bubbico di un saggio su Le estrazioni petrolifere in Basilicata tra opposizione e interventi di compensazione (Franco Angeli ed.), è un azionista Eni. Ed è in virtù di ciò che è intervenuto con questa domanda all’assemblea degli azionisti che si è svolta a Roma il 10 maggio, portando al centro del dibattito pomeridiano il tema dell’invasività della multinazionale italiana sulla vita delle persone e sull’ambiente. Secondo Nardozza, in Basilicata l’Eni dimostra di avere scarso interesse o quanto meno di mettere in secondo piano gli “effetti collaterali” della sua attività estrattiva. «I lucani – osserva l’attivista – hanno perso completamente fiducia nell’azienda. E questo malcontento non riguarda la “naturale” propensione a ricavare un profitto da parte dell’Eni, cosa normale per un’impresa privata. Molto più probabilmente dipende, ad esempio, dal fatto che lo sfruttamento delle risorse della Val d’Agri non genera un equivalente risposta qualitativa e quantitativa a livello occupazionale per la popolazione e per l’indotto locale. Lo si evince dalla prevalenza di contratti a termine e da una concentrazione della manodopera locale nelle attività a più basso valore aggiunto».

Ma non è solo questo a preoccupare i lucani della val d’Agri. Ecco cosa ha riferito un altro azionista, Domenico Mele, autore di una Valutazione di impatto sanitario nei due comuni che cingono il centro Cova dell’Eni nella Val d’Agri, Viggiano e Grumento Nova. «Lo studio micro geografico condotto – racconta Mele – ha riscontrato un aumento della mortalità nelle donne per le malattie del sistema circolatorio del 63%, con una mortalità tra donne e uomini del 41%. La valutazione ha dimostrato la fortissima associazione di rischio tra le emissioni dell’impianto e le patologie cardiovascolari e respiratorie con un aumento del 19% della mortalità delle donne per tutte le cause e del 15% di donne e uomini. In Val d’Agri ci sono a tratti emissioni di sostanze nocive 20 volte rispetto a quelle registrate a Taranto». A sostegno delle sue conclusioni Mele ha citato alcuni enti che hanno preso parte allo studio, tra cui il Cnr di Pisa e l’università di Bari, puntando il dito contro il silenzio dell’azienda: «La nostra ricerca non ha provocato alcuna reazione da parte dell’Eni, non c’è stato alcun dialogo. Anzi si è tentato di demolire il lavoro probabilmente perché i risultati non sono stati quelli sperati».

In mattinata, l’assemblea era stata aperta dalla presidente dell’Eni, Emma Marcegaglia. Ed effettivamente considerando il tenore degli interventi pomeridiani per lunghi tratti nell’arco della giornata è sembrato di assistere a un dialogo tra sordi. Il focus della relazione della Marcegaglia, a parte le considerazioni sullo stato di salute dell’economia mondiale, ha riguardato le vicende giudiziarie in cui è coinvolta l’Eni. Facendo il punto sulle accuse di corruzione nei confronti di Saipem in Algeria, e quelle relative all’acquisizione del blocco petrolifero Opl 245 in Nigeria (vedi Left n. 18 del 4 maggio 2018), oltre alle indagini in corso sulle licenze petrolifere in Congo e al presunto depistaggio che vede coinvolto il Chief development and Technology officer. Per ognuno dei casi, ha spiegato Marcegaglia, «sono state svolte o sono state incaricate profonde verifiche interne, anche con l’assistenza di consulenti esterni indipendenti». L’Eni si dichiara dunque completamente estranea ai fatti imputati. E la Basilicata? Nessun accenno è stato fatto dalla presidente circa le indagini che coinvolgono l’Eni per presunto disastro ambientale in quello che è ribattezzato il “Texas d’Italia”, appunto la Val d’Agri. Un silenzio che la dice lunga proprio nel giorno in cui esponenti della società civile lucana hanno fatto sentire per la prima volta la propria voce in qualità di azionisti, avendo acquistato alcune azioni – 4, 5 o dieci -, al solo scopo di poter intervenire mettendo in pratica un «azionariato critico» al cospetto diretto della dirigenza Eni e di fronte agli azionisti di maggioranza. Era cosa nota, eppure la Basilicata che da decenni deve fare i conti con un intenso sfruttamento delle sue risorse petrolifere, è stata completamente assente anche nel successivo intervento dell’amministratore delegato Claudio Descalzi.

Ma torniamo al pomeriggio e agli interventi degli azionisti che meritano particolare menzione. C’è stato per esempio quello di Alberto Grotti, ex dirigente Eni finito in carcere per il caso Enimont, che ha voluto sottolineare la «disarmante disinvoltura» con cui i dirigenti si muovono tra indagini e processi. Infine, il breve ma interessante discorso di alcuni attivisti nigeriani, che hanno portato all’attenzione degli azionisti la «mancata prudenza» da parte della società nelle operazioni che hanno coinvolto il governo di Abuja. È stato fatto riferimento anche alla comunità Ikebiri, che ha citato in giudizio a Milano l’Eni e una sua controllata (la Naoc) per uno sversamento di petrolio nel delta del Niger (vedi Left del 4 maggio 2018); oltre che, questa volta da parte di Re:Common sul caso Congo e su ulteriori controversie della società in Mozambico. Ma anche in questo caso nessuna risposta. Da segnalare in conclusione un laconico Descalzi che nel chiudere l’assemblea ha promesso di far visita quanto prima in Basilicata.

Per approfondire, Left n. 18 del 4 maggio


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Storia di Noura Hussein, condannata a morte in Sudan per essersi difesa dal marito stupratore

Noura ha 19 anni, e su di lei pende una sentenza capitale. È stata violentata da suo marito, con l’aiuto dei parenti che la tenevano ferma, e il giorno dopo Noura lo ha pugnalato. Per questo è stata condannata a morte dalla corte di Omdurman, Sudan.

Forzata al matrimonio a 16 anni, Noura Hussein era scappata da Karthoum a Sinnar. Per tre anni è riuscita a nascondersi con l’aiuto di una zia, poi è stata riconsegnata dalla sua stessa famiglia d’origine al marito. Tornata sotto il suo tetto, è stata violentata da lui con l’aiuto di suo fratello, un parente e un testimone che la teneva ferma. Il giorno dopo, quando il marito ha provato a violentarla di nuovo, Noura l’ha pugnalato mortalmente ed ha cercato di nuovo rifugio in famiglia. I genitori però l’hanno consegnata alla polizia. Durante il processo, davanti alla corte che l’ha condannata a morte, in aula, Noura era sola. Nessun membro della sua famiglia era presente.

Justice for Noura, giustizia per Noura, è quello che chiedono molti, ma rimangono solo 15 giorni per fare appello e salvarle la vita.

A sentenza capitale confermata dal giudice, dopo il rifiuto della compensazione finanziaria da parte della famiglia del marito, l’aula ha festeggiato il verdetto emesso per la morte della giovane con applausi e urla di gioia, ha detto, Amal Haban, giornalista sudanese e attivista per i diritti delle donne. Ma Noura – prosegue Haban – «era solo una bambina quando si è sposata, come molte spose bambine in Sudan. E per la legge questi matrimoni non sono illegali, neppure lo stupro del marito lo è».

Sudan e taboo. Per Ahmed Elzobier, Amnesty Sudan, è la prima volta che un caso di stupro matrimoniale viene discusso dalla società civile. Accade quotidianamente «ma le persone non ne parlano».

Una vittima del sistema che ha combattuto per i suoi diritti. «Noura è stata sottoposta ad abusi mentali e fisici dalla famiglia e dal marito (…) ma ora non rimane che fare appello di clemenza al presidente Omar al Bashir», ha detto Tara Carey, dell’ong Equality now. Le ha fatto eco un’altra attivista dell’associazione, Yasmeen Hassan: «Il Sudan è un posto estremamente patriarcale, un posto dove le bambine possono sposarsi a 10 anni, dove è legale il possesso dell’uomo sulla donna, un posto dove si dice alla donne di camminare lungo un percorso stretto e dritto, senza trasgredire”.

 

Sperare che gli altri falliscano non porta voti. E non fa bene al Paese

Sì, lo so, scrivo qualcosa di scontato ma di questi tempi sembra piuttosto difficile mettere in fila gli elementi per una serena discussione che non abbia effetti dirompenti sulle opposte furiose tifoserie ma, al di là del fatto che sia vera o meno la frase attribuita a Renzi da La Stampa («e adesso pop-corn per tutti») si sente in giro una certa malcelata soddisfazione nel pregustare il fallimento dell’asse Lega-M5s (e Berlusconi bonario) come se il fallimento degli altri al governo fosse un buon modo per recuperare voti nei loro confronti.

Succede ora, ma è un atteggiamento snob che si ripete ciclicamente. Mettersi comodi a ripetere «bene ora vediamo cosa sapete fare, vedrete come fallirete» è roba da litigi tra bambini, una ripicca velenosa e piuttosto irresponsabile che accende gli animi lì dove la politica diventa tifo da stadio ma non tranquillizza per niente chi spererebbe che questo Paese possa funzionare meglio. Mettersi ad urlare in faccia a qualcuno «avete votato i fascioleghisti ora teneteveli» è roba da bar sotto casa, non è un atteggiamento da classe dirigente. Prendere per il culo gli elettori non è un buon modo per tornare, alle prossime elezioni, a chiedergli il voto.

Se dalle parti del centrosinistra hanno intenzione di intendere l’opposizione come una sequela di tweet ironici, fotomontaggi di pessimo gusto, perculate su congiuntivi e sintassi e trafugamenti continui di dichiarazioni passate degli avversari poi smentite dai fatti allora è il caso che qualcuno vada dai dirigenti del centrosinistra a dirglielo chiaro: avete fatto cose di destra e alla fine hanno votato la destra ora sappiate che se farete i populisti voteranno sempre l’originale. Piuttosto cercate di capire cosa volete diventare voi. Meglio.

Buon venerdì.

Legge 194, quarant’anni sotto attacco dei crociati

Il manifesto affisso da Provita a Roma – e nei giorni scorsi ricomparso a Perugia e in altre città – è ulteriore prova di quanto la legge 194, che ha reso legale l’interruzione di gravidanza, sia ancora sotto attacco  dalla sua entrata in vigore avvenuta il 22 maggio 1978.

La norma, frutto di una battaglia politica di cui i Radicali furono il principale traino, pose fine alla piaga dell’aborto clandestino e fu una straordinaria conquista di civiltà, liberando le donne dalle mammane. Nonostante questo – o forse proprio per questo – è ancora nel mirino dei fondamentalisti cattolici. Dai più oltranzisti come Mario Adinolfi e Antonio Socci (autore di libri come Genocidio censurato. Aborto, un miliardo di vittime innocenti), passando per consulenti del ministero della Salute e membri del Comitato nazionale per la bioetica come Eugenia Roccella e Assuntina Morresi, che hanno scritto un libro contro l’aborto farmacologico.

Si fanno chiamare Prolife ma, a bene vedere, come nota la ginecologa Elisabetta Canitano in questa storia di copertina dedicata ai quarant’anni della 194, non sono affatto per la difesa della vita umana. Non sono affatto dalla parte della donna, anzi ne mettono a rischio la salute per difendere la sacralità dell’embrione (dunque per i cattolici come per i più granitici positivisti l’identità umana sarebbe tale in base al solo genoma!).

Per portare avanti la loro crociata i Provita hanno inventato la «sindrome del boia», al fine di colpevolizzare le donne, accusandole di assassinio. Non contenti, hanno rincarato la dose di fake news con la sindrome Abc (abortion-breast-cancer), affermando che ricorrere all’aborto aumenti il rischio di sviluppare cancro al seno (addirittura, a loro dire, di oltre il 150%).

Falsità totali che vanno contro ogni evidenza scientifica, sostenute per affermare la dottrina cristiana che schizofrenicamente vuole la donna vergine e madre e che, sin dalle origin, demonizza il desiderio e annulla l’identità femminile.

«La legge che legittima l’aborto è un atto di violenza» diceva papa Wojtyla, che i Prolife citano come Beato Karol. «Ogni bambino non nato, ma condannato ad essere abortito, ha il volto del Signore», ha detto papa Bergoglio, che qualcuno ancora si ostina a vedere come leader della sinistra.

«Il genoma dello zigote è il punto di partenza per la costruzione della biologia umana ma non è persona», scrive la neonatologa e psicoterapeuta Maria Gabriella Gatti (vedi il libro Contro la violenza sulle donne edito da Left). «Come ha affermato Massimo Fagioli – aggiunge – ritenere che lo zigote sia persona significa negare la trasformazione che avviene alla nascita con l’attivazione della corteccia cerebrale e l’emergere del pensiero che è specifico della realtà umana».

Per questo numero dedicato alla 194 le abbiamo chiesto di tornare a spiegare in termini scientifici perché l’aborto non è un omicidio, convinti che la liberazione delle donne dall’oppressione sia un tema cardine nella costruzione di una nuova sinistra laica e progressista. Purtroppo la cronaca ci dice che per l’altissimo numero di obiettori la legge sull’interruzione di gravidanza è ancora inapplicata in molte regioni di Italia.

Storie drammatiche e scioccanti come quella di Valentina ci dicono che nel Bel paese si può essere costrette a partorire perdendo la vita.

I dati Istat, che Left aveva anticipato già nel 2016, confermano che gli aborti in Italia sono in forte calo, da quando è stata messa in commercio come farmaco da banco la pillola dei cinque giorni dopo. Ma ancora mancano campagne istituzionali di informazione sulla contraccezione. Non basta dunque lottare per la piena applicazione della 194. Occorre portare avanti la battaglia culturale sostenendola anche con azioni concrete. Come propongono le attiviste di Non una di meno  (che il 22 e il 26 maggio organizzano manifestazioni in difesa della 194)  dobbiamo lottare per la contraccezione gratuita, perché gli obiettori lavorino fuori dalle strutture sanitarie pubbliche e dalle farmacie, perché la Ru486 sia somministrata dai consultori pubblici, senza ospedalizzazione e, soprattutto, perché si affronti nelle scuole in modo non superficiale e scevro da pregiudizi il tema della sessualità.

L’editoriale di Simona Maggiorelli è tratto da Left in edicola


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I nemici della libertà di scelta

A woman holds a banner reading ''I decide'' during a demonstration in central Rome against a reform of the Spain's abortion law proposed by the conservative government on February 1 , 2014. They support thousands of pro-choice campaigners who converged on the Spanish capital today to voice their opposition to a government plan to restrict access to abortion in the mainly Catholic country. AFP PHOTO / TIZIANA FABI (Photo credit should read TIZIANA FABI/AFP/Getty Images)

G. ha vent’anni. Avrebbe dovuto avere le mestruazioni la settimana scorsa. Non si ricorda bene, l’app non funziona come dovrebbe. Alla fine fa un test in farmacia, positivo. Guarda quella lineetta blu. Le scappa un sorriso. È contenta. Contenta? Come contenta? Contenta di avere un figlio? No, no, no, non scherziamo, è terrorizzata. Però funziona. Il suo corpo funziona. È una donna, è incinta. Beh alla fine una soddisfazione, una potenza. Ok, ok, ma non se parla di tenerlo. Chiama un’amica, vanno su un motore di ricerca online. Aborto. Trovano il consultorio familiare più vicino. Si chiama Maria Santissima della Montagna. In Lombardia, Comunione e liberazione ha appaltato la metà dei consultori a strutture religiose. Telefona, chiede aiuto, ha saputo che le serve un colloquio e un certificato. Un documento. Un’attestazione del colloquio con un medico. Dall’altra parte del filo le risponde una gentilissima signora. No no, per carità, non se ne parla di avere il certificato per l’interruzione di gravidanza. «Venga però, venga che parliamo, le serve parlarne, lo sa? Le donne dopo un aborto stanno tanto male, venga venga da noi, le spieghiamo bene quello che succede, siamo solo noi che la possiamo aiutare davvero».

G. mette giù il telefono. Qualcosa in quella voce troppo gentile l’ha spaventata. No, non è quello di cui ha bisogno, non sa neanche lei perché, erano così gentili, le hanno offerto aiuto. Perché si è sentita minacciata? Eppure ora ha paura, deve cercare ancora. In Italia e in Europa i movimenti contro la libera scelta (dire che sono «pro-vita» è una bugia) diffondono la falsa notizia che le donne dopo un aborto volontario si suicidino più di frequente e che comunque attraversino gravi depressioni, oltre alle conseguenze fisiche. In Francia hanno creato dei falsi siti di informazione sull’Interruzione volontaria di gravidanza (Ivg) per diffondere fake news sugli effetti collaterali dopo l’aborto volontario. E per contrastarli è stata emanata una legge che vieta di farlo. Proprio così. In Francia dal 2016 c’è una norma che si chiama Loi sur le delit d’entrave: legge sul reato di ostacolo alla Ivg. Vuol dire che non puoi creare un sito internet per spaventare le donne raccontando bugie (mentire non è libertà di espressione), non puoi andare davanti ai servizi di Ivg con cartelli minacciosi fermando le donne per convincerle a non abortire «per il loro bene». Devi lasciarle in pace.

N. invece ha una gravidanza voluta. Fa un’ecografia morfologica, 20 settimane, quattro mesi, in un ospedale pubblico. Nel nuovo protocollo italiano sugli esami in gravidanza quest’ecografia è stata anticipata a 19/21 settimane, proprio per dare il tempo di fare accertamenti ed eventualmente abortire prima della 24 settimana. In Italia dopo le 24 settimane non è possibile niente, in nessun caso. In Francia, in Belgio, in Croazia invece sì. Ma torniamo a N. Quando riceve la notizia le tremano le gambe. Un figlio voluto, cosa succede ? Cosa c’è che non va? Le viene messo in mano un foglietto. Per ulteriori accertamenti. L’appuntamento è in un ospedale religioso. Qui siamo nel Lazio. La diagnostica prenatale ecografica è in mano agli ospedali del Vaticano. Le strutture pubbliche non hanno più soldi, il pediatrico Bambino Gesù ha ricevuto 50 milioni di euro per finanziare la ricerca. La clinica pediatrica dell’Università La Sapienza invece ha chiuso le ecocardiografie agli esterni per mancanza di fondi. N. si reca all’ospedale religioso, un po’ incerta. Sono così eccellenti? Sicuri? Non c’è altro? 

La accolgono subito, anche qui sono gentilissimi. Colloquio, ecografia. Colloquio, risonanza magnetica. Colloquio, nuova ecografia. Colloquio etico. Alla fine le settimane diventano 26. Ed è  finita così: il suo bambino ha una malformazione incompatibile con la vita ma in Italia non si può fare più nulla. Lo porta a termine. Lo sente muovere. Quando nasce, alla quarantesima settimana lo porta in un hospice religioso dove morirà in tre giorni. Secondo i dettami dell’ostetricia religiosa tu non farai niente, aspetterai che muoia dopo averlo portato a termine. Il presidente dei medici cattolici, il dottor Noia, gira l’Italia con il Rotary per raccogliere fondi per gli hospice dove far morire i neonati incompatibili con la vita di cui hanno impedito l’aborto. La chiamano «l’altra possibilità». Peccato che ti impediscano di scegliere facendoti semplicemente perdere tempo. Peccato che quel bambino morirà comunque, in ogni caso.

La terza donna di cui parliamo è Valentina Milluzzo. Lei ha un nome e un cognome, perché di aborto rifiutato è morta. Si è ricoverata a Catania, nell’ospedale Cannizzaro, un ospedale laico, stavolta, con l’utero dilatato, alla 17esima settimana di gravidanza. È rimasta 15 giorni a letto con i piedi in alto (a 17 settimane? Sì a 17 settimane) senza che nessuno le spiegasse – in un ospedale nel quale gli obiettori in ostetricia sono il 100% – che l’aborto terapeutico poteva essere un’opzione che avrebbe protetto la sua salute. La sua vita. Il fondatore del Popolo della famiglia, Mario Adinolfi, dice con orgoglio che gli ospedali sono pieni di militanti cattolici nei reparti di ostetricia. Certo, militanti che «finché c’è il battito fetale» si rifiutano di prestare cure alle donne. Ci viene replicato che se una donna sta male certamente sarà curata. Ma quanto deve star male? Se ha una gravidanza extrauterina deve iniziare l’emorragia… se ha un sacco rotto deve almeno manifestare segni di infezione… se ha la pressione alta deve avere le convulsioni… e così, qualche volta, quando stai tanto male da riuscire ad ottenere le cure anche se c’è il battito poi non ce la fai lo stesso e muori. Valentina è morta così. Dopo 15 giorni ha avuto una setticemia, a causa di quell’utero aperto, e un medico in preda al panico le ha negato anche quelle cure tardive che forse non l’avrebbero salvata comunque.

Negli Stati Uniti, dove le cose hanno spesso un nome e un cognome più chiaro che da noi, già nel 2008 l’American Journal of public health ha pubblicato una ricerca sui ritardi nelle cure alle donne negli ospedali cattolici, per via della presenza del battito cardiaco. E così questa è la mia celebrazione dei quarant’anni della legge 194. Non siamo mai stati in pericolo come adesso, di arretrare sui diritti delle donne. Non abbiamo mai avuto bisogno come ora che la difesa delle scelte delle donne e della loro salute sia presa in carico dalle donne e dagli uomini, da tutti i cittadini che pensano che lo Stato debba essere laico.

L’articolo di Elisabetta Canitano è tratto da Left n. 19 dell’11 maggio 2018


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Il suono delle parole

«Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono…». Non bastasse l’epigrafe, che contribuisce a rendere ancor più spiazzante il nome di questa collana, e certamente a rilevarne la sostanza lietamente polemica, potremmo iniziare a parlarne là da dove non ce lo si aspetterebbe. Cioè da Leopardi e dal suo Zibaldone, libro orale, da leggere con le orecchie, dove s’incontrano, ad esempio, luoghi come questo: «Ma questo discorso porterebbe troppo innanzi, (…) e finalmente a trattare della funesta separazione della musica dalla poesia e della persona di musico da quello di poeta, attributi anticamente, e secondo la primitiva natura di tali arti, indivise e indivisibili» (Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura, 3229).

A partire da qui, forse, affermare che la poesia nasce musica apparirà meno scandaloso o stupefacente, senza scomodare necessariamente aedi, rapsodi, trovatori e minnesänger. Anche perché il modo in cui, ancora oggi, anche oggi, la poesia è musica, è totalmente differente da ciò che è stato e avere radici non serve mai a guardare indietro, ma piuttosto a immaginare il futuro. Le radici della poesia sono sempre rivolte verso il cielo. Le tradizioni si rispettano tradendole, non facendosene epigoni.

E cosa accade, oggi, alla poesia – oggi, mentre l’accelerazione toglie respiro, fa mutare i linguaggi, li stira e li distorce senza posa? Un’accelerazione che non fa che aumentare, che trasforma il paesaggio in…

Lello Voce è un poeta, performer e scrittore. È anche soprattutto, da pioniere della spoken music, colui che introdotto in Italia i Poetry slam. La poesia detta, cantata, davanti al pubblico. Insieme ad un altro poeta, Gabriele Frasca, al musicista Frank Nemola e al disegnatore Claudio Calia coordina Canzoniere, una nuova collana internazionale di libri-cd edita da Squilibri editori. E Canzoniere. La poesia riprende fiato è il titolo dell’happening che si tiene il 10 maggio al Teatro di Tor Bella Monaca a Roma

L’articolo di Lello Voce prosegue su Left in edicola


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Nella Malesia alle prese con la corruzione trionfa Mahathir Mohamad, vecchio leader dell’opposizione

epa06724476 Mahathir Mohamad (C) former Malaysian prime minister and chairman of 'Pakatan Harapan' (The Alliance of Hope) and current prime ministerial candidate shows a letter to the king during a media conference in Kuala Lumpur, Malaysia, 10 May 2018. Malaysia's Pakatan Harapan alliance lead by former prime minister, Mahathir Mohamad, has won a historic election victory. EPA/AHMAD YUSNI

In Malesia è finito il regno del Barisan nasional (Bn). Da sessant’anni la destra del fronte nazionale rimaneva al potere. Ma dalle elezioni del 9 maggio il Paese ha deciso che lo salverà il leader più anziano del mondo. A urne chiuse e sfoglio finito, il risultato è ormai ufficiale dalle prime ore dell’alba. Il nuovo primo ministro del Paese è Mahathir Mohamad, ha 92 anni e parla del futuro della nazione. Le prime parole che ha pronunciato sono state: «non cerchiamo vendetta, vogliamo solo ripristinare la validità della legge».

Per la prima volta dal 1957 è l’opposizione a vincere in Malesia e per la stampa internazionale si tratta di una “storica” vittoria, ma Mahatir è già stato primo ministro per 22 anni, dal 1981 al 2003. Se la nazione in quegli anni è diventata una “tigre economica” è grazie a lui, ma il prezzo da pagare è stato il suo metodo autoritario. Ex membro dell’Umno, – la coalizione di maggioranza-, Mahatir è arrivato al potere nel 1981. Poi utilizzò la sua influenza politica e negoziale per rendere il suo delfino, Najb Razak, primo ministro nel 2009. Sulla stessa poltrona Razak è rimasto seduto fino a che il maestro non ha deciso di vendicarsi sul vecchio allievo. Razak è stato l’uomo più potente della Malesia fino a quando il mentore Mahatir non ha deciso di prendere il posto del suo pupillo, su cui peraltro pendono gravissime accuse di corruzione. Razak è incriminato per frode multi milionaria ai danni dello Stato. Aiutarlo «è stato l’errore più grande della mia vita», ha detto Mahatir, «se Najib rimarrà lì, il Paese finirà ai cani, mette la Malesia in una cattiva posizione, economica e politica», aveva detto solo un anno fa, quando aveva abbandonato la coalizione di maggioranza Umno, che ora lo accusa di opportunismo politico.

Per battere Razak e la corruzione del Paese, si era alleato con lui anche il leader dell’opposizione Anwar Ibrahim. A queste elezioni Ibrahim aveva chiesto ai suoi elettori di votare per la sua nemesi politica, Mahatir, e per la sua alleanza, Pakatan Harapan. Trionfi elettorali inaspettati, per alleanze inconsuete sotto il cielo di Kuala Lumpur: anche Anwar faceva parte dell’Unmo ma ha rinunciato a correre per le elezioni del 2018 dopo una accusa e condanna per violenza sessuale, un episodio che secondo lui e i suoi sarebbe stato un tentativo di bloccare la sua carriera politica.