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Tanto tuonò che governo

Dai che forse ce l’hanno fatta. Hanno trovato la quadra per mettere in piedi un governo. E fa niente che fosse la prima ipotesi percorsa, quella che poi è stata sputata, vomitata e ripetutamente offesa come “errore da non ripetere” con reciproci scambi di accuse per cui la Lega era schiava di Berlusconi secondo il Movimento 5 stelle e il Movimento 5 stelle era una manica di incapaci secondo la Lega. Ora hanno fatto pace, ritirato tutto. E hanno fatto un governo per suggellare la ritornata amicizia.

Dai che forse ce l’hanno fatta. Avrebbero voluto “fare fuori” Silvio Berlusconi e invece hanno trovato questa comoda via d’uscita per cui sarà Berlusconi stesso a tenere in mano i voti per governare (o per fare cadere il governo da un giorno all’altro) rendendolo improvvisamente protagonista dallo scarto periferico che era. L’amichevole astensione di Berlusconi (indispensabile per governare) è ritenuta potabile. Così è se vi pare. Lui sembrava finito e invece ancora una volta è indispensabile. E ancora una volta c’è qualcuno che crede al fatto che sia disposto a rimanere periferico. Beati voi.

Dai che forse ce l’hanno fatta. Ci hanno provato con la Lega. Poi sono andati dal Pd dicendo che con la Lega ormai «il forno era chiuso» e poi sono tornati dalla Lega. L’importante è «mettere in piedi un governo», dicono. Benissimo, ora capiremo come sia possibile trovare una sintesi tra i poli opposti. Come se fosse tutto uno scherzo.

Dai che ce l’hanno fatta. Alla fine più di tutto è contata la paura di tornare alle elezioni, come nei Parlamenti poltronifici che si rispettino dove ciò che conta è soprattutto non rischiare di perdere il posto. L’autopreservazione è il primo punto del programma, la preservazione e lo sviluppo del Paese vengono solo dopo.

Ma c’è una cosa, più di tutto, che ora conta: il governo, appunto. Che è cosa ben diversa dalla propaganda e dalla campagna elettorale. Ora aspettiamo con ansia la soluzione di tutti i problemi e di tutte le emergenze che sono state sventolate (spesso a caso) in questi ultimi anni. Ora c’è da fare politica che è cosa ben diversa dalla propaganda. Ma soprattutto ora c’è da dirigere, oltre che fregiarsi di essere classe dirigente.

Buon giovedì.

Patricio Pron indaga sugli anni bui della storia d’Italia

Primavera del 1945. Un congresso di scrittori fascisti, a Pinerolo. Nella bocca dei conferenzieri, l’alito pesante della Repubblica di Salò e della Germania di Hitler, ormai quasi travolte dagli alleati. La scomparsa di un uomo. La Resistenza, ma anche gli anni di piombo e i nostri giorni. Il valore della parola scritta. Trovare il proprio posto, da intellettuale, dentro la politica quando diventa atto criminale. La violenza che sembra circondare ogni avanguardia. Un romanzo-saggio (o un saggio, anzi, saggissimo romanzo) che sarebbe potuto uscire dalla penna di Giorgio Bassani o di Carlo Cassola. E invece l’ha scritto l’argentino Patricio Pron, uno degli autori più lucidi e profondi del panorama letterario latinoamericano. Il libro, Non spargere lacrime per chiunque viva in queste strade è appena uscito in Italia per GranVía, nella limpida traduzione di Francesca Lazzarato.
Sembra che la ricerca dell’identità del padre, iniziata tra la Germania e l’Argentina con Lo spirito dei miei padri s’innalza nella pioggia  (Guanda, 2013), vada ora a rovistare la fine di un’altra dittatura. Cosa l’ha spinta a intraprendere questo viaggio di ritorno in Europa e a fare tappa nell’Italia degli ultimi giorni di Salò, negli anni delle Brigate Rosse e nelle manifestazioni contri il governo Renzi di dicembre del 2014?
La storia italiana del XX secolo sembra evidenziare il fatto che, come società, ci si muove roteando; i tre momenti storici di cui si parla nel libro, 1945, 1977 e 2014, mettono in particolare risalto questo fenomeno. Non è possibile imparare dalla Storia, pare voler dire “Non spargere lacrime per chiunque viva in queste strade”. E sembra volerlo dire perfino contro la mia volontà.
Tuttavia alcuni personaggi cercano di opporsi alla spirale della Storia, in precisi momenti delle loro vite; lo fanno tardi, forse, ma sono tentativi pieni di coraggio. In questo libro risplendono proprio gli attimi in cui lo sfascio personale si smarca dallo sfascio storico.
Penso che i personaggi del libro abbiano assimilato, in modo molto personale, che le loro vite sono inevitabilmente inscritte all’interno dell’epoca in cui hanno dovuto vivere. Tutti loro sanno che lo scontro tra il soggetto e ciò che chiamiamo “società” è falso, e che ciò che va riveduto di continuo è il confronto con la responsabilità individuale nell’esistenza sociale. Il loro coraggio sta nel dire “no” alle circostanze in cui vivono, per quanto possibile; e quel “no” è un gesto che tutti dovremmo fare nostro, soprattutto in questo momento di frivolezza e di violenza.
È un romanzo senza donne, eccetto le poche autrici presenti al congresso che, prive di voce in capitolo, rasentano il ridicolo. Il fatto che non ci sia spazio per le donne in queste pagine le allontana anche dalla responsabilità dei fatti? La Storia e la colpa –ma anche il talento- sono e sono state esclusivamente “cose da uomini”?
L’assenza di donne nel libro mi ha causato inquietudine perfino mentre lo scrivevo, e un problema che credo di non essere riuscito a risolvere: mi è stato impossibile rintracciare  tra le fonti dell’epoca una figura femminile che non incarnasse uno stereotipo, qualcuno sulle cui spalle io potessi caricare questa storia di come, nel XX secolo, la letteratura divenne politica, e la politica, delitto. Questa impossibilità rivela una speciale abilità delle donne a non lasciarsi sedurre dalle fantasie totalitarie dei loro corrispettivi maschili, ma segnala anche un’esclusione storica, dall’ambito della letteratuta e dall’ambito politico, che solo negli ultimi tempi ha generato dibattito. Se il mio libro serve a fomentare questa messa in discussione, perfetto.
Scrivere la letteratura attraverso la vita, continua ad avere un senso?
Non mi viene in mente altro che abbia più senso fare: inserire la letteratura tra i fatti della vita, come se fosse una specie di sonnambulismo dentro il quale, in realtà, si potesse essere più vigili che da svegli.

 
Monica R. Bedana, directora Ele Usal Torino presenta il libro di Patricio Pron al Salone del libro a Torino , giovedì 10 maggio, alle 19,45, nell’ambito del  Salone OFF alla Libreria Trebisonda in via Sant’Anselmo 22, alle ore 19,45

9 maggio 1978-2018: quarant’anni di lotta alle mafie “con” Peppino Impastato

C’è chi guarda il mare, chi prende il caffè, chi chiacchiera con gli amici. Piano, piano le strade si riempiono, continuano ad arrivare in tanti non solo i compagni di un tempo, ma anche ragazzi e ragazze delle medie e delle superiori. È questa l’atmosfera che c’è oggi a Terrasini in Sicilia. Si respira un’aria diversa. A breve partirà il corteo. Il corteo che si tiene 40 anni dopo l’omicidio di Peppino Impastato. «Quaranta anni senza Peppino? Verrebbe da dire 40 anni con Peppino, uno dei più formidabili intellettuali e militanti che ha avuto la sinistra italiana. Sono/siamo in tante e tanti a considerarlo parte del nostro presente» racconta Stefano Galieni, responsabile Pace e immigrazione della Segreteria nazionale del Prc Sinistra europea, mentre prende parte al corteo. «Peppino Impastato – aggiunge Galieni – non è stato “soltanto” uno degli ispiratori dell’antimafia sociale, ma un giornalista che con lo sberleffo, con le armi acute che si usano nel voler disvelare la realtà, ha fatto molto e molto di più».

Partiranno da Terrasini luogo centrale delle battaglie di Peppino, è qui che aveva sede la “sua” Radio Aut, per arrivare a Cinisi dove venne ucciso il 9 maggio 1978. Nel corteo c’è anche il fratello, Giovanni Impastato. È lui che insieme al centro studi tiene in piedi la Casa della memoria Peppino e Felicia Impastato. «Sono luoghi vivi dove non si parla solo di mafie, ma anche di sfruttamento, ingiustizia, di immigrazione» dice Galieni.

Un corteo vivo, pieno di striscioni e di bandiere. Da quelle dei ragazzi delle scuole medie e superiori arrivati da tutta Italia a quelli della sinistra radicale e delle associazioni. A fine corteo ci sarà un altro evento importante, un collegamento via Skype con i genitori di Giulio Regeni. Un messaggio importante viene lanciato oggi dai grandi e dai giovanissimi, che le sfide si affrontano insieme e a testa alta. «Come faceva Peppino», conclude il responsabile Pace e immigrazione del Prc.

Salvarsi dal Mediterraneo, annegare a Parigi. Il dramma dei rifugiati abbandonati a se stessi

epa06697783 Migrants sit in a makeshift camp along the Canal Saint Denis, in Paris, France, 27 April 2018. The migrant crisis in France continues where thousands of migrants live in makeshift camps all over the capital. EPA/JULIEN DE ROSA

La nuova Calais si trova a Parigi, scrive le Parisien. Due migranti sono morti annegati nelle ultime 48 ore nel territorio della capitale, lungo le rive dei canali del XIX arrondissement.
Dopo essere sopravvissuti alle onde buie del Mediterraneo, i rifugiati sono morti nelle acque illuminate dalle luci della città: nel canale Saint Martin il primo, un giovane afgano, nel canale di Saint Denis il secondo. Il cadavere ritrovato è probabilmente di un uomo di origine somala. Il suo corpo è stato avvistato mentre la corrente lo stava portando via.
Mentre le tendopoli crescono a Nord est della capitale francese, dove le stoffe e la plastica sono gli unici tetti per più di 3mila migranti, Parigi ha rinnovato il suo appello allo Stato. Con un flusso di 500 nuovi arrivi alla settimana, Anne Hidalgo, sindaco della città, ha scritto al ministro dell’Interno Gerard Collomb: «Siamo pronti ad aiutare, ma lo Stato deve assumere la sua missione e proporre soluzioni». La Hidalgo ha proposto che un rifugio venisse aperto nel XVIesimo arrondissement, dove abita Nicolas Sarkozy, o tycoon come Xavier Niel.
Due annegamenti in 48 ore. «Le condizioni di vita dei migranti lungo il canale lasciavano presagire questo dramma», ha detto Pierre Henry, direttore dell’associazione France terre d’asile. Da settimane si temeva il peggio e “il peggio è successo”.
Lungo il canale di Saint Denis ci sono centinaia di eritrei e somali, sopravvissuti al gelo invernale senza acqua o elettricità negli igloo di stoffa colorati, un “disastro umanitario”, per il sindaco socialista del XIX arrondissement Francois Dagnaud.
«Ipocrisia: di cosa è sintomo questo accampamento? Della violenza e del disprezzo con cui lo Stato tratta i migranti: dispersione, molestie, pratiche di applicazione della legge hanno l’effetto di costringerli all’invisibilità. Sono tollerati solo una volta sufficientemente lontani, sufficientemente nascosti» scrive Francoise Sivignon, presidente di Medicine du monde, sul quotidiano le Monde. Le tendopoli di Parigi sono «l’illustrazione del fallimento della politica statale»: 1.500 persone sono rimaste in totale indigenza, in condizioni sanitarie catastrofiche, senza alcuna informazione sui loro diritti e su come ottenerli». La Francia è uno Stato che «lascia per le strade chi viene a cercare tregua e protezione».

Tevere cavo, un progetto urbano per Roma

Tevere cavo, vista aerea

Con circa duecento tra studenti e laureandi, una ventina di dottorandi e sette assistenti del professor Antonino Saggio ordinario di Progettazione architettonica e urbana (a Sapienza Università di Roma) nasce l’iniziativa Tevere Cavo. Un progetto condensato in un libro, Tevere cavo una infrastruttura di nuova generazione per Roma tra passato e futuro che Saggio ha curato con Gaetano De Francesco, per Lulu.com edizioni (in free download ed è arrivato alla terza edizione). Per comprendere le novità di questo progetto urbano (a cui è dedicata una pagina), in occasione della mostra convegno alla Facoltà di architettura che si tiene mercoledì 9 maggio alle 0re 16:30 a via Gramsci 53 intitolata “Tevere cavo un progetto urbano per Roma” abbiamo chiesto al suo promotore, Antonino Saggio, di raccontarci l’iniziativa.

Professor Saggio quali sono le linee generali del progetto Tevere cavo?
Il progetto Tevere cavo non è un’utopia: propone un luogo ben preciso che è il settore urbano di Roma che va dalla diga di Castel Giubileo, sul raccordo anulare a nord, al ponte Margherita in asse con Piazza del Popolo a sud. Roma è una città che ha bisogno di progetti e idee per trovare slancio per il suo futuro e superare una fase di stagnazione di cui tutti conosciamo la gravità. Ma il progetto Tevere cavo non è un’utopia non soltanto perché è localizzato, ma soprattutto perché si ispira a tanti progetti di lungofiume realizzati in tutto il mondo. Si tratta di interventi promossi dalla mano pubblica nel caso del Rio Manzanares a Madrid o dello Cheonggyecheon a Seoul, progetti realizzati attraverso una forte negoziazione tra pubblico e privato come nel caso dell’East River a Broadway New York, generati dal basso come per Holzmarkt a Berlino o scaturiti da eventi d’arte, come avvenuto a Scottsdale in Arizona o a Roma, anche se qui ben presto richiuso in se stesso.

Quindi il progetto Tevere cavo in un certo senso travalica l’ambito strettamente legato al fiume e alle sue banchine?
Esattamente. Da Londra a New York, da Madrid a Valencia, da Zurigo a Rotterdam o a Parigi i lungofiume sono grandi occasioni di rilancio della città. Sono infrastrutture che in un certo senso servono per invertire la direzione dello sviluppo. Servono in altre parole non solo in sé e per sé, ma sono necessari a lanciare investimenti dentro la città costruita. Se si pensa in un’ottica generale servono quindi ad arginare l’espansione della città nei terreni agricoli, proprio perché rilanciano le possibilità di intervento dentro i vuoti e le aree abbandonate nella città esistente.
Roma è tra le pochissime città capitale del mondo occidentale che non ha attivato alcun progetto per il suo fiume. Nel ritiro della candidatura della città alle Olimpiadi del 2024 c’è anche l’abbandono dell’idea della precedente amministrazione che prevedeva di sviluppare il sistema olimpico come un grande parco fluviale, una idea che poteva mettere a sistema il recupero del fiume e moltissime area abbandonate con l’occasione olimpica. Non era certo un’idea utopica, basti ricordare che una proposta analoga permise alla città di Barcellona di recuperare ampie porzioni del suo lungo mare in occasione delle Olimpiadi del 1992 e da li partire per un’opera di straordinario rilancio urbano.

Quali sono i principi ispiratori del progetto urbano?
Sono cinque i principi fondamentali. Innanzitutto il fiume deve diventare una infrastruttura multitasking, cioè deve assolvere molte attività contemporaneamente, inoltre essere attiva nel quadro di uno sviluppo sostenibile e formare dei green systems: cioè non solo non deve inquinare e consumare poca energia, ma soprattutto deve innestare cicli attivi di bonifica e di disinquinamento. Deve fornire inoltre una mobilità di qualità, la chiamiamo slowscape; deve essere vettore della informatizzazione della città  formare una schiuma di informazioni e deve essere infine capace di galvanizzare gli animi e infondere il valore dello spazio pubblico.

Ci può illustrare brevemente alcuni progetti?
Il progetto Tevere cavo crea una costellazione di circa 50 progetti interconnessi, alcuni che riguardano concretamente le sponde e le aree abbandonate sul lungofiume, altri che sono nei pressi e che possono essere attuati proprio grazie al ritorno di interesse attraverso la grande infrastruttura urbana. Vediamone qualcuno iniziando da nord. “Ex.[PO]: nuovo ponte alle fornaci di Castel Giubileo, Centro tecnologico per lo sviluppo delle sperimentazioni costruttive” si colloca in un area che ha vocazione produttiva sin dai tempi dell’antichità ed è oggi completamente abbandonata. Il progetto la trasforma in un polo di innovazione costruttiva e tecnologica. Un ponte collega ciclopedonalmente le due sponde, ospita esposizioni e il complesso allunga le sue linee forza nel disegno del parco circostante dandogli un senso e proteggendolo da mire speculative. che ha vocazione produttiva sin dai tempi dell’antichità ed è oggi completamente abbandonata. Il progetto la trasforma in un polo di innovazione costruttiva e tecnologica. Un ponte collega ciclopedonalmente le due sponde, ospita esposizioni e il complesso allunga le sue linee forza nel disegno del parco circostante dandogli un senso e proteggendolo da mire speculative.

Quali si configura la “Logica Eco-Logica del parco produttivo e disinquinante dell’Inviolatella Borghese”?
Attiva tecnologie di sostenibilità ambientale e usa la produzione agricola in una logica disinquinante in un’area verde incuneata nella città. Tra il ponte Flaminio a Corso Francia si innesta un grande “Parco delle energie rinnovabili e campus per l’educazione e la coscienza ecologica” che si estende sino al Ponte Milvio e disegna contemporaneamente le due sponde.“Logica Eco-Logica: parco produttivo e disinquinante dell’Inviolatella Borghese” attiva tecnologie di sostenibilità ambientale e usa la produzione agricola in una logica disinquinante in un’area verde incuneata nella città. Poco oltre, in un grande cuneo tra la collina Fleming e l’ansa del Tevere si incontra “Eco District Park: Parco Urbano, distretto industriale e centro per l’educazione al tema del riciclo”, un progetto che opera una complessa strategia che determina un sottosuolo industriale per il riciclo legato alla rete ferroviaria – nei pressi del nodo di Vigna cClara di cui ci si augura avvenga finalmente l’apertura – e ai livelli successivi un parco agganciato alla città con episodi culturali ed un Museo volto alla valorizzazione della tematica del riciclo. Tra il ponte Flaminio a Corso Francia si innesta un grande “Parco delle energie rinnovabili e campus per l’educazione e la coscienza ecologica” che si estende sino al Ponte Milvio e disegna  contemporaneamente le due sponde. Il parco ospita un centro educativo, produce energia e ne diffonde la cultura. Al suo interno vi è un “Laboratorio di analisi sperimentale trattamento e ricerca dell’acqua” e “SHARE.IT: banca del tempo, turismo giovanile, mercato del baratto” che accoppia un nuovo ostello per il turismo giovanile a un centro della banca del tempo.

Quanto al villaggio olimpico?
Al Villaggio olimpico del 1960 si progetta “PARK [ing] Snodo per lo sviluppo del trasporto intermodale pubblico sostenibile il biomonitoraggio dell’inquinamento capace di produrre ossigeno ed energia elettrica”. Il progetto organizza un innovativo snodo tra traffici diversi e si muove anche nello sviluppo di tecniche di bioclimatica (dalla geotermia che sfrutta il calore del Tevere sotterraneo, alla raccolta e depurazione dell’acqua piovana, all’impianto di speciali alghe e licheni ossigenanti l’ambiente). In questo caso è evidente che il progetto urbano non è solo disegno, ma un insieme concertato di scelte, di indirizzi, di necessità.Lungo le sponde del Tevere incontriamo “Water playground: sistema di felicità urbana per la fitodepurazione e la riconquista del Tevere”. Si tratta di una serie di operazioni puntuali di omeopatia urbana che si ispirano a tanti progetti che in questi chiave si sono realizzati per esempio a Berlino, ad Anversa e Rotterdam. Il ponte della musica si trasforma in una Infrastruttura Multitasking che assolve molteplici compiti bios ostenibili. Una nuova rampa che ospita laboratori per il riciclo collega un approdo sul Tevere alla Zona del Foro Italico dove sorge “TTC Table tennis centre: un edificio dedicato al tennis da tavolo” che adopera nuove innovative tecnologie per l’accumulo e la produzione di energia cinetica. Infine, in un’area abbandonata e degradata del lungoTevere, oltre lo spazio del Pinedo sorge “Overflow: istituto carcerario attenuato per madri detenute a Porta del Popolo”.Un’opera complessa di risarcimento sociale e anche storico ai margini del centro storico. Infine E da qui si può ricominciare risalendo e incontrando ancora tanti altri progetti.

Immagine generale di inquadramento
Poster
Copertina del libro
Free download del Libro

 

Caso Cucchi: il carabiniere colpevole di avere raccontato ciò che sa

Chissà che ne pensa l’onore dell’Arma, che è una formula buona per qualsiasi occasione, di ciò che sta accadendo a Riccardo Casamassima, appuntato scelto che quando morì Stefano Cucchi prestava servizio nella caserma di Tor Vergata e che ha raccontato nel 2015 in tribunale di avere sentito il maresciallo Roberto Mandolini dire con la mano sulla fronte «È successo un casino ragazzi, hanno massacrato di botte un arrestato» seguito dal comandante Enrico Mastronardi che ha fatto il nome di Cucchi.

In tribunale Casamassima ha riportato anche le parole di Sabatino Mastronardi (figlio di Enrico) che disse: «Guarda non si sono proprio regolati. Non ho mai visto una persona massacrata di botte così». Ha pensato, il carabiniere Casamassima, che tra i doveri della divisa ci fosse anche quello di raccontare ciò che si sa, ancora di più in un processo come quello sulla morte di Stefano Cucchi in cui le responsabilità di pezzi dello Stato, se confermate, risultano gravissime.

Invece ora Casamassima si ritrova a lavorare fianco a fianco al collega che ha denunciato (a proposito di incompatibilità ambientale, appunto) e da quando ha testimoniato continua a subire una serie di procedimenti disciplinari (tra cui ben 10 giorni di consegna) dal tempismo piuttosto curioso. Ai giornalisti Casamassima ha detto di essere “spaventato e abbandonato” e che queste parole provengano da un carabiniere forse dovrebbe aprire qualche riflessione.

Il prossimo 15 maggio l’appuntato scelto sarà chiamato in aula per confermare la sua testimonianza e chissà che per allora l’onore dell’Arma non scelga di stare dalla parte della verità e non ci stupisca tutti con una rinnovata voglia di fare chiarezza. Farebbe bene all’Arma, farebbe bene alla famiglia Cucchi e farebbe bene a noi.

Buon mercoledì.

La grande avventura culturale e umana di Joyce Lussu

Joyce Lussu

Per ricordare la scrittrice Joyce Lussu nel giorno in cui nasceva, l’8 maggio ( del 1912), riproponiamo l’articolo che uscì su Left in occasione dell’uscita del volume Portrait per i tipi dell’Asino d’oro edizioni

 

Come in un romanzo. Ma ancora più potente, perché nelle pagine di Portrait, in rapide sequenze cinematografiche, scorre l’avventurosa vita della scrittrice e partigiana Joyce Salvadori Paleotti. Più conosciuta come Joyce Lussu, dal cognome del marito Emilio, rivoluzionario sardista, leader di Giustizia e libertà e poi ministro negli anni cruciali della costruzione dell’Italia nel dopo guerra.

Una abitudine, quella di chiamare l’autrice di libri come Fronti e Frontiere e come L’olivastro e l’innesto con il cognome da sposata, invalsa anche nei manuali di storia della letteratura, ma che rischia di far torto allo spirito indomito di questa donna indipendente, allergica ai dogmi e agli steccati ideologici. (Che accettò di sposarsi con rito civile solo perché suo figlio non fosse registrato come nato da «madre ignota»).
Fino alla sua scomparsa nel 1998, Joyce non smise mai di lottare contro ogni forma di fascismo e di oppressione, continuando a fare ricerca, nel rapporto vivo con le persone, spesso confrontandosi con culture lontane e diverse. Come quando, dopo aver partecipato attivamente alla Resistenza, nel dopo guerra, insofferente della burocrazia di Palazzo e verso i salotti romani, seppe inventarsi una seconda vita di traduttrice di poeti africani, arabi e asiatici, riscoprendo una passione nata nell’infanzia trascorsa in una casa «dove c’erano più libri che mobili»; in quella Firenze socialista dove l’azione degli squadristi fu particolarmente violenta.

Joyce all’epoca aveva appena nove anni e nella cartella  nascondeva un pezzetto di carbone per scrivere sui muri «Abbasso il fascio». La scrittrice lo ricorda in questo agile e franco Portrait che, in nuova edizione, con la prefazione di Giulia Ingrao, ha inaugurato la nuova collana “Omero” de L’Asino d’oro edizioni.

In quegli anni maturò anche il suo ateismo, incoraggiato dai genitori, intellettuali democratici di origine inglese (il padre, Guglielmino Salvadori tradusse Herbert  Spencer ed era vicino alle idee di Russell).  Joyce non era battezzata e le avevano insegnato a guardare con sospetto i testi sacri. «In quei libri ci deve essere qualcosa che non va perché hanno fatto ammazzare un sacco di gente», le diceva la madre, Giacinta Galletti.

«Il dogma e l’assoluto- scrive Joyce in Portrait – ci apparivano come segni di arretratezza mentale e civile». E ancor più inaccettabile le sarebbe sembrata ad Heidelberg l’ambigua neutralità e la sottovalutazione del nascente nazismo da parte dei suoi professori ad Heidelberg, a cominciare dal filosofo Karl Jaspers.

Così quella fanciulla che a tavola si lanciava in focose contese con Benedetto Croce smascherando la sua misoginia (e quella di una lunga stirpe di filosofi da Platone in poi) di fronte alla ferocia nazi-fascista decise che non era più tempo di stare a studiare in biblioteca. Ed ecco le pagine più appassionanti del libro, quelle in cui racconta la Resistenza ma anche l’incontro con il carismatico rivoluzionario socialista Emilio Lussu. Il desiderio, la passione, e quella sensazione di incertezza che per la prima volta le aveva fatto sperimentare quell’uomo che le era apparso così diverso dai compagni comunisti , troppo spesso carichi «di maschilismo autoritario e di  una violenza virile che vedeva nel sacrificio proprio e altrui, non un accidente purtroppo necessario e da superare al più presto, ma quasi un valore immanente, una catarsi con coloriture para -mistiche che a me, donna, dava una reazione di rigetto».

Joyce Lussu (1938)

Quell’ istintivo rifiuto della misoginia, poi  si sarebbe trasformato in pratica politica.  Fra le fondatrici dell’Udi, l’Unione donne italiane, Joyce era solita scompigliare riunioni politiche e comizi, pretendendo, prima di cominciare a parlare, che  i compagni andassero a  prendere le mogli che avevano lasciato a casa.

«Più che un pensiero femminista, quello di Joyce era un pensiero femminile. E in questo senso lungimirante e attualissimo», ricorda l’archeologo e restauratore Tommaso Lussu, nipote di Joyce e che ad Armungia  in Sardegna, con generosità ha aperto la casa di famiglia a studiosi e ricercatori. «Attualissima – aggiunge – è  la lezione di laicità che Joyce ci ha lasciato. Ma anche  il suo impegno ambientalista e quello politico di stampo libertario, tanto che non si volle legare più ad un partito politico dopo lo scioglimento del Psiup nel 1969», ricorda ancora Tommaso.

Senza dimenticare poi quell’impegno poetico e letterario che, di pari passo con il sostegno a movimenti di liberazione africani, la portò a tradurre i versi del poeta e rivoluzionario angolano Agostinho Neto. Ma anche i versi del curdo Nazim Hikmet. Con il quale strinse una profonda amicizia.  Tanto da riuscire a tradurre le sue poesie, grazie a una lunga e profonda frequentazione, pur non conoscendo direttamente la lingua curda.

Le città divorano l’umanità dei loro abitanti: la povertà urbana che la politica non vede

Un momento dei controlli di una pattuglia dei Carabinieri nel quartiere di Tor Bella Monaca, 4 aprile 2017 a Roma. ANSA/MASSIMO PERCOSSI

In senso lato, la povertà è l’impossibilità di soddisfare bisogni essenziali. Con la qualificazione di ‘urbana’ si potrebbe agevolmente traslarne la portata alle forme di povertà tipiche delle città. Troppo semplicistico, dicono gli esperti (che ne discuteranno nel convegno Confini al centro, verso una nuova giustizia sociale, organizzato dall’Associazione 21 luglio, dall’11 al 13 maggio, a Roma, università Tor Vergata).

«Non è semplice definire la povertà urbana poiché, convenzionalmente, esistono modi diversi di definire e, conseguentemente, rilevare empiricamente o, come preferiscono dire economisti e statistici, misurare la povertà», spiega a Left, Enrica Morlicchio, professoressa ordinaria presso il Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università degli Studi Federico II di Napoli. Che continua: «La povertà urbana interessa soggetti che vivono in centri urbani di medie e grandi dimensioni che, in aggiunta alla difficoltà di soddisfare i bisogni famigliari e individuali, sperimentano forme di segregazione e di difficoltà nel ricorso all’autoproduzione e all’autoconsumo».

Le cause, molteplici, sono da ricercarsi in un mutamento graduale (e nemmeno troppo) della fisionomia delle città e delle condizioni economiche a cui la politica non ha saputo replicare in maniera corrispondente. Anzi, a dirla tutta, ne è stata anche responsabile.
«Dagli anni Ottanta, in Italia, abbiamo assistito a una trasformazione di aree periferiche delle metropoli italiane dovuta alla costruzione di grandi quartieri di edilizia residenziale pubblica dove concentrare il disagio sociale e al graduale afflusso di cittadini e famiglie immigrate», specifica il presidente dell’Associazione 21 luglio, Carlo Stasolla. «Negli stessi anni – aggiunge – la politica dei ‘campi nomadi’ ha inaugurato nel nostro Paese, un modello razziale di relegazione e iper-ghettizzazione». Generando una nuova forma della povertà «caratterizzata non solo dall’assenza di risorse economiche ma anche dalla rottura dei legami e dalla esclusione sociale, segnata da un isolamento spaziale e relazionale: ci troviamo di fronte a una ‘urbanizzazione della povertà’, dove la segregazione sociale, appunto, si declina in diverse forme».

Dai quartieri per ceti benestanti agli spazi periferici popolati da gruppi a minore reddito, aree omogenee per lingua e religione, campi nomadi, baraccopoli per stranieri, ghetti popolati da lavoratori stagionali e centri di accoglienza per richiedenti asilo. E, così, «oggi l’Italia, dopo la crisi economica e bancaria, esplosa nel 2008, si presenta come un Paese fragile dove la povertà è una caratteristica endemica delle città», conclude Stasolla.
E, però, «il concetto di fragilità è utilizzato solitamente in maniera banale e banalizzante da parte delle istituzioni, incapaci di comprendere i problemi strutturali e politici alla base dei processi di impoverimento, ai quali si risponde, da anni, con polizia, vigili urbani e retoriche securitarie», dice Gennaro Avallone, ricercatore presso l’Università di Salerno. Precisando che «nei discorsi pubblici e dell’azione politica sono scomparsi gli obiettivi dell’uguaglianza e della giustizia, ed è rimasto solo lo spazio per l’ossessione per la sicurezza».

Persa ogni vocazione (umanamente) produttiva, le politiche (austere) hanno incattivito e ridotto alla rassegnazione le città che tendono, sempre più, a scaricare le loro paure verso il basso. E con forza centrifuga, verso le periferie che, stravolgendo la mappa urbanistica e sociale, si fanno metropoli senza infrastrutture e senza servizi e producono forme di vita senza rappresentanza.
E invece, «queste politiche – suggerisce Avallone – potrebbero muovere dal riconoscimento della capacità di organizzazione delle persone in povertà: invece di penalizzare – come fa l’articolo 5 del decreto Lupi, per esempio – chi vive in occupazioni abitative, si potrebbe riconoscere, anche dal punto di vista istituzionale, la ricchezza di queste esperienze (collettive) e le proposte che avanzano».

Con le città svuotate del loro abitare e riempitesi negli spazi vuoti e negli interstizi, per Avallone «la povertà urbana è la negazione del diritto alla città, del diritto a vivere dove si lavora, dove ci sono i propri affetti e le proprie attività». Ad esempio, «diritto alla città vuol dire vivere dove i propri figli vanno a scuola e non dovervi rinunciare a causa della combinazione tra fitti che salgono – favoriti dalla valorizzazione della rendita fondiaria – precarietà lavorativa e assenza di politiche attive per la casa», chiosa Avallone.

E se «i fattori della povertà urbana, come la precarietà lavorativa, sono riferibili al più generale sistema sociale, la specificità di ‘urbana’ è, semmai, per indicare le manifestazioni ‘nuove’ o tendenziali della povertà e, in particolare, le sue forme più problematiche ed estreme: marginalità ed esclusione sociale», precisa Antonio Tosi, professore di Sociologia urbana presso il Politecnico di Milano. Marginalità ed esclusione che stanno mettendo a dura prova la tenuta della democrazia e della libertà individuale.

«In Egitto l’isolamento in carcere è tortura». La denuncia di Amnesty International

epa06286263 Egyptian President Abdel Fattah al-Sisi attends a military ceremony at the Hotel des Invalides in Paris, France, 24 October 2017. Al Sisi is in Paris for bilateral talks and to witness the signing of 17 cooperation agreements between both countries. EPA/CHARLES PLATIAU / POOL MAXPPP OUT

In Egitto per 22 ore al giorno in cella, da soli per 365 giorni l’anno. Un tempo che trascorre tra percosse dei secondini e cibo negato. Umiliazioni e silenzio. Divieto di contatti: con il mondo esterno, con le loro famiglie. Ma anche con quello interno, rappresentato dagli altri detenuti. L’isolamento è tortura e il Cairo lo applica sistematicamente nelle sue carceri. C’è scritto nel nuovo rapporto di Amnesty International.
Si finisce in isolamento per estorcere confessioni, per punire chi si è ribellato alle condizioni carcerarie o semplicemente per il passato politico che molti hanno alle spalle, scrive Amnesty. «Venti dei 36 prigionieri di cui si occupa il rapporto sono detenuti nel complesso penitenziario di Tora», scrive Riccardo Noury, Amnesty Italia.
Dietro le sbarre di 14 prigioni, in sette diversi governatorati, i detenuti intervistati nel report riferiscono di essere sottoposti a sovraffollamento delle strutture, mancanza di cibo, scarso livello di igiene, scarsa ventilazione ed illuminazione. A questo si aggiunge “l’uso dell’isolamento da parte delle autorità egiziane, uno strumento per infliggere punizioni addizionali, in particolare, ai prigionieri con un profilo politico”, scrive Amnesty.
Panico e paranoia. Assenza di memoria e concentrazione. Depressione ed insonnia, incapacità di comunicazione sono le conseguenze di questa pena, per giornalisti, attivisti, membri dell’opposizione, prigionieri senza accuse, che scontano un isolamento senza data di fine prevista. Sei detenuti dei 36 casi documentati da Amnesty «sono completamente isolati dal mondo esterno dal 2013», ha detto Najia Bounaim, Amnesty Nord Africa. Hussein Baumi, Amnesty Egitto, ha riportato le parole di un detenuto identificato come Hisham: le celle d’isolamento sono “simili a delle tombe”.
Sottoposto al memorandum dell’organizzazione per i diritti umani, il ministro dell’Interno egiziano del governo di Al Sisi ha risposto negando l’applicazione di tortura sistematica, ha ribadito la necessità del pugno duro da usare contro l’Isis che dal 2013 compie attacchi nel Paese e ha corretto Amnesty: quelle che l’ong chiama “celle d’isolamento” sono semplicemente “celle individuali” e le pratiche detentive sono “normali”. E poi al Cairo è di nuovo calato il silenzio.

Chi li partorisce i Casamonica?

Un'immagine dalla telecamera di sorveglianza posta sulla cassa del bar in cui è stata immortalata l'aggressione al barista avvenuto domenica primo aprile nell'esercizio di via Salvatore Barzilai, nel quartiere della Romanina. Antonio Casamonica e suo cugino Alfredo Di Silvio, personaggi legati all'omonimo clan, hanno aggredito prima una ragazza portatrice di handicap e poi un cittadino romeno di 39 anni, quest'ultimo proprietario del bar. ANSA

Ora tocca al bar devastato in zona Romanina accendere l’ennesimo allarme dall’odore mafioso, con quel che basta di violenza per rendere il tutto ancora più appetitoso per i media e con gli sventurati da intervistare a piene mani. Il copione è sempre lo stesso: un cognome che conta (anche se si finge di non averne saputo nulla fino a qualche ora prima), qualcuno che si ribella e ne paga le conseguenze (c’è chi si ritrova il naso rotto da una testata come accaduto con gli Spada a Ostia, in questa occasione abbiamo le cinghiate prese da una disabile) e poi fioccano i servizi in cui gli abitanti della zona dicono che “è sempre stato così, che l’importante è farsi i fatti propri, che loro non hanno mai avuto problemi”, poi arriva il sindaco, le autorità e così via, fino al prossimo caso.

Il mafiosetto bullo di turno torna anche utile a dipingere la zona degradata, con quei tratti da periferia del mondo come se sia quella particolare violenza a diventare paradigma del tutto. Poi, passati alcuni giorni, ci si dimentica e si ricomincia.

Eppure i Casamonica (che si chiamino in un altro modo, con qualsiasi altro cognome) li partoriamo noi: il potere acquisito (sia anche solo intimidatorio, al limite del mafioso) è figlio di un comportamento generale tutto intorno che non è nient’altro che omertà. Omertà, sì, anche se la parola sembra essere ormai fuori moda e anche se ogni volta che la leggiamo riferita al nostro quartiere ci provoca una certo risentimento, come se fosse un’accusa rivolta a noi. E in effetti è un’accusa rivolta a noi.

I “Casamonica” proliferano perché ormai in tutta Italia, mica solo al sud, il nuovo federalismo delle responsabilità ci ha convinto che il nostro unico dovere sia proteggere il nostro piccolo cortile, i nostri famigliari e gli amici più cari senza spendere troppe energie per il territorio, per la propria città, per il Paese. Siamo tranquilli se il nostro condominio è tranquillo e questo ci basta, tutti intenti a restringere il campo dei nostri doveri.

Qualche giorno fa in una ridente cittadina del nord, periferia milanese, i funerali della madre di un boss di mafia (detenuto al 41 bis) hanno ripetuto i fasti a cui ci hanno abituato i clan, bloccando mezza città con un corteo non autorizzato di banda musicale e petali di fiori. Eppure nessuno ne ha parlato.

Ci accorgiamo della nostra responsabilità ristretta quando scappa un po’ di violenza ma i Casamonica li partoriamo noi, dappertutto.

Buon martedì.