Home Blog Pagina 743

Nel segno del premier Hun Sen l’attacco alla libertà di stampa in Cambogia

epa06452152 Cambodian Prime Minister Hun Sen attends a congress to reform his Cambodian People's Party (CPP), in Phnom Penh, Cambodia, 19 January 2018. The Cambodian People's Party is the ruling party of Cambodia since 1979 after they toppled the Khmer Rouge regime, supported by the Vietnamese Government. Prime Minister Hun Sen is President of the party. EPA/MAK REMISSA

In Cambogia l’ultimo giornale indipendente è stato venduto. Cade l’ultimo bastione della stampa libera nel Paese: il Phnom Penh Post è stato acquistato da Sivakumar Ganapathy, investitore malesiano, proprietario di un’azienda che ha lavorato per il primo ministro cambogiano Hun Sen. Il businessman australiano Bill Clough, che possedeva il giornale dal 2008, ha deciso di cederlo, come scrivono in un editoriale gli stessi reporter del Phnom Pneh.

Il premier Sen dà battaglia alla stampa libera dall’inizio del 2017, ma, in vista delle elezioni il prossimo luglio, negli ultimi mesi sembra proprio che sia guerra aperta. Al potere dal 1985, vede nelle penne dei giornalisti liberi «una potenziale minaccia per la sua permanenza al potere, questa repressione è stata preventivamente programmata per le imminenti elezioni, la triste verità è che sono riusciti a far calare il sipario molto velocemente su quella che era una stampa molto libera», ha detto Shawn Crispin, Cpj, Comitato protezione giornalisti.
Solo un anno fa, a settembre, il Cambodia Daily, accusato dal governo di supportare l’opposizione, è stato costretto a chiudere dopo una multa governativa che superava i 6 milioni di dollari, insieme a 32 radio che mantenevano le loro voci alte e critiche contro il potere.

Nelle celle cambogiane rimangono non solo reporter delle radio asiatiche locali, come Uon Chhin e Yeang Sothearin, accusati di “trasmissione di informazioni a Paesi esteri”, ma anche stranieri, come il video maker australiano James Ricketson. Nell’indice della libertà di stampa, secondo Reporter Without Borders, la Cambogia ha perso dieci punti nell’ultimo anno: era al 132esimo prima di scendere al 142esimo posto nel 2017. Secondo l’associazione, la stampa indipendente del Paese “è in macerie”. Per Phil Robertson, responsabile di Human Right Watch divisione Asia, questa cessione del quotidiano «è un colpo impressionante alla libertà in Cambogia».

«Questa è la peggiore situazione per la stampa e per i giornalisti che io abbia mai visto in tutta la mia carriera»: Aun Pheap, dopo 30 anni passati a scrivere di corruzione, abuso dei diritti umani, scandali politici, come molti colleghi reporter, ora è in esilio perché “nemico dello Stato”. Si trova a Washington, Stati Uniti, in attesa di asilo politico: «qualsiasi giornalista scriva della reale situazione cambogiana o qualcosa che al governo non piace, verrà perseguitato, non siamo sicuro nel nostro Paese» ha detto al Guardian. «Per farlo io ho perso tutto».

Su Left in edicola, diversi approfondimenti dedicati alla Cambogia. A cura di Matteo Angioli, Simona Maggiorelli, Tania Careddu

 

Left n.18 del 4 maggio 2018


SOMMARIO ACQUISTA

Un appello per la Piana fiorentina: «Ma quale aeroporto, serve un progetto agricolo»

La Piana fiorentina deve essere liberata dalle grandi e dannose infrastrutture, per riaffermare la realizzazione integrale del Piano agricolo della Piana, con le sue potenzialità occupazionali, dalle quali partire, per realizzare un laboratorio di sperimentazione ambientale e civica, in chiave in chiave antispeculativa, solidale e mutualistica. È necessaria la riappropriazione e l’uso collettivo di numerose aree della Piana da parte di attivisti, abitanti, associazioni, in modo da garantire non solo la tutela e la cura delle zone in oggetto, ma anche l’interdizione di tutte quelle iniziative, che ne potrebbero alterare o distruggere l’alto e prezioso valore ambientale, agricolo ed economico, rendendo anche concretamente realizzabili i progetti di accoglienza integrata, che i Comuni sono chiamati ad attuare nell’ambito del Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar).

La Piana Firenze – Prato – Pistoia è un sistema territoriale complesso, da tempo sottoposto ad una pressione antropica tale da determinare uno stato di crisi permanente. Ed è proprio la retorica dello sviluppo e dell’aumento dei posti di lavoro che prepara il terreno a questo crack ambientale, urbanistico ed economico, per realizzare un aeroporto intercontinentale da 4,5 milioni di passeggeri. Un’infrastruttura, che comporterebbe la parcellizzazione del Parco agricolo della Piana, l’unica alternativa per il riequilibrio ambientale di una delle aree più inquinate d’Europa, dove stanno cercando di concentrare, oltre all’aeroporto, anche un mega inceneritore, la terza corsia dell’autostrada A1 Firenze Mare, la cittadella viola con annessi alberghi e centri commerciali.

Inoltre, c’è da rilevare che per il nuovo aeroporto intercontinentale, la richiesta di Conformità urbanistica al Ministero, avanzata da Enac, non potrebbe essere rilasciata, perché il Tar della Toscana ha annullato la Variante al Pit, con la quale si inseriva la nuova pista (per di più di 2.000 metri) all’interno del Parco agricolo della Piana, come evidenziato dal Gruppo urbanistica di perUnaltracittà. Siamo in attesa della pronuncia del Consiglio di Stato che non è detto che debba essere a favore di Toscana Aeroporti, la società interessata, e comunque la pista prevista è difforme da quella di progetto, lunga ben 2400 metri. In sostanza la Regione dovrebbe ripresentare una nuova Variante al Pit.

È bene ricordare che, per quanto riguarda il vecchio attuale aeroporto, Enac non ha ancora approvato i Piani di rischio presentati dai Comuni di Firenze e Sesto fiorentino nel maggio 2016, e quindi è come se non ci fossero, perché per il nuovo aeroporto i Piani di rischio, che riguardano la sicurezza sia dei trasportati che dei sorvolati, non sono stati presentati. Appare così un quadro preoccupante, a cui si aggiunge un’indagine della Procura sulle inadempienze di Adf, prima, e di Toscana aeroporti poi, relative alla sicurezza idraulica dell’attuale aeroporto (a causa della mancata realizzazione della vasca di autocontenimento delle acque prevista dal Masterplan del 2003), La copertura degli investimenti previsti vedrà schierate in prima fila le amministrazioni pubbliche che, attraverso il project financing, saranno chiamate a garantire i debiti contratti dai privati e a intervenire con risorse economiche sia per adeguare il sistema territoriale alle nuove infrastrutture che per assorbirne gli impatti negativi.

Per spostare la Mercafir, ovvero i mercati generali e poter fare la cittadella viola, è necessaria una Variante al Piano urbanistico di Castello (Pue), che a detta dell’assessore di competenza del Comune di Firenze, sarà approvata dalla sola giunta e non ratificata dal Consiglio comunale in quanto, a detta loro, trattandosi di variante che prevede una riduzione consistente del carico urbanistico previsto nel Pue vigente, sarebbe pertanto di competenza della sola Giunta comunale. La motivazione esposta, ossia la riduzione delle costruzioni è del tutto risibile: sono previsti ben 271.200 mq di nuova edificazione, più del triplo di quanto già costruito con la nuova caserma dei carabinieri (88.000 mq.), per di più a ridosso del previsto aeroporto intercontinentale. Le dimensioni non sono quindi trascurabili e comunque vanno inserite nel quadro più ampio delle previsioni insediative di tutta l’area. Il Regolamento costruzione ed esercizio aeroporti prevede di limitare al massimo il carico antropico dell’area.

Ma il Comune verifica il carico antropico non sulla base delle circa 800 presenze in uno spazio ridotto, come può essere quello dei mercati generali, ma lo distribuisce sull’intera area territoriale, ben più ampia. Le condizioni di sicurezza degli insediamenti esistenti e di quelli previsti sono molto precarie. Mercafir, Caserma dei carabinieri e l’area del nuovo stadio resterebbero comunque nelle aree di tutela, anche con il nuovo aeroporto, così come il Palazzo di Giustizia, con i suoi numerosi frequentatori, sarebbe a poche decine di metri dalle stesse. Ciò viene rilevato dal Gruppo urbanistica di perUnaltracittà, di cui condivido l’analisi e le proposte in merito al fatto che le amministrazioni comunali dovrebbero predisporre regolamenti e patti di collaborazione, per favorire una reale partecipazione dei cittadini alla vita delle comunità locali, a partire dal diffuso attivismo sociale in difesa del Parco agricolo della Piana.

Infine, il mancato coinvolgimento del Consiglio comunale significa impedire un ampio e necessario dibattito pubblico e istituzionale su una delle operazioni urbanistiche ed economiche più rilevanti della storia della città, irrisolta da più di sessant’anni. Un vero e proprio disprezzo delle più elementari regole della democrazia che non può essere giustificato in nessun modo.


L’articolo di Miriam Amato è stato scritto in collaborazione con il Gruppo urbanistica di perUnaltracittà di Firenze

 

Il sindaco Nardella propone «prima ai toscani le case popolari». E la destra applaude

Il sindaco di Firenze Dario Nardella durante gli Stati Generali della lingua italiana nel mondo a Palazzo Vecchio, Firenze, 17 ottobre 2016. ANSA/ UFFICIO STAMPA COMUNE DI FIRENZE +++ ANSA PROVIDES ACCESS TO THIS HANDOUT PHOTO TO BE USED SOLELY TO ILLUSTRATE NEWS REPORTING OR COMMENTARY ON THE FACTS OR EVENTS DEPICTED IN THIS IMAGE; NO ARCHIVING; NO LICENSING +++

L’ultima delle uscite di Dario Nardella è quella sulle case popolari, che secondo il sindaco di Firenze dovrebbero essere concesse in via preliminare ai fiorentini o comunque a chi vive da almeno 10 anni nel territorio comunale.
«Il nostro obiettivo – ha dichiarato il primo cittadino – è aiutare chi è in graduatoria da troppo tempo ed è sempre in fondo alla lista. Vogliamo dare una mano a quelle famiglie che hanno sempre rispettato le regole e che vivono da molti anni nella nostra città, per riequilibrare una concentrazione eccessiva di famiglie straniere».
La dichiarazione, che ha scatenato un prevedibile putiferio di polemiche, è stata rilasciata alla vigilia della audizione in Commissione Politiche Sociali della Regione Toscana che nelle prossime settimane si occuperà di riformare l’attuale legge regionale sull’accesso all’edilizia residenziale pubblica. La competenza sull’edilizia è infatti regionale ma al tavolo preliminare siedono, come previsto, tutti gli attori sociali e istituzionali interessati, fra i quali il Comune di Firenze. La legge attuale, firmata da un’altra renzianissima esponente, Stefania Saccardi, è del 2015 e già prevede un requisito temporale minimo per la richiesta di un alloggio pubblico, fissato nel termine dei 5 anni.
Già al tempo i sindacati degli inquilini avevano storto il naso di fronte al requisito temporale minimo, dato che avrebbe potuto penalizzare ingiustamente le categorie più deboli e i pendolari del lavoro, spesso costretti a spostarsi da un luogo all’altro per cercare un’occupazione.
«La revisione della legge del 2015 si è resa necessaria perché non fotografa in maniera realistica il tessuto sociale – spiega Laura Grandi, segretario generale del Sunia Firenze – costituito non solo da casi di estrema marginalità, ma anche da chi lavora e ha un reddito troppo basso per sostenere affitti sempre più alti». Da qui l’esigenza di una revisione, dalla quale è scaturita la proposta della nuova legge firmata dall’assessore regionale alla Casa, Vincenzo Ceccarelli.
Ma anche questa volta i sindacati degli inquilini sono tutt’altro che soddisfatti: «Se è possibile questa legge è ancora peggiore della precedente – commenta ancora Grandi -. Abbiamo infatti proposto 42 emendamenti alla proposta, non certo perché siamo incontentabili ma perché crediamo di conoscere bene il destinatario finale della legge che non può essere tutelato con queste disposizioni».
In questo clima già sufficientemente arroventato è poi arrivata la dichiarazione del sindaco. Nella sua newsletter il primo cittadino ha cercato di argomentare meglio la propria idea: «Da Firenze parte una nuova proposta per non creare ghetti come nelle periferie francesi, bisogna evitare di inserire troppe famiglie straniere negli stessi condomini e anzi aiutare le famiglie in ‘fascia grigia’ e dai un punteggio maggiore a chi risiede da più anni in Toscana. La cosa più importante è creare dei luoghi di convivenza».
L’intento social-filantropico della motivazione non ha comunque fermato le polemiche, e le prese di distanza. Tra le prime, quelle dello stesso assessore regionale Ceccarelli che ha ricordato che «esistono già sentenze della Corte Costituzionale, una relativa alla Regione Friuli-Venezia Giulia che, laddove la Regione ha messo delle norme troppo stringenti per quanto riguarda l’accesso a servizi ritenuti essenziali per il cittadino, non ammette soluzioni che possano risultare discriminatorie». Contrario anche il Movimento 5 Stelle che ha parlato di “demagogia” e di “guerra tra poveri” e Potere al Popolo, ancora più duro, che afferma: «In una città dove le case del centro sono sottratte alla residenza e i grandi edifici pubblici trasformati in alberghi di lusso, il sindaco di Firenze imputa alle famiglie straniere l’emergenza casa. Dichiarazioni degne del peggior repertorio programmatico destrorso».
Nella giornata di venerdì 4 maggio è infine arrivato anche il commento del presidente della Regione Toscana, Enrico Rossi, su quella che è stata ribattezzata la “scala mobile della toscanità”: «Possiamo discutere su come evitare l’effetto banlieu, magari dando ai sindaci il potere di ‘mischiare’ le etnie in modo da evitare il rischio della formazione di ghetti. Quello che non possiamo fare, perché è già stato ritenuto incostituzionale in base all’articolo 3 della Costituzione, è aumentare ulteriormente il numero degli anni di residenza necessaria per ottenere il diritto ad iscriversi nelle graduatorie per l’assegnazione di un alloggio popolare. La Toscana – precisa ancora Rossi – chiede già 5 anni di residenza ed è tra le Regioni italiane con i paletti più rigidi su questo tema, ma in linea con altre Regioni come la Lombardia e il Veneto».
La scala mobile della toscanità ha creato insomma molta confusione e quasi nessun consenso. Fatto salvo per Lega e Fratelli d’Italia, il cui rappresentante in Consiglio Regionale fa sapere: «È interessante vedere che il sindaco è arrivato a sposare proposte di legge che noi portiamo avanti da sempre – precisa il capogruppo Paolo Marcheschi – al Nardella ‘convertito’ regalerò una tessera di Fratelli d’Italia».
Da segnalare, che tra un anno, a Firenze, ci sono le elezioni comunali.

Cosa resta di Karl Marx nel Paese della rivoluzione d’Ottobre?

epa06704263 Communist party supporter dressed as Karl Marx takes part in the traditional May Day demonstration, Moscow, Russia, 01 May 2018. Labor Day, or May Day, is observed all over the world on the first day of May to celebrate the economic and social achievements of workers and fight for laborers rights. EPA/MAXIM SHIPENKOV

A duecento anni di distanza dalla sua nascita cosa resta di Marx in Russia, il primo Paese al mondo che fu governato in nome delle sue idee? Non molto, ma neppure pochissimo.

Come è noto, solo fino a trent’anni fa, prima che fosse ammainata la bandiera rossa dal pennone del Cremlino, in Urss il marxismo-leninismo fu materia scolastica, università comprese. Un marxismo, ridotto a catechesi, espunto della sua matrice rivoluzionaria, stuprato storicamente anche nella versione soft in salsa chrusceviana, una noiosa corvè per tutti i cittadini sovietici quella di essere costretti ad avere dei rudimenti dell’opera del Moro di Treviri. Questo fu, sicuramente e in buona parte, Marx nell’Urss. Negli anni del breznevismo, egli divenne persino protagonista anche di divertenti e salaci barzellette su un sistema che ormai mostrava più di una crepa.

Alcuni segni del suo passaggio sono rimasti qua e là nell’arredo urbano. Malgrado una certa “decomunistizzazione” sia avanzata anche a Mosca, davanti al teatro Bol’šoj, sulla Piazza Teatral’naja, fa ancora bella mostra di sé, una statua del fondatore del socialismo scientifico. E benché architetti e artisti abbiano sempre storto il naso di fronte all’opera, a me non è mai dispiaciuta. È un grande busto del filosofo con una mano sul risvolto della giacca e l’altra nella tasca dei pantaloni, mentre i capelli al vento gli danno quel minimo di trepidezza. Naturalmente i piccioni fanno in modo di togliergli ancora un po’ più austerità, ma del resto è il destino di tutti i personaggi che adornano le piazze.

Non lontano da Saratov esiste una cittadina intitolata a Marx, 30mila abitanti. Prese tale nome nella versione di Marxstadt nel 1919, parte integrante della regione di Saratov, dove viveva sin dai tempi di Caterina la comunità dei Tedeschi del Volga. Quando nel 1942 Stalin fece deportare in Siberia l’intera comunità tedesca per timore che in caso di occupazione collaborasse con i nazisti, la città oltre a perdere molti dei suoi cittadini perse anche il suffisso di Stadt restando semplicemente Marx. Un po’ laconicamente c’è solo un piccolo e malconcio busto dedicato al rivoluzionario tedesco, ma all’ingresso della cittadina i visitatori vengono accolti da una bella insegna in muratura, dal sapore vagamente situazionistico, su cui è scritto «I love Marx», con tanto di cuore rosa.

Sempre in zona c’è una città dedicata al sodale e amico di Marx, Friedrich Engels. Il «Generale», così veniva chiamato per le sue profonde conoscenze dell’arte militare, però è stato, se così si può dire, più fortunato essendo oggi la città a lui titolata una realtà di ben 230mila abitanti. A Engels fu dedicata nel 1931 la città che fino allora aveva portato il nome Pokrovsk, e che si stende sulla riva opposta del Volga di fronte a Saratov. Oggi collegate da due grandi ponti, Saratov e Engels si possono definire una sola grande città anche se amministrativamente ma pure architettonicamente restano due città diverse. Vie strette e ancora case di legno stile isba a Saratov; grandi vialoni e solidi edifici di epoca staliniana a Engels.

Qualcosa di Marx è rimasto però in Russia non solo nella toponomastica se si vuole far fede all’Istituto di sondaggi moscovita Vziom, che ha pubblicato la scorsa settimana proprio in occasione del bicentenario della nascita, i risultati di una ricerca sulla popolarità del rivoluzionario tedesco in Russia. Risultati interessanti, anche se non sorprendenti. Il 98% degli intervistati ha dichiarato di conoscere Marx in linea di massima, il 30% circa di apprezzarne le idee e di averne letto letto almeno un’opera. I russi restano un popolo che pone al vertice dei suoi valori l’uguaglianza (spravledivost’) e questo lo dicono oltre che i sondaggi il sentire comune. Non sarà forse un caso che lo stesso il Marx, nella maturità, giunse a ipotizzare nella celebre corrispondenza con i populisti russi che quel Paese potesse giungere al socialismo senza passare per il capitalismo, grazie alle sue istituzioni comunistiche contadine. Marx nella semplice percezione di molti cittadini comuni russi è anche questo: il campione dell’uguaglianza. Per questo la sinistra del futuro porterà anche in Russia inciso il suo nome e la sua opera.

Buongiorno Mosca,
Storie, vicende e riflessioni dalla Russia
[email protected]

Mancano i ragionamenti, quindi ci si affida alla cronaca (nera)

Gli omicidi a Londra spingono Trump a twittare. Il funerale di Pamela Mastropietro scatena certa destra sui dettagli più peccaminosi e sul “negro” come pericolo del secolo. La percentuale diminuita degli sbarchi invogliano Gentiloni a cantare vittoria.

Sempre di più la politica (e il giornalismo, lo possiamo scrivere? Il giornalismo) quando sono incapaci di costruire un ragionamento cercano affannosamente spunti nella cronaca nera per illudersi (e illuderci) di leggere il presente e di essere davvero sulla cresta dell’onda. Fateci caso: sono completamente andate fuori moda le domande, è scomparso il valore di un dubbio, sono introvabili delle proposte di chiavi di lettura collettive. Il problema non sono i social dentro i social: il problema è la comunicazione social fuori dai social, nel mondo reale, lì dove come classe dirigente bisognerebbe dirigere (appunto) un pensiero, una visione, un progetto, addirittura un Paese.

Se il dibattito politico ha bisogno di strafogarsi di sfondoni lessicali compiuti dagli avversari o aspetta impazientemente di poter azzannare un tweet sbagliato allora significa che quello è il perimetro generale del pensiero. Stretto. Strettissimo.

Cosa c’è di strano quindi che inevitabilmente poi sia tutto così terribilmente ininfluente nella vita reale delle persone? Ma davvero voi andreste a votare qualcuno perché è stato brillante nel commentare il sommario dei tigì? Ma davvero voi comprereste un giornale che cerca notizie per sostenere la propria tesi con cui vi ammorba da anni piuttosto che fare il contrario ovvero costruire pensieri partendo dai fatti?

Mi raccomando, poi stupiamoci tutti.

Buon lunedì.

Il barone di Calvino, ribelle con amore

Cesare Pavese sarà il primo che, riferendosi allo stile dello scrittore, lo definirà «uno stile dal tono fiabesco» e questo, prima ancora che uscisse la raccolta Fiabe Italiane, nel 1956, in cui Calvino, come egli stesso disse, fece un viaggio durato due anni in un mondo affascinante e sconosciuto. Inoltrandosi in quella materia magmatica e priva di regole compositive, recuperando ogni storia dalle tante raccolte folcloristiche che arricchivano il patrimonio delle biblioteche italiane, si immerse nei racconti nati dalle bocche del popolo: un patrimonio importante, ricco, ma anche ingarbugliato che Calvino ha saputo restituirci attraverso un lavoro di riscrittura e integrazione linguistica.

Nello stesso anno dell’uscita di quell’opera straordinaria che vedrà unite in un unico volume ben duecento fiabe provenienti dalle diverse tradizioni regionali d’Italia, Calvino ha un’ idea: un ragazzo sale su un albero e passando di ramo in ramo decide di vivere lì tra le chiome verdi per tutta la sua vita. Questa immagine gli viene suggerita da un racconto del pittore “dell’arte del movimento”, il poeta ironico delle automobili Salvatore Scarpitta, che anni prima, in una sera del 1950, all’osteria Menghi di via Flaminia a Roma, raccontò a Calvino di quando bambino, nella California degli anni Trenta, dove viveva con la famiglia, si rifiutò di aiutare il padre nelle faccende domestiche e per sfuggire all’ira di questo e a qualche scappellotto, si arrampicò sul grande albero del pepe che si ergeva nella loro proprietà. Il genitore lo lasciò fare credendo ad una birbata da poco conto e invece vi rimase 34 giorni, superando il primato di permanenza sugli alberi e diventando una vera celebrità.

Così Il barone rampante è lo sviluppo radicale di questa idea. Il romanzo inizia così…

 

Dal 6 al 18 maggio, a Pistoia, la mostra Cosimo degli Alberi ispirata all’opera di Calvino

L’articolo di Ilaria Capanna prosegue su Left in edicola


SOMMARIO ACQUISTA

Tutta la verità sulla guerra in Siria

«Nel mondo arabo la vita viene vissuta in maniera collettiva. Lo si vede bene nella letteratura, dove spesso i protagonisti sono gli abitanti di un quartiere o i membri di una stessa famiglia. La guerra civile, come quella in Siria, distrugge questo senso di collettività: la polifonia del vivere insieme». Hamid Sulaiman, disegnatore siriano, ha spiegato così, durante un festival della letteratura in Germania, il motivo principale che lo ha spinto a disegnare e scrivere la storia della sua graphic novel, Freedom Hospital. Una storia siriana appena uscita in Italia per Add editore, grazie alla traduzione di Marco Ponti e con l’introduzione di Cecilia Strada.

Il pregio di Sulaiman, che ha lasciato Damasco nel 2011 seguendo come altri artisti la strada dell’esilio per sfuggire al carcere e alle torture delle autorità, è di aver raccontato la complessità della crisi più grave dal secondo dopoguerra ad oggi incrociando le vite di undici personaggi che rappresentano l’eterogeneità siriana. C’è infatti Yasmine, protagonista principale, che rinuncia al dottorato negli Stati Uniti per aprire un ospedale clandestino in una città senza nome della Siria, il Freedom Hospital. I soldi per finanziare l’attività vengono dai suoi stessi risparmi e le donazioni sono poche perché, denuncia la protagonista, «non abbiamo la barba lunga» alludendo ai fondamentalisti. Poi c’è Fawaz, medico, che cura tutti, perfino un integralista, Abu Qatada, che in un secondo momento prenderà parte allo Stato islamico e perseguiterà proprio chi gli ha salvato la vita, rinnegando il passato. La parabola dell’odio di questo fondamentalista segue quella che nella realtà ha portato molti giovani nelle braccia dei movimenti radicali: l’odio confessionale, i soldi e l’abbandono. C’è la misteriosa figura di Salem che non ricorda nulla del suo passato. In un primo momento questo personaggio sembra rappresentare l’Occidente che dimentica in fretta ogni avvenimento.

Poi, però, si scopre il tragico segreto che ha rubato la memoria a Salem. Infine c’è anche un curdo, Haval, che grazie a un gatto potrebbe…

L’articolo di Shady Hamadi prosegue su Left in edicola


SOMMARIO ACQUISTA

Insegnanti di religione cattolica: sempre più ai posti di comando

Il ministro della Pubblica Istruzione Valeria Fedeli a margine della consegna dell'onorificenza alla professoressa Franca Di Blasio, 9 aprile 2018 a Roma. ANSA/MASSIMO PERCOSSI

Erano i tempi del secondo governo Berlusconi, con ministro dell’Istruzione Letizia Moratti. La legge 186 del 18 luglio 2003 diede il via all’assunzione in ruolo degli insegnanti di religione cattolica. Un esercito di 13.880 docenti scelti dal vescovo venne così assunto con contratto statale a tempo indeterminato. Uno schiaffo ai precari delle materie obbligatorie, un (ennesimo) schiaffo alla laicità della scuola. Nel 2011 lo Snadir, Sindacato degli insegnanti di religione, rivendicò per i suoi assistiti il diritto di essere nominati presidente di commissione per gli “esami di terza media”, ossia gli esami di Stato conclusivi del primo ciclo di istruzione. Possibilità forse mai messa in pratica: non c’è la fila per far domanda per un incarico privo di retribuzione aggiuntiva e da svolgere ad anno scolastico concluso. Più allettante, e in alcuni casi percorsa con successo, la strada di diventare preside: nel 2012 una sentenza del Tar Liguria aprì la strada al ruolo dirigenziale degli istituti scolastici anche agli insegnanti di religione, sacerdoti inclusi. Arriviamo all’ultima prodezza del nostro Stato clericale. Finora gli insegnanti col vangelo in mano contribuivano alla valutazione dei loro studenti senza voti numerici, con un generico giudizio. Erano esclusi dalla commissione d’esame. Il D.Lgs. 62/2017 ha scombinato le carte e conferito loro una sedia nella commissione esaminatrice di terza media.

Ci troviamo di fronte a una situazione surreale: il prossimo giugno un docente scelto dal vescovo giudicherà anche studenti i cui genitori hanno espressamente chiesto di tenerli alla larga dal suo insegnamento confessionale? Oppure si aprirà un balletto di insegnanti a seconda degli studenti da esaminare per l’esame di terza media? Dentro l’insegnante di religione, poi dentro quello di “alternativa”, poi fuori entrambi e commissione temporaneamente con un componente in meno se lo studente non ha seguito né l’una né l’altra materia?

L’Uaar ha più volte scritto alle scuole a agli uffici scolastici territoriali per arginare l’increscioso fenomeno della discriminazione infantile legata alla mancata attivazione delle attività didattiche alternative all’insegnamento della religione cattolica. Una piaga segnalata anche dalle organizzazioni che vigilano sul rispetto delle convenzioni internazionali per i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, che vede il nostro Paese messo sotto accusa in rapporti delle Nazioni Unite. L’ennesima tegola clericale rappresentata dagli insegnanti di religione cattolica nelle commissioni d’esame di terza media ha spinto ora l’Uaar a sottoscrivere un appello, condiviso da diverse realtà laiche, affinché il Miur ritorni sui suoi passi rettificando l’interpretazione del D.Lgs. 62/2017.

Il quadro è preoccupante. Al posto di una scuola pubblica inclusiva, laica e all’avanguardia si sta consolidando il modello scuola-parrocchia, sostenuto sia dal centro destra che dal centro sinistra, con un insegnamento «impartito in conformità della dottrina della Chiesa» che occupa ben due ore settimanali nell’età scolastica più vulnerabile, quella della scuola primaria. I relativi docenti, pagati dallo Stato ma scelti dai vescovi, stanno incrementando la capacità di controllo della vita della scuola della Repubblica. Si deve sventare questo recente colpo di mano sugli esami di terza media, senza abbassare la guardia su altri fronti, come quello dei finanziamenti pubblici alle scuole private paritarie e quello dell’alternanza scuola-lavoro affidata, guarda un po’, anche agli insegnanti di religione cattolica.

L’articolo del responsabile nazionale campagne Uaar, Roberto Grendene, è stato pubblicato su Left n. 17, del 27 aprile 2018


SOMMARIO ACQUISTA

Nessuno può tenere baby in un angolo. Contro la violenza sulle donne

«Il termine femminicidio non ha una valenza giuridica», esiste però su un piano mediatico e dunque culturale. Lo ricordava lo psichiatra Martino Riggio al convegno Muore una donna per mano di un uomo, il 5 maggio in Campidoglio. Si parlava di violenza sulle donne, diritti negati, incredulità, ma anche dei radicali cambi di prospettiva necessari a inscrivere fenomeni come questi nella coscienza collettiva. Come risposta a ogni dichiarazione, i curatori – gli animatori di Blue Desk, agguerrito spazio culturale indipendente della Capitale – hanno proposto un’esperienza estetica.
Lo spettacolo Nessuno può tenere Baby in un angolo (al Teatro Villino Corsini), scritto da Simone Amendola (insieme a Sandro Torella) per la lacerante presenza scenica di Valerio Malorni, è un horror esistenziale, un viaggio nero dentro la responsabilità individuale.

In questo Delitto e Castigo per voce sola, l’omicidio di una donna non è il tema centrale, invade la coscienza del pubblico con la stessa nebulosa insistenza con cui travolge il protagonista, un benzinaio apparentemente innocente accusato del fatto. Un monologo serrato, brutalmente portato in gola tra esplosioni di furia e sinistri accessi di ironia da un attore che, prima di essere personaggio, è cassa di risonanza per un grido d’aiuto.
Sul palco quasi spoglio c’è la parola, ma questo teatro è soprattutto corpo: la semantica passa in un filtro organico fatto di sudore e piccoli movimenti isterici.
Interrogato da una voce off, Luciano cerca di scagionarsi facendo appello alla memoria di una serata come tante, durante la quale mai avrebbe potuto decapitare una donna, lasciarne lì il corpo come “insieme di organi” separato da una testa infilata in un sacchetto di plastica. Si assiste però al processo di erosione di una coscienza: i ricordi cambiano, il dubbio sulla colpevolezza diviene la certezza della colpa, quella di aver lasciato che una delusione affettiva impedisse all’imputato di salvare la stessa vittima.

Se il termine “femminicidio” esiste è anche perché i media influenzano le coscienze, soprattutto quelli partecipativi, esplosi in un’orizzontalità dove le opinioni si sfrecciano accanto, sviando il confronto critico. E così allontanando il fatto discusso dalla realtà e dalle categorie culturali che esprime. Allora il teatro, reame immaginifico che però si nutre di una vera comunità, è l’occasione per una messa in crisi.
In questo processo, carnefice e vittima si fondono: il “guardarsi vivere” di uomo semplice muta in una feroce indagine sulle ragioni dell’umano, costruzione razionale che crolla all’affiorare di una rabbia cieca. Lo spettatore (crudele) testimone, si aprono voragini esistenziali che rendono possibile tutto: una candida ricerca d’amore e il più cruento degli atti.

 

Sergio Lo Gatto è giornalista, critico teatrale, editor e traduttore. Ha studiato Teatro e Arti Performative alla Sapienza. Università di Roma, dove sta svolgendo un dottorato di ricerca in studi teatrali incentrato sulla critica delle arti performative, e si occupa di arti performative su Teatro e Critica. Ha fatto parte della redazione del mensile Quaderni del Teatro di Roma, ha scritto per Il Fatto Quotidiano e Pubblico Giornale.

Recuperiamo la rete delle case del popolo

«Una casa del popolo per ogni provincia!». No, non è uno slogan del Pci di Togliatti, ma l’indicazione di lavoro emersa dall’ultima assemblea nazionale di Potere al popolo, giovane movimento che ha avuto il suo battesimo alle elezioni del 2018. Nostalgia retrò? Tentativo di riprendere simboli della sinistra che fu, sperando che per miracolo funzioni, riportando all’ovile il popolo disperso?

A guardare l’età di chi propone questa formula, e ha iniziato a trasformarla in realtà in diverse parti d’Italia, non pare così: ragazze e ragazzi che il Pci non l’hanno mai conosciuto, che di quel popolo disperso non hanno mai fatto parte, vivendo in ben altro orizzonte ideologico e materiale. Si tratta allora di una semplice coincidenza, dettata dal diffondersi in Europa di un’ondata di “populismo” che ha reso cool ogni riferimento al “popolo”?

Nemmeno. In realtà è da ormai diversi anni che si registra, in tutto il mondo della sinistra italiana, una rinnovata attenzione a quel complesso di pratiche e di orientamenti che vanno sotto il nome di mutualismo. Sempre più realtà politiche e associative orientano il loro agire verso il reciproco soccorso, la solidarietà fra soggetti. Mettere su un ambulatorio popolare, una palestra o una squadra di calcio, occupare case o creare gruppi antisfratto, aprire sportelli legali gratuiti, fare doposcuola nei quartieri popolari o distribuire pasti e vestiti ai senza tetto, fino ad avviare vere e proprie attività produttive gestite dagli (ex) sfruttati: sono forme di attivismo sempre più diffuse, a prescindere dalla sfumatura ideologica dei gruppi che le propongono.

Ci sono, dietro questa “ondata” mutualistica, due ragioni, una storica e una contingente. Da un punto di vista storico, la sinistra di classe, che fosse…

L’articolo di Salvatore Prinzi prosegue su Left in edicola


SOMMARIO ACQUISTA