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Morire di sete nel Paese delle dighe

Il presidente del Consiglio Matteo Renzi durante la visita alla diga Gibe III nel sudovest dell'Etiopia, opera di Salini-Impregilo alta 246 metri e capace attraverso 2 gallerie di portare acqua alla centrale idroelettrica che produrr‡ 1870 megawatt di energia, 14 luglio 2015. ANSA/TIBERIO BARCHIELLI/UFFICIO STAMPA PALAZZO CHIGI ++ NO SALES, EDITORIAL USE ONLY ++

L’energia prodotta dalle grandi dighe come volano di sviluppo economico di uno dei Paesi più assetati di crescita di tutto il Continente nero. È questo l’assioma che ormai da decenni guida la politica economica dei governi di Addis Abeba. Il grande fautore degli investimenti miliardari nel comparto idroelettrico è stato Meles Zenawi, primo ministro dal 1995 al 2012, anno della sua morte prematura, imitato dal suo successore Haile Mariam Desalegn. L’energia prodotta dai mega-sbarramenti nella valle del fiume Omo servirà sia per il consumo interno che per l’export. Con una crescita annua intorno al 10 per cento, l’Etiopia ormai non fa mistero di voler raggiungere lo status di middle income country entro il 2025, cioè diventare una nazione con un benessere paragonabile a quello di Cina o Turchia.

Insomma, una storia di successo? Forse sì ma vediamo a quali condizioni. L’ex colonia italiana era e resta un Paese attraversato da mille tensioni e problemi. La democrazia è solo di facciata, il partito di governo (il Fronte popolare rivoluzionario democratico etiopico) ha vinto le ultime tornate elettorali con circa il 99% dei voti, mentre l’opposizione è costantemente repressa nel sangue. La libertà di stampa di fatto non esiste e sono numerosi i giornalisti che affollano le carceri etiopi insieme ad attivisti ed esponenti politici. C’è poi lo scontro tra etnie, con quella più numerosa degli oromo storicamente penalizzata dalla tigrina (solo l’8% della popolazione) che occupa in maniera stabile tutti i gangli dello Stato.

Una situazione talmente esplosiva e insanguinata da stragi occorse durante le manifestazioni di protesta, che Desalegn ha dovuto dare le dimissioni e il nuovo premier, Abiy Ahmed Ali, è stato scelto proprio per le sue origini tigrine. Il giovane primo ministro (solo 41 anni) ha già…

L’articolo di Luca Manes prosegue su Left in edicola


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Elezioni comunali, per il Labour miglior risultato dal 1971 a Londra. E testa a testa con i Conservatori

epa06708353 Britain's opposition Labour Party Leader, Jeremy Corbyn (L) arrives to vote at a polling station in Pakeman Primary School in Holloway, noth London, Britain, 03 May 2018. Voters in England go to the polls to vote in local elections which are being held in 150 local authorities across the England. EPA/NEIL HALL

Giovedì 3 maggio si è tenuta un’importante tornata elettorale locale in Inghilterra, con centocinquanta comuni al voto.
La campagna elettorale è stata molto strana, influenzata fortemente da polemiche e scandali più che da proposte politiche. Da un lato il Labour è stato travolto dalle accuse di antisemitismo, del movimento in generale e del suo leader in particolare. Dall’altra il partito Conservatore è stato al centro di feroci polemiche per lo scandalo della “Windrush generation” e le conseguenti dimissioni del Ministro degli Interni, la potentissima Amber Rudd.
Nelle ultime settimane che hanno preceduto il voto, un po’ artatamente, il partito Conservatore aveva poi fatto presagire di aspettarsi un tracollo, in particolare nella città di Londra dove si dava per incerto addirittura il risultato nella storica roccaforte conservatrice della municipalità di Westminster, il centro del centro di Londra.
Dati alla mano questo tracollo non c’è stato. In generale, proiettati su base nazionale, i risultati ci mostrano un panorama politico bloccato simile a quello delle elezioni politiche del 2017: Conservatori e Laburisti ad un sostanziale testa a testa intorno al 35%, con l’Ukip ormai scomparso dalla mappa elettorale e i LibDem lontanissimi da essere un fattore in grado di influenzare gli equilibri.
Ancora una volta la distribuzione del voto evidenzia come i laburisti si confermino il grande partito delle città, con un risultato più che soddisfacente a Londra dove si registra il miglior risultato elettorale dal 1971. I Tories invece rimangono fortissimi nelle campagne e nei piccoli centri, con un elettorato stabile e immune alle polemiche.
Ovviamente in questo momento il tentativo degli spin doctor di destra è quello di far apparire il risultato come una sconfitta per il Labour, colpevole di non aver ottenuto la vittoria che si era prevista. Lettura respinta al mittente dallo stesso Jeremy Corbyn che ha ricordato come il risultato elettorale, in termini di consiglieri eletti, sia stato migliore rispetto perfino alle elezioni locali del 2014, la pietra di paragone per i successi del Labour.
Tutto quanto sopra scritto va però letto anche in luce dell’affluenza: alle elezioni politiche del 2017 fu quasi del 70% mentre ieri ha votato appena il 36% degli aventi diritto. Non è difficile immaginare che buona parte dello straordinario voto giovanile che ha premiato il partito di Corbyn nel 2017 ieri sia rimasto a casa. Un elemento da non sottovalutare a parere di chi scrive.
Ma in definitiva è chiaro che la vicenda della Brexit tiene ancora bloccato il sistema politico: le zone in cui ha vinto il Remain premiano il Labour mentre quelle in cui ha vinto il Leave, anche grazie alla scomparsa dell’Ukip, i Conservatori rimangono intoccabili. L’impressione è dunque che fino a che non si vedrà la fine delle trattative e la conclusione della vicenda iniziata con il referendum del 2016, il sistema rimarrà fortemente polarizzato tra i due principali partiti, senza una chiara prevalenza dell’uno sull’altro.

Burocrazia e tasse per i blogger, così si affossa la libertà di espressione in Tanzania

Presidential candidate John Magufuli addresses a rally by ruling party Chama Cha Mapinduzi (CCM) in Dar es Salaam, Tanzania on October 23, 2015, ahead of the country's presidential elections on October 25, 2015. AFP PHOTO / DANIEL HAYDUK (Photo credit should read Daniel Hayduk/AFP/Getty Images)

In Africa le strade della libera espressione sono sempre più strette da percorrere. Il 5 maggio è l’ultimo giorno: il tempo per mettersi in regola concesso dalle autorità della Tanzania ai blogger del Paese. L’obiettivo dell’operazione è il controllo di internet.

Chi vuole avere un blog in Tanzania adesso deve registrarsi in una lista statale, mostrare documenti personali e fiscali, certificato di laurea e del conto in banca. Poi dovrà cominciare a seguire regole rigorose stilate dal governo per i contenuti online e ridimensionare l’uso libero di internet.

Non solo intimidazioni ed arresti: il dissenso e la libertà di parola, da quando John Magufuli è stato eletto nel 2015, si reprimono anche con burocrazia e tasse. La licenza governativa per un blog in quell’angolo d’Africa costa adesso 930 dollari. Sarà obbligato a pagare anche chi partecipa a forum online o chi usa canali pubblici come Youtube. Chi decide di non registrarsi può finire in prigione per un anno oppure pagare una multa di 2200 dollari.

Dall’altro lato del lago Vittoria, in Uganda, il presidente Yoweri Museveni vuole imporre un contributo quotidiano di cento scellini ugandesi per tassare gli utenti dei social media e limitare così l’uso di Facebook e Twitter. Due gli obiettivi: riempire le casse vuote del governo e limitare “opinioni, pregiudizi, bugie” che si diffondono su di lui in rete.
Museveni ha già completamente bloccato l’accesso ai social media durante le elezioni del 2016, una misura di sicurezza “per prevenire bugie che avrebbero incitato alla violenza e a dichiarazioni illegali dei risultati elettorali”. Già al potere dal 1986, Museveni si è dichiarato vincitore per il terzo mandato elettorale anche due anni fa.
Il Camerun invece ha “spento” internet per la prima volta nel gennaio 2017, durante le manifestazioni dei cittadini delle regioni anglofone, che protestavano per la discriminazione lavorativa subita dallo Stato rispetto agli abitanti delle zone francofone. Internet tornò accessibile mesi dopo, ad aprile, ma una nuova digital blockade, assedio digitale delle applicazioni di messaggistica e social media, ricominciò ad ottobre dello stesso anno.
In Africa questa è «una lunga discesa verso la censura nella migliore delle ipotesi, nell’autoritarismo nel peggiore dei casi. Solo i governi dittatoriali richiedono che i blogger abbiano una licenza e paghino tasse esorbitanti. Mossa caratteristica dei tiranni è limitare la copertura dei media attraverso intimidazioni, molestie, multe o tasse. E se non dovesse rivelarsi abbastanza, un totale blocco di internet è quello che diffonde la paura tra i reporter», ha scritto Larry Madowo, della BBC Africa, sul Washington Post.

Oui, il Pd c’est moi

Democratic Party (PD) leader Matteo Renzi during a press conference in Rome, 05 March 2018. Italy's ex-Premier Matteo Renzi announces his resignation as Democratic Party secretary after poor results in election. ANSA/ETTORE FERRARI

Non è tanto Matteo Renzi che stupisce. Renzi è così, piaccia o no, prendere o lasciare, e anche se paga lo scotto di una personalità piuttosto arrembante sempre pronta a sfociare nel bullismo, Renzi nel Pd sta facendo il Renzi, niente di nuovo, il suo solito copione.

Il tema piuttosto è un altro ed è ben altro dall’ex presidente del consiglio o l’ex segretario di turno ed è tutto incentrato sulle minoranze che nel Partito democratico si sono via via succedute e che paiono tutte le volte incagliarsi sullo stesso punto: il coraggio.

La direzione del partito di ieri (che ha praticamente votato sull’intervista televisiva del suo ex segretario) dimostra ancora una volta l’incapacità di elaborare, organizzare e sostenere una visione differente dalla maggioranza riuscendola a spiegare ai propri elettori e prendendosi la briga di portarla avanti anche nei luoghi decisionali del partito.

Mi spiego: al di là di quella che può essere la mia opinione personale su ciò che dovrebbe fare il Pd con il Movimento 5 stelle (e certo spetta al Pd deciderlo più che agli agguerriti editorialisti che si sentono tutti segretari oltre che allenatori) la scena di ieri porta con sé qualcosa di sgraziato nell’esito del voto: si direbbe, leggendo il risultato, che non sia mai esistita una posizione diversa da quella maggioritaria, come se tutto il can can dei giorni scorsi fosse solo una nostra allucinazione.

E non ce ne vorrà il ministro Orlando (e il reggente Martina) se non crediamo alla soffice giustificazione di chi dice «l’importante è essere unitari»: se si avesse così a cuore la solidità percepita da fuori forse si eviterebbero certi toni da tifo. Il tema è un altro: nel Partito democratico tutti si sgolano sulle differenze di posizione ma risultano pochissimo convincenti nei successivi riallineamenti. Tutte le volte. Sempre. Con quella sensazione di fondo che si sia semplicemente rimandata la coltellata e si finga che non sia successo niente.

Poi, però, sono gli stessi che ci dicono che «il Pd si cambia da dentro». E l’ha fatto solo Renzi, pensandoci bene.

Buon venerdì.

Prima gli africani

epa03556207 A undated image showing plaintiff Nigerian farmer Eric Dooh showing his hand covered with oil from a creek near Goi, Ogoniland, Nigeria. According to a report of UNEP (United Nations Environment Programme), leaks in Shell pipelines in Nigeria occur regularly, causing harm to communities in the Niger Delta region. A group of Nigerian plaintiffs claim Shell is liable for the damage the leaks caused, while Shell claims most leaks are the result of sabotage. Reports also state fishponds and farmland have been destroyed, while most locals have no other option but to drink from polluted water. Eric Dooh from Goi (Ogoniland), Alali Efanga from Oruma (Bayelsa) and Friday Alfred Akpan from Ikot Ada Udo (Akwa Ibom), individual farmers from three different communities in the Niger Delta, have taken Shell into the Dutch civil court of The Hague in a landmark pollution case, asking for compensation for damages to their land. The verdict in the case is due 30 January 2013. EPA/MARTEN VAN DIJL

“Reati in calo. Meno sbarchi nel 2017”. Diversi giornali l’11 aprile scorso hanno sintetizzato in questo modo alcune frasi pronunciate dal ministro dell’Interno, Marco Minniti, alla cerimonia per i 166 anni della fondazione della polizia di Stato. Si potrebbe pensare a una semplificazione giornalistica ma non lo è. Il ministro ha davvero messo uno accanto all’altro il calo dei crimini e la diminuzione dei flussi migratori dall’Africa attraverso il Mediterraneo. E gran parte della stampa non si è fatta problemi a rilanciare acriticamente il nesso. Contribuendo a far passare il messaggio che i migranti sarebbero una minaccia per la sicurezza degli italiani. Un’idea distorta della realtà che è stata, a vario titolo, il cardine della campagna elettorale di Lega e M5s e che anche il Pd ha cavalcato, pagando con la sconfitta la scelta di scimmiottare le destre. Ma cosa ha detto il ministro?

«Nel 2017 si è registrato il più basso tasso di reati degli ultimi 10 anni, un risultato straordinario che l’Italia farebbe male a dimenticare». E poi ha aggiunto: «Per il decimo mese consecutivo si è registrato un calo degli sbarchi di migranti. Dal 1 luglio a oggi sono arrivate 95.600 persone in meno rispetto al 2016 e si tratta di un colpo straordinario ai trafficanti di esseri umani». Questo appena descritto è solo un esempio di come media e istituzioni da anni contribuiscano a creare una falsa percezione dello straniero nell’opinione pubblica, creando un capro espiatorio (che guarda un po’, non ha diritto di voto) da “sacrificare” nella corsa al potere. Non è un caso che dal 5 marzo scorso la presunta e tanto sbandierata «emergenza immigrazione» sia scomparsa dai radar della politica e dai titoloni dei giornali. Eppure, come raccontiamo in questa storia di copertina, dalla Nigeria, dal Corno d’Africa, dalla Libia e da altri Paesi poveri o in guerra le persone continuano a scappare. Donne, bambini, uomini, che fine fanno? Perché ne arrivano di meno?

«Vorrei che ci liberassimo di una sorta di senso di colpa. Noi non abbiamo il dovere morale di accoglierli, ripetiamocelo. Ma abbiamo il dovere morale di aiutarli. E di aiutarli davvero a casa loro». Questa frase di Matteo Renzi fu prima pubblicata e poi eliminata dalla pagina Facebook del Pd il 7 luglio 2017 sollevando non poche polemiche. «Aiutiamoli a casa loro» era anche lo slogan (di pura matrice colonialista) di Salvini e della Meloni e in quelle parole c’era tutto il senso del cosiddetto «reato di solidarietà» introdotto con il codice di Minniti e dagli accordi con la Libia che di fatto vietano alle Ong di salvare i profughi alla deriva nel Mediterraneo. Noi di Left ci siamo chiesti: ne arrivano di meno perché iniziano a funzionare gli aiuti “a casa loro”? Siamo andati a vedere cosa succede in Nigeria e in Etiopia, due tra i più importanti crocevia africani dei flussi migratori verso l’Europa.

In questi due Paesi l’Eni e la Salini-Impregilo hanno siglato contratti miliardari rispettivamente per l’estrazione di petrolio e la costruzione di dighe. Con quali risultati in termini di ricadute sulle popolazioni locali ce lo raccontano in una lunga e articolata inchiesta Dino Buonaiuto e Luca Manes. Facendo il punto su due processi in corso a Milano che vedono in un caso i vertici dell’Eni imputati per corruzione di un vecchio governo nigeriano e nell’altro il Cane a sei zampe chiamato in solido con una controllata accusata di aver inquinato e non bonificato un’area del delta del Niger vitale per la popolazione indigena degli Ikebiri. Anche nel Paese più sviluppato del Corno d’Africa, la presenza italiana è al centro di un caso. La diga Gibe III, “battezzata” da Renzi nel 2015, ha gradualmente sommerso le coltivazioni e i territori d’allevamento da cui dipendono le tribù della Valle del fiume Omo, e ridurrà drasticamente il livello del Turkana in Kenya, il più grande lago desertico del mondo. Si calcola che circa 500mila persone in Etiopia e in Kenya si troveranno a dover fronteggiare una catastrofe umanitaria.

Torniamo alla nostra domanda: donne, bambini, uomini, che partono dall’Africa che fine fanno? Perché ne arrivano di meno? «La politica dell’Unione europea e dell’Italia in particolare di assistere la guardia costiera libica nell’intercettare e respingere i migranti nel Mediterraneo è disumana. La sofferenza dei migranti detenuti in Libia è un oltraggio alla coscienza dell’umanità». E ancora: «Gli osservatori sono rimasti sconvolti da ciò che hanno visto: migliaia di uomini, donne e bambini emaciati e traumatizzati, ammassati l’uno sull’altro, bloccati in capannoni e spogliati della loro dignità». Sono parole pesanti come macigni quelle che l’alto commissario Onu per i diritti umani (Unhcr) Zeid Raad al-Hussein pronunciò il 14 novembre 2017 puntando indirettamente il dito contro la legge Minniti-Orlando e il «codice Ong».

Dunque, arrivano meno profughi perché finiscono prigionieri e schiavi dei libici con cui lo Stato italiano ha siglato accordi di collaborazione? Stando a quanto detto dal ministro Minniti sempre l’11 aprile alla festa della polizia, non è così. «L’Unhcr lavora in Libia, visita i centri, è innegabile che qualcosa sia cambiata e stia cambiando».

Abbiamo allora chiesto, per completare il quadro, a Marta Bellingreri di raccontare cosa succede oggi nel Mediterraneo a chi riesce a imbarcarsi per tentare di entrare in Europa. E quel che emerge sembra smentire in pieno la versione di Minniti. Del resto qualche sospetto già lo avevamo, avendo raccontato sul Left del 23 marzo scorso la storia di Segen, il giovane eritreo di 21 anni giunto in fin di vita per denutrizione al porto di Pozzallo dopo essere stato detenuto per 18 mesi in uno dei suddetti centri. Purtroppo i medici non hanno potuto far nulla. Segen è morto letteralmente di fame poche ore dopo all’ospedale di Modica. Marta ci ha raccontato che sulla stessa nave Ong che lo aveva raccolto, la Proactiva open arms, c’erano almeno altri 15 giovani nelle sue stesse condizioni.

L’editoriale di Federico Tulli è tratto da Left in edicola


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Cosa non si fa per un posto al sole

An unidentified boy walks across an oil pipeline running through the Okrika neighborhood of Port Harcourt in Nigeria's oil-rich delta region, Saturday, Oct. 7 2006. Most of the delta's people don't have access to clean drinking water or regular sources of electricity. In the absence of government aid, they turn to oil companies as surrogate providers. But company-sponsored development projects also often fail, due to corrupt contractors or broken promises, leaving communities bitter. (AP Photo/Sunday Alamba)

A distanza di quasi un secolo dalle mire imperiali di Mussolini, l’Italia ha iniziato a guardare di nuovo con crescente interesse l’immenso continente che s’apre appena al di là del Mediterraneo. Rispetto all’Africa di fine anni Venti, soggiogata e depredata delle sue immense ricchezze naturali dalle potenze coloniali occidentali, quella di oggi in diversi Paesi (vedi box a pag. 15, ndr) è riuscita a fare passi in avanti, seppur timidi e arrancanti, verso una stabilità politica diffusa che, usando parametri occidentali, ha contribuito a un convincente incremento complessivo del Pil e una sostanziale crescita economica sul lungo termine.

Certo, numerosi conflitti più o meno dimenticati sono ancora in corso, nel corno d’Africa, nei Paesi del sub Sahara occidentale, solo per citarne alcuni. Guerre nate per lo più come scontri locali, etnici-tribali e per l’accesso alle risorse, che con il passare del tempo hanno assunto un carattere sempre più internazionale a causa del coinvolgimento militare di Paesi occidentali (es. Francia in Mali). Ma accanto al florido mercato delle armi che ruota intorno a questi conflitti e arricchisce i grandi produttori, Italia compresa, c’è quello altrettanto appetitoso della ricostruzione, delle infrastrutture, oltre che delle immense risorse naturali a cominciare dagli idrocarburi fossili. Tutto questo spinge ora, come un tempo, l’Occidente e le nuove potenze (Cina in testa) a riconsiderare il continente come un enorme potenziale forziere cui attingere e da sfruttare che senza soluzione di continuità si sviluppa dalle coste del Mediterraneo fino a capo Agulhas.

Stando ai dati del 2016, è proprio il nostro Paese, a guidare la classifica europea per valore degli investimenti diretti esteri (Ide), con un totale di 20 maxi-progetti per…

L’articolo di Dino Buonaiuto prosegue su Left in edicola


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Protestano i giornalisti in Colorado: ennesimo attacco alla libertà di stampa

Anche se la “situazione Trump” è da tempo “out of control”, fuori controllo, – per l’attacco costante del presidente americano ai media del suo Paese -, la più “grande crisi del giornalismo” da affrontare oggi, secondo l’editore in capo del New York Times, Brian Stelter, è il “declino dei giornali locali”. Questa è una delle tante notizie negative nella giornata internazionale, 3 maggio, della libertà di stampa, proclamata dall’Onu nel 1991.

La ribellione dei giornalisti in Colorado, USA, va avanti da quasi un mese. Il Post di Denver, uno dei più grandi giornali locali del West americano, fondato 125 anni fa, 170mila copie vendute al giorno e quasi 9 milioni di visite online al mese, ha vinto nella sua storia 9 premi Pulitzer. Ad inizio aprile molti giornalisti del Denver Post hanno lasciato l’edificio bianco della redazione per sempre. “News matters”, le notizie sono importanti, era il titolo a lettere cubitali in prima pagina il giorno dopo. La protesta contro i proprietari, i “capitalisti avvoltoi”, era cominciata. È stata la Alden Global Capital, un hedge fund di New York che ha acquistato il giornale, ad imporre tagli alla redazione e 30 reporter, un terzo dello staff, sono stati licenziati.

Colo. Should demand the newspaper it deserves”, il Colorado dovrebbe richiedere il giornale che merita, hanno scritto i reporter: «cogliamo l’occasione per riconoscere delle verità fondamentali. Quando i proprietari di una redazione vedono nel profitto il loro unico obiettivo, qualità, affidabilità e responsabilità ne risentono. La loro missione è compromessa». Questo non è il primo taglio imposto alla redazione di Denver, ma «quest’ultimo in particolare, è stato come tagliarsi via una gamba, letteralmente come tagliare via un arto al giornale», ha scritto Jesse Paul, reporter politico che lavora al DP dal 2014. Come molti altri suoi colleghi, non ha avuto paura di criticare la scelta della Alden Global. Chuck Plunkett, editorialista del quotidiano dal 2003, è cosciente del rischio che corre, criticando apertamente i proprietari del giornale, ma «è la cosa giusta da fare, e se questo vuol dire perdere il mio posto di lavoro per difendere i miei lettori, allora vuol dire che non stavo lavorando per le persone giuste».

La storia del Denver Post, non è unica in America. Centinaia di redazioni locali nel paese combattono per sopravvivere nell’era del digitale e dei social media, dei tagli per i profitti e delle strategie di mercato.
Oggi, 3 maggio, è la giornata mondiale della libertà di stampa, stabilita dall’Assemblea generale Onu nel 1991, per ricordare a governi ed autorità, l’articolo 19 della Dichiarazione Universale dei diritti umani, per difendere i media nella loro indipendenza e non dimenticare i giornalisti che hanno perso la vita esercitando la loro professione.

Molti giornalisti quest’anno hanno perso la vita (v. ultimo attacco kamikaze in Afghanistan), molti altri il lavoro. Specialmente oggi, non solo negli Stati Uniti, bisogna porre la stessa domanda dei reporter licenziati in Colorado agli “avvoltoi capitalisti” e anche ai loro lettori. Come scrive l’editorialista Mario Nicolais: chi sarà al nostro posto quando “all the journalists are gone”, quando tutti i giornalisti saranno spariti?

La vera invenzione di Apple: l’i-tax

I poveri in Italia, quelli che guadagnano da zero euro all’anno fino a quindicimila euro, pagano più tasse di Apple. Come scriveva ieri Repubblica l’aliquota fiscale più bassa qui da noi è del 23% mentre l’azienda Usa ha chiuso il trimestre con un tax rate del 14,5% grazie soprattutto alla morbidezza dei governi nei confronti delle multinazionali (lottare contro i poveri fingendo di lottare contro la povertà è una costante di questi tempi).

Parliamo, per capirci, di un’azienda che nell’ultimo trimestre ha registrato utili per 13,8 miliardi di dollari.  Con buona pace dei contribuenti, dei clienti ma soprattutto con buona pace di una politica (italiana e internazionale) che usa la parola uguaglianza come se fosse un souvenir di cui accontentarsi, uno di quei colossei in plastica ruvida che è buono per comprarsi la sensazione di essere passati almeno una volta nella vita da Roma.

Il tema, se ci pensate, è enorme perché contiene tutto: la cosiddetta crisi economica che altro non è che l’incapacità (o meglio, la mancata volontà) di far pagare di più a chi ha di più, c’è dentro la rabbia dei lavoratori che si sentono sfruttati non solo sul luogo di lavoro ma anche e soprattutto dalla codardi di una politica assente, c’è dentro il capitalismo più becero che in nome della libertà consente di comprarsi i diritti e i doveri come se fossero merce di scambio.

E c’è il silenzio, tutto intorno, della politica italiana, quella che sulle indignazioni ha costruito i suoi bacini di voti negli ultimi anni è che è talmente vigliacca da non riuscire mai a prendersela con i prepotenti ma solo con gli straccioni. E la guerra tra poveri continua.

Buon giovedì.

La Turchia che si ribella a Erdogan si prepara alle elezioni. Demirtas candidato dal carcere

epa06703687 Protestors clash with riot police as they try to reach Taksim Square for an illegal May Day celebration in Istanbul, Turkey, 01 May 2018. Labour Day or May Day is observed all over the world on the first day of May to celebrate the economic and social achievements of workers and fight for laborers rights. EPA/SEDAT SUNA

Mentre il giorno della festa dei lavoratori la Turchia che si ribella scende in piazza cantando Bella ciao, per manifestare contro Erdogan – centinaia gli arrestati – l’opposizione prepara la contromossa in vista delle elezioni. Sarà ufficiale solo il 3 maggio, quando lo annunceranno in conferenza stampa, ma fonti anonime lo hanno già reso noto alla stampa: tutti uniti contro Erdogan. Il partito popolare repubblicano, il Chp, insieme ad altri tre raggruppamenti d’opposizione – Iyi, il partito islamista Saadet e il partito democratico – hanno raggiunto un accordo per correre uniti alle elezioni del prossimo 24 giugno in Turchia contro l’Ak, il partito del presidente, al potere dal 2002, e che si alleerà invece con l’Mhp, partito del movimento nazionalista.
Tutti uniti contro Erdogan: o meglio, quasi tutti. Non farà parte di questa nuova unione d’opposizione l’Hdp, partito popolare democratico, diventato terzo partito in Parlamento alle ultime elezioni del 2015. La campagna di Selahattin Demirtas, appena nominato candidato presidenziale dell’Hdp, comincerà dalla cella in cui è rinchiuso dal novembre 2016 per “propaganda al terrorismo del Pkk”, il partito dei lavori curdo fondato da Ocalan.

«Non c’è nessun ostacolo legale che gli impedisce di essere il candidato del partito pro-curdo alle elezioni, nonostante correrà dall’interno di una cella del carcere. Il suo stato di prigioniero evidenzierà la campagna in corso del governo turco contro i curdi in generale, contro l’Hdp in particolare. Numerosi membri di questo partito sono stati arrestati con diverse accuse da quando hanno raggiunto un risultato storico alle ultime elezioni» scrive l’agenzia Nrt. Domenica scorsa 40 membri dell’Hdp sono stati arrestati durante un meeting elettorale. Secondo i dati forniti dal partito, in generale, nelle celle turche, rimarrebbero 10mila persone vicine all’Hdp, tra loro ci sono 100 sindaci eletti e 9 deputati parlamentari.
Demirtas rischia in totale 142 anni di prigione,  anche per un presunto insulto ad Erdogan, che Demirtas avrebbe rivolto al presidente durante un discorso compiuto a marzo di cinque anni fa durante il Newroz, il capodanno curdo, ad Instabul. Il procuratore di Istanbul, intanto, ha chiesto 5 anni di carcere, secondo l’agenzia Anadolu. La prossima udienza del suo processo è stata rimandata all’otto giugno, solo due settimane prima delle elezioni. Fuori dalla corte due giorni fa c’erano però i suoi sostenitori a chiedere urlando la liberazione “del presidente Selo”, soprannome di Demirtas.
«Prendere il tuo rivale come ostaggio, non è politica, è fascismo. Vi sbagliate se pensate che le persone si arrenderanno se terrete Demirtas in prigione» ha detto Meral Danis Bestas, deputata Hdp. «Non mischiate la politica e la legge. La politica viene fatta nelle piazze, non nei tribunali, se volete vedere Demirtas in piazza, allora rilasciatelo».