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Meno lavoro e sempre più povero

TIZIANA FABI/AFP/GettyImages)

I dati aggiornati sull’andamento del mercato del lavoro disegnano un Paese profondamente impoverito, in cui l’occupazione assume sempre più carattere di temporaneità e la dinamica salariale continua ad essere negativa. La retorica della stabilizzazione dei rapporti di lavoro, evocata a più riprese dall’ex premier Matteo Renzi, si scontra con una realtà in cui il lavoro standard a tempo indeterminato decresce al diminuire degli sgravi contributivi, mentre i contratti di lavoro a termine dettano il trend complessivo dell’occupazione.
Il fallimento del Jobs act è quindi, ancora una volta, nei numeri. Le ultime rilevazioni Istat sul mercato del lavoro, in cui si registra nell’anno l’aumento della componente di occupati a termine sul totale dei nuovi occupati (+199mila contro i 114mila permanenti) concentrati nella fascia di età degli over 50, consentono, inoltre, di fare alcune valutazioni sulle relazioni che legano la struttura dell’occupazione del nostro Paese con l’assetto produttivo ed il ciclo economico. In particolare, la crescita dei contratti di lavoro in somministrazione ricopre una funzione paradigmatica nel delineare i mutamenti che stanno interessando la struttura profonda dell’economia nazionale e le implicazioni sulla….

 

L’articolo di Simone Fana prosegue su Left in edicola


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Francesca Re David: «Senza politica industriale si svende l’Italia»

Francesca Re David eletta nuovo segretario della FIOM, con il segretario uscente Maurizio Landini, Roma, 14 luglio 2017. A eleggerla, prima donna in questo ruolo, Ë stata l'assemblea generale dei metalmeccanici della Cgil su proposta del segretario uscente Maurizio Landini. I voti a favore sono stati 221 su 246, il 90%. I no sono stati 23 e 2 gli astenuti. ANSA/ALESSANDRO DI MEO

È l’erede di Maurizio Landini alla guida della Fiom. Ma Francesca Re David, da 30 anni in Cgil e da 20 in Fiom, non appare affatto intimidita dalla rilevanza dell’incarico. Con 328mila iscritti tra aziende dell’industria “pesante” metalmeccanica e quella “leggera” dell’informatica, la Fiom rappresenta un mondo produttivo variegato, tra crisi e sviluppo. Ma i nodi da sciogliere sono tanti e nella sala riunioni di Corso Trieste a Roma, tra le bandiere storiche Fiom e i quadri sul lavoro alle pareti, Francesca Re David denuncia l’assenza cronica di una politica industriale da parte del governo. Una mancanza di visione e di interventi, confermata anche dall’incontro sull’Ilva del 20 luglio, uno dei primi tavoli a cui ha partecipato.
Francesca Re David, un quotidiano come La Repubblica discetta sul dilemma odio/amore e antipatia/simpatia rispetto a Matteo Renzi. Qual è il suo giudizio tecnico sull’operato dell’ex presidente del Consiglio in tema di politiche del lavoro?
Gli ultimi due governi Renzi e Gentiloni sono in totale continuità con quanto è successo negli ultimi decenni in Europa e nel mondo. Si è affermato un pensiero unico: sono la finanza, le banche e le grandi imprese a definire quello che serve e quello che non serve, con una totale astrazione rispetto alla concretezza della vita delle persone. C’è stata una inversione di senso: non è più la persona al centro, che anzi è diventata macchina, strumento di produzione. Da qui deriva la svalorizzazione del lavoro, e, di conseguenza, l’abbassamento dello stato sociale, delle tutele, e quindi del diritto alla salute, alla scuola, alla pensione, all’abitare.
Ma Renzi ha dato un’accelerazione alla riduzione del diritto del lavoro?
Certo, lui ha completato il quadro con il Jobs Act. Il sindacato non prova né simpatia né antipatia per l’ex premier, la Fiom è …

L’intervista a Re David (Fiom) prosegue su Left in edicola


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Giorgio Beretta: Le ‘nostre’ armi vendute ‘a casa loro’

epa04963607 Tribal fighters loyal to Yemen's Saudi-backed government stand near landmines, allegedly planted by Houthi rebels, after they seized control of areas in Marib province, Yemen, 04 October 2015. According to reports, Houthi rebels have withdrawn from some areas of Yemen's oil-rich province of Marib to areas bordering the capital Sana'a, in preparation for impending assaults on Sana'a by Yemen's Saudi-backed government loyalists. EPA/STR

«Qualcuno ne parla, di armamenti, autorizzazioni e di questo vergognoso incremento nell’export di armi verso Paesi che sono vere e proprie dittature. Sinistra italiana, Civati, M5s. È il Pd, ad avere una certa riluttanza…». Giorgio Beretta si occupa di armamenti da una vita: è sociologo, membro della Rete italiana per il disarmo (Rid), svolge attività di ricerca per l’Osservatorio permanente sulle armi leggere (Opal) di Brescia e per l’Osservatorio sul commercio delle armi (Os.c.ar.) di Ires Toscana (Istituto di ricerche economiche e Sociali) sui temi del commercio nazionale e internazionale di armamenti e di armi leggere e sul ruolo degli istituti bancari. Uno che ne sa, insomma.
Partiamo da “aiutiamoli a casa loro”. Mi piacerebbe sapere cosa hai pensato quando hai sentito queste parole pronunciate dal segretario del partito di governo oltre che ex presidente del Consiglio.
Noi di fatto li stiamo già aiutando a casa loro in una maniera terribile: da una parte sottraendo le loro risorse attraverso lo sfruttamento minerario e agricolo e dall’altra parte li aiutiamo con la nostra esportazione di armamenti, che è la cartina di tornasole della veridicità di tantissime affermazioni. Dicono di impegnarsi per la democrazia e per i diritti umani all’estero poi vendono armi a Paesi che sono assolutamente dittatoriali con violazioni dei diritti umani accertati da tutti gli organi competenti (tranne ovviamente da quelli delle Nazioni Unite per via di veti incrociati). Ne è un esempio lo Yemen (in cui c’è in corso una guerra da parte dell’Arabia Saudita, a cui noi forniamo armi)…

 

 

L’intervista al sociologo Beretta (Rete italiana per il disarmo) prosegue su Left in edicola


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Obbligatori dieci vaccini, la Camera approva il decreto Lorenzin

Il discusso decreto legge sui vaccini obbligatori è stato approvato definitivamente alla Camera con 296 voti a favore, 92 contrari e 15 astenuti. Contro il decreto si sono schierati la Lega e l’M5S, gli astenuti sono stati i deputati di Si e Fdi, mentre dai banchi del Pd si è sollevato un lungo applauso per l’esito della votazione.

Con questa legge, dopo 18 anni, torna l’obbligo di vaccinazione per poter iscrivere i propri figli a scuola. Il ddl è stato pensato per fronteggiare il calo delle coperture vaccinali in Italia, un fenomeno in forte crescita nel nostro Paese. Tutte le vaccinazioni obbligatorie sono gratuite e dal prossimo anno i dirigenti scolastici avranno l’obbligo di richiedere ai genitori la documentazione che certifichi l’avvenuta vaccinazione dello studente. I minori non vaccinabili per ragioni di salute saranno inseriti in classi nelle quali sono presenti solo alunni vaccinati o immunizzati naturalmente.

Le vaccinazioni obbligatorie in “via permanente” sono sei: antipolio, antidifterica, antitetanica, antiepatite virale B, antipertosse, antiHaemophilus influenzae di tipo b; mentre altre quattro vaccinazioni – antimorbillo, antirosolia, antiparotite, antivaricella – sono obbligatorie “sino a diversa successiva valutazione”, fino al 2020.

Fine vita e ius soli, perché la Chiesa dice no

Una delegazione del 'Movimento Italiani senza cittadinanza', rilascia una dichiarazione ai giornalisti, dopo aver incontrato Giusi Nicolini a margine della segreteria del Pd, Roma, 20 luglio 2017. ANSA/ALESSANDRO DI MEO

E così i centristi, che alla Camera avevano dato il loro assenso, non sono stati più disponibili a fornire alla legge sullo ius soli il sostegno per la sua approvazione al Senato. L’ostilità alla legge del Movimento 5 Stelle, della destra, e il mancato appoggio di una parte della maggioranza, hanno spinto il governo a rinviare a dopo l’estate. Non sappiamo se questo sia solo un rinvio, oppure segni la fine di quella legge, ma al di là delle ragioni contingenti che avrebbero indotto il governo a rinunciare, qualche domanda dobbiamo porcela. Come mai proprio i centristi, il partito più vicino alla Chiesa cattolica – che dunque sappiamo a quali sollecitazioni risponda -, hanno cambiato posizione su questa scelta di civiltà? Come mai il cattolicissimo Mattarella ha espresso sollievo per la rinuncia del cattolicissimo Gentiloni? E perché, pur vedendo la legge con favore, su questo tema la Chiesa ha mantenuto un certo riserbo? Non invochiamo qui certo l’ennesima ingerenza, ma vorremmo sollevare qualche domanda, poiché il mondo cattolico è stato molto tiepido nei confronti della legge, fornendo un contributo decisivo alla sua mancata approvazione. La risposta non è difficile da trovare. La dottrina cattolica considera come atti d’amore la carità, il sostegno alla sofferenza, l’aiuto ai bisognosi, ma quando si tratta dell’esercizio dei diritti e del principio di uguaglianza ha sempre mostrato estrema cautela. La ragione di ciò va individuata in un nodo diffi9cile da sciogliere. Per la Chiesa, infatti, i diritti non provengono dalla sovranità popolare, dunque non sono connessi allo sviluppo della democrazia e all’esercizio della libertà, ma da dio. E questo è un fatto che l’analisi della storia e del pensiero cattolico può facilmente accertare. Non solo la Chiesa ha sempre contrastato la concezione dei diritti dell’uomo come definiti dalla dichiarazione del 1789 – affermando che la libertà di culto, di pensiero, di stampa, come anche l’idea che tutti gli uomini siano uguali, sono principi contrari alla religione cattolica -, ma anche quando, con la Rerum Novarum del 1891, Leone XIII ha riconosciuto alla “persona” alcuni diritti di tipo economico (giusto salario, vita dignitosa, diritto alla proprietà, contratti e protezioni nei luoghi di lavoro) è rimasto ben lontano dal sostenere quei diritti politici che erano lo strumento tramite il quale le classi subalterne potevano emanciparsi anche economicamente. È per questa sua opposizione alla libertà politica che la Chiesa si è sempre trovata a suo agio accanto alle peggiori dittature, da quella di Mussolini, a Franco (la cui Costituzione fu a lungo considerata come modello ideale per i rapporti tra Stato e Chiesa), all’America latina. L’ostilità della Chiesa all’affermazione dei diritti dell’uomo prosegue fino al secondo dopoguerra, quando, dopo le catastrofi generate dalla loro negazione, con le discussioni e le lacerazioni tra i cattolici attorno ai principi sanciti dalla Carta delle Nazioni unite del 1948, e poi con Giovanni XXIII, si giunge al fatto che la Chiesa riconosce i diritti della «persona umana», indicando però con questa dizione la necessità che i diritti dell’uomo rimangano subordinati ai diritti della persona: questi ultimi, in realtà, più che diritti dell’individuo sarebbero diritti di dio, e di essi dunque la Chiesa vuole esserne l’interprete. La libertà e l’uguaglianza (tra uomini e donne anzitutto, ma anche tra battezzati e non battezzati, tra credenti e non credenti, tra ebrei – definiti fino al Concilio Vaticano II come “popolo deicida” – e cattolici, e via elencando) dunque, non sono temi che trovano spazio nella sua dottrina. Così, anche per questo, la Chiesa è a suo agio quando deve fare la carità, ma lo è molto meno quando si tratta di affermare un’uguaglianza nei diritti. Dunque la legge sulla cittadinanza può anche essere messa da parte. Certo, il mondo cattolico ormai è un mondo assai articolato….

L’articolo di Andrea Ventura prosegue su Left in edicola


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Una nuova figurina nella collezione dei bulli: Macron

epa06112398 French President Emmanuel Macron gestures as he delivers a speech during a citizenship ceremony in Orleans, central France, 27 July 2017. EPA/MICHEL EULER / POOL MAXPPP OUT

Ma ve lo ricordate quando, non sono passate molte settimane, qui da noi erano tutti dalla parte di Macron? Ve li ricordate gli amici del PD che alle elezioni francesi esultavano per “l’uomo nuovo senza partito”, sempre disposti ad aggrapparsi all’uomo salvifico straniero?

Beh, tenetelo bene a mente. Perché ora che Macron sta dimostrando di essere liberale e europeista per finta, con una visione gretta e stretta solo ai propri interessi nazionali, li sentirete tutti cambiare corsia, fingendo di accusare il presidente francese fingendo di non sapere che la zimbellitudine italiana sia figlia soprattutto di una programmazione ristretta che punta al massimo al prossimo seggio o all’autopreservazione nei posti di governo.

La Francia ieri ha perculato (permettetemi la volgarità, non trovo sinonimi) l’Italia, con la decisione della nazionalizzazione dei cantieri di Saint-Nazaire che erano promessi a Fincantieri, perché il governo del nostro Paese anche all’estero è vissuto per quello che è: un’accolita di camerieri che affannosamente tentano di non rovinare l’apparecchiatura sperando che tutto si ripeta alle prossime elezioni. Così, dopo la boutade degli hotspot che la Francia avrebbe voluto creare in Libia, ora il bulletto in salsa francese si diverte a stracciare (temporaneamente, come dice lui) gli accordi con Fincantieri in nome di una “ragion di Stato” che puzza da qualsiasi lato la si annusi.

Ma in fondo è il giusto contrappasso: a forza di fare i bulli si trova sempre qualcuno più bullo che ti epura.

Avanti così.

Buon venerdì.

Giocano a Risiko sulla pelle dei migranti

Si sono ritrovati tutti a Tunisi, lo scorso 24 luglio. Dall’altra parte del Mediterraneo. L’autostrada che unisce due continenti. E che, di comune accordo, si tenta di sbarrare. L’occasione: una delle numerose riunioni che scandiscono la politica dell’esternalizzazione del controllo delle frontiere. Gli attori: i rappresentanti dei Paesi africani ed europei maggiormente interessati dalla rotta del Mediterraneo centrale. L’obiettivo: arginare la situazione libica rafforzando le relazioni con i Paesi vicini.
Fondi europei allo sviluppo condizionati all’impegno nella gestione delle proprie frontiere. È ormai questo il fulcro della dimensione esterna delle politiche di immigrazione e asilo, sia a livello italiano che continentale. E l’intensificazione di questa dimensione è dimostrata dai fondi che si è deciso di stanziare, corredando dunque gli impegni politici con precise strategie progettuali e di investimento. La logica dell’esternalizzazione prevede un impegno degli Stati africani, in cambio di fondi europei allo sviluppo. Da un lato la chiusura delle frontiere marittime e terrestri, dall’altro procedure di espulsione accelerate, senza intoppi nelle identificazioni.

Il reportage si Sara Prestianni prosegue su Left in edicola


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Left è ateo

Lo abbiamo detto già molte volte ma lo voglio ribadire un’altra volta: Left ha una linea editoriale atea. Per noi non è una regola stabilita come fosse un dogma da rispettare. È un’esigenza. Una necessità.

L’essere noi stessi lo rende necessario. L’essere noi stessi, per noi, significa essere esseri umani, ossia persone che hanno prima di tutto un interesse verso gli altri e non verso qualche entità superiore più o meno onnipotente e imperscrutabile. Lo abbiamo detto e affermato più volte ma lo voglio ribadire di nuovo.

Ciò che mi spinge a farlo è una paginetta scritta da Scalfari domenica scorsa sull’Espresso.

Se l’è presa di brutto con gli atei. Saremmo, noi atei, più o meno paragonabili alle scimmie perché il nostro io, come quello degli animali, non si contiene. Cosa poi voglia dire non contenersi non è chiaro. Avrebbe necessità di odiare chi non è ateo, il nostro Io. Oltre che di affermare se stesso oltre misura. Addirittura sarebbe un io che non pensa perché non si giudica. Gli atei giusti sarebbero i semi-atei che però non è dato sapere cosa significhi esattamente. Però possiamo dedurre che quello degli umani “veri” sarebbe un io che si contiene e che non è ateo.

A tale riguardo Eugenio Scalfari ci propone il suo modello virtuoso che è «Il non credente». Esso è una persona che non crede nelle divinità religiose, il che sarebbe effettiva- mente poco chic, né «nell’assolutismo dogmatico e areligioso dell’ateo» ma «crede in un essere che è trascendente la vita umana». Semplificando, ogni vita, manifestazione qui sulla terra dell’essere, tornerebbe ad esso dopo aver esaurito il suo corso. Un mix tra Parmenide, Heidegger e Platone.

Ora non voglio dilungarmi su quanto detto dall’autorevole fondatore del Gruppo editoriale l’Espresso. Voglio solo esercitare il mio «assolutismo da ateo», anche se non militante ma soltanto pensante. Mi piace usare il mio pensiero da primate non abbastanza evoluto per cercare di comprendere.

Perché nella paginetta di Scalfari, a parte le battute, ho letto un grossolano errore riguardo agli atei che forse poi nasconde la vera spiegazione del motivo per cui Scalfari non comprende gli atei.

«Dopo la morte, per l’ateo, non c’è che il nulla».

Non sono d’accordo. Nel senso che io non la penso per niente così. E penso di poter affermare tanta parte di atei non la pensano così. Per l’ateo, dopo la morte, non c’è il nulla. Perché dire “c’è il nulla” significa affermare che c’è ancora un essere senziente, un essere che possa avere la possibilità di apprezzare che c’è qualcosa ossia che “c’è il nulla”. Mi scusi il lettore la sottigliezza ma il punto è proprio questo.

L’ateo semplicemente afferma che dopo la morte non c’è niente, il che non significa dire che dopo la morte c’è il nulla. È tutt’altra cosa. Dire che “c’è il nulla” significa dire che “c’è qualcosa”.

La morte, per l’ateo, fa parte della vita perché ne è la sua conclusione. La morte non è “l’inizio di qualcosa dove c’è il nulla”. La morte è la fine della realtà biologica umana che porta con sé, in particolare, la fine della realtà psichica.

Fintanto che la biologia del corpo è vivente la mente esiste. Quando il corpo muore, con esso muore anche la mente. Essa scompare. Ma questo non vuole dire che c’è il nulla! Semplicemente non c’è più l’esistenza della mente. Potremmo dire c’è una non esistenza ma questa non esistenza può essere affermata solo da altri, non dal soggetto che non esiste più. Perché è l’io che non è più esistente.

Non è l’io che determina l’esistenza o meno di se stesso ma più semplicemente è l’esistenza in vita del corpo dal quale l’io è nato per la dinamica di formazione del pensiero alla nascita, – come teorizzato da Massimo Fagioli – che determina l’esistenza della mente.

Il pensiero inizia con la nascita e finisce con la morte. Non è il pensiero che determina la propria esistenza o la propria non esistenza. Esso esiste fintantoché è in vita il corpo da cui esso si è generato.

Il problema qui è un altro. È comprendere che il pensiero ha la sua origine nella reazione della sostanza cerebrale alla luce. Il pensiero esiste ed ha origine dall’idea di non esistenza del mondo. In questo senso ha in sé pensiero di non esistenza che poi è il primo pensiero umano (si legga a proposito Istinto di morte e conoscenza di Massimo Fagioli, l’Asino d’oro edizioni).

La non esistenza del mondo non umano porta con sé il pensiero di esistenza del mondo umano ossia la certezza dell’esistenza di un altro essere umano con cui avere rapporto.

La realtà più profonda del pensiero umano è l’esistenza e il rapporto con altri esseri umani. Perché esso è il primo pensiero umano insieme a quello di non esistenza del mondo non umano.

Ma il pensiero di non esistenza non è una realtà statica. Perché è compreso nella dinamica della nascita che appunto è una dinamica.

L’intelligenza dell’essere umano sta nella capacità di immaginare e creare qualcosa di non ancora esistente. Questo comprende l’annullamento, la sparizione dell’esistente per permettere la comparsa, la creazione del nuovo.

La creazione del nuovo è una possibilità esclusivamente umana. Nessun animale crea cose nuove. Dio è il nome dato dagli esseri umani alla alienazione di questa possibilità umana di creare il nuovo. Allora la creatività umana diventa la creatività di dio. Fino ad arrivare a dire che l’amore sarebbe una caratteristica della divinità e non degli esseri umani. Oppure a non capire che gli atei non odiano nessuno.

L’editoriale di Matteo Fago è tratto dal numero di Left in edicola


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Louis Vuitton inciampa nelle sacre coperte di lana del Lesotho

epa06092407 Basotho tribesmen wearing the traditional Basotho tribal blanket (Seanamarena) to stay warm in the bitterly cold mountain air in Semonkong, Lesotho, 15 July 2017 (issued 17 July 2017). The Basotho tribal blanket (Seanamarena) is worn by the tribe in the tiny mountain kingdom that has been hit by a cold front bringing with it freezing air from Antarctica. The Bashoto blanket is part of the tribes culture and can be traced back to 1860 when a European trader gave one as a gift the then King of Lesotho, King Moshoeshoe I. EPA/KIM LUDBROOK

«Anche noi abbiamo dei nomi. Anche noi siamo creatori». Non potete sfruttarci così. Con queste parole si sveglia l’Africa del sud e le sue ire ribollono contro il potentissimo e blasonatissimo marchio Louis Vuitton.

La casa di moda è “accusata” di sfruttare la celebrità delle coperte di lana sacre del Lesotho, un’enclave all’interno della Repubblica del Sudafrica. Lesotho, in lingua bantu, vuol dire «terra del popolo che parla sotho», popolo la cui etnia principale è proprio quella basotho.

Le coperte, con le loro decorazioni e motivi ornamentali, sono parte fondante della loro cultura, uno dei tesori inestimabili di una popolazione che sopravvive con poco più di un dollaro al giorno. Adesso a quanto pare ne ritroviamo di simili sulle passerelle chic della moda e del lusso, sotto forma di costosissimi accessori da uomo.

E questo ha fatto scoppiare una furiosa polemica nel Paese sudafricano.

Maria McCloy, stilista sudafricana, parlando a nome di artigiani che si sono sentiti frodati dalla scelta della casa di moda, ha dichiarato al Courier International: «Anche gli artisti africani sono artisti. Anche noi abbiamo dei nomi. Queste cose non sono in vendita, nessuno ha il diritto di venire qui e di appropriarsene. Siamo in collera, ci sentiamo sfruttati».

«È normale che la Luis Vuitton si appropri della cultura basotho? Si tratta di un omaggio o di una forma di appropriazione culturale?» si legge sul Courier International. Queste stoffe, considerate sacre dalla popolazione, usate in rituali di passaggio della crescita dai basotho, costano ai locali mille rand sudafricani, ovvero 65 euro circa. Quelle con il marchio LV che la casa di moda ha ora messo in vendita in tutte le sue boutique a quanto pare costano oltre i 2100 euro.

Save the children: Minori invisibili e schiavizzati, così in Italia si lucra sulla tratta di esseri umani

Operatori di Save the Children impegnati nella distribuzione di kit con beni di prima necessità per far fronte al freddo e alla pioggia ai 39 minori non accompagnati sopravvissuti al naufragio a Lampedusa, prima del trasferimento oggi in una comunità di accoglienza in Sicilia, 11 ottobre 2013. ANSA / US Save the Children Italia ++HO NO SALES EDITORIAL USE ONLY++

Con il dossier Piccoli schiavi invisibili, appena pubblicato da Save the children, si fa luce sull’inquietante fenomeno dello sfruttamento di bambini e adolescenti in Italia. Attraverso un’analisi dettagliata dei dati raccolti negli ultimi tre anni e grazie alle parole delle vittime stesse, emerge un approfondito quadro di un fenomeno in crescita: quello dei minori soli, vittime invisibili della tratta. I dati del ministero dell’Interno confermano che il flusso migratorio di minori non accompagnati è in costante crescita: nel 2015 i minori soli sbarcati in Italia sono stati 12.360, nel 2016 invece sono stati ben 25.846 e nei primi mesi del 2017 i migranti arrivati in totale sono 60.228, tra cui 6.156 donne (2.800 nigeriane) e 8.312 minori stranieri non accompagnati.
Nel 2017 i 10 principali Paesi di provenienza dei minori non accompagnati sono: Guinea (14,7%), Bangladesh (14%), Costa d’Avorio (11,8%), Gambia (11,8%), Nigeria (7%), Senegal (6%), Mali (5%), Somalia (5%), Eritrea (4%) e Siria (3%).
Per la maggior parte dei minori non accompagnati, la spirale dello sfruttamento comincia sin dall’inizio della traversata e la parte peggiore solitamente coincide con la prima fase di ingresso in Italia. Spesso le vessazioni e i maltrattamenti hanno inizio sin dalla partenza verso l’Europa e continuano poi ininterrottamente in tutte le fasi della traversata. Nei Paesi di destinazione – Italia, Francia, Spagna, Paesi Bassi – la presenza di mercati illegali favorisce lo sfruttamento dei minori, che viene portato avanti da organizzazioni criminali, attive tanto sul fronte della tratta che in quello del traffico di esseri umani. Per la stragrande maggioranza, le vittime di sfruttamento sono bambini e adolescenti in fuga da guerre, violenza, povertà e crisi umanitarie. Una volta arrivati in Europa, questi ragazzi non trovano canali d’accesso sicuri e legali, e l’unica scelta possibile per loro diventa quella di affidarsi ai trafficanti.
Secondo i dati raccolti dal Dipartimento per le Pari Opportunità, nel 2016 le vittime di tratta inserite in protezione sono state complessivamente 1.172, di cui 107 uomini, 954 donne e 111 minori. Tra i minori, nell’ 84% dei casi si tratta di ragazze (93 femmine e 18 maschi). Il 50,45% è vittima di sfruttamento sessuale, lo 0,9% di minori è coinvolto in matrimoni forzati, il 3,6% nell’accattonaggio, il 5,41% è sfruttato sul lavoro e il 9,91% è coinvolto in azioni illegali come lo spaccio di droga. Più della metà delle vittime è di origine nigeriana (59,5% totale, 67% minori).
Purtroppo a livello nazione e internazionale – si legge nel Rapporto – mancano strumenti adatti a fornire una stima accurata del fenomeno, infatti questi dati non includono la maggioranza delle vittime della tratta che restano fuori dal sistema di protezione nazionale, dato che sono difficilmente raggiungibili dalle istituzioni.

Nel 2016 i minori arrivati via mare dalla Nigeria sono stati 3.040. Secondo il rapporto di Save the children, la maggior parte delle minorenni nigeriane giunte in Italia sono destinate alla tratta: le vittime sono sempre più giovani, povere e scarsamente scolarizzate. Si tratta prevalentemente di ragazze tra i 15 e i 17 anni, con una quota crescente di bambine tra i 13 e i 14 anni. L’adescamento solitamente proviene da persone di loro conoscenza che propongono alle ragazze un lavoro ben retribuito in Europa. Molte ragazze inoltre sono vittime delle cosiddette “Italos”: ex prostitute sopravvissute ad anni di schiavitù in Italia, tornate in Nigeria vantando successi e promuovendo l’idea di intraprendere il viaggio verso l’Europa. Le bambine e ragazze nigeriane solitamente arrivano in Europa attraverso un viaggio che prevede questo percorso: Kano (Nigeria), Zinder (Niger), Agadez (Niger), Dirkou (Niger), Sabha (Libia) e Tripoli (Libia). Da Tripoli spesso le vittime vengono spostate verso i porti libici di Zuara, Zarzis e Sabratah. Le ragazze vengono solitamente vendute durante il passaggio dal Niger alla Libia: qui cominciano ad essere sfruttate sessualmente in case chiuse fino a quando non avranno guadagnato abbastanza da poter pagare ai trafficanti l’oneroso viaggio verso l’Italia. Chi rifiuta di prostituirsi viene vessata e picchiata, e i trafficanti cominciano ad estorcere denaro ai parenti rimasti in Nigeria. Per evitare violenze ed estorsioni verso di loro e dei parenti rimasti nel paese d’origine, le ragazze, anche una volta giunte in Italia, lavorano in condizioni di schiavitù per lunghi periodi di tempo: dai 3 ai 7 anni. La vita di strada lascia segni fisici e traumi psicologici che difficilmente le vittime riescono a superare.

Le ragazze rumene rappresentano il secondo gruppo più numeroso nella prostituzione per strada, che avviene sia nei centri cittadini sia in zone periferiche ad un prezzo che si aggira intorno ai 50 euro. Nonostante nel 2015 la Romania sia stato uno dei Paesi europei in maggiore crescita, non c’è stata un’equa distribuzione della ricchezza fra la popolazione e quindi molte ragazze disoccupate decidono comunque di emigrare. Molte di loro diventano vittime della tratta e dello sfruttamento: la maggioranza hanno tra i 16 e 17 anni e provengono da contesti molto poveri e da aree marginali del Paese, da distretti come Bacau, Galati, Braila, Neamt e Suceava. Le minori provengono spesso da orfanotrofi oppure sono affidate a terzi, e in assenza di una figura genitoriale sono soggetti estremamente facili da manipolare e da convincere. Le ragazze in Romania vengono spesso adescate da amiche coetanee o uomini adulti che si guadagnano la loro fiducia, dando loro la speranza di poter abbandonare il contesto di assoluta povertà in cui vivono con la promessa di avere un lavoro ben retribuito e un futuro migliore in Europa. Solitamente il viaggio viene pagato dal fidanzato, le ragazze raggiungono l’Italia con mezzi privati e una volta arrivate vivono in appartamenti abitati da connazionali. Gli sfruttatori danno inizio alle violenze, sia fisiche che psicologiche, con sistematiche minacce di morte, sin dall’arrivo in Italia.
Ci troviamo di fronte a bambini e adolescenti, invisibili e sfruttati, che aumentano di giorno in giorno: i programmi di protezione e aiuto continuano a essere drammaticamente insufficienti in Italia e in Europa: un’Europa che assiste indifferente alla silenziosa tratta di questi schiavi del terzo millennio.