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Congo: 80 fosse comuni scoperte dalle Nazioni Unite

Una storia sul potere, sui machete e sulle fosse comuni, ma soprattutto sul silenzio che li circonda. A Nganza, nel cuore della Repubblica democratica del Congo: «I corpi si stanno decomponendo da mesi e la terra che li ricopre sta per seppellirli del tutto». La puzza di morte è insopportabile nel Paese africano grande quanto tutta l’Europa occidentale e nove paesi stranieri ai confini.

Circa 3300 persone sono morte da ottobre scorso, quasi un milione e mezzo di abitanti sono scappati dalle loro abitazioni, parte di loro ha cercato rifugio in Angola. La violenza è diventata lutto familiare per molti. Le truppe governative hanno ucciso il leader dei ribelli che tutti conoscevano solo con il suo nome di battaglia, Kamwina Nsapu, la “formica nera”.

«Sono ovunque. Qui vicino alle case, dove la donna sta asciugando i vestiti. Qui nel campo, dove stanno giocando i bambini. Ci sono fossi, pieni di centinaia di cadaveri», scrive Kimiko de Freytas Tamura sul New York Times. Intorno ai corpi, nascosti più che seppelliti sotto terra, ci sono i soldati con i kalashnikov, occhiali da aviatore e berretti rossi. «Non sono qui per proteggere la popolazione, ma per evitare che qualcuno investighi su quello che è successo a marzo: il massacro silenzioso di Nganza, parte di un conflitto più ampio nella regione del Kasai, dove le truppe governative stanno combattendo la milizia che si oppone al presidente Joseph Kabila». Kabila sta rimandando le elezioni per rimanere al potere, che detiene da 16 anni: gli serve tempo per cambiare la costituzione e provare a ricandidarsi per la terza volta.

Deportazioni forzate. Amputazioni. Decapitazioni. Fucilazioni. «La gente la chiama semplicemente guerra». Una famiglia di 12 persone è stata bruciata viva. Sono passati alcuni mesi da quei 3 giorni in cui 500 persone insieme sono state uccise. Le pietre durante gli attacchi hanno distrutto centinaia di case e ora i muri sono rimasti neri dopo le fiamme. I soldati, racconta la popolazione, si erano arrampicati sulle piante di avocado per prendere meglio la mira sui residenti locali in fuga.

L’etnia luba è un bersaglio perché parla la lingua tshiluba, lo stesso idioma della popolazione di Kamwina Nsapu, invece che lo swahili, la lingua comune dei soldati. Kabila, 46 anni, vuole quello che i congolesi chiamano “le glissement”, slittare verso il terzo mandato, proibito dalla costituzione, mentre il suo mandato è ufficialmente terminato il 20 dicembre scorso. Il padre di Kabila è stato assassinato nel 1997 e il figlio ne ha preso il posto nel 2001. Per le elezioni mancano comunque 1 miliardo e 800mila dollari che il governo non ha, in una delle terre più ricche di diamanti, cobalto, uranio, diamanti e petrolio al mondo.

La guardia presidenziale conta 40mila membri brutali e fedeli. «Come il re belga Leopoldo II, Kabila usa il Congo come il suo feudo personale, usando il Paese come una gigante macchina per fare soldi», con il commercio di diamanti di cui detiene i permessi di estrazione al confine del Paese.

I soldati hanno sterminato intere famiglie spalancando porte e uccidendo tutti. «Sono una civile, sono innocente». Lo ha detto Ntumba Kamwabo, 29 anni, a cui hanno cavato un occhio sparandole al volto, mentre un altro colpo le è arrivato nel braccio. Adesso di fronte casa sua, insieme al fratello di suo marito Mwamba Konyi, ci sono seppelliti i suoi figli. Chi abita nelle case del vicinato ha seppellito in cortile gli amici.

«È la peggiore crisi umanitaria da decenni, entrambe le controparti hanno commesso gravi crimini» ha detto Jose Maria Aranaz, a capo della missione locale delle Nazioni Unite. «Si stanno processando i soldati semplici, non i comandanti. Finché i leader militari non verranno messi davanti alle loro responsabilità, l’impunità continuerà». Finora sono state rivenute 80 fosse comuni colme di cadaveri, ma i corpi non possono essere esaminati, perché è compito delle autorità locali.

La versione ufficiale del governo è che si tratta di fosse comuni dei cadaveri di combattenti della milizia ribelle, non di civili: «Se c’è qualche civile tra i cadaveri dei miliziani, la causa è colera o febbre gialla, non uccisioni sponsorizzate dal governo». A Kananga, capitale della regione del Kasai, i testimoni raccontano cose diverse ed opposte alla narrativa delle autorità. I soldati hanno rubato tutte le cose di valore dalle loro case, dalla tv agli animali della fattoria. Chi non possedeva abbastanza averi, veniva ucciso, «insieme a neonati, vecchi e disabili, a cui è stata tagliata la gola nei loro salotti».

Nella regione del Kasai adesso tre esperti delle Nazioni Unite stanno investigando i crimini
nei luoghi dove centinaia di truppe governative sono state spedite per sedare la rivolta, due esperti, prima di loro, sono già stati ammazzati mentre tentavano di fare luce sui colpevoli. Anche i loro omicidi sono rimasti insoluti.

Soccorso ai migranti e Codice di condotta: il gran rifiuto di Medici senza frontiere

Sub saharan migrants receive life jackets as they are rescued by aid workers of Spanish NGO Proactiva Open Arms in the Mediterranean Sea, about 15 miles north of Sabratha, Libya on Tuesday, July 25, 2017. (ANSA/AP Photo/Santi Palacios) [CopyrightNotice: Copyright 2017 The Associated Press. All rights reserved.]

Le Ong si spaccano di fronte al Codice di condotta messo sul tavolo dal Viminale, che disciplina ulteriormente le attività delle organizzazioni umanitarie che salvano vite nel Mediterraneo. Moas e Save The Children firmano, Proactiva Open Arms fa sapere che il testo va bene e firmerà, mentre arriva un «no, grazie» da Medici Senza Frontiere e Jugent Rettet.

Tra tutti i 13 punti, i maggiormente contestati – ancora una volta – sono stati quelli legati al divieto di trasbordo delle persone soccorse su altre navi «eccetto in caso di richiesta del competente Centro di coordinamento per il soccorso marittimo (Mrcc)» e quello che imporrebbe alle Ong di ospitare forze dell’ordine armate a bordo, seppure «eventualmente e per il tempo strettamente necessario», come specificato nell’ultima formulazione del testo.

«La presenza di funzionari di polizia armati a bordo e l’impegno che gli operatori umanitari raccolgano prove utili alle attività di investigazione sarebbero una violazione dei principi umanitari fondamentali di indipendenza, neutralità e imparzialità», chiarisce in una nota Medici Senza Frontiere. «Questo rischierebbe di ricondurre le organizzazioni umanitarie agli interessi politici e militari di uno Stato membro dell’Unione Europea».

La non adesione al Codice non sarà senza conseguenze. Per il ministero dell’Interno «l’aver rifiutato l’accettazione e la firma pone quelle organizzazioni non governative fuori dal sistema organizzato per il salvataggio in mare, con tutte le conseguenze del caso concreto». La minaccia che era stata paventata dal ministro Minniti era quella di chiudere i porti chi non aderisse all’intesa.

Ad ogni modo Gabriele Eminente, direttore generale di Msf (che ha firmato una lunga lettera al Viminale), puntualizza che «Msf rispetta già molte delle disposizioni che non rientrano tra le nostre preoccupazioni principali, come ad esempio la trasparenza finanziaria» e che «Msf continuerà a condurre le operazioni di ricerca e soccorso sotto il coordinamento della guardia costiera italiana e in conformità con tutte le leggi internazionali e marittime pertinenti».

Save The Children invece firma, anche se «l’organizzazione monitorerà costantemente che l’applicazione (del codice, n.d.r) non ostacoli l’efficacia delle operazioni di soccorso in mare anche alla luce degli accordi in via di definizione tra Italia a Libia e auspica che si ristabilisca il giusto clima di fiducia e collaborazione».

Sea Watch, Sea Eye e Sos Mediterranee, infine, non hanno preso parte all’incontro.

L’incontro di ieri segue il primo confronto di martedì scorso, definito “interlocutorio”, e quello di venerdì, nel quale si è lavorato ad una versione “addolcita” del codice. Le prime indiscrezioni secondo le quali il governo stesse lavorando ad un Codice di condotta erano uscite il 12 Luglio.

Per l’Organizzazione internazionale delle migrazioni, dall’inizio del 2017 fino al 21 Giugno sono morte 2011 persone nella rotta del Mediterraneo centrale, tra Nord Africa e Italia. Negli stessi mesi, le Ong hanno effettuato il 35% delle operazioni di soccorso in quella area.

Polvere di cristalli. E la notte dei silenzi dei buoni

La storia la racconta Antonio Sicilia sul suo profilo Facebook e mette i brividi:

Vivi e lavori in Italia da 23 anni, hai 4 figlie, tre delle quali nate in Italia, e una mattina del 2017 ti svegli e trovi la scritta “DASPO” sull’insegna del tuo negozio.

È successo questa mattina a Belhassen, calzolaio tunisino di Vicolo della Seconda Androna a Trento, colpevole di essere un calzolaio straniero per qualche razzistello ignorante e codardo.

Qualche ora fa sono andato a trovarlo per fargli qualche domanda e soprattutto per esprimergli tutta la mia solidarietà : «Questa scritta mi ha ricordato la scritta “Ebreo” sulle vetrine dei negozi di qualche decennio fa. Si respira un clima d’odio – ha aggiunto – che mai avevo visto in questo Paese. È dura anche per me che sono in Italia da oltre 20 anni».

Il suo volto sconsolato, quasi rassegnato, ha risposto ad ogni mia ulteriore domanda.

Un episodio che conferma la voglia sempre maggiore di screditare e umiliare chi è diverso, grazie anche alla politica peggiore che continua a soffiare sull’odio e sulla paura per tornaconto elettorale.

Andando via, una signora trentina che aspettava il suo paio di scarpe, ha guardato Belhassen dicendo: “Non siamo tutti così con chi è straniero”.

Esatto signora mia, è proprio da persone come lei che dobbiamo ripartire per mettere fine a questo clima infame. “Accoglienza”, “Integrazione” e “Umanità” sono parole non devono sparire dal nostro vocabolario per paura di non essere compresi.

Se servisse, Antonio aggiunge anche qualche foto:

E viene in mente la frase di Martin Luther King: «In questa generazione ci pentiremo non solo per le parole e le azioni odiose delle persone cattive, ma per lo spaventoso silenzio delle persone buone».

Buon martedì.

Indimenticabile Jeanne Moreau GALLERY

Indimenticabile la sua camminata notturna alla ricerca dell’amante, Julien Tavernier (Maurice Ronet), sulle note di Miles Davis nel film d’esordio di Louis Malle, Ascensore per il patibolo (1957), e ancor più il suo ruolo di imprendibile amante di Jules e Jim di Truffaut. Cantante, attrice e regista francese Jeanne Moreau è stata la diva passionale, il volto più espressivo del cinema francese. Lontana anni luce dal modello algido dell’attrice francese alla Catherine Deneuve, Jean Moreau, scomparsa il 31 luglio a 89 anni, ha attraversato il cinema degli anni Cinquanta e Sessanta, con grande personalità e intelligenza, lavorando con i più grandi registi del Novecento, da Michelangelo Antonioni a François Truffaut e Orson Welles, con il quale girò Il processo ma anche Falstaff e Storia immortale.

Tra i ruoli più famosi di Moreau, che era nata nel 1928, c’è appunto quello di Catherine in Jules e Jim che nel 1962 la fece conoscere a livello internazionale. Alle spalle aveva già il premio per la miglior interpretazione femminile al Festival di Cannes per il film Moderato cantabile, in cui compariva accanto a Jean-Paul Belmondo. Il successo della canzone Le Tourbillon, incisa inizialmente per la colonna sonora di Jules e Jim le aprì le porte dei teatri anche come cantante. Dal sodalizio artistico con Truffaut nacque anche il capolavoro I quattrocento colpi.

Jeanne Moreau e Marcello Mastroianni in ‘The Night’ diretto da Michelangelo Antonioni. (Sunset Boulevard / Corbis via Getty Images)

L’attrice francese Jeanne Moreau e il regista Francois Truffaut a Roma alla prima proiezione del film “Jules e Jim” il 15 febbraio 1962 a Roma, Italia. (Keystone-France / Gamma-Rapho via Getty Images)

L’attrice francese Jeanne Moreau e il regista Francois Truffaut a Roma, in anteprima proiettata del film “Jules e Jim” il 15 febbraio 1962 a Roma, Italia. (Keystone-France / Gamma-Rapho via Getty Images)

L’attrice francese Jeanne Moreau, 1963. (Pictorial Parade / Archivio foto / Getty Images)

Jeanne Moreau con il musicista jazz Miles Davis (1926 – 1991) (RDA / Getty Images)

L’attrice francese Jeanne Moreau arriva per la prima della proiezione di “Vicky Cristina Barcelona” al 61 ° Festival di Cannes, in Francia, 17 maggio 2008. EPA / CHRISTOPHE KARABA

L’European Film Awards 2003, 6 dicembre 2003, Berlino

16 maggio 2005, Cannes. “Le temps qui reste” del regista francese Francois Ozon, che corre nella sezione “Un Certain Regard” del 58 ° Film di Cannes Festival

Disparità salariale tra uomini e donne: BBC nella bufera

epa04707889 UKIP leader Nigel Farage (R), is seen on viewfinder screen of a TV camera during the live television debate of the Britain's opposition party leaders hosted by the BBC, at the Methodist Central Hall in London, England, 16 April 2015. The live tv debate features the leaders of, Labour, UKIP, Green Party, Plaid Cymru (Wales) and Scottish National Party - ahead of the British General Election on 07 May. EPA/JEFF OVERS / BBC HANDOUT EDITORIAL USE ONLY/NO SALES EDITORIAL USE ONLY/NO SALES EDITORIAL USE ONLY/NO SALES

La BBC è un all men’s club, un club per soli uomini. Il presentatore maschile è pagato quattro volte più della presentatrice femminile più pagata: Chris Evans, il DJ di BBCRadio 2, guadagna tra i due e i due milioni e mezzo di sterline l’anno, mentre Claudia Winkleman, che conduce Strictly Come Dancing, è pagata dalle 450mila alle 499mila sterline. È un uomo anche il secondo più pagato della lista, il presentatore di Match of the Day, Gary Lineker, con un milione e ottocentomila sterline.

Lo chiamano «an embarassing gender equality row», l’imbarazzante scompenso di eguaglianza di genere, e sta «ingolfando» tutti i programmi della tv più famosa della Gran Bretagna. A capeggiare la battaglia per l’uguaglianza ci sono le 42 «top female broadcasters» della BBC, le 42 presentatrici e giornaliste più famose di tutto il Regno Unito. Stanno chiedendo a voce sempre più alta che si metta fine alla «discriminazione sessuale economica e salariale».

Tutto è cominciato dopo che i compensi di alcuni giornalisti dell’emittente radiotelevisiva più famosa del mondo sono stati resi pubblici. La decisione è stata della premier, Theresa May, in seguito ad una negoziazione del colosso televisivo con il governo. «Qualsiasi cosa la May volesse ottenere, rendendo pubblici i salari dei giornalisti e presentatori che guadagnano oltre le 150mila sterline l’anno, non prevedeva questi picchi di ferocia scatenati dalla pubblicazione del report finanziario degli anni 2016/17 della BBC», continua il Times. Intanto l’emittente si sta preparando per una causa legale per discriminazione sessuale.

Una delle notizie più belle della settimana», scrive il Times di Londra, «è la nascita della BBC sisterhood», la sorellanza giornalistica. «È questo il nuovo summer british sport», il nuovo sport dell’estate britannico. Sui social le battute sono continue: «Un Gary Linker vale 10 Claire Balding?» chiedono gli utenti. Angela Rippon, Gloria Hunniford, Julia Somerville, tra i volti più noti del giornalismo inglese, in un anno, tutte insieme, guadagnano quello che Gary Lineker ottiene in un mese. Ora le chiamano le Charlie’s angels dei programmi tv perché, come dicono loro, vogliono «bashing the greedy to help the needy», colpire gli avidi per aiutare i bisognosi. Le giornaliste, infatti, sul tavolo delle trattative, hanno posto anche questa condizione: non è necessario che i loro salari vengano aumentati per pareggiare quelli degli uomini, basta che quelli dei colleghi maschi vengano tagliati.

Le donne della redazione chiedono che si act now, che si faccia qualcosa adesso, non entro il 2020, come promesso dai vertici: «La BBC è a conoscenza del gap di genere da anni», hanno scritto le donne in una lettera aperta al direttore generale del colosso mediatico, Tony Hall. Sul gender salary gap si è espresso anche il laburista Jess Phillips: «C’è un chiaro problema su come le donne vengono trattate dalla corporazione».

Non è uno scontro da cifre da capogiro questo, ma riguarda tutte le donne che lavorano tra le mura della “Vecchia signora”: solo un terzo di tutti i dipendenti che guadagna oltre 150mila sterline sono donne. La May ha criticato la BBC e ha preteso che tutti gli stipendi dell’organizzazione fossero resi pubblici, anche quelli inferiori alle 150mila sterline. La battaglia per la parità salariale è solo iniziata.

I vicini insorgono: lo striscione antimafia “deturpa” il palazzo del boss

C’è un reato che non è reato. Si consuma sottovoce. E chi lo commette non se ne rende nemmeno conto: è il cretinissimo favoreggiamento sociale alla mafia. Un reato che difficilmente verrà mai scritto ma che, in un Paese normale, dovrebbe essere censurato dal senso di opportunità.

Siamo a Bitonto, non molto lontano da Bari. Qui la mafia si fa sentire e inevitabilmente alcuni dei suoi beni sono stati confiscati (evviva!) e riassegnati a uso sociale (evviva di nuovo): rea questo c’è un appartamento di un condominio in via Muciaccia, sarà la base di un progetto di vita autonoma per cinque ragazzi disabili. Cose belle, insomma.

I nuovi inquilini di Libera hanno pensato bene di appendere uno striscione. Una cosa semplice: “Ieri mafia, oggi Libera, domani liberi”.

Ma i vicini di casa, quelli dello stesso condominio, hanno pensato bene di lamentarsi. Alcuni sottovoce mentre altri sono andati direttamente in municipio per manifestare tutto il loro disappunto. Mica per la mafia, no: per lo striscione. “Danneggia l’immagine della palazzina”, hanno detto i focosi inquilini, preoccupati più di non infastidire i mafiosi che altro.

“Certamente i condòmini che si sono lamentati non appartengono a famiglie mafiose, ma evidentemente non hanno apprezzato tutta quella pubblicità involontaria. Che invece è stata utile – commenta il referente pugliese di Libera – in modo che il territorio sapesse che lì si stava facendo un campo di Libera e che quello è un bene confiscato. Abbiamo spiegato che non volevamo creare problemi, ma in fondo parliamo di un telo che è stato lì per due giorni, volevamo dare un segno al territorio. Purtroppo questa è la conferma che molti italiani provano fastidio ad avere fastidio”.

Ecco qui. Ecco tutto.

Buon lunedì.

L’essenziale è invisibile agli occhi diceva il Piccolo principe

«Tutti i grandi sono stati piccoli (ma pochi di loro se ne ricordano)», scriveva Antoine de Saint-Exupéry nel Piccolo principe, uscito in America nel 1943. L’infanzia, ci racconta lo scrittore e aviatore francese scomparso il 31 luglio del 1944, è la memoria che ci nutre, che ci caratterizza come esseri umani dotati, fin dalla nascita di capacità di immaginare.  E’ questo in fondo ciò che dice il piccolo principe di Saint-Exupéry attraverso la storia dell’amico Léon e che  lo rende ineguagliabile. A noi piace ricordarlo anche nella sua variante cinematografica di Mark Osborne con gli sceneggiatori Irena Brignull e Bob Persichetti ( The Little Prince , Francia, 2015): a dieci anni, per il piccolo protagonista è  già il momento d’assicurarsi un posto in pole position nella gara del successo. Così pensa la madre, e così deve pensare la figlia. Nella casa accanto, però, c’è un mondo opposto al loro. Tutto vi è felicemente precario, imprevedibile. In quella villa cadente e colorata abita un aviatore che dimostra tutti i suoi molti anni, ma che non rinuncia alla speranza di rimettere in volo l’aeroplano fermo in giardino. È lui che alla ragazzina in carriera racconterà del piccolo principe, e della loro avventura di tanto tempo prima, nel bel mezzo del Sahara… Come nel libro originale la parte più bella è quella dei disegni, lo schermo fa riscoprire la leggerezza del libro, le cui pagine sono percorse e messe in volo da colori e disegni. Grazie soprattutto agli originali di Saint-Exupéry. Guardando il film e ancor più rileggendo il libro si decide a non dimenticare d’appartenere alla propria infanzia. Buona lettura e buona visione!

La mafia si è rifatta i connotati

Business person walking with briefcase in Rome

Il “racconto” delle mafie è, per ovvie ragioni, molto presente nel dibattito pubblico italiano. Non è stato sempre così. Per lunghi anni, fino all’inizio degli anni Ottanta, la presenza delle mafie, in particolare la loro dimensione criminale come organizzazione distinta dal tessuto socio-culturale dei territori, è stata negata. C’è stato bisogno della forza analitica di molti intellettuali, della denuncia in sede civile e politica di molti cittadini e poi dell’azione del legislatore e della magistratura, per prendere piena coscienza del fenomeno sul piano culturale, normativo e giudiziario e mettere in campo misure adeguate di prevenzione e repressione.
Oggi molto è stato fatto, i principali latitanti sono in carcere, le organizzazioni più pericolose sono state pesantemente colpite, i collaboratori di giustizia sono ormai centinaia, i beni sottratti alle mafie costituiscono un patrimonio di enorme valore che può essere messo a frutto per aprire nuove opportunità nell’economia legale.
Eppure lo spettro si aggira ancora. Se la parte violenta e predatoria è stata contenuta, la parte finanziaria non trova ancora argini sufficienti. Considerevoli flussi di capitali di provenienza “mafiosa” invadono i mercati, ne influenzano gli assetti, fanno sentire il peso della forza economica sui poteri legali. Figure legate a quei mondi e interessi finanziari e di impresa operanti alla luce del sole si uniscono in circuiti di scambio reciprocamente vantaggiosi. I capitali sporchi bussano alle porte di imprese del nord e centro Italia sfruttando i varchi aperti dalla crisi. Travalicano poi le frontiere e si inseriscono nei flussi economici globali, si intrecciano con altre forme criminali, si mescolano con i poteri costituiti. Danno vita così a reti di cointeressenze che perdono i tratti che comunemente associamo al gruppo mafioso e che richiedono sul fronte investigativo diversi metodi e competenze di indagine.
Ecco che il panorama cambia completamente: non più….

L’articolo di Luciano Brancaccio prosegue su Left in edicola


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Politica e turpiloquio

Triviali bagarres a Montecitorio, risse tra i banchi parlamentari, gesti scurrili accompagnati dall’esibizione di cartelli offensivi e dal lancio di oggetti impropri, fino alla minaccia del cappio scorsoio. Le scene avvilenti che sempre più spesso appaiono nei Tg, si accompagnano a un decadimento della lingua italiana. Le parole hanno paralizzato la politica: è quanto denuncia nel suo nuovo saggio, Volgare eloquenza Giuseppe Antonelli, docente di linguistica italiana all’Università di Cassino e conduttore della trasmissione di Radio3 La lingua batte. Le vecchie contorsioni del “politichese”, lingua iniziatica e oscura – esemplare lo scalfariano «convergenze parallele» – hanno lasciato il posto al vaniloquio dei talk-show, alla retorica dello storytelling renziano, alla fumosità delle narrazioni vendoliane, alla tracotanza delle iperboli grillesche. Imprecazioni, maledizioni, insulti imperversano sui social network, obbedendo a un paradigma di rispecchiamento al ribasso.

Un gioco di specchi in cui il narciso di turno blandisce e asseconda l’esasperazione crescente della “gente”. Dove il termine ha sostituito la parola “popolo”, così come l’aggettivo “popolare” ha lasciato il posto all’universale “populista”, buono per tutte le stagioni.

Da Bossi a Berlusconi si sbandiera la scelta di….

L’articolo di Noemi Ghetti prosegue su Left in edicola


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Quei bambini del coro violentati e picchiati in nomine Patris

«Era un picchiatore, non ho di lui l’immagine di un nonno buono e questo ricordo non cambierà mai». Monsignor Georg Ratzinger non ammetteva la possibilità che i bambini del coro delle voci bianche del duomo di Ratisbona sbagliassero una intonazione, racconta una delle testimonianze raccolte nel Dossier di 440 pagine pubblicato in Germania nei giorni scorsi. Il titolare dell’inchiesta, l’avvocato Ulrich Weber, ha individuato 46 educatori responsabili e ha accertato che dal 1953 al 1993, quindi anche durante la direzione del fratello maggiore del papa emerito Benedetto VXI (1964-1994), almeno 547 Domspatzen (ovvero “passeri del duomo”) furono vittime di violenza e 67 anche di abusi pedofili. «Ratzinger ha picchiato e sclerato come una furia. Lanciava sedie, afferrava i leggii e li lanciava contro gli allievi del coro» si legge nelle carte dell’inchiesta durata sette anni. «Tirava forte le orecchie e mollava schiaffoni. Una volta perse la dentiera in un impeto di rabbia». Secondo alcuni testimoni Ratzinger non ebbe direttamente a che fare con i casi di pedofilia. Tuttavia Weber lo accusa di «aver saputo e di non essere intervenuto», riferendosi alle violenze psicofisiche subite dai bambini in generale: pestaggi, torture, vessazioni di ogni tipo nei confronti di chi contravveniva alle rigide regole del seminario. Di certo c’è che Ratzinger, che dal 2008 è cittadino onorario di Castel Gandolfo (Roma), contribuiva ad alimentare il clima di terrore che annichiliva gli allievi. Nel dormitorio del coro bastava provare una qualsiasi emozione per finire ricoperti di lividi e in isolamento. «Se uno aveva nostalgia era considerato disobbediente», racconta un ex allievo. «La nostalgia andava spazzata via con le botte», aggiunge un altro. E questo non faceva che aumentare il senso di disperazione. Nel rapporto si raccontano i tentativi di fuga, riusciti e non. «Le immagini ce le ho ancora davanti agli occhi» dice un testimone: «Ricordo quei bambini che scavavano con le mani delle fosse accanto allo steccato, per cercare la salvezza nella fuga verso casa». Per chi veniva scoperto la punizione consisteva nell’esser picchiato a sangue «davanti agli altri» affinché a nessuno venisse in mente di imitarlo.
Omettiamo altri particolari truculenti abbondantemente descritti in questi giorni dai media. Resta lo sgomento per il fatto che questa vicenda sia andata avanti per decenni e sia definitivamente emersa solo 25 anni dopo l’ultimo crimine accertato. È una storia già vista ma non ci si abitua. Ed è già vista anche in Italia, basti pensare a quanto accaduto ai giovani ospiti dell’Istituto per sordomuti Antonio Provolo di Verona, gestito dalla curia locale, di cui su Left tante volte abbiamo scritto. Come sempre accade in casi come questi – che emergono con raccapricciante regolarità dalle pagine delle cronache di tutto il mondo (mentre andiamo in stampa, inizia in Australia il processo per abusi contro mons. George Pell, il numero tre della Santa Sede e uomo di fiducia di papa Francesco) – il Vaticano si limita a pronunciare parole di circostanza e solo quando non è più possibile mantenere il segreto dietro le spesse mura di scuole, oratori, parrocchie, diocesi e così via…….

L’articolo di Federico Tulli prosegue su Left in edicola


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