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Espulsioni, centri di rimpatrio, lavoro obbligatorio. Ecco il piano Minniti contro i migranti

Il ministro dell'Interno Marco Minniti, durante una conferenza stampa a palazzo Chigi, Roma, 5 gennaio 2017. ANSA/ETTORE FERRARI

Ieri pomeriggio, 8 febbraio, il ministro dell’Interno Marco Minniti è stato audito dalle Commissioni riunite (Affari Costituzionali di Camera e Senato). Il ministro ha annunciato alcune novità rispetto al Piano del Viminale sul contrasto all’immigrazione irregolare: espulsioni, centri di rimpatrio, lavoro obbligatorio, procedure rapide per l’asilo. I tempi? Rapidi, rapidissimi. Entro febbraio potrebbe essere tutto operativo.

Rimpatri. Il Viminale di Minniti punta tutto sull’accelerazione dei rimpatri, in vista di nuovi accordi bilaterali con Paesi terzi di origine e di transito. Su questo punto, in molti contestano il rispetto dei diritti fondamentali in diversi di questi Paesi. Un esempio su tutti, la Libia.
Dal 1 gennaio al 15 settembre 2016, le persone transitate nei Cie sono state 1.968 e di queste ne sono state rimpatriate 876, circa il 44%. I rimpatri, poi, sono anche costosi: stando ai dati di LasciateCIEntrare, dal 2011 la spesa complessiva per la loro gestione sarebbe stata di almeno 18 milioni di euro.

Richiesta d’asilo e lavori utili. Minniti auspica la soppressione del grado di giudizio: saltala possibilità di fare ricorso al decreto di rimpatrio. Una proposta in contrasto con quanto previsto dal nostro ordinamento, oltre che lesiva del rispetto dei diritti dei richiedenti asilo. Secondo le anticipazioni del ministro, poi, quest’ultimi dovranno infine svolgere obbligatoriamente «lavori socialmente utili» non retribuiti.

Cambio di nome: arrivano i Cpr. I Cie (Centri d’identificazione ed espulsione) si chiameranno Cpr (Centri permanenti di rimpatrio). Saranno sempre strutture rivolte ai cosiddetti “immigranti economici”, privi di documenti validi. Cambia la forma – diventano centri finalizzati ai rimpatri e non più carceri di tipo amministrativo – ma rimane una struttura con limitazioni della libertà personale. Resta anche la permanenza fino a 90 giorni. Attualmente in Italia sono attivi 4 Cie: Brindisi, Caltanissetta, Roma e Torino, per un totale di 574 posti disponibili di cui effettivi 359. Al 30 dicembre 2016 risultavano trattenute 288 persone.
Un numero che aumenterà: il Piano prevede infatti la riapertura di un centro per regione, con capienza totale di 1.600 posti.

La vigilanza del Garante nazionale. Nel nuovo Piano, il ministro assicura la vigilanza nei nuovi centri del Garante dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, carica attualmente coperta dal dottor Mauro Palma. In verità, questo è già previsto, ma il Piano tenderebbe a rafforzare e legittimare la figura.

Cambio al Dipartimento. Entro febbraio il prefetto Mario Morcone dovrebbe lasciare la guida del dipartimento Libertà civili, per diventare Capo di gabinetto. Al suo posto in arrivo Gerarda Pantalone, finora prefetto di Napoli.

Gli appalti. Per l’affidamento in gestione del sistema di accoglienza migranti, gli appalti saranno suddivisi in «lotti funzionali per singole tipologie di servizi», annuncia il ministero dell’Interno. Gli appalti di gestione per i servizi dei centri per gli immigrati, quindi, non saranno più unici, ma divisi in lotti: mensa, assistenza sanitaria, alloggiamento, e ciascuno messo a gara singolarmente. In questo modo, è l’intenzione del Ministero, più imprese potranno partecipare alle procedure di gara, garantendo il principio della libera concorrenza.

Le reazioni. L’Anac di Raffaele Cantone ha già dato parere favorevole alla suddivisione degli appalti. Entusiasta appare il Pd, che attraverso la senatrice dem Laura Fasiolo, annuncia: «Il ministro dell’Interno Marco Minniti oggi ha fornito un quadro preciso su come il governo intende affrontare il tema immigrazione. Finalmente una linea chiara e proposte coraggiose. Dobbiamo gestire la grande emergenza dei migranti senza scivolare nella sbagliata equazione immigrazione uguale terrorismo».
Il Cir di Roberto Zaccaria «accoglie il Piano Minniti con interesse, auspicando che si traduca in proposte normative che rendano il Sistema Asilo più efficace sempre nella piena tutela dei diritti di protezione».
Mentre arrivano dure critiche dalla campagna LasciateCientrare: «È evidente che non basterà un cambio di nome per un’inversione di tendenza sulle politiche di accoglienza del Paese», denuncia. «La loro disumanità e inefficacia sul piano dei rimpatri ha comportato il progressivo smantellamento del sistema con la chiusura di numerose strutture. Adesso, aprire un centro per regione, come propone il ministro Minniti, non farà altro che alimentare violazioni e situazioni di illegalità», dice la portavoce Gabriella Guido.
Le fa eco la deputata di Sinistra italiana Celeste Costantino: «Se dovessi sintetizzare in una battuta le nuove linee programmatiche del Ministro dell’Interno Minniti, direi: brutte notizie mascherate da atti di buon senso».

Pablo Iglesias: «Podemos non diventi un Partito socialista 2.0»

epa05763271 Podemos' Party general secretary and co-founder Pablo Iglesias (R) and Political secretary of Podemos Inigo Errejon (L) speak during a session held at the Lower Chamber of Spanish Parliament in Madrid, Spain, 31 January 2017. Podemos will hold its second general congress on the weekend of 11-12 February when Iglesias and political secretary of Podemos Inigo Errejon will compete for leadership of the Podemos Party. EPA/JUAN CARLOS HIDALGO

«Podemos deve uscire da Vistalegre II (il nome della seconda assemblea nazionale del partito, ndr) con un immagine migliore di quella che ha mostrato ultimamente». Sono le parole di Pablo Iglesias, fondatore e leader di Podemos, durante un’intervista con ElPais, pubblicata stamani. Il messaggio di Iglesias è chiaro: «Dobbiamo superare alcuni elementi del nostro Dna». Quali? Innanzitutto, «dobbiamo smettere di essere il partito dei professori della Complutense (nome dell’università di Madrid in cui è nato il movimento che ha portato alla creazione di Podemos, ndr)».

E Iglesias non usa certo mezzi termini nel descrivere il valore strategico della prossima assemblea: «In ballo non c’è in soltanto il mio futuro personale, bensì quello di Podemos». In effetti la base sarà chiamata a decidere la strategia politica del partito per i prossimi anni: da una parte c’è Pablo Iglesias, dall’altra, Íñigo Errejón, il numero due di Podemos. Iglesias si candida con una politica radicale ancorata nella società civile e nei movimenti, il secondo con un programma più moderato che guarda, soprattutto, alle evoluzioni del sistema partitico e ad un’alleanza con il Partito socialista (Psoe) di oggi.

Durante l’intervista, Iglesias ha messo in chiaro che si dimetterebbe in caso dovesse «uscire sconfitto dal congresso». Anche perché, secondo il leader di Podemos, in politica si «deve andare dritti per una strada», senza «confondere l’elettorato» e le persone a cui si chiede il voto.

Approfondendo la sua visione per il futuro di Podemos, Iglesias ha specificato che il partito si trova in una fase storica in cui deve «essere trasversale», senza però «normalizzarsi», senza «parlare alla stregua della politica di sempre», bensì «continuando a seguire la società civile». Per Iglesias è «una questione di coerenza».

Parlando delle trasformazioni politiche del sistema spagnolo, il leader di Podemos ha sottolineato che, sulla scia dei movimenti del 15-M (abbreviazione che indica una serie di proteste civili nate il 15 maggio del 2011 e che hanno dato vita a un vero e proprio movimento civile e politico, ndr.), è in corso una «trasformazione del sistema partitico» e del «linguaggio» richiesto dalla classe popolare e media. Allo stesso modo, secondo Iglesias, sta avvenendo un cambiamento di preferenze politiche a livello generazionale: «Non è casuale che Podemos sia una forza maggioritaria tra i under 45 e nei territori più sviluppati», per esempio nelle città.

Ma come si arriva al potere per realizzare il cambiamento? Iglesias sostiene che, in futuro, l’unica prospettiva realistica è quella di «trovare un’intesa con il Psoe». Ma cosa cambia rispetto alla posizione di Errejón allora? Che sta al Partito socialista, in primo luogo, cambiare il suo atteggiamento e il suo modo di fare politica. In altri termini, non è Podemos che deve diventare una sorta di «Psoe 2.0».

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La giornataccia di Berdini. Che resta solo perché Raggi non sa con chi sostituirlo

October 10, 2016 - Rome, Italy, Italy - Paolo Berdini, City Planning commissioner of Rome during the presentation of the book '' Del Governo Della Città'' of Paolo Ciofi , the theme of the city Of Rome politics and policies. (Credit Image: © Andrea Ronchini/Pacific Press via ZUMA Wire)

Anche quando sembrava finita, la giornata era in realtà ancora lunga. Perché l’audio di quello che per il cronista della Stampa era un colloquio e per Berdini, invece, solo una conversazione origliata, è stato diffuso dal giornale dopo che Virginia Raggi, apprezzandone «il capo cosparso di cenere», nel tardo pomeriggio aveva respinto con riserva le dimissioni dell’assessore all’Urbanistica, che dunque sarebbe restato in carica ma come osservato speciale. Scriviamo sarebbe, perché dopo la pubblicazione dell’audio, dopo che Virginia Raggi ha potuto sentire con le sue orecchie le parole di Berdini, la riserva sembra invece diventata solo una questione di tempo. Il tempo di trovare un valido sostituto.

Perché l’audio dà ragione al cronista, sì, che non ha quindi origliato e riportato come fosse un’intervista una conversazione tra Berdini e due amici, come ha detto invece l’assessore, nel tentativo di smorzare la polemica. Berdini e Federico Capurso hanno parlato e Berdini ha detto ciò che Capurso ha riportato sull’impreparazione di Virginia Raggi, sul rapporto tra la sindaca e Romeo, sulla pericolosità del “raggio magico”. Anzi. Raggiunto telefonicamente a L’Aria che tira, il cronista de La Stampa, ha spiegato di aver «anche alleggerito» alcune affermazioni: «non aveva parlato solo di “banda”» dice Capurso, «aveva detto “banda di assassini”…».

E quindi sembra così poco, di colpo, ciò che Berdini andava dicendo nel pomeriggio di mercoledì («Sono stato un cretino», dice a Left) e che aveva convinto Raggi a respingere con riserva le sue dimissioni. «Berdini si è scusato, si è presentato con la cenere in capo e i ceci sotto le ginocchia, era mortificato per ciò che ha detto, non voleva dire quelle parole e non le pensa». Così ha detto Virginia Raggi in un primo momento. Ma l’audio cambia le cose. Perché è vero che Berdini può sempre sostenere che non pensava di esser registrato, dire che mai avrebbe voluto render pubblico il suo sfogo, che aveva già fatto con altri giornalisti e conoscenti, ed è vero anche che le considerazione sulla “banda”, sullo strapotere di Marra e Romeo, «Berdini le ha sempre dette, persino in giunta» – come ricorda l’ex assessore ai Rifiuti Paola Muraro, intervistata dal Messaggero. Ma le parole involontariamente (o meglio con colpevole leggerezza) consegnate alla Stampa sono gravi, il giudizio inclemente, pesanti le allusioni alla vita privata e sentimentale della sindaca.

Non è un mistero ciò che Berdini pensi di Raggi e i suoi, ma sentire la viva voce fa un altro effetto, non è come leggere – come è successo finora – retroscena con anonimi “malumori in giunta”, che si sapeva benissimo da chi filtravano ma restavano appunto retroscena. Che calzavano a pennello a Berdini ma che restavano senza firma. Ora la firma c’è.
E con una trivialità che rende difficile a Raggi sopportare ancora Berdini, un assessore peraltro che già sembrava azzoppato. Anche perché coerente con un Movimento che forse, almeno a Roma, non esiste più.

Berdini, per dire, era stato scelto anche perché, da urbanista, era uno dei più fieri oppositori dello stadio della Roma (se costruito a Tor di Valle, e usato come pretesto per edificare praticamente un nuovo quartiere). Il Movimento, però, ha col tempo cambiato opinione. E se Berdini sarebbe pronto ora ad accontentarsi dell’idea di ottenere il taglio un po’ di cubature extra – se l’opera non si può più fermare – oggi la sua posizione è ulteriormente indebolita. Ora che si è messo sulla graticola ancora più forte è chi nel Movimento vuole invece far contenti Parnasi, Pallotta e soprattutto Francesco Totti, che certo ne approfitteranno e certo ringraziano per l’attenzione che la stampa sta dedicando da mesi all’assessore all’Urbanistica, dipinto come un trinarciuto nemico degli investimenti (“Senza Berdini lo stadio è più vicino”, titola oggi il Tempo). E restare in giunta così, in effetti – anche se le partite da gestire sono tante e diverse (ci sono gli sfratti, gli appalti o i piani di zona, per dire) – rischia di servire a poco.

«Se non hanno più pane, che giochino a golf»

Il ministro dello Sport, Luca Lotti, durante la cerimonia di consegna dei Collari d'oro al Coni, Roma, 19 dicembre 2016. ANSA/FABIO CAMPANA

Niente, non ce la fanno. Ci siamo anche dovuti ricordare che Luca Lotti è ministro ascoltandolo ieri mentre frignava per convincerci che la Ryder Cup (il torneo internazionale di golf che è già costato 60 milioni di euro inseriti nella legge di Bilancio del novembre scorso e che ne prevedeva altri 97 in un emendamento inserito nel Decreto Salva Banche in discussione in questi giorni) rischia di saltare per colpa, dice Lotti, di “quelli che già in passato hanno gioito per altre significative rinunce” riferendosi al M5S che ha sollevato il caso.

E fa niente se è stato il presidente del Senato Grasso (suo compagno di partito) a dichiarare l’emendamento irricevibile: in effetti cosa c’entri il golf con il decreto “salva banche” (già orripilante di suo senza bisogno di tanti aiutini) sfugge a molti. Un emendamento che del resto fotografa perfettamente l’insopportabile protervia di un governo che si crede furbo nello sperare di non essere scoperto: la marchetta Ryder Cup hanno provato a inserirla nella legge di Bilancio (oltre ai 60 milioni già detti) ma è stato stralciato durante il lavoro in Commissione (sarebbe stato l’ultimo atto del governo Renzi, non proprio una genialata, eh); poi ci riprovano con il Decreto Fiscale ma gli va male; nel decreto “salva banche” riesce a passare indenne in Commissione ma ora si ferma di fronte a Grasso. Quando la perseveranza diventa diabolica si chiama impunità.

Dice Lotti che l’evento porterebbe almeno 400 milioni di euro tra guadagni diretti e indiretti ma se qualcuno gli fa notare che la questione non è la Ryder Cup ma il losco atteggiamento di chi vorrebbe fare lo scaltro simulando trasparenza ha risposto: «Oggi in Senato il presidente Grasso non ha bocciato l’emendamento nel merito, e questo in molti fanno finta di non capirlo». Che vuol dire, sappiatelo, che ci riproverà nel prossimo Milleproroghe. Perché ormai è una questione personale, per lui. Mica per il golf. Una sfida personale. Come quell’altro.

Buon giovedì.

Due anni di governo Tsipras. Nefeloudis: «Vi racconto cosa abbiamo provato a fare»

epa05756334 Greek's Prime Minister Alexis Tsipras (R) is welcomed by his Portuguese counterpart Antonio Costa (L) at the arrival for the second summit of the European Union Southern Countries held at Belem Cultural Center in Lisbon Portugal, 28 January 2017. The heads of state and Government of Cyprus, Spain, France, Greece, Italy, Portugal and Malta, are taking part in the second summit of the European Union Southern Countries seeking common politics to migration, economic growth, investment and convergence, security and defense. EPA/JOAO RELVAS

Lavoro e welfare. Cosa insegna l’esperienza greca? Ne discutiamo con Andreas Nefeloudis, segretario generale del ministero del Lavoro greco. Economista, nel novembre del 1974, appena maggiorenne è stato incarcerato dai Colonnelli nella terribile isola deserta di Gyaros per via della sua partecipazione nel coordinamento dell’occupazione del Politecnico di Atene, occupazione repressa con l’invasione dei carri armati. Nefeloudis ha seguito tutte le avventure e disavventure del comunismo democratico greco, dopo la dissoluzione del Partito Comunista, da Synaspismos fino a Syriza.

Il 25 gennaio 2015 Syriza e Alexis Tsipras vincevano le elezioni in Grecia. Cosa ha trovato Syriza quando siete arrivati al governo?
Quasi 200mila persone prendevano uno stipendio sotto ai 100 euro al mese, il mercato del lavoro era messo molto male, decine di migliaia di lavoratori rimanevano ancorati ad aziende chiuse ma non andate in fallimento in maniera da continuare a ricevere il sussidio di disoccupazione. C’erano persone che dopo 20 mesi senza stipendio e senza reddito non potevano avevano diritto al sussidio, il lavoro nero era arrivato a quota 20%, la disoccupazione ufficiale al 30% e  grazie alla deregolamentazione completa i contratti a livello aziendale superavano quelli di categoria, per non parlare dell’abolizione dei contratti nazionali. Ogni datore di lavoro poteva denunciare gli accordi della sua categoria e disconoscere i relativi contratti. Per la prima volta in Grecia il ministro del Lavoro poteva decidere il livello di salario minimo senza consultazione o trattative tra le parti. Così i ministri del Lavoro di Pasok e Nuova Democrazia ne hanno approfittato per abbassarli in nome della “competitività” dell’economia greca. Intanto più di 2 milioni di greci erano rimasti senza assistenza sanitaria. In quegli anni, insomma, l’onda lunga delle politiche neoliberiste avviate negli anni 90 si è infranta sulla Grecia.

Da dove ha cominciato Syriza?
Per prima cosa abbiamo aperto le porte del ministero del Lavoro e del governo ai lavoratori, abbiamo imposto alle istituzioni di confrontarsi con le parti durante le trattative (già dall’accordo che abbiamo firmato a luglio 2015), gli stipendi devono essere il risultato della contrattazione tra lavoratori e imprenditori, non possono essere stabiliti per decreto governativo. Oggi non solo vogliamo ripristinare la contrattazione collettiva ma garantirla e per questo abbiamo formulato la nostro proposta di riforma costituzionale. La proposta di Alexis Tsipras prevede che la contrattazione collettiva e il salario minimo siano obbligatoriamente garantiti dalla contrattazione delle due parti.

La Grecia ha ancora un tasso occupazionale tra i peggiori dell’Ue, e quasi la metà della popolazione giovanile è disoccupata (48,3%). Sulle politiche del lavoro, quanto è cambiato in questi due anni?
Sì, la disoccupazione in Grecia è altissima al 22,8%, e non siamo certo fieri se ancora un greco su quattro non ha un lavoro dignitoso. Ma quando Syriza ha preso il governo sfiorava il 30%. Perciò abbiamo abbassato la soglia della disoccupazione, con più di 100mila posti di lavoro veri nel 2016.

Quali interventi siete riusciti a portare a termine?
Sapevi che in Grecia esistono due salari minimi? È un precedente che non esiste né in Europa né in nessun’altra parte, che stravolge ogni concetto di legalità e di giustizia sociale. Abbiamo un salario minimo di 586 euro per quelli che hanno più di 25 anni e un altro salario minimo per quelli che ne hanno di meno, che ammonta a 492 euro lordi. Una cosa inaudita, anticostituzionale, contro i diritti e fuori del buon senso. Noi prepariamo la abolizione di salario minimo per i giovani basandoci sui principi fondamentali di giustizia e di eguaglianza. La nostra è una grande battaglia aperta contro lo sfruttamento dei giovani, abbiamo intensificato i controlli e prepariamo una nuova legge per garantire loro diritti nei luoghi di lavoro, prevedendo anche severe sanzioni contro le imprese che utilizzano il lavoro nero.

A inizio settimana, l’Esm ha dato il via libera per l’alleggerimento del debito greco del 20%. Intanto, la ministra del Lavoro Efi Axtsioglou ha definito «inaccettabili» le richieste dell’Fmi sulle questioni del mercato del lavoro. Perché sono inaccettabili?
Il Fondo monetario internazionale vuole la completa liberalizzazione dei licenziamenti collettivi in Grecia, vuole che ogni datore di lavoro in Grecia possa licenziare quando e come vuole senza il minimo obbligo di controllo da parte delle istituzioni pubbliche. L’Fmi insiste per la completa deregolamentazione delle relazioni di lavoro, la liberalizzazione del mercato del lavoro e l’abolizione di tutta la rete di protezione delle libertà sindacali. Le sue proposte, deve esser chiaro, non possono essere accettate dalla società e dal governo greco. Su queste questioni il Fmi deve cambiare rotta. Per ciò che riguarda i licenziamenti collettivi noi proponiamo che resti la legislazione protettiva che abbiamo oggi, che è simile a molte altre in Europa. Il Tribunale Europeo ha dato ragione al nostro governo che insiste che deve esistere un’autorità pubblica che controlla i licenziamenti collettivi. Intanto, cerchiamo di creare una rete di alleanze in Europa per poter rivendicare e garantire i nostri diritti.

E Schäuble ha aperto alla possibilità di un intervento solo europeo – «L’Fmi non è fondamentale per salvare la Grecia», ha detto. È plausibile una soluzione alla Schäuble?
La proposta di Schäuble sembra anche una trappola, perché dice che nel caso che il Fmi non dovesse partecipare al programma della Grecia, sarebbe l’Esm ad assumersi la responsabilità dell’intervento, dopo un nuovo accordo e nuove misure di austerità. Due ipotesi che non potremmo accettare.

La ministra del Lavoro Efi Axtsioglou ha detto: «Abbiamo già avuto un surplus che ci ha dato l’opportunità di concedere dei benefici sociali». Quali forme di reddito minimo e quali misure di contrasto alla povertà avete introdotto?
Efi Axtsiogliou dice bene. Quello che abbiamo già fatto è stato dare la cosiddetta tredicesima a certe categorie di pensionati, a quelli con pensioni sotto gli 800 euro, restituendo a livello materiale e simbolico tutti i tagli che siamo stati costretti a fare alle pensioni. Mi spiego meglio: nel biennio 2016-2017 abbiamo tagliato 584 milioni di euro dalle pensioni più alte e con questa misura abbiamo dato ai pensionati 630 milioni, potendo restituire alle persone con le pensioni basse molto di più del taglio complessivo, nel dicembre del 2016. La nuova finanziaria per il 2017 prevede il sussidio sociale contro la povertà, già sperimentato in 30 comuni. Questa misura prevede un sussidio di 200 euro per ogni persona senza reddito o con redditi bassi, rilanciando con nuove forme i provvedimenti della prima legge del governo di Syriza, la cosiddetta “Legge contro la crisi umanitaria”. Adesso, con la finanziaria 2017, le persone che hanno bisogno potranno avere un sostegno per pagare l’affitto, corrente elettrica e acqua gratuita, tessera di trasporti gratuita per i disoccupati, tessera sociale per prendere alimenti di prima necessità dai supermercati e fondi per i vari sussidi famigliari. Non siamo stati fermi nemmeno un giorno nel combattere impoverimento e povertà, cerchiamo di allargare e migliorare servizi e aiuti materiali. Posso dire che il nostro governo è orgoglioso di non aver lasciato nemmeno una persona del nostro Paese senza assistenza sanitaria, compresi gli immigrati e i profughi.

Quello che in Grecia già puzza di vecchio, in Italia è nel fior fiore della gioventù: deregolamentazione, voucher, licenziamenti… come la vedete da Atene?
Il referendum contro i voucher in Italia mi sembra una grande vittoria del movimento sindacale, 3,3 milioni di firme raccolte sono un numero impressionante. Ed è una buona occasione per dirsi contrari alla sostituzione del lavoro vero con un atipico voucher. Il nostro governo non ha avuto il minimo dubbio e nella sua strategia intende abolire i voucher imposti dall’Europa. I governi europei – specialmente quelli con alti tassi di disoccupazione o di orientamento progressista – anche se sono costretti a sopportarli, devono stare molto attenti nell’applicare misure di deregolamentazione del lavoro, anzi devono spingere per l’abolizione dei voucher nel mercato di lavoro. In Grecia, intanto, su iniziativa delle nostra ministra del Lavoro, abbiamo abolito i voucher nei programmi del ministero e per qualsiasi cosa siamo in diretto contatto con i disoccupati. Il voucher non può sostituire né il salario minimo, né il lavoro occasionale. L’unica risposta alla disoccupazione è un lavoro vero, dignitoso, protetto e garantito per far prosperare le famiglie, la società e i nostri Paesi. Il governo di Alexis Tsipras in Grecia lavora in questa direzione.

Cosa pensa veramente Berdini di Virginia Raggi

L'assessore all'Urbanistica e infrastrutture del comune di Roma Paolo Berdini al termine dell'audizione in commissione parlamentare di inchiesta sulle condizioni di sicurezza e sullo stato di degrado delle citt?? e delle loro periferie, Roma, 07 febbraio 2017. ANSA/ANGELO CARCONI

«Smentisco di aver mai conosciuto questo ragazzo, che si è avvicinato a un gruppo di amici che, come succede a tutti noi, parlano delle loro cose». E quindi parlano liberamente. Così Paolo Berdini, assessore all’Urbanistica del comune di Roma, smentisce il colloquio pubblicato invece da La Stampa e subito finito in cima a tutte le rassegne stampa, in apertura di tutti i siti. «Questo mascalzone», dice, «ha registrato un colloquio che ovviamente è privato. La Stampa non ha fatto alcuna intervista: io d’altronde sono mesi che non ne faccio». «Mascalzone», «piccolo delinquente», «disgraziato». Berdini non nasconde la rabbia e, anche se poi parla di «una professione meravigliosa», non risparmia gli insulti al cronista, il collega Federico Capurso, che però sarebbe colpevole solo di aver lasciato intendere che le frasi di Berdini gli fossero state concesse per la pubblicazione, quando invece si tratterebbe di una conversazione origliata, di cui certo si potevano rendere noti i contenuti, indiscutibilmente rilevanti, rendendoli però nel loro contesto originale.

La Stampa ha confermato i virgolettati con questa nota: «Questa mattina», scrive il giornale, «l’assessore del Comune di Roma Paolo Berdini ha smentito di aver rilasciato delle dichiarazioni al nostro giornale sulla giunta di Virginia Raggi. La Stampa conferma parola per parola il colloquio con l’assessore Berdini pubblicato nell’edizione odierna a firma del giornalista Federico Capurso. Se umanamente si può comprendere l’imbarazzo dell’assessore, questo comunque non giustifica in alcun modo gli inaccettabili giudizi che Berdini ha pronunciato sul collega per cercare di smentire quanto riferito».

Origliato o no, certo è che quando Berdini dice della giunta Raggi è rilevante. Un giudizio che Berdini conferma, peraltro, nella smentita, pur aggiustando il tiro. E se questo è quello che scrive Capurso: «Intorno a lei una banda, una corte dei miracoli. È stato fatto un errore dopo l’altro. I grand commis dello Stato, che devo frequentare per dovere, lo vedono che è impreparata. Ma impreparata strutturalmente, non per gli anni. Se vai, per dirne una, a un tavolo pubblico dici che sei sindaco di Roma spiazzi tutti. Lei invece…». Berdini ai microfoni di Rainews24 spiega meglio: «Sono cose che ho già detto. L’impreparazione di cui parlo è però di tutti noi assessori, di tutta la macchina. Anche mia, perché anche io, che come voi sapete conosco molto bene la mia città, non sapevo, non immaginavo il baratro che invece ho trovato. Il fatto che io abbia detto a tre miei amici che la giunta Raggi è impreparata lo posso confermare, ma perché questa città è messa in ginocchio e io, come tutti i miei colleghi di giunta, non pensavo fossimo arrivati a questo punto del baratro».

La verità, probabilmente, è nel mezzo. Chi conosce Berdini e più volte ci ha parlato sa che l’assessore ha un giudizio molto severo sui primi mesi della giunta Raggi. Pubblicamente, Berdini, ha peraltro chiesto un passo indietro di Marra e Romeo ben prima che arrivassero l’arresto del primo e le polizze del secondo. Berdini si è sempre detto incredulo, tra mille sospiri, come infatti scrive il cronista de La Stampa, rispetto alla scelta di Raggi di farsi blindare da un mondo così vicino alla destra romana, ha sempre anche cercato una ragione che non fosse solo politica (oggi La Stampa gli attribuisce dubbi su una relazione tra Romeo e Raggi: lui però smentisce quel passaggio), e si è sempre lamentato della «banda» che circonda la sindaca, come d’altronde fanno rappresentati anche ufficiali del Movimento – a cui Berdini non è iscritto.

Non dice, Berdini, cose così diverse, per dire, da quelle che dice Roberta Lombardi, deputata 5 stelle. Però Berdini pensa che l’amministrazione Raggi possa ancora ingranare. E, soprattutto, si accontenta di poter fare il suo, di poter lavorare sullo scandalo dei piani di zona, ad esempio, una delle più grandi speculazioni della Capitale, fatta sulla pelle di migliaia di famiglie che avevano diritto a comprare immobili di nuova costruzione a prezzi calmierati e che invece sono state truffate e oggi rischiano lo sfratto.

Anche se la visione è stata spesso diversa da quella della sindaca, Berdini non si è mai lamentato. «Io ho detto la mia poi la sindaca ha deciso diversamente ma è giusto così: l’ultima parola è la sua», diceva ad esempio, vantandosi di non aver ricevuto alcuna consegna del silenzio, quando Raggi ha detto No alla candidatura olimpica, mentre lui proponeva di rivedere il progetto puntando sui tram e sulla riqualificazione di impianti sportivi già esistenti, per non rinunciare ai molti fondi. Anche sullo Stadio, Berdini è su una posizione più contraria di quella della sindaca, tentata invece dal dare ragione ai tifosi della Roma. Berdini anche lì ha dovuto registrare la sostanziale volontà di fare lo stadio e oggi si dice convinto però che il suo lavoro sarà almeno servito a strappare un taglio di cubature, di quelle non direttamente collegate allo stadio e che sono però il vero interesse dei costruttori, rispetto a un progetto su cui la giunta Marino ha già comunque impegnato il Comune.

Per questo Berdini ha sempre detto di non voler lasciare. E lo dice anche questa mattina («Stai parlando con un cretino», dice a noi, «ho sbagliato, non mi sono accorto e così le cose sono uscite ingigantite rispetto a quello che ho sempre detto») quando le opposizioni, invece, gli chiedono di esser conseguente e dimettersi e quando i più vedono nell’uscita su La Stampa l’assist perfetto per farsi allontanare e non mettere la sua firma sul progetto dello stadio. Per la giunta Raggi però sarebbe l’ennesimo addio, peraltro di un assessore che “copre” a sinistra, con Luca Bergamo, assessore alla Cultura, una giunta altrimenti schiacciata a destra dall’ombra di Marra.

«La Brexit potrebbe avere effetti dirompenti sul sistema finanzario Ue»

epaselect epa05768060 British Prime Minister Theresa May (3-R) during an informal summit meeting of EU leaders in Valletta, Malta, 03 February 2017. The European Union (EU) leaders will address the migration situation, focusing on the Central Mediterranean route and Libya, and are set to discuss the future of the EU after Brexit. EPA/DOMENIC AQUILINA

Secondo il nuovo “policy paper” del think tank Bruegel, la Brexit potrebbe avere effetti dirompenti sulla struttura del sistema finanziario europeo.

Gli autori dello studio – André Sapir, Dirk Schoenmaker e Nicolas Véron – scrivono che lo spostamento del baricentro finanziario da Londra all’Europa continentale potrebbe provocare una perdita di 30mila posti lavoro nella City. Ma oltre a indicare i costi per il Regno Unito, l’analisi mette l’accento anche sui rischi per l’Unione europea.

Il pericolo più grande per l’Europa è legato alla possibilità che si scateni una competizione al ribasso, in termini di regolamentazione, tra alcune metropoli del Continente – nello specifico, Amsterdam, Dublino, Francoforte, Parigi vengono citate come le papabili alternative a Londra. L’obiettivo? Accaparrarsi il titolo di nuovo centro finanziario europeo. Il documento di Sapir, Schoenmaker e Véron presenta quindi delle policy per affrontare lo scenario critico.

In primo luogo, andrebbe rafforzata la supervisione finanziaria dell’Ue (fino ad oggi, volente o nolente, l’Ue si è affidata molto al controllo esercitato dalle autorità britanniche sulla City) tramite l’Esma (l’Autorità europea degli strumenti finanziai e dei mercati), fondata nel 2011 e con sede a Parigi.

In secondo luogo, va rinforzata l’Unione bancaria con schemi che definiscano la condivisione del rischio per l’Eurozona legata ai depositi bancari. In sintesi, la risposta all’uscita della City dall’Ue deve essere una maggiore integrazione finanziaria tra i diversi Paesi Ue.

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Regno UnitoTheGuardian – Il Parlamento boccia gli emendamenti del Labour. Oggi si vota per l’ultima volta sull’articolo 50 nella Camera bassa. Poi il testo passa alla Camera dei Lord. Intanto il Labour rischia la spaccatura definitiva

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SpagnaElPais – Podemos si conferma secondo partito dietro ai Popolari nonostante lo scontro interno tra Iglesias e Errejón. Il Partito socialista è in leggero recupero 

GreciaDie Welt Una comunicazione procedurale del Bundestag tedesco smentisce Schäuble: «L’uscita del Fondo monetario internazionale dal programma di bailout non comporterebbe un voto del Parlamento sul piano di salvataggio»

 

 

Lo schiaffo di Trump ai Sioux: l’oleodotto si farà

epa05606383 A handout picture made available by the Morton County Sheriff's Department shows protesters holding placards during a demonstration against the North Dakota oil pipeline project, along the Dakota Access Pipeline construction site, in Morton County, North Dakota, USA, 27 October 2016. EPA/MORTON COUNTY SHERIFF'S DEPARTMENT / HANDOUT -- BEST QUALITY AVAILABLE -- HANDOUT EDITORIAL USE ONLY/NO SALES

Una nuova giornata di montagne russe per la democrazia americana. Quanto sta succedendo è un attacco ai contropoteri americani: media e sistema giudiziario. E un uso delle regole che tende a silenziare il dissenso e sfidare la protesta. Ovvero un restringimento degli spazi democratici contro il quale i repubblicani non sembrano volersi ribellare. L’ultima notizia, in ordine di tempo, è che l’amministrazione ha dato il via libera all’oleodotto contestato dai Sioux e da tutte le tribù native americane con lunghi presidi al freddo di Standing Rock, nel Nord Dakota.
Il progetto attraversa quattro Stati e trasporterà il greggio dai giacimenti del Dakota alle reti di gasdotti e raffinerie nel Midwest. Gli oppositori hanno ribadito molte volte come questo sia dannoso per l’ambiente. Le tribù invece ricordano come quelli siano per loro terreni sacri. Immaginate un po’ che succederebbe se si decidesse di far passare un oleodotto per Gerusalemme. Aspettiamoci battaglie giudiziarie e una resistenza molto dura da parte dei nativi e degli ambientalisti. Una marcia su Washington è già stata convocata per il 10 marzo.

 

La seconda notizia è che, utilizzando una norma procedurale mai usata o quasi, il leader della maggioranza in Senato, Mitch McConnell, ha fatto togliere la parola alla senatrice del Massachussetts Elizabeth Warren. La paladina dell’ala liberal del partito stava parlando durante una maratona oratoria pensata per rallentare il processo di conferma del Segretario alla Giustizia Jeff Sessions, noto per le aver lavorato per disincentivare il voto afroamericano in Alabama, dove è stato Procuratore generale. Warren stava leggendo una lettera di Coretta Scott King, la vedova di Marthin Luther, che, nel 1986, chiedeva che Sessions non venisse confermato giudice federale – la nomina venne bocciata all’epoca. King scriveva: «Sessions ha utilizzato il suo ruolo istituzionale per frenare il libero esercizio di voto da parte dei cittadini neri». In precedenza, Warren ha letto anche le parole di Ted Kennedy, suo predecessore e membro del comitato che bocciò Sessions definito dal senatore «una vergogna per il Dipartimento di Giustizia che dovrebbe ritirare la sua nomina e dimettersi». La regola usata da McConnell indica che un senatore non può «imputare ad altri senatori comportamenti indegni o disdicevoli». McConnell ha detto: «Era stata avvisata, le è stata data una spiegazione ha insistito», diventato immediatamente uno slogan sui social network. A Warren è stata tolta la parola e lei, è uscita dall’aula e ha letto la lettera su facebook (il video qui sotto): visto da tre milioni di persone in poche ore. McConnell ha insomma elevato Warren alla faccia dell’opposizione a Trump.

Terza notizia: il Senato ha confermato l’improbabile nomina di Betsy DeVos a Segretario all’istruzione, con due voti contrari di senatori repubblicani e il voto determinante del vicepresidente Mike Pence. È la prima volta che succede per una nomina che il vice esprima il suo voto – che è quello determinante quando il Senato è diviso esattamente a metà. DeVos è impreparata come pochi al compito, ha una preferenza ideologica per le scuole private e, durante le audizioni, ha sostenuto che non si devono bandire le armi dalle scuole, utilizzando come spiegazione «In Wyoming potrebbero doversi difendere da un grizzlie».

Oggi è attesa la sentenza del tribunale che deve dirimere la questione dell’ordine esecutivo che vieta l’ingresso negli Stati Uniti ai musulmani di sette Paesi. L’amministrazione ha infatti portato in appello la sentenza del giudice di Seattle che lo invalidava. Se il tribunale dovesse decidere contro l’ordine di Trump, aspettiamoci un diluvio di tweet contro i giudici e i media. Ieri, i mezzi di informazioni sono stati presi di mira perché non raccontano di attentati perpetrati da musulmani nel mondo. L’amministrazione ha fornito un elenco di episodi mal riportati dai media. Ora, a parte che l’elenco è pieno di errori di grammatica, come nota Dana Milbank nella sua colonna, si tratta di una lista fuorviante: molti degli attentati sono finiti per giorni in prima pagina, altri non sono attentati terroristici. Nessuno vede vittime musulmane, che notoriamente sono la maggior parte dei morti negli attentati terribili che capitano in Iraq, Afghanistan, Siria.

Altre azioni dell’amministrazione in questa direzione prenderebbero troppe righe per essere ricostruite, ma gli elementi sono diversi, specie in materia di restringimento del diritto di voto. Poi c’è la politica estera da incubo. L’amministrazione Trump non ha ancora compiuto un mese.

Buona Scuola, attenzione alle 8 deleghe di cui i giornali non parlano

Bologna, 9 ottobre 2015, manifestazione degli studenti contro la Buona scuola

Non c’è solo la lettera dei 600 docenti universitari a tenere alta l’attenzione sulla scuola. C’è un altro tema molto più importante che nei giornali non appare: le otto deleghe della legge 107 (cosiddetta “Buona scuola”) che il Governo ha inviato al Parlamento. Entro il 17 marzo diventeranno attuative. In questi giorni si alternano le audizioni di sindacati e associazione in Commissione Cultura e Istruzione. In ballo ci sono temi come la formazione professionale, la scuola dell’infanzia, la valutazione, la formazione dell’insegnante, insomma i pilastri dell’istruzione. Sull’argomento abbiamo ricevuto il contributo di Bruno Moretto del Comitato bolognese Scuola e Costituzione, che pubblichiamo.

In base ai commi 180 e seguenti della legge 107, entrata in vigore il 16 luglio 2015, il governo doveva emanare entro 18 mesi 9 decreti applicativi delle deleghe contenute. Già allora forti furono le critiche per questa eccessiva delegificazione che dava carta bianca al governo su temi importantissimi. Dopo un lungo silenzio, il 14 gennaio 2017 il Consiglio dei ministri ha approvato 8 decreti applicativi che sono stati trasmessi alla Camera dei deputati per il previsto parere in data 16 gennaio.

In questi giorni le commissioni di Camera e Senato si stanno riunendo per iniziare la valutazione. Alla Camera si stanno svolgendo audizioni “informali” con associazioni e sindacati. Resta il fatto che ai sensi della legge i provvedimenti dovevano esser adottati e non semplicemente trasmessi alle camere entro tale data.

Questo modo di procedere, che conferma quello sempre tenuto dal Governo Renzi, oltre che illegittimo, mette le Commissioni parlamentari nella condizione di dovere esprimere i pareri su materie molto complesse entro soli 60 giorni.
Per di più ad ora non risulta pervenuto il prescritto parere della Conferenza Stato Regioni, necessario visto che sul sistema 0-6, sulla riforma dell’istruzione professionale, sul diritto allo studio, le Regioni hanno competenze legislative in alcuni casi esclusive e in altri concorrenti.

Innanzitutto va evidenziato che i decreti sono tutti a costo zero a parte quello sul sistema integrato 0-6, che elargisce altri 200 milioni ai servizi educativi e scuole paritarie private. E’ gravissimo che non vengano individuati investimenti sul diritto allo studio il cui esercizio è stato fortemente compresso in questi anni di crisi, tanto che sono diminuite le iscrizioni sia alla scuola dell’infanzia che all’Università.
In generale il contenuto della maggioranza dei decreti è molto pericoloso perché determinerebbe un ulteriore dequalificazione del sistema scolastico e una compressione di diritti fondamentali.

Il sostegno ai disabili? «Una presa in giro»
Scrive la federazione italiana per il superamento dell’handicap (Fish) sul decreto sull’inclusione: «Temi come quelli della continuità scolastica, della garanzia di sostegno adeguato, della formazione dei docenti, della qualità scolastica, della corretta valutazione delle necessità e delle potenzialità degli alunni con disabilità, della programmazione sostenibile e congruente, della rivisitazione intelligente di ruoli, competenze, responsabilità sono – in tutta evidenza – tradite e, a tratti, irrise. In termini ancora più schietti: una presa in giro!»

Fondi alle private: un provvedimento che viola la Costituzione
Scrive Il Comitato bolognese scuola e Costituzione nella sua memoria alle commissioni sul sistema integrato 0-6: «Tale impostazione di fondo di mettere sullo stesso piano scuole statali fondate sulla libertà di insegnamento e gratuite e servizi scolastici gestiti da enti pubblici e privati e a pagamento configura questo provvedimento come una palese violazione dell’art. 33 c.2 della Costituzione che vieta oneri per lo Stato a favore delle scuole e istituti di educazione di Enti e privati, arrivando a prevedere finanziamenti per la costruzione di nuovi edifici, ristrutturazioni edilizie, spese di gestione e formazione del personale». Con la conseguenza di superare anche la legge di parità n. 62/2000 .

“Costo zero” uguale efficacia zero
Scrive Tomasi Montanari sul decreto sulla cultura umanistica: «Sul piano pratico, la principale obiezione al decreto (che tra 60 giorni sarà legge) è che si tratta di un provvedimento a costo zero (art. 17, comma 1): e dunque anche a probabile efficacia zero. Ma, una volta che se ne considerino i contenuti, c’è da rallegrarsene. L’articolo 1 chiarisce i principi e le finalità del provvedimento: “il sapere artistico è garantito agli alunni e agli studenti come espressione della cultura umanistica… Per assicurare l’acquisizione delle competenze relative alla conoscenza del patrimonio culturale e del valore del Made in Italy, le istituzioni scolastiche sostengono lo sviluppo della creatività. Cultura umanistica, creatività e Made in Italy (in inglese) sarebbero dunque sinonimi: per conoscere il patrimonio culturale, la Ferrari e il parmigiano (tutto sullo stesso piano) bisogna essere creativi».

Studenti pronti ad azioni di protesta nelle scuole
Scrivono gli studenti di Link sul decreto sul diritto allo studio: «Ancora assente una legge nazionale sul diritto allo studio: gli studenti non sono stati ascoltati. …, proibitive però le norme che introducono le Iinvalsi come criterio di ammissione all’esame e accesso all’università. Apprendistato dal secondo anno delle scuole secondarie superiori, nuova forma di sfruttamento. Studenti pronti ad azioni di protesta nelle scuole».

Nessun coinvolgimento del mondo della scuola
Anche i provvedimenti di delega, come già fu per la legge 107, sono stati prodotti senza alcun coinvolgimento del mondo della scuola e finiranno per peggiorare ulteriormente il funzionamento del sistema scolastico, già messo in crisi dal primo anno di applicazione della legge, che la nostra Costituzione ha visto a garanzia dei diritti di uguaglianza e solidarietà di tutte le cittadine e cittadini. Bisogna assolutamente creare un forte mobilitazione per chiedere il ritiro di tali provvedimenti e una nuova legge delega che preveda tempi distesi per l’elaborazione di riforme cruciali per la nostra scuola.
Bruno Moretto, Comitato bolognese scuola e Costituzione

 

Il Comitato ha inviato alle commissioni istruzione della Camera e del Senato due memorie, una sul decreto n. 380 “Sistema integrato di educazione e istruzione dalla nascita sino a 6 anni” e l’altra sul decreto n. 384 “Valutazione e certificazione delle competenze nel primo ciclo ed esami di Stato” che sono reperibili sul sito www.scuolaecostituzione.it