Quando nel 2016 decisi di dedicare un mio progetto discografico ad Abbey Lincoln andai a documentarmi su quanti altri album fossero stati riservati a questa grande artista e con mio sommo stupore realizzai che il mio sarebbe stato il secondo nel mondo e mi chiesi perché, nonostante la straordinaria carriera, le importanti collaborazioni, la statura da eccellente interprete, Abbey Lincoln non fosse ancora riconosciuta come figura di riferimento all’interno del jazz internazionale, almeno non abbastanza per essere oggetto di studio e di omaggio discografico o editoriale.
Ho sempre amato la sua musica, ho tanti suoi Cd, ma la scintilla fu quando vidi il bellissimo docufilm Jazzwomen realizzato da Gabriella Morandi. Ricordo di averlo mancato alla proiezione romana e di essere andata fino a Terni per vederlo, chissà, forse in maniera non cosciente stavo cercando qualcosa, e infatti lì tra tutte le artiste intervistate rimasi folgorata soprattutto da lei, da Abbey.
Abbey Lincoln, l’arte e l’impegno
Se l’Italia avesse davvero processato il fascismo
Il 25 luglio 1946, in una città devastata dall’afa e dalla guerra appena conclusa, con cumuli di macerie che ancora segnano molti quartieri, si apre, presso il palazzo di Giustizia, il noto Processo di Milano (1). A Norimberga e a Tokyo sono in corso i procedimenti a carico dei principali gerarchi tedeschi e giapponesi; la resa dei conti arriva per tutti, anche in Italia (2). La data poi non è scelta a caso, come sottolinea all’apertura dei lavori il giudice istruttore Giorgio Agosti (3). Il procedimento vuole essere infatti il «compimento di quel percorso di redenzione che il popolo italiano ha intrapreso tre anni fa, liberandosi una volta per sempre dalla nefasta dittatura mussoliniana» (4). Non è un caso che gli Alleati abbiano optato per una corte tutta italiana, sebbene operante sotto l’attenta supervisione del governo militare d’occupazione. Sul banco degli imputati ci sono tutti i principali gerarchi fascisti, dai fedelissimi di Mussolini ai voltagabbana del 1943, inclusi naturalmente i principali comandanti militari del regime. L’evento più eclatante di tutto il procedimento è senza dubbio il suicidio del comandante dell’esercito della Repubblica sociale italiana, Rodolfo Graziani, accusato di una serie lunghissima di crimini commessi in Italia e all’estero. Nonostante l’enorme impressione suscitata all’epoca, la sua morte non ha lasciato nell’opinione pubblica significativi strascichi memoriali, a dispetto delle speranze dello stesso generale, che nel suo biglietto d’addio scriveva: «Magari non oggi, che il Paese è in mano all’anarchia e al comunismo, ma fra qualche decennio mi farete un monumento, vedrete! E allora, mi ricorderà come un eroe anche Affile, il borgo natio, dove ho mosso i primi timidi passi sul glorioso sentiero della Storia» (5).
Fascisti e criminali, altro che “brava gente”
C’è un elefante nella stanza. È nero ed è costellato di lame, proiettili, bombe e gas. Armi, con cui l’Italia ha sottomesso e massacrato popolazioni inermi sin dalla nascita del Regno, con buona pace degli ideali risorgimentali di libertà e autodeterminazione dei popoli. Gli occhi dell’elefante sono forse quelli di Saša Božović, studentessa montenegrina antifascista che partorì sola in presenza dei carcerieri italiani, o quelli di Umberto Graziani, sarto del campo di concentramento italiano di Arbe, in Dalmazia, che entrò nella resistenza jugoslava. Le zampe dell’elefante sono forse le gambe di migliaia di etiopi, soprattutto vecchi, donne e bambini, che si lanciavano fuori dalle loro case e correvano nella savana del proprio Paese invaso sotto il bombardamento coi gas di Mussolini che soffocavano e liquefacevano i loro corpi; o forse quelle, che sgambettarono inutilmente nella melma, di decine di bambini sloveni annegati nel campo di Arbe sotto gli occhi indifferenti dei soldati italiani di guardia. E le zanne dell’elefante sono fatte forse dello stesso avorio misto all’oro dei denti che Saša si strappò da sola per comprare al figlio, appena nato, pane verde di muffa. C’è un elefante nella stanza. È questa un’espressione che si usa per riferirsi a traumi irrisolti, ad avvenimenti annullati dalla coscienza che impediscono la naturale evoluzione dell’essere umano, spiega Eric Gobetti nelle prime pagine de I carnefici del duce appena uscito per Editori Laterza, in questo caso un Paese intero, «l’Italia, che si rifiuta di ammettere i propri errori e pretende di essere considerato sempre innocente».
Camus e il valore dell’azione collettiva
A riscoprire Albert Camus e a suggerirne una rilettura alla luce dei cambiamenti, dei nuovi scenari geopolitici e soprattutto del vuoto a livello culturale che si ripercuote sulla politica e sulla società europea, si pone l’originalissimo libro di Domenico Canciani uscito per Castelvecchi. Albert Camus. L’inferno e la ragione ricostruisce la figura dello scrittore nella sua dimensione intellettuale, sociale, storica e politica: figura che – come afferma Canciani – ordinario di lingua e cultura francese per anni alla facoltà di Scienze politiche dell’Università di Padova – è stata singolare se non unica nel panorama della cultura d’Oltralpe. Un libro ricco e denso nei contenuti e nelle tematiche affrontate che potrebbe essere definito una biografia intellettuale, culturale, sociale, storica e politica di Albert Camus.
Nancy Porsia: Perché la rivoluzione in Libia è fallita
Ci sono libri che aprono porte per la conoscenza dei Paesi nordafricani, nostri dirimpettai mediterranei. Mal di Libia. I miei giorni sul fronte del Mediterraneo (Bompiani) di Nancy Porsia, giornalista indipendente esperta di Medio Oriente, Nord Africa e Corno d’Africa, è uno di questi. Un libro che è un atto politico di solidarietà e di riaffermazione del valore del giornalismo, raccontando la storia complessa di una terra fatta di despoti ma anche di coraggio e resistenza. Un Paese, la Libia, considerato oggi terra di tutti o forse di nessuno, nel quale si incrociano tracce di civiltà tanto diverse ma così altrettanto funzionali ai giochi di potere dello scacchiere politico internazionale. Abbiamo incontrato l’autrice.
Il lato oscuro di Singapore
Martedì è stata una giornata indimenticabile per Appu. Ha incontrato sua madre Paapa che non vedeva da tempo. Ha indossato il primo paio di jeans nuovi in nove anni e posato sorridente per un servizio fotografico. Ha ordinato spaghetti wonton per cena e offerto frittelle di montone ai suoi compagni. La mattina dopo i familiari e gli amici più cari sono andati a prenderlo. Appu Tangaraju s/o Suppiah ha scontato la pena e ha lasciato per sempre la prigione di Changi a Singapore. Con il collo spezzato. È stato impiccato prima dell’alba, condannato a morte con l’accusa di favoreggiamento del traffico di circa 1 kg di cannabis, pur non essendo stato trovato in possesso della droga (un reato che in Italia prevede una reclusione di pochi anni, ndr). Appu aveva 46 anni. Le sue ultime parole ai familiari sono state: «Ci vediamo domani». Quando ha saputo che la sospensione dell’esecuzione era stata negata, si è allontanato dal vetro divisorio della sala visite e ha chiesto alle guardie di riportarlo in cella, dove ha consumato l’ultimo pasto in solitudine, lasciando tutte le frittelle agli altri carcerati. Il contatto umano l’ha ricevuto dal boia, quando è stato incappucciato e ammanettato dietro la schiena. Il rumore improvviso della botola ha segnalato ai detenuti nel braccio della morte il momento in cui il patibolo l’ha ingoiato e rispedito indietro, come si dice in gergo. Sua madre non sa che ha visto il figlio per l’ultima volta, i familiari non le hanno parlato dell’esecuzione. Di lui restano le ultime foto ricordo con gli abiti nuovi, scattate dal fotografo del carcere poco prima dell’esecuzione.
Ministro, pensi alla salute dei giovani
«È impossibile pensare alla scuola senza psicologi: senza di loro non c’è sistema formativo che funzioni come dovrebbe», ha detto in apertura del quinto congresso dell’associazione portoghese degli psicologi, il ministro dell’Istruzione João Costa, ricordando il lavoro svolto, soprattutto negli ultimi anni, dai professionisti riuniti per l’occasione.
In Italia la situazione è molto diversa ed è sempre triste constatare che la politica si muove per un obiettivo che sarebbe di interesse comune solo quando è costretta da circostanze avverse e non, come dovrebbe essere, perché spinta dall’attenzione per il progresso e la crescita culturale del Paese. Alludo alle parole del ministro Giuseppe Valditara che, dopo la violenta aggressione subita da una docente di Abbiategrasso, ha parlato in una intervista al Messaggero della necessità della presenza negli istituti scolastici della figura dello psicologo. Se accade un evento drammatico si parla di impegno, di tavoli di lavoro e progetti futuri. Sta di fatto però che negli ultimi due decenni sono stati presentati, senza successo, numerosi disegni di legge per inserire nel contesto scolastico un professionista della salute mentale, e che, elemento ancor più preoccupante dopo una pandemia, la convezione stipulata nel 2020 tra l’ordine degli psicologi (Cnop) e il ministero dell’Istruzione, che permetteva alle scuole di ottenere piccoli finanziamenti per i servizi psicologici, dal 2022 non è stata riconfermata.
Gli adolescenti e la cecità del mondo adulto
Dopo l’arresto con l’accusa di tentato omicidio aggravato, è calato il silenzio sulla vicenda dello studente sedicenne che il 29 maggio scorso ha accoltellato in classe la sua professoressa di italiano e storia, ad Abbiategrasso, nell’hinteland milanese. Nei giorni successivi ancora dei rari commenti, qualche intervista a neuropsichiatri infantili di fama (che azzardano una diagnosi o, per lo più, oscillano tra la chiave della diseducazione emotiva, quella della crisi della società, della scuola, della famiglia), alla professoressa vittima dell’aggressione (che lamenta l’assenza di messaggi di scuse da parte dei genitori del ragazzo), al ministro Valditara (confortato dal fatto che non siamo ai livelli delle stragi americane). Gli spunti di riflessione più seri vengono da una nota della Procura per i minori di Milano, della quale alcune testate citano passaggi attribuiti al giudice per le indagini preliminari Nicoletta Cremona che ha disposto la custodia cautelare in carcere. La Gip sostiene si tratti di un «episodio isolato», non ascrivibile «al disagio e malessere diffuso in alcune fasce della popolazione giovanile e adolescenziale», e annota che il ragazzo «non ha formulato alcuna riflessione critica rispetto alla gravità dei propri agiti».
Romagna mia diventa sostenibile
L’evento meteorologico che ha colpito nel maggio scorso la Romagna può e deve essere di aiuto per comprendere quello che può succedere durante un’alluvione e le possibili soluzioni per diminuirne i danni. Oltre ad un’analisi di quello che è accaduto alle città di pianura, è importante conoscere quello che è successo nelle aree interne, come nel caso di Nuvoleto, nelle colline sopra Cesena, dove una sua abitante, Agnese Palazzi, racconta le sue impressioni dopo lo sfollamento. «Questo evento – dice – ci ha messo di fronte a tante contraddizioni che caratterizzano la nostra epoca: siamo nell’era della rivoluzione digitale, ma se viene a mancare una strada non è possibile abitare un luogo». Tra le immagini più forti che gli abitanti hanno vissuto in quei giorni, continua Agnese, c’è stato «il momento dell’abbandono delle nostre case a causa delle frane. Nel momento in cui realizzi che devi selezionare accuratamente cosa mettere della tua vita in uno zaino improvvisato che sia il più possibile leggero per poter percorrere la strada accidentata, non sai bene che cosa sia importante o no: album di fotografie di famiglia? Documenti? Vestiti? Il libro che stai leggendo? Il computer? È in quel terribile momento – dice – che ti senti legato indissolubilmente a quella umanità che lascia la propria casa e che se ne deve andare a tutti i costi. A mente fredda, realizzi che il cambiamento climatico con i suoi effetti disastrosi sul mondo che conosciamo è già qui e che i nuovi sfollati climatici siamo noi».
In balìa degli eventi estremi
«Una volta esistevano davvero le quattro stagioni, ma da un decennio sono scomparse. Qui abbiamo dovuto irrigare i terreni fino a gennaio a causa della siccità. Per questo adesso non abbiamo più acqua nonostante in questo maggio folle piova praticamente ogni giorno. Così è impossibile fare il nostro mestiere». È il grido di aiuto di Antonino Scuto, imprenditore agricolo da più di mezzo secolo nella – un tempo fertilissima – piana di Catania, alle pendici dell’Etna.
Da Nord a Sud infatti il Bel Paese è “sconvolto” da quelli che i meteorologi chiamano eventi climatici estremi. Bombe d’acqua, trombe d’aria, intensi periodi di siccità e caldo estremo stanno mettendo a dura prova persone e imprese, dall’agricoltura al settore turistico.
Secondo l’ultimo rapporto della l’Agenzia europea dell’ambiente (Eea) i fenomeni meteorologici estremi in Europa, in quasi mezzo secolo, hanno ucciso 195mila persone e causato perdite economiche per oltre 560 miliardi di euro e le proiezioni sul futuro non sembrano dare buoni auspici.










