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Il senso dell’Europa secondo Kundera. Addio al grande scrittore ceco

La storia è fitta di analogie che ingannano, e giochi di specchi. Tendiamo a guardare il presente con le lenti di passati arbitrari, idee blindate, schemi rigidi e troppo spesso il male di oggi è denunciato, criticato, esecrato, esorcizzato facendo appello ai fantasmi di ieri, e non aiuta. Mentre l’invasione russa in Ucraina è giunta al terzo mese e all’orizzonte non si intravede in realtà nessuna via uscita (e nessuna volontà di voltar pagina), l’impressione è che alla Fog of war – inevitabile – si sia sovrapposta una nebbia più fitta e decisamente più ambigua nelle menti, nella coscienza e nel dibattito pubblico, qui in Occidente. La tendenza a giudicare il presente con quelle categorie bloccate nel passato (le analogie scontate con la questione dei Sudeti, le ombre di Hitler e Stalin, lo slogan vergognoso della “denazificazione”, l’evocazione proprio da pensiero magico della stessa categoria di Resistenza) dà la falsa impressione che la Storia ci abbia insegnato qualcosa, e questo magari rassicura ma trae in inganno. Male contro Bene, carnefici e vittime, un prima e un dopo stabiliti un tanto al chilo: la norma è il pensiero binario, non ce n’è un altro. Qualsiasi accenno a dialettiche più intricate, qualsiasi perplessità (concreta, razionale: nessuno ha dubbi, credo, su chi sia l’aggressore e l’aggredito, questo è un fatto), qualsiasi “narrazione” alternativa sono sospetti. Strano modo di stare nella Storia, e di criticarla: dovremmo cogliere la “complessità” del momento, per superarlo, ma già solo pronunciarla questa parola – complessità – sembra un atto di complicità con l’aggressore, e va bandita. Dovremmo cercare soluzioni razionali, dar peso alla “verità effettuale”, salvare le vite, salvare i corpi, e invece ci si trincera in tetragone ma spesso molto ipocrite verità e in certezze che consolano ma non aiutano, e restano pietrificate dallo sguardo di Medusa della Storia, e dal suo orrore.
È un clima tossico (il pensiero binario – avrei voglia di aggiungere – è sempre tossico). Immagino che anche le due lucidissime conferenze di Milan Kundera che Adelphi pubblica con il titolo Un Occidente prigioniero (traduzione di Giorgio Pinotti) potranno essere lette dentro questo schema ricattatorio, semplificante. Nella seconda – un testo del 1983, il muro di Berlino, la cortina di ferro erano ancora in piedi – Kundera parte dai fatti del settembre ’56 in Ungheria, quando i carri sovietici entrano a Budapest. Il direttore dell’agenzia di stampa ungherese trasmette il suo ultimo dispaccio: «Moriremo per l’Ungheria e per l’Europa». Naturalmente – precisa Kundera – il direttore non voleva dire che i carri russi fossero pronti a «varcare le frontiere ungheresi e dirigersi a Ovest». In Ungheria «era l’Europa a essere presa di mira. Perché l’Ungheria restasse Ungheria e restasse Europa, era pronto a morire».
E allora era precisamente così, non c’è alcun dubbio: in gioco era (anche) il destino dell’Europa, il “nostro” Occidente. Ma dovremmo evitare di trasformare la storia in un mantra, e quasi sessanta anni dopo i fatti di Ungheria, quasi cinquanta dopo quelli di Praga, l’attualizzazione immediata di questi episodi epocali per quanto irresistibile è fuorviante. Quando diciamo che in Ucraina è in gioco il destino dell’Europa, quando ripetiamo come una formula magica che Kiev è “il cuore dell’Europa” tendiamo a consegnare il presente al mito per non guardarlo. Di quale Europa parliamo? Del sogno di Ventotene? Del presente balcanizzato da Brexit già consumate o dietro l’angolo? Della fortezza spaventata e cattiva che si blinda contro i migranti? Del classico vaso di coccio tra le botti di ferro (la Russia, la Cina, gli Usa)? Del “nano strategico” su cui ha scritto un bellissimo “requiem” poco tempo fa Paolo Rumiz, di questa clamorosa irrilevanza politica che può esser data ormai per morta o viva “al massimo come protuberanza dell’America”? Per Kundera, in Un Occidente prigioniero come nell’altra conferenza (La letteratura e le piccole nazioni, del 1967) la grande questione irrisolta era «la tragedia dell’Europa centrale», la necessità di ripensare il destino di quei Paesi fuori dalla cappa oppressiva del comunismo sovietico e dell’irrilevanza. Era possibile ripensare a un cammino autonomo nella storia della Cecoslovacchia, dell’Ungheria, della Polonia? Dipende da molte cose, diceva Kundera, dipende soprattutto dalla nostra capacità di mettere in prospettiva le cose e ricollegarci senza ottuso orgoglio nazionalistico al passato per decifrarlo. In qualche modo – osserva in un passo fulminante – la storia ceca è ancora bloccata alla Montagna Bianca, attardata nell’orrore della Guerra dei Trent’anni, ferma al Seicento. Quando alla fine di quel conflitto si definì un nuovo assetto dell’Europa e del mondo con la pace di Westfalia, i cechi, e gli altri Paesi dell’Europa dell’Est, furono esclusi, congelati nel ruolo di “piccole nazioni”, messi ai margini. Se le grandi nazioni europee, dentro una storia “classica”, si sono evolute in un quadro culturale comune «i cechi, che hanno conosciuto in modo alternato periodi di sonno e veglia, si sono invece lasciati sfuggire molte importanti fasi dello sviluppo dello spirito europeo… . Per i cechi nessuna conquista è mai stata incontrovertibile, né la lingua, né l’appartenenza all’Europa». Ma il dramma – aggiungeva Kundera – è che nel frattempo l’Europa è mutata e l’Occidente si è auto-imprigionato in una nuova forma di vita intollerabile: la cultura ha ceduto il suo posto al capitalismo dello svago, e della finanza. «Nel medioevo, l’unità europea si fondava sulla cristianità, e nei tempi moderni sui lumi. Ma oggi? La rimpiazza una cultura dello svago, legata ai mercati e alle tecnologie dell’informazione. Che senso può avere, allora, il progetto europeo?».
L’ultimo passo della conferenza del 1983 è impressionante: «La vera tragedia (dell’Europa dell’Est) non è la Russia, ma l’Europa, quell’Europa per la quale il direttore dell’agenzia di stampa ungherese era pronto a morire, ed è morto, tanto rappresentava per lui un valore essenziale. Al di là della cortina di ferro non sospettava neppure che i tempi erano cambiati e che in Europa l’Europa non è più sentita come un valore. Non sospettava che la frase inviata per telex oltre i confini del suo Paese privo di rilievi aveva un’aria desueta e non sarebbe mai stata capita».

da Left n. 22 maggio 2022

In foto Milan Kundera nel maggio 1968

L’effetto del governo su Rainews24

Ieri un bel pezzo della redazione di RaiNews24 si è ribellata contro il direttore Paolo Petrecca, considerato da tutti il primo “meloniano” che si ritrova a dirigere un canale Rai. Non sta andando benissimo.

Il Comitato di redazione denuncia di avere dovuto “stravolgere” un articolo per il sito Rainews.it sulla denuncia per violenza sessuale nei confronti di Leonardo Apache La Russa, figlio del presidente del Senato Ignazio. La giornalista autrice dell’articolo ha ritirato la propria firma. La decisione è arrivata perché il testo – denuncia il Cdr – “è stato stravolto rispetto alla versione da lei scritta (dal testo sono stati eliminati ampi stralci di quanto accaduto)”. Le modifiche, spiega il comitato, “secondo quanto riferito dalla line alla collega”, “consistevano nel togliere i riferimenti alle polemiche” e “sarebbero state richieste dal direttore con la motivazione che non si trattava ‘di una notizia’”. Una posizione giudicata “ovviamente inaccettabile”. E di fronte alle richieste di spiegazioni dell’organo sindacale interno della redazione Petrecca “ha preferito scrivere alla collega e non rispondere al Cdr, manifestando, ancora una volta, il disprezzo per le regole sindacali”.

Il Cdr parla di “assoluto sbilanciamento degli ospiti in diverse trasmissioni”, già in precedenza segnalato alla direzione. “Clamoroso il caso della rassegna stampa di sabato sera (la registrazione è a disposizione di tutti) nel corso della quale lo stesso conduttore ha espressamente preso posizione sullo scontro governo-magistratura”, scrive il Comitato di redazione riportando quanto espresso dal conduttore: È bastato che il guardasigilli Nordio annunciasse i capisaldi della riforma – queste le parole del conduttore – che sono scoppiate due nuove vicende: quella di Delmastro e quella di Santanchè”.

“Se dovesse proseguire l’atteggiamento di mancate risposte da parte del direttore, porteremo la questione in azienda e valuteremo se informare la Commissione di Vigilanza”, conclude il Cdr. Come ha reagito il direttore Petrecca? Parlando di “polemiche strumentali riportate da qualche giornale, spesso composto più, lasciatemelo dire, da pennivendoli dell’informazione che da seri cronisti”. Niente male, eh?

Buon mercoledì.

Nella foto: Paolo Petrecca, frame del video del Premio Morrione, 11 novembre 2022

Aborto: dopo 45 anni la legge 194 ha bisogno di un “tagliando”

L’edizione 2022 delle Linee guida dell’Organizzazione mondiale della sanità sull’aborto, “Abortion care guideline” evidenzia quanto un «ambiente favorevole» sia il fondamento per un’assistenza completa e di qualità in caso di aborto. «Un ambiente favorevole è quello in cui i diritti umani degli individui sono rispettati, protetti e soddisfatti. Ciò comporta un riesame periodico e, ove necessario, una revisione dei quadri normativi, legislativi e politici e l’adozione di misure per garantire la conformità con gli standard internazionali in materia di diritti umani in continua evoluzione».

Eppure nel nostro Paese “la legge 194 non si tocca” è il mantra recitato ormai da quasi tutte le forze politiche, comprese le destre antiabortiste attualmente al governo, che sanno bene come si possa ostacolare l’accesso all’aborto semplicemente non applicando o applicando male la legge, o anche interpretando in maniera rigidamente restrittiva molte parti di essa. L’Associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica porta avanti da anni proposte specifiche, sia per garantire una migliore applicazione della legge che per avviare le più corrette modalità con cui andrebbe monitorata, secondo le indicazioni emerse dall’indagine “Mai dati” (come riportato a suo tempo da Left). In questa direzione l’associazione Coscioni ha promosso, nel mese di maggio scorso, la costituzione di un intergruppo parlamentare in materia di Salute riproduttiva e interruzione volontaria di gravidanza (Ivg), cui hanno aderito 28 tra deputati e senatori. Nessun esponente di Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia si è finora reso disponibile a partecipare al gruppo di lavoro.

Ne è seguito lo svolgimento di un seminario che si è tenuto a Roma il 4 luglio scorso, con la partecipazione di relatori da sempre impegnati nel campo della salute riproduttiva sia sul piano medico che giuridico, nel corso del quale sono state discusse quelle proposte di modifica delle parti della legge 194 che mostrano le più evidenti ed urgenti criticità, sulla base dell’esperienza applicativa a 45 anni dalla sua approvazione, un vero e proprio “tagliando”, come è stato intitolato l’incontro. Il seminario dovrebbe essere l’inizio di un percorso destinato ad apportare alcune modifiche in senso migliorativo della legge sull’aborto nel nostro Paese, ma anche ad un importante ripensamento della sua impostazione, a partire dalla integrazione del concetto di salute riproduttiva nell’ambito della definizione di salute.

Nel suo intervento Corrado Melega, il ginecologo di Bologna “discepolo” di Carlo Flamigni, ha ricordato come, sin dalla Conferenza Internazionale sui diritti umani, tenutasi a Teheran nel 1968, i diritti e la salute della riproduzione siano stati riconosciuti come una componente intrinseca dei diritti umani. Anche i trattati internazionali più recenti, sottoscritti dal nostro Paese, hanno definito molto chiaramente questi concetti, identificando le azioni fondamentali da intraprendere nonché gli indicatori per misurare gli sforzi e il progresso realizzato nel garantire tali diritti. Anna Pompili, ginecologa della associazione Coscioni e di Amica (Associazione medici italiani contraccezione e aborto), ha spiegato come, contrariamente al considerare l’aborto come un diritto definitivamente acquisito, la legge 194 in realtà non garantisca alle donne l’autodeterminazione, ma permette l’aborto volontario solo per scongiurare pericoli, potenziali o attuali, per la salute. Alla luce dell’evoluzione del concetto di salute in questi 45 anni, ne deriva come fondamentale e necessario includervi la salute riproduttiva, riconoscendo una completa responsabilità alle scelte delle donne.

Per quanto riguarda l’aspetto strettamente medico, alcune modifiche della legge sono davvero urgenti quali, per esempio, quella il diritto ad interrompere la gravidanza alle donne che oggi sono costrette ad andare all’estero in caso di una diagnosi troppo tardiva di grave patologia fetale, interruzione permessa nel nostro Paese solo fino a 22-23 settimane. Sono anni che io vado ripetendo che una legge che costringe a cambiare Paese per avere accesso ad un diritto tutelato, quale quello alla salute in questo caso, non è una buona legge. E va cambiata. Se e come sia possibile modificare la norma è stato analizzato da Milli Virgilio, avvocata del Foro di Bologna, partecipe delle azioni giudiziarie negli storici processi contro le autodenunce per aborto prima dell’approvazione della legge, che ha sostenuto come la proclamata intangibilità della 194 non convince e lede il principio di autodeterminazione della donna.

Tra le criticità e manchevolezze del dettato normativo ha sottolineato anche la questione della gratuità della contraccezione, che dovrebbe costituire requisito primario della salute riproduttiva. La ricognizione della legge articolo per articolo, è la premessa per la individuazione delle proposte di modifica legislativa, che si prospettino come sin d’ora proponibili e praticabili. Fondamentale per affrontare questo disegno, probabilmente da molti considerato utopistico, è il parere della prof.ssa Giuditta Brunelli, costituzionalista dell’Università di Ferrara, che ha illustrato la necessità di un intervento di riforma che aggiorni ciò che all’epoca, quasi mezzo secolo fa, derivava dalla sentenza della Corte Costituzionale, oggi piuttosto “asfittica” nei confronti sia del principio di eguaglianza di genere (che deriva dal nesso tra la possibilità delle donne di controllare la propria vita riproduttiva e quella di partecipare alla vita sociale, economica e politica senza subire discriminazioni) sia del principio di autodeterminazione nelle scelte procreative.

Chiara Lalli ha riproposto la necessità di disporre di dati aperti nel monitoraggio dell’applicazione della legge, al fine di rilevare correttamente tutti i disservizi, essendo questo l’unico modo in cui sia il ministro della Salute che le Regioni avrebbero dovuto intervenire tempestivamente. Ciò non è accaduto in questi 45 anni, in cui il Parlamento – di conseguenza – avrebbe potuto valutare le eventuali modifiche da apportare, anche solo nell’ottica della tutela del diritto alla salute. I vari ministri, invece, si sono sempre solo limitati a fare una sorta di annoiato “copia-incolla” dalle relazioni precedenti, senza mai segnalare reali criticità, ma, anzi, minimizzando quelle che emergevano dalle proteste della società civile, in relazione, ad esempio, agli alti tassi di obiettori di coscienza.

L’avvocato Filomena Gallo, segretario dell’Associazione Luca Coscioni, ha sottolineato come, con i parlamentari dell’intergruppo promosso dall’associazione, si voglia seguire la via parlamentare per le modifiche proposte, non tralasciando le altre vie possibili, inclusi i Tribunali. In conclusione ecco le proposte di modifica delle parti della legge che mostrano le più evidenti ed urgenti criticità, sulla base dell’esperienza applicativa:
Eliminare il periodo di attesa obbligatorio. Le procedure per l’interruzione volontaria di gravidanza sono sicure; è possibile comunque avere complicazioni, la cui incidenza aumenta progressivamente con l’aumentare dell’epoca gestazionale. Se la donna è convinta della sua scelta, costringerla a soprassedere sulla sua decisione per un periodo la cui durata è fissata per legge la espone solo a un rischio maggiore di complicazioni, per la salute fisica e per la salute psichica. Introdurre il “rischio per la salute” della donna per le Ivg oltre il 90esimo giorno. Al momento, quando vi sia la possibilità per il feto di vivere al di fuori dell’utero (oggi oltre 21 settimane + 6 giorni) la legge permette l’aborto solo se vi sono rischi per la vita della donna, e non per la sua salute. Questo corrisponde a una scelta legislativa molto rigorosa e penalizzante, configurabile come un vero e proprio “obbligo di continuazione della gravidanza” in presenza, appunto, di pericoli gravi per la salute. Per questo si propone di integrare l’articolo 6 con la menzione specifica della salute della donna oltre che per il grave pericolo per la vita. Eliminare l’obbligo del medico di “salvaguardare la vita del feto”. L’attuale approccio di attivismo terapeutico pone non pochi problemi e rende impossibile l’aborto in utero, previsto da tutte le società scientifiche internazionali. Oggi in Italia non è possibile, in pratica, abortire dopo la 22esima settimana e, in presenza di una diagnosi di seria patologia fetale, la donna dovrebbe partorire un figlio gravemente ammalato: una prospettiva inaccettabile per moltissime donne, che decidono dunque di abortire all’estero. Si propone che l’autorizzazione all’interruzione della gravidanza venga data da una commissione medica che valuta caso per caso.

La legge 194 ha compiuto 45 anni. Pur con le limitazioni dovute ad un’impostazione ideologica e di compromesso, ha permesso alle donne italiane l’accesso a procedure sicure e garantite dal nostro Sistema sanitario nazionale. Guardando al futuro, vogliamo pensare ad un superamento dei limiti ideologici entro i quali essa è stata elaborata, nell’ottica della costruzione di una norma “leggera” che, riconoscendo non solo il diritto alla salute, ma anche quello all’autodeterminazione, possa definire rigorosamente i doveri dello Stato in tema di diritti riproduttivi, impedendo scandalose latitanze. Le donne italiane hanno diritto ad un aggiornamento della legge. Un “tagliando” che non si può davvero più rimandare, e che è richiesto nella Petizione presentata dall’Associazione Luca Coscioni al Parlamento su cui ora è aperta una raccolta firme.

L’autrice: Mirella Parachini, ginecologa, vice segretaria dell’Associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica, segretaria Fiapac (Federazione internazionale operatori di aborto e contraccezione). Conduce ogni sabato la trasmissione Il maratoneta su Radio radicale

Per approfondire il tema della legge 194: Alessio Laconi, A 45 anni dal varo della legge 194 i diritti delle donne sono ancora a rischio, Left, maggio-giugno 2023

Irene Terenzi, Contro la legge 194 obiezione e pregiudizio, una vergogna italiana, Left, maggio-giugno 2023

Nella foto: frame del video della manifestazione per la giornata mondiale dell’aborto sicuro, 28 settembre 2022

Undicesimo comandamento: non ostentare

Tutto come da copione. Il ministro (questa volta dello Sport) Andrea Abodi definisce il coming out di Jakub Jankto un’ostentazione. Jakub Jankto, passato per Sampdoria e Udinese, il prossimo anno giocherà nelle fila del Cagliari di Claudio Ranieri. Di lui si è parlato molto nelle scorse settimane perché è stato il primo calciatore professionista ad avere dichiarato la propria omosessualità in uno dei pochi ambienti in cui l’omosessualità è ancora considerata un tabù.

“La società probabilmente, in generale, ancora qualche passo in avanti può farlo – ha detto ieri mattina Abodi a Radio 24 – Per quanto mi riguarda, è prima di tutto una persona e secondo è un atleta”. E ha aggiunto: “Non faccio differenze di caratteristiche che riguardano la sfera delle scelte personali”. Una cosa è certa, e lo è al di là di qualsivoglia teoria: essere gay, lesbiche o transgender non è una scelta, ma una condizione esistenziale come tutte le altre.

Abodi aggiunge: “Se devo essere altrettanto sincero non amo, in generale, le ostentazioni ma le scelte individuali vanno rispettate per come vengono prese e per quelle che sono. Io mi fermo qui”. Tutto da copione: si alza una ridda di voci che fa notare al ministro (questa volta dello Sport) le inesattezze dette e lui fa marcia indietro. Il ministro prova a rimediare con un tweet che però non migliora granché la situazione: “Ad esser corretti ho risposto dicendo: per me esistono le persone. Ho parlato di rispetto per le scelte e, aggiungo con convinzione e per correttezza, per la natura umana. Rispetto è un valore non equivocabile, da garantire. Poi, posso non condividere alcune espressioni del Pride?”

Nessuna scusa, il solito sottinteso di essere stato frainteso. Avanti così.

Buon martedì.

Nella foto: il ministro dello Sport Andrea Abodi (governo.it), Roma, 15 giugno 2023

Facci Tarzan

S’ode nell’aria un’ipocrita sorpresa per atteggiamenti e parole, come se qualcuno non fosse stato dalle nostra parti negli ultimi vent’anni. Nel giro di una settimana ci si è stupiti che la ministra Daniela Santanchè possa dirsi imprenditrice più per le sue amicizie e le sue rendite di posizione che per l’acume e la fatica che richiede ai giovani.

Poi ci si è stupiti che la ministra Roccella sia disposta a sfiorare il risibile pur di difendere le sue posizioni e quelle dei suoi colleghi di governo. Eppure non è accaduto molte settimane fa il piagnisteo del Salone del libro dove ha dimostrato di avere il vittimismo come principale argomentazione, sulla scia della sua presidente del Consiglio. Poi ci si è stupiti delle volgarità del volgare Sgarbi.

L’ultimo sbigottimento riguarda il giornalista Filippo Facci che ha fatto l’unica cosa che lo rende noto, provocare con una buona dose volgarità sfoderando sessismo a iosa. Ieri Selvaggia Lucarelli ha ricordato che è lo stesso Facci che la definì “questa gossipara spargizizzania, che porta male a tutto quel che tocca ed è diventata nota perlopiù per le sue tette da vecchia matrona”. È lo stesso Facci che definendo le “norme su femminicidio solo fumo negli occhi per falsa emergenza”. È lo stesso Facci che parlò di “cessismo” pubblicando un foto di Michela Murgia, incapace di rispondere nel merito.

Gli esempi potrebbero essere moltissimi. Sorprendersi delle caratteristiche peculiari che sono stati gli unici ingredienti della popolarità di qualcuno ha il sapore vagamente ipocrita. Succede sempre: si “normalizza” chi è il potere per non dargli un dispiacere e poi si è costretti a fare un passo indietro quando rivelano la loro risaputa natura. Non sarebbe meglio avere consapevolezza? Chiedo.

Buon lunedì.

Il governo Meloni dice no al salario minimo: preferisce lo sfruttamento?

La notizia che le forze di opposizione abbiano presentato in Parlamento una proposta di legge sul salario minimo è un fatto utile, positivo e politicamente rilevante. Perché è vero che la destra continua ad avere un consenso largo, forte di un proprio impianto valoriale e programmatico ben radici nel Paese, ma è anche riscoprendo la “ragione sociale” e gli interessi che la sinistra intende difendere che possiamo invertire questa tendenza.
In Italia abbiamo circa tre milioni di lavoratrici e lavoratori poveri. Circa il 12% della popolazione occupata, compresa tra i 18 e i 64 anni, ha un reddito annuo inferiore alla soglia della cosiddetta “povertà relativa”. Parliamo, per un single, di stipendi pari a 11.500 euro l’anno. I numeri spiegano in modo evidente la dimensione di un fenomeno esplosivo che mina la coesione sociale e territoriale del Paese.

Le ragioni per intervenire si rintracciano, inoltre, nella direttiva che il Parlamento europeo ha approvato nel 2022 per tutelare chi, pur lavorando, si trova in condizioni di indigenza o è a rischio povertà. La direttiva stabilisce procedure per l’adeguatezza dei salari minimi legali che andranno aggiornati ogni due o quattro anni; promuove la contrattazione collettiva per aumentare progressivamente il numero di lavoratori coperti dalla contrattazione stessa; favorisce l’accesso effettivo alla tutela del salario minimo attraverso il rafforzamento degli ispettorati del lavoro nella capacità di prendere provvedimenti nei confronti dei datori di lavoro non conformi.

Sono 22 i Paesi europei che già hanno adottato il salario minimo, con un importo che varia in base alla situazione economica di ogni singola nazione. Tra i Paesi che finora hanno fatto scelte diverse ci sono Austria, Danimarca, Finlandia, Svezia e Italia. Purtroppo.
Salario minimo vuol dire più diritti e più tutele per chi lavora e, in modo particolare, per le giovani generazioni che fanno fatica ad affacciarsi al mondo del lavoro, spesso costrette ad accettare contratti e paghe da fame. A Roma, ad esempio, il salario medio annuo della popolazione occupata sotto i 30 anni è pari a 10.200 euro, già al di sotto della soglia della povertà relativa e ben lontano dai 17mila euro che si guadagnerebbero grazie ad un salario di 9 euro l’ora.

Alla base della proposta di legge, infatti, c’è la soglia di 9 euro l’ora, limite sotto il quale la paga non potrà più scendere. No dunque alle deroghe. No agli infiniti rimandi legislativi e temporali per i rinnovi dei contratti collettivi. Occorre ribadire che la proposta di un salario minimo non è un’alternativa alla contrattazione collettiva, ma piuttosto uno strumento a supporto dei sindacati per contrastare contratti “pirata”, contratti al ribasso, in definitiva per frenare il continuo logoramento e peggioramento delle condizioni lavorative di milioni di persone.

Grazie alla proposta sul salario minimo abbiamo l’occasione di cambiare in meglio le nostre condizioni di lavoro: contrastando la precarietà dilagante, riducendo la povertà sempre più diffusa, mettendo fine alla pratica dello sfruttamento in alcuni particolari settori e in alcune aree del nostro Paese.
Ha ragione chi sostiene che il governo Meloni stia programmando un “incendio sociale”. Abbiamo assistito allo smantellamento del reddito di cittadinanza a furor di propaganda contro chi preferisce stare sul divano piuttosto che andare a lavorare, per poi scoprire che milioni di persone si trovano costrette ad accettare lavori con un paga di 4,50 euro l’ora. E adesso, ministri di questo governo sostengono che non ci sia bisogno di una tale norma sul salario minimo.

La battaglia per il salario minimo è una battaglia di tutti e per tutti. Insieme al reddito di cittadinanza sono strumenti per uscire dal ricatto dei lavori sottopagati e dello sfruttamento. Le forze di opposizione hanno fatto la loro parte. Ora Meloni e il governo devono dimostrare da che parte intendono stare.

L’autore: Claudio Marotta è capogruppo Regione Lazio “Verdi e Sinistra”

Poveri sempre più poveri, ricchi sempre più ricchi

Negli ultimi due anni 722 tra le più grandi imprese del mondo hanno realizzato, in media, quasi 1.000 miliardi di dollari di extraprofitti all’anno, mentre i prezzi di beni di consumo, cibo ed energia schizzavano alle stelle assieme ai tassi di interesse, con un impatto devastante sul costo della vita per miliardi di persone in tutto il mondo. A rivelarlo è una nuova analisi di Oxfam e ActionAid, che ha passato in rassegna le compagnie della classifica “Global 2000” di Forbes, valutandone gli extraprofitti realizzati nel 2021-22.

Considerando i dati per gli specifici settori dell’economia, l’analisi rivela come 45 società energetiche abbiano realizzato, in media nel biennio 2021-2022, 237 miliardi di dollari all’anno di profitti in eccesso. Ebbene, se i governi avessero tassato al 90% gli extraprofitti realizzati dagli operatori nel settore dei combustili fossili e riversati ai ricchi azionisti,avrebbero avuto risorse sufficienti per aumentare del 31% gli investimenti globali in energia prodotta da fonti rinnovabili. Oggi, al contrario, nel mondo ci sono 96 miliardari che hanno costruito le proprie fortune grazie ai combustibili fossili e possono vantare un patrimonio complessivo di quasi 432 miliardi di dollari (50 miliardi in più rispetto all’aprile dello scorso anno).

Anche le multinazionali del comparto alimentare, le banche, le maggiori aziende farmaceutiche e i principali rivenditori al dettaglio hanno visto migliorare le proprie posizioni durante la crisi inflattiva, che ha visto portate alla fame 250 milioni di persone in 58 Paesi. Nel settore food and beverage 18 colossi hanno realizzato, in media nel biennio 2021-2022, oltre 14 miliardi di dollari all’anno di extraprofitti. Una cifra equivalente a oltre due volte il gap di finanziamento di 6,4 miliardi di dollari indispensabile per fronteggiare la tremenda crisi alimentare che in Africa orientale – tra Etiopia, Kenya, Somalia e Sud Sudan – rischia di far morire per fame 1 persona ogni 28 secondi nei prossimi mesi, a fronte anche del drastico aumento, di oltre il 14%, dei prezzi dei prodotti alimentari a livello globale nel 2022.

Nel comparto farmaceutico 28 grandi imprese hanno totalizzato, 47 miliardi di dollari all’anno di extraprofitti, mentre 42 grandi rivenditori al dettaglio e catene di supermercati hanno registrato utili in eccesso per 28 miliardi di dollari all’anno, in media nel biennio 2021-2022. Nove tra le più grandi società del settore aerospaziale e della difesa hanno realizzato 8 miliardi di dollari all’anno di profitti in eccesso in media nell’ultimo biennio, mentre 9.000 persone muoiono ogni giorno di fame, in gran parte a causa di conflitti e guerre. Il “problema profitti” sta emergendo prepotentemente nell’attuale crisi inflattiva, soprattutto nel contesto europeo. Secondo il Fondo Monetario Internazionale l’aumento dei profitti spiega il 45% dell’aumento dei prezzi in Europa nel 2022. Autorevoli figure istituzionali, come la presidente della BCE, Christine Lagarde, si sono anche spinti a paventare il rischio di una greedflation o “inflazione da avidità”. Un termine che indica il tentativo di alcune imprese di ottenere opportunisticamente un vantaggio dall’inflazione, incrementando i prezzi ben oltre i costi di produzione senza che ciò sorprenda i consumatori vista l’inflazione generale.

“Che si tratti di avidità o meno, la questione di fondo è che le imprese sono comunque riuscite a traslare integralmente l’aumento dei costi sui prezzi”,  ha detto Mikhail Maslennikov, policy advisor su giustizia fiscale e lotta alle disuguaglianze di Oxfam Italia. E ha spiegato: “Se in aggregato la profittabilità delle imprese si sta anche rivelando costante, mostrando una incredibile resilienza, le imprese più grandi, in non pochi settori, beneficiando di situazioni di monopolio e dell’aumento della domanda, hanno visto un considerevole aumento dei margini. È innegabile che i profitti siano oggi i veri vincitori nel conflitto distributivo, mentre i salari – che cambiano meno in fretta dei prezzi, riflettendo i ritardi nei rinnovi e la debolezza contrattuale dei lavoratori – sono tra i perdenti. L’esito – conclude Maslennikov- è profondamente iniquo con una sola categoria, i lavoratori, lasciata a sostenere il peso della crisi del caro-prezzi. Ed è anche profondamente inefficiente, visto che i salari alimentano la domanda di beni e servizi delle stesse imprese”.

Secondo le stime di Oxfam, 1 miliardo di lavoratori in 50 Paesi ha subito una riduzione media della retribuzione di 685 dollari nel 2022, con una contrazione complessiva, in termini reali, di 746 miliardi di dollari della massa salariale. Non tutti i “lavoratori” hanno visto ridursi il proprio salario nel mezzo della crisi inflattiva: nel 2022 gli amministratori delegati più pagati di quattro Paesi (India, Regno Unito, Stati Uniti e Sudafrica) hanno visto crescere i propri emolumenti del 9% in termini reali, mentre i salari dei lavoratori sono diminuiti del 3%. In Italia sempre nel 2022 la caduta dei salari reali ha raggiunto il 7,6%.

Buon venerdì.

Le bugie di Santanchè

Breve riassunto delle bugie che la ministra al Turismo Daniela Santanchè ha pronunciato senza battere ciglio nell’aula del Senato.

La commistione politica e professionale tra la ministra e il presidente del Senato Ignazio La Russa era stata bollata come “notizia falsa”. Da ieri è diventata vera. C’è stato un “unico intervento professionale e, peraltro, amichevole da parte dello studio La Russa su questa vicenda”, dice Santanchè. Quindi c’è stato. Quindi era vero. L’aggettivo “amichevole” è stato messo lì per provare a sfumare la menzogna. Missione fallita.

“Non ho mai avuto partecipazione nel settore dell’alimentare biologico, come molti media hanno raccontato, la mia partecipazione in Ki Group non ha mai superato il 5%”, dice Santanchè. “Nel 2010 il gruppo del settore biologico è stato preso non da me ma dal padre di mio figlio con cui non avevo più alcun legame e comunque con il suo intervento i lavoratori hanno avuto 12 mesi di retribuzione”, aggiunge. “Voglio essere del tutto trasparente: da gennaio 2019 e per meno di due anni ho assunto una carica sociale senza alcun potere. Da allora ho cessato tutte le cariche e messo cesura totale dopo che già un anno prima ero rimasta pro forma nel consiglio”. Falso. Nel 2018 dichiarava lei stessa di essere presidente del consiglio d’amministrazione di Ki Group. Ogni anno e fino al 10 ottobre del 2022 scriverà nel documento della sua situazione patrimoniale che obbligatoriamente devono compilare i parlamentari che non ci sono variazioni. Sparisce qualsiasi incarico solo a gennaio 2023.

A proposito della notizia data dal quotidiano Domani sull’indagine nei suoi confronti la ministra dice era “segretata, vi pare normale che un giornalista può scrivere cose secretate ignote all’interessato e ai suoi avvocati”. Falso. Quando in quell’inizio novembre per provare a smentire la notizia Santanchè sbandierò la certificazione di routine della Procura all’istanza dei suoi legali contemplata dall’articolo 335 del codice di procedura («non risultano iscrizioni suscettibili di comunicazione»), chiunque non sia uno sprovveduto sa della possibilità di ricorso dei pm al 3 bis di quell’art.335, cioè alla facoltà in caso di indagini complesse di ritardare (per un massimo di 3 mesi) la comunicazione dell’iscrizione.

Queste sono solo le bugie conclamate. Le questioni da spiegare sono ancora di più. Ognuno tiri le somme.

Buon giovedì.

Nella foto: frame del video della seduta al Senato, 5 luglio 2023

L’eredità di Berlusconi che affossa il Sud

Silvio Berlusconi all'EPP Summit di Bruxelles, 2019. fonte wikipedia

La morte di Silvio Berlusconi ha sorpreso tutti gli italiani. Aveva promesso di morire a 150 anni e non ha superato gli 87, sbalordendo soprattutto i suoi sostenitori che in quasi 30 anni di attività politica non hanno mai nutrito dubbi sulle promesse del loro leader. Ha provocato amarezza e cruccio soprattutto a Sud, almeno a giudicare dai giornali locali. Calabria Live ha ricordato che il Mezzogiorno lo ha amato e che si deve a lui l’apertura del primo cantiere per il ponte sullo stretto di Messina che poi Mario Monti («con visione miope») cancellò. Il Mattino di Napoli, in prima pagina, ha affidato il ricordo al suo editore, Francesco Gaetano Caltagirone, pieno di ammirazione per il coraggio mostrato dall’imprenditore-politico appena scomparso. Ancora più sofferto il rimpianto del Nuovo Quotidiano di Bari che ha titolato in apertura “Il suo ultimo messaggio: «Il Sud priorità per l’Italia»”; rievocando le parole di fiducia sul futuro del Mezzogiorno che, secondo la marchesa Giuseppina Alfieri, Cavour avrebbe pronunciato nel delirio poco prima di morire, rivolgendo un pensiero alle province meridionali da poco acquisite al regno sardo.

Mentre viene aperto il testamento per sciogliere le tante questioni aperte sulla sua eredità patrimoniale, si continua a interrogarci su di un’altra eredità di Berlusconi, quella politica e morale. Noi vorremmo, più espressamente, riflettere sul lascito che egli fa al Mezzogiorno perché è in quest’area del Paese che il partito da lui fondato insieme a Marcello Dell’Utri ha avuto maggior successo e ancor oggi conserva il suo nerbo elettorale. Oltre la metà dei deputati e dei senatori di Forza Italia vengono, infatti, dalle regioni meridionali, Lazio incluso. Meglio di tutte fa la Calabria, usualmente in coda a tutte le classifiche, dove il partito di Berlusconi, oltre ad esprimere il “governatore”, gode del massimo consenso elettorale con oltre il 15% delle preferenze. Ma cos’ha fatto davvero Berlusconi per il Mezzogiorno nei lunghi anni del suo potere?

A marzo del 1994 Berlusconi vince le sue prime elezioni alleandosi con i neofascisti e la Lega Nord, un partito inequivocabilmente nemico del Mezzogiorno, ma il Berlusconi I dura troppo poco – poco prima del Natale dello stesso anno lo fa cadere, infatti, proprio il partito di Bossi – perché quello che all’epoca era ancora un cavaliere potesse produrre qualcosa di utile. L’anno successivo Bossi vince ogni remora linguistica e parla apertamente di secessione della Padania, l’area geografica che riassume le regioni bagnate dal fiume Po e, per estensione a nord, tutte quelle alpine. Nasce la Lega Nord per l’indipendenza della Padania; una provetta del “dio Po” viene prelevata in Piemonte, ai piedi del Monviso, dove il fiume nasce, e simbolicamente versata a mare dalla Riva degli Schiavoni a Venezia, all’altro capo della pianura padana. Qualche anno dopo Berlusconi, che pure ha giurato dopo il “ribaltone” di non voler più prendere neppure un caffè con l’ex alleato, ricostituisce l’alleanza e va al governo – restando in sella con due esecutivi di fila, il Berlusconi II e il Berlusconi III – per un periodo che sarà il più lungo della storia repubblicana, dal giugno del 2001 al maggio del 2006. A fine legislatura si torna al voto. Berlusconi a questo punto può vantare i risultati ottenuti per il Sud dai suoi governi (vedi i dati sul fondo unico per il Sud)
Incentivi per l’occupazione
Dal 2002 al 2006 gli occupati nel Mezzogiorno passano effettivamente da 7 milioni e 52 mila a 7 milioni e 256 mila con un incremento di oltre 200 mila unità. Tuttavia, contemporaneamente il numero degli occupati nelle regioni meridionali sul totale Italia si riduce di mezzo punto percentuale, dal 29,5% al 29% (Fonte: Istat, Occupazione regolare e irregolare per branca di attività e popolazione). La forbice tra Nord e Sud non si riduce, anzi si amplia.
Mai così tante risorse al Sud
Dal 2002 al 2006 la spesa pubblica in conto capitale (investimenti più trasferimenti) è mediamente del 37%. Nel biennio che precede era stata del 39,5%. Poi è andata sempre peggio. Negli anni del Berlusconi IV il rapporto era già sceso al 35% e nel 2020 è stato del 32,9% (Fonte: Conti pubblici territoriali).
Almeno il 30% di investimenti al Mezzogiorno
La popolazione meridionale (Sud e Isole) rappresenta il 33,7% del totale. Se l’obiettivo fosse stato quello di ridurre lo storico divario fra le due Italie, sarebbe stato necessario imporre investimenti in misura più che proporzionale alla popolazione residente nella parte più arretrata del Paese. Infatti, già la legge 64/86 (Governo Craxi I) aveva fatto obbligo alle amministrazioni dello Stato e alle aziende autonome di riservare al Mezzogiorno una quota non inferiore al 40% delle somme complessive per investimento, anche se poi i soggetti interessati si sono sottratti persino agli obblighi informativi.
Banca del Sud
È nata nel 2006 con l’obiettivo di dare al Sud Italia una banca in grado di raccogliere il risparmio e di reinvestirlo localmente. L’11 giugno 2021 la Banca d’Italia ne ha decretato lo scioglimento dei vertici e l’amministrazione straordinaria dopo che un’ispezione aveva accertato carenze nell’organizzazione e nei controlli interni. Da 1° settembre 2022 le 4 filiali di Banca del Sud (Avellino, Caserta, Napoli, Salerno) sono state acquisite dalla Banca Popolare di Bari. La Banca del Sud si è spenta senza essere mai decollata.
Quando nel 2008 Berlusconi torna al governo per l’ultima volta (Berlusconi IV) potrebbe almeno avviare quello che nel programma di governo per il 2006-2011 aveva definito, non senza ambizione, “Piano decennale straordinario per il superamento della questione meridionale”. Invece nell’occasione regala al Mezzogiorno la legge delega 42/2009 voluta dal ministro Calderoli per l’attuazione del federalismo fiscale.

C’è, comunque, un modo semplice e riassuntivo, per sapere quanto è stato fatto per il Mezzogiorno nel periodo che passerà alla storia come l’età del berlusconismo. Il primo governo Berlusconi si è insediato il 10 maggio 1994, l’ultimo è caduto il 16 novembre 2011. In quest’arco di tempo l’ex cavaliere di Arcore è stato alla guida del Paese per quasi nove anni. Ebbene, quando nel 1994 scende in campo il Pil pro-capite del Mezzogiorno, già in caduta libera dalla fine degli anni Settanta come conseguenza della fine delle politiche meridionaliste, vale il 56,9% di quello del Centro-Nord. Nel 2011, quando si chiude la stagione dei suoi governi, il Pil meridionale ha perso ancora 8 decimi rispetto al Centro-Nord portandosi al 56,1% (Fonte: Svimez, 150 anni di statistiche italiane: Nord e Sud 1861-2011, Il Mulino, Bologna, 2011 – Rapporto 2017). Se Berlusconi ha, dunque, mai avuto una politica di attenzione verso il Mezzogiorno questa è stata certamente fallimentare. Vero è piuttosto che i meridionali, attratti dalla sua energia vitale e da un’esibita capacità di fare, gli hanno tributato negli anni del suo stare sulla scena politica nazionale un consenso che proprio non avrebbe meritato.

L’autore: Pino Ippolito Armino è storico e autore di numerosi libri. Il più recente è Indagine sulla morte di un partigiano (Bollati Boringhieri)

In foto: Silvio Berlusconi all’Epp summit di Bruxelles, 2019 fonte wikipedia

Poeticamente vive la memoria

«Tanti artisti (da Vivian Maier a Sixto Rodriguez) con una nuova narrazione sono tornati a vivere. Con questo libro, dopo 25 anni, riemerge un poeta» si legge sulla pagina instagram dedicata al libro Lettera a Telemaco (Bizzarro books). Serve tempo per la memoria. Serve, forse, che il tempo personale intercetti il tempo universale. Forse è accaduto questo quando, durante il lockdown del 2020, il regista e drammaturgo Simone Amendola ha tirato fuori un foglio di carta che da anni conservava ripiegato nel portafogli, e lo ha aperto. Su quel foglio ingiallito, a tratti illeggibile, era impressa, con le lettere di una macchina da scrivere, una poesia. Una poesia che il padre gli aveva dedicato per i suoi 16 anni. Chissà se è stato quel gesto, il dispiegare la carta, che gli ha fatto prendere una decisione. Oppure se la decisione, che Amendola aveva già preso, gli ha permesso di ritrovare la poesia. Di certo c’è che, dopo 25 anni dalla scomparsa prematura del padre, ha deciso di ricercarlo per restituirlo al mondo. La ricerca di un padre che non c’è più è normalmente operazione intima e privata, a meno che egli non avesse affidato parte della propria intimità e della propria interiorità a quel mondo di ombre e luci che è l’immaginario letterario, che non può essere solo privato.