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Profughi dall’Ucraina e non solo, tutte le falle dell’accoglienza italiana

11 March 2022, Poland, Medyka: Refugees from Dnipro talk to each other in front of a tent shortly after crossing the border from Ukraine to Poland. They were picked up by relatives and friends from Italy. Russian troops invaded Ukraine on February 24. Photo by: Sebastian Gollnow/picture-alliance/dpa/AP Images

Alessio Malinconico è un ragazzo di Scisciano, un comune di poche migliaia di abitanti in provincia di Napoli, impegnato con l’associazione Ya Basta – Nova Koinè, nell’assistenza a migranti e rifugiati. Fra le persone con cui collabora c’è una mediatrice culturale e colf ucraina che attende ancora una risposta alla propria richiesta di emersione dal lavoro nero presentata nel 2020. Aveva un figlio sotto i bombardamenti e non poteva uscire dall’Italia per riprenderlo. Alessio e un suo amico, Francesco, sono partiti: «Un viaggio un po’ da pazzi – si schernisce il giovane -. La zia del bambino ci ha raggiunto insieme a lui a Nadarzyn, a 20 km da Varsavia, noi lo abbiamo portato in Italia ed ora è con la madre. Nel mio Paese sono poi arrivati altri profughi e le porte si sono aperte, erano soprattutto donne con figli e l’accoglienza in famiglia è stata la prima risposta. Quando arrivano i ragazzi dai Paesi africani, o dall’Afghanistan, c’è meno disponibilità, ma, almeno loro sono in salvo». Alessio racconta che per queste persone in fuga dalla guerra non è stato possibile trovare posto all’interno del Sistema accoglienza e integrazione (il cosiddetto Sai, che ha sostituito lo Sprar), mentre gran parte dei Centri di accoglienza straordinaria nel napoletano (i Cas) sono gestiti da persone che definisce come “poco raccomandabili”: «In questi centri non vogliono gli ucraini – afferma Alessio – perché non li possono trattare come fanno con chi arriva da altri Paesi, il cui posto per dormire è subordinato a disciplina e obbedienza».

Mauro Collina dell’Associazione La villetta, di Bologna, racconta un contesto diverso. È un “veterano” delle…


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Alienazione parentale, una falsa sindrome usata come arma contro le donne

Ormai da oltre un decennio il costrutto ascientifico dell’alienazione genitoriale (Pas), con le sue molteplici declinazioni, inquina le aule degli uffici giudiziari, riportando alla vita pregiudizi sessisti nei confronti delle donne. Vengono così additate di essere: manipolatrici, istrioniche, madri malevole e simbiotiche e fautrici di un “patto di lealtà” con i figli e le figlie contro la psicologia forense. Infine vengono additate dai giudici quando i bambini e le bambine hanno paura o rifiutano di incontrare il padre.

La soluzione approntata dai tribunali, in totale recepimento delle conclusioni dei consulenti tecnici nominati a “curare” il rifiuto espresso dai minori nei confronti dei padri, è l’allontanamento forzato dei figli dalle madri, passando come un treno sopra la volontà dei bambini e delle bambine e soprattutto violando i loro diritti. E non importa se le donne risultino oggettivamente genitori idonei, se abbiano sempre accudito e cresciuto i figli e le figlie con dedizione e cura, spesso sostenendo da sole ogni costo. Le donne devono essere punite perché ritenute manipolative e causa del rifiuto e della difficoltà relazionale tra padre e figli.

La punizione consiste nella limitazione della responsabilità genitoriale delle madri, messe sotto tutela da una variegata pletora di figure istituzionali e non, a partire dai servizi sociali, ai tutori, da coordinatori genitoriali e ai cosiddetti “coaffidatari” designati dai Tribunali fuori da ogni istituto del codice civile. Il tutto si completa con l’allontanamento dei bambini e delle bambine dalla loro madre, dalla casa dove sono cresciuti e dalla loro vita e ciò superando la loro volontà contraria anche con la coazione psicologica e fisica.
Già nel 2021 la Corte di cassazione aveva duramente stigmatizzato questa cornice di lettura che orienta la giurisprudenza di merito in tema di affidamento dei figli minori e responsabilità genitoriale, in quanto restauratrice della “colpa d’autore”, risalente a dottrine giuridiche eliminate dal nostro ordinamento in quanto incostituzionali. Oggi la Corte di cassazione, accogliendo il ricorso di Laura Massaro, una madre accusata di alienazione parentale, al cui figlio era imposta la dimora in una casa famiglia, ha ulteriormente ribadito: «Il richiamo alla sindrome d’alienazione parentale e ad ogni suo, più o meno evidente, anche inconsapevole, corollario, non può dirsi legittimo, costituendo il fondamento pseudoscientifico di provvedimenti gravemente incisivi sulla vita dei minori, in ordine alla decadenza dalla responsabilità genitoriale della madre».
Nella stessa ordinanza del 24 marzo la Suprema corte fissa ulteriori paletti: il nostro ordinamento non ha disposizioni giuridiche che autorizzino questi trattamenti inumani e…

Le autrici: Teresa Manente e Ilaria Boiano sono avvocatesse e fanno parte dell’associazione Differenza donna, che ha garantito la difesa in tribunale di Laura Massaro, una donna vittima di violenza da parte dell’ex compagno, accusata di aver causato nel proprio figlio la cosiddetta sindrome da alienazione parentale


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Allarme nucleare, facciamo chiarezza

In this satellite picture provided by Planet Labs PBC, the Zaporizhzhia nuclear power plant is seen in Enerhodar, Ukraine, Tuesday, March 15, 2022. Russian forces has engaged in a firefight to seize the facility. Zaporizhzhia is Europe’s largest nuclear power plant and the fighting raised fears about safety there. (Planet Labs PBC via AP)

Dopo oltre 40 giorni di guerra è diventato sempre più difficile districarsi fra notizie nettamente contrastanti e allarmi non controllabili: fra questi ultimi inquietano quelli che riguardano le questioni nucleari, sia per i rischi che un conflitto armato comporta per gli impianti nucleari ucraini, sia per i pericoli di una vera guerra nucleare. è opportuno tenerli ben distinti. Il 26 aprile 1986, come è noto, l’Ucraina fu il teatro del disastroso incidente di Chernobyl. L’intero Paese ha 15 reattori nucleari raggruppati in quattro grandi centrali che producono il 40% dell’elettricità ucraina. Il conflitto in corso ha destato giustificate preoccupazioni per un eventuale danneggiamento di questi siti, ma si sono moltiplicati reportage che sono rapidamente scaduti in meri racconti allarmistici.

Nessuno sembra chiedersi per quale motivo i russi, che hanno pagato un prezzo enorme con il disastro di Chernobyl, dovrebbero aggiungere…

* L’autore: Angelo Baracca è docente emerito di Fisica Teorica dell’Università di Firenze, autore di numerosi saggi sul nucleare, tra cui (per Jaca book) Scram ovvero la fine del nucleare (coautore Giorgio Ferrari Ruffino, 2011) e A volte ritornano: il nucleare. La proliferazione nucleare, ieri, oggi e soprattutto domani (2005). Con la biologa Rosella Franconi ha pubblicato Cuba: medicina, scienza e rivoluzione, 1959-2014 (Zambon, 2019)


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Taser, non esiste il rischio zero per chi viene colpito

Foto LaPresse 14 Marzo 2022 Milano, Italia cronaca Presentazione Taser presso Questura Photo LaPresse March 14, 2022 Milan, Italy news Taser presentation at the Police Headquarters

Dal 14 marzo uno «strumento di tortura» è entrato a far parte della dotazione delle forze dell’ordine italiane. Così è stata definita da Amnesty international la pistola a impulsi elettrici in grado di immobilizzare una persona che viene colpita con una scarica ad alta tensione, circa 50mila volt, ma a basso amperaggio in brevi impulsi.

Diffuso inizialmente in 18 città e in 4.482 esemplari, il taser secondo la ministra Lamorgese «costituisce un passo importante per ridurre i rischi per l’incolumità del personale impegnato nelle attività di prevenzione e controllo del territorio». Non c’è traccia, invece, nelle parole della ministra, di preoccupazione per l’incolumità di chi sarà colpito dalle scarica di alta tensione.

Come sottolinea Amnesty, «negli Usa e…


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Crimini contro l’umanità, Putin nel mirino dell’Aja

La Corte penale internazionale ha aperto una indagine per presunti crimini internazionali commessi in Ucraina. È questa la risposta che l’organo giurisdizionale che ha sede all’Aja, sta dando per individuare e poi perseguire chi è responsabile (persone fisiche, non Stati) di potenziali crimini internazionali che appartengono a tre tipologie: crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio. Mentre la guerra prosegue con la sua tragica scia di vittime e distruzioni e la diplomazia internazionale stenta a far raggiungere il cessate il fuoco e l’apertura di trattative reali, il diritto fa sentire la sua voce contro la violazione dei diritti umani.

All’iniziativa della Corte penale internazionale (Cpi) va detto, per onor di cronaca, si è aggiunta anche la proposta, che tuttavia appare un po’ irrealistica, di creare con un trattato a parte un tribunale speciale solo per il crimine di aggressione contro l’Ucraina. I primi firmatari dell’appello sottoscritto da giuristi, politici e scrittori sono l’ex premier britannico Gordon Brown e Dapo Akande, docente di Diritto internazionale all’università di Oxford.
Intanto c’è un’altra notizia relativa alla repressione giudiziale dei crimini internazionali che riguarda direttamente il nostro Paese e che non è un caso che arrivi proprio nei giorni drammatici della guerra in Ucraina. L’Italia, ricordiamo, è tra i firmatari dello Statuto di Roma del 17 luglio 1998 ed entrato in vigore nel 2002, cioè il trattato istitutivo della Cpi. Nonostante la ratifica, l’ordinamento italiano non è stato ancora pienamente adeguato ai reati previsti dallo Statuto, né tantomeno è stata introdotta la cosiddetta giurisdizione universale per i crimini internazionali, come invece è accaduto in altri Paesi europei. Un vulnus che negli anni ha permesso che tanti crimini internazionali non fossero perseguiti nel nostro Paese. Il 22 marzo, con l’intento di risolvere questo problema, la ministra della Giustizia Marta Cartabia ha istituito per decreto una Commissione per l’elaborazione di un progetto di Codice dei crimini internazionali, presieduta da Francesco Palazzo e Fausto Pocar. Entro fine maggio giuristi, studiosi della materia, funzionari dei ministeri della Giustizia e degli Affari esteri presenteranno una proposta. Questa iniziativa di Cartabia era stata caldeggiata all’inizio di marzo da un documento indirizzato a governo e Parlamento – sottoscritto da un centinaio di giuristi di 50 atenei italiani – il cui primo firmatario è Andrea de Guttry, professore ordinario di Diritto internazionale della Scuola superiore Sant’Anna di Pisa.

Facciamo il punto sulla situazione attuale del diritto relativo ai crimini internazionali, sia alla luce dell’avvio delle indagini della Cpi in Ucraina che della Commissione istituita da Cartabia, con l’esperto in diritti umani e politiche globali Alessandro Mario Amoroso, ricercatore della Scuola superiore Sant’Anna di Pisa, che ha partecipato al gruppo di lavoro sul documento. Partiamo dalla novità della Commissione incaricata dalla ministra Cartabia. «Nell’ordinamento italiano al momento non c’è un testo unico che permette di punire i crimini internazionali e questa era una delle nostre richieste. Oltre a introdurre le fattispecie penali, cioè le diverse tipologie di crimini internazionali, così come indicate dallo Statuto di Roma, noi auspichiamo che nell’ambito del nuovo progetto di Codice sia riconosciuta anche la giurisdizione universale su quei crimini, cioè la competenza del giudice italiano a perseguirli in qualsiasi circostanza», afferma Amoroso. C’è il rischio che l’attuazione dello Statuto di Roma possa essere carente per alcuni aspetti? «Non basta dare solamente la definizione del crimine nell’ordinamento, se si fa solo questo – continua il ricercatore – resterebbero in vigore i criteri attuali per esercitare la giurisdizione, e quello principale è il criterio territoriale, cioè che il reato sia commesso sul territorio italiano. La giurisdizione universale invece va molto oltre: è la possibilità di perseguire un crimine ovunque sia stato commesso e da chiunque sia stato commesso».

È indicativo, continua Amoroso, il caso Matammud: il cittadino somalo imputato di omicidio, sequestro di persona e violenze sessuali ai danni di suoi connazionali in un campo di raccolta migranti in Libia che è stato condannato a Milano. «È uno dei rarissimi casi dell’esercizio della giurisdizione universale in Italia», commenta il ricercatore del Sant’Anna di Pisa. Altri Paesi europei hanno attuato lo Statuto di Roma. Come la Germania, dove esiste una buona normativa sui crimini internazionali e questo ha fatto sì che, a gennaio e a febbraio 2022 la corte di Coblenza abbia emanato due sentenze di condanna per crimini contro l’umanità nei confronti di due membri dell’intelligence siriana. Anche in questo caso, noto come “Caesar files”, si trattava di reati compiuti in un Paese straniero da cittadini stranieri.

In passato due corti internazionali istituite ad hoc dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite hanno permesso di assicurare alla giustizia i responsabili di crimini internazionali commessi durante la guerra in ex Jugoslavia e in Ruanda. Mentre per quelli perpetrati in Siria, nonostante gli accorati appelli della ex procuratrice del Tribunale internazionale per la ex Jugoslavia Carla Del Ponte, non è accaduto nulla. La Russia, infatti, membro permanente con diritto di veto del Consiglio di sicurezza dell’Onu, votò contro la proposta di conferire alla Cpi la competenza sul conflitto in Siria.

La Corte penale internazionale fino a dove può arrivare? Ne fanno parte 123 Stati, ma con assenze che “pesano”. «È obiettivamente un sistema imperfetto – afferma Alessandro Mario Amoroso -. Non hanno ratificato lo Statuto di Roma le grandi potenze come Cina, Stati Uniti e Federazione russa. Tuttavia, pur essendo un sistema imperfetto, è un punto molto più avanzato rispetto a quello in cui ci trovavamo prima del 1998. Perché permette alla Cpi di perseguire tutti i crimini che sono stati commessi sul territorio di uno Stato che è parte della Corte, anche se commessi da un presunto colpevole che è cittadino di uno Stato che non è parte della Cpi». E qui veniamo al caso dell’Ucraina che, pur non aderendo alla Cpi, dopo l’annessione della Crimea da parte della Russia e l’inizio del conflitto in Donbass «ha adottato una dichiarazione con la quale ha riconosciuto la giurisdizione della Cpi per tutti i potenziali crimini internazionali che hanno avuto luogo sul territorio ucraino da novembre 2013 in poi. Questo fa sì che oggi la Corte possa perseguire tutti i crimini internazionali anche se sono commessi da soldati russi, incluso ciò che sta avvenendo durante l’invasione». L’apertura delle indagini da parte del Procuratore capo della Cpi è stata resa possibile poi da quello che tecnicamente, spiega il ricercatore, si chiama refferal, cioè 39 Stati (tra cui l’Italia), su iniziativa della Lituania, circa un mese fa hanno chiesto alla Corte di interessarsi del caso Ucraina. «Al momento è abbastanza presto per comprendere cosa sta succedendo davvero sul campo, per avviare i processi bisogna innanzitutto raccogliere le prove», dice Amoroso.

Tra i crimini di guerra in un conflitto armato internazionale, come è questo in Ucraina, c’è anche l’attacco contro obiettivi civili. Il presidente Putin potrebbe quindi essere incriminato per crimini di guerra? «In teoria la norma che potrebbe permettere di incriminare il presidente russo sarebbe il crimine di aggressione, che è il crimine compiuto dalla leadership di uno Stato nell’iniziare una guerra di aggressione illegale, esattamente ciò che è avvenuto in Ucraina. Il problema è che sul crimine di aggressione lo Statuto della Cpi prevede un’attivazione condizionale, cioè prevede che gli Stati debbano ratificare un articolo aggiuntivo dello Statuto di Roma per accettare la giurisdizione della corte, che comunque nel caso del crimine di aggressione può esercitarsi solo nei confronti di cittadini di Stati parte della Cpi. Per il caso ucraino non sarà ancora possibile quindi perseguire il crimine di aggressione», spiega Amoroso. Ma c’è un però. «Se tutto questo è vero, è anche vero che nello Statuto di Roma si contempla anche la responsabilità dei superiori gerarchici che è una forma di responsabilità che permette di incriminare non gli esecutori materiali del crimine di guerra, del genocidio, del crimine contro l’umanità, ma coloro che esercitano l’autorità o il controllo sugli esecutori materiali. Superiori gerarchici non necessariamente inquadrati nella gerarchia militare». Quindi Putin potrebbe essere incriminato «nell’ottica della responsabilità dei superiori gerarchici».

Un’altra domanda, immaginando un Putin accusato di crimini di guerra che tra dieci anni si trovi a passare dall’Italia. Sarebbe arrestato? «Se noi dovessimo basarci sul nostro attuale diritto interno, nel caso non ci sia una norma nel Codice dei crimini internazionali (che la commissione appena incaricata sta redigendo), la nostra giurisdizione universale sarebbe molto condizionata. Attualmente ci sono casi limitati e che dipendono da una richiesta del ministro della Giustizia in carica, talvolta sollecitato dal tribunale. Ma tale condizione rende la giurisdizione universale un’arma spuntata, perché la sottomette alla discrezionalità politica. E questo è uno dei motivi per cui in Italia ci sono pochissimi casi di applicazione della giurisdizione universale e quando se ne trovano, si tratta di casi che hanno una connessione con l’Italia, come quello del carceriere somalo, legato ai flussi migratori».

Poi c’è un altro elemento. La questione dell’immunità di un capo di Stato. Il ricercatore del Sant’Anna di Pisa accenna al caso del presidente del Sudan Omar El-Bashir che doveva rispondere di crimini di guerra, crimini internazionali e genocidio per la guerra condotta in Darfur. Finché era presidente del Sudan, nonostante la Cpi avesse emanato un mandato di arresto a tutti gli Stati parte della Cpi, tutti si sono rifiutati di arrestarlo. «Ci sono stati numerosissimi casi davanti alla Cpi in cui si valutava proprio la violazione degli obblighi di esecuzione del mandato di arresto e al momento la questione è molto discussa. Nei fatti, però, la prassi statale va nel senso di non arrestare un capo di Stato in carica, nemmeno in presenza di un mandato della Cpi. Questo è molto significativo», sottolinea con amarezza il giurista. Oggi Bashir è sottoposto a giudizio in Sudan per reati finanziari ma non si è arrivati ancora ad un processo per tutti i crimini di violazione di diritti umani commessi nel Darfur.

Anche se il diritto penale internazionale, come si vede, è complesso ed è fortemente condizionato dalla politica e dalle grandi potenze, soprattutto quando si tratta di “pesci grossi” da incriminare, come è successo in passato per l’ex segretario alla Difesa statunitense Donald Rumsfeld e il presidente George W. Bush per l’invasione dell’Iraq, si tratta di un sistema da salvaguardare e da potenziare. «La giurisdizione universale – conclude Alessandro Mario Amoroso – è fondamentale per due motivi. Primo, perché dà una risposta alla domanda di giustizia di tantissime vittime che altrimenti non riceverebbero mai ristoro per i crimini che hanno subìto, proprio perché in tanti Stati gli autori delle atrocità sono protetti da dittature o da regimi autoritari. Il secondo motivo è che la giurisdizione universale crea una situazione in cui non esista nessuna “isola felice” per i colpevoli di crimini internazionali, cioè mira a far sì che i colpevoli non possano recarsi in nessuna parte al mondo, perché ovunque rischierebbero di essere arrestati e processati».

Il diritto, insomma, può essere un’arma valida per contrastare la violazione dei diritti umani. E a questo proposito, non possiamo dimenticare un altro corollario di questa guerra, che colpisce i cittadini russi. Il 15 marzo il Cremlino ha deciso di ritirarsi dal Consiglio d’Europa, l’organizzazione internazionale fondata nel 1949 a difesa dei diritti umani, nel cui alveo era nata la Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu). La Russia era nel Consiglio d’Europa dal 1996. Tutti i casi pendenti alla Cedu adesso sono stati sospesi. E d’ora in poi nessun cittadino russo potrà appellarsi alla Corte di Strasburgo per chiedere giustizia.


L’articolo è stato pubblicato su Left dell’1-8 aprile 2022 

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La pandemia è finita, il caos no

Foto Cecilia Fabiano/ LaPresse 10 Gennaio 2022 Roma (Italia) Cronaca : Primo giorno di rientro a scuola Nella Foto : il liceo Isacco Newton Photo Cecilia Fabiano/ LaPresse January , 10 2022 Rome (Italy) News : First day at school after Christmas Eve In The Pic : Isaac Newton high school

Oggi rientrano a scuola i docenti e il personale Ata non vaccinato. Dalle parti del governo dicono che la pandemia sia finita e che tutto torna alla normalità. Peccato che le cose siano un po’ diverse.

Nella nota del Ministero n.620 del 28 marzo 2022 si legge che «la vaccinazione costituisce requisito essenziale per lo svolgimento delle attività didattiche a contatto con gli alunni da parte dei soggetti obbligati». Il mancato adempimento dell’obbligo vaccinale,
accertato secondo la procedura di cui al comma 3 del medesimo articolo, «impone al dirigente scolastico di utilizzare il docente inadempiente in attività di supporto alla istituzione scolastica». Quindi cosa succede? Oggi gli insegnanti che rientrano non vaccinati non potranno fare lezione e quello che il governo chiama «attività di supporto alla
istituzione scolastica» non si sa bene cosa possa essere. Immaginate il preside di un istituto che si ritrova con un nugolo di insegnanti che non possono insegnare: deve tenere i supplenti (con i relativi costi) e deve inventare mansioni per gli altri almeno fino al 15 giugno 2022 (a meno che non venga prolungato l’obbligo vaccinale). Il tutto per un orario settimanale di 36 ore.

Ancora una volta sulle scuole viene scaricato il pasticcio legislativo. Il sottosegretario all’Istruzione leghista Sasso in un’intervista a Orizzonte Scuola ci fa sapere che il decreto riaperture (partorito dal governo di cui fa parte) crea un «corto circuito giuridico e pedagogico» (ma va?) e che «con un po’ di buon senso si poteva evitare questo sovraccarico di lavoro per i dirigenti scolastici». Peccato che il suo lavoro sia quello di scrivere Decreti che funzionino e non commentare quelli che non funzionano.

Il personale scolastico lamenta disattenzione dai sindacati e dalla stampa. A pagare, come sempre, sono gli alunni.

Bella questa fine della pandemia.

Buon venerdì.

Senza protezione

Sailboats used by smugglers to transport migrants are beached on Le Cannelle beach in Isola Capo Rizzuto, Calabria region, Southern Italy, Saturday, Nov. 13, 2021. Thousands of refugees have arrived in Italy this fall by a lesser-known migrant route, the Calabrian route from Turkey, paying heftier smuggling fees to travel on recreational sailboats that can be less conspicuous than the crammed inflatable boats used in the Central Mediterranean. (AP Photo/Alessandra Tarantino)

Dall’interno di una vecchia utilitaria, sotto un cielo pesante, M. attraversa in silenzio un quartiere deserto. Un lugubre stormo di uccelli neri sorvola i palazzi sovietici. Un paio di carri armati si immettono nella strada sobbalzando sull’asfalto crepato. M. scende dalla macchina e continua a piedi su una strada sterrata dove altre persone si radunano tra i campi e le case rurali. Sullo sfondo, una colonna di fumo nero rompe la continuità del grigio, i boati dei colpi di arma da fuoco interrompono il silenzio. C’è qualcosa in mezzo alla strada, M. continua a camminare lungo lo sterrato e gli passa vicino: è il corpo esanime di una donna.
M. vive a Mariupol, il principale porto ucraino e…


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L’uguaglianza negata

A girl stands next to the Belarusian fence as several Polish police officers stand guard at the Bruzgi-Kuznica Bialostocka border crossing, near the Belarusian-Polish border, on November 15, 2021, in Bruzgi, Belarus. Tension has risen on the border between Poland and Belarus, as thousands of people seeking to continue their advance towards the European Union have been crowding in, where in addition to living in the cold and in the open, attacks and altercations are taking place. What has happened is a new episode in the current tension on the border, the result, according to the European Union, of a retaliation by the Belarusian authorities against the sanctions issued after last year's elections in the country, which Brussels considered fraudulent. 15 NOVEMBER 2021;CAMP;MIGRANTS;BELARUS;POLAND;CRISIS Viktor Tolochko/Sputnik / Europa Press 11/15/2021 (Europa Press via AP)

Michael e Meshack sono fuggiti dall’Ucraina aggredita da Putin. Sono due ventenni che a Kiev studiavano economia e medicina all’università. «Come molti altri sono arrivati in Europa per salvarsi, confidando nell’enorme sforzo che l’Ue sta compiendo per accoglierli», scrive Giulio Cavalli che ne ha raccolto la storia per Left. A Palermo una signora che aveva messo a disposizione un alloggio per accoglierli ha ritirato la sua offerta quando ha saputo che si trattava di due ragazzi africani.

L’ucraino Myroslav (nome di fantasia), invece, arrivò in Italia nel 2018, aveva 22 anni. Trovato alla guida di una imbarcazione con 46 profughi iracheni, fu accusato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, e dopo tre anni di carcere in Italia e conseguente espulsione è giunto in Austria. Da qui lo scorso anno è stato respinto e deportato a Mariupol. «Siamo stati in contatto fino ai primi giorni dei bombardamenti russi ma da inizio marzo non ho più sue notizie», racconta la cooperante Valeria Colombo che osserva: «Oggi l’Italia apre le porte ai rifugiati ucraini, ma fino a ieri questi erano nel mirino delle autorità di frontiera. Negli ultimi anni decine di cittadini ucraini sono stati arrestati o deportati dall’Italia con l’accusa molto traballante di essere scafisti».

Attraverso la sua corrispondenza e quella della cooperante Nawal Soufi dal confine bielorusso con la Polonia raccontiamo l’immane emergenza umanitaria causata dal criminale attacco di Putin all’Ucraina, che ha già prodotto 4 milioni di profughi. Lo facciamo, tramite il reportage di Soufi, senza dimenticare i profughi ancora prigionieri della foresta fra Polonia e Bielorussia “colpevoli”, per l’Unione europea che non li lascia entrare, di provenire da Siria, Iraq, Yemen, Palestina, Egitto, Iran, Congo, India, Pakistan. Lo facciamo senza dimenticare chi è costretto ancora a sfidare le acque del Mediterraneo pur di fuggire dai lager libici.

Sono tutti ugualmente profughi. Tutti ugualmente scappano da un inferno di atrocità, come racconta in maniera toccante la nostra copertina disegnata fa Fabio Magnasciutti.

Ma l’Europa ancora nega questa fondamentale e naturale uguaglianza.
Sono stati fatti passi avanti, ma non sono ancora sufficienti: il 3 marzo per la prima volta è stata applicata la direttiva Ue 55/2001. Questa importante decisione, qui analizzata da Stefano Galieni, permette agli ucraini di poter circolare senza visto per 90 giorni all’interno dell’Unione europea ma soprattutto concede loro l’accesso accelerato alla protezione umanitaria per un anno, potendo così lavorare, andare a scuola, ricevere assistenza sanitaria. Ma se la Spagna ha deciso di applicarla in modo estensivo concedendola anche a cittadini di altre nazionalità che fuggono dall’Ucraina, non altrettanto hanno fatto Paesi come la Francia.

Per non dire dei Paesi dell’Est che, come dimostra il caso polacco, sono i più restii ad aprire le porte senza distinzioni. Tutto ciò fa sì che mentre i profughi ucraini (giustamente!) possono ricollocarsi liberamente nei vari Paesi Ue, quelli che arrivano dall’Africa, dal Medio Oriente, anche se fuggono da guerre, devono sottoporsi a tutte le procedure d’asilo e non possono muoversi dal Paese di primo ingresso, come stabilisce il Trattato di Dublino che non è ancora stato modificato (anche per colpa di Salvini e della Lega).

Ma c’è anche dell’altro: Polonia e Ungheria, che fanno a gara nel costruire muri e accolgono solo ucraini, bianchi e cristiani ora li usano come merce di scambio in una sorta di ricatto per costringere Bruxelles a sbloccare le decine di miliardi destinati ai loro Recovery plan nazionali bloccati a causa delle violazioni dello Stato di diritto messe in atto da Varsavia e Budapest. Come ben si vede, purtroppo, siamo ancora molto lontani da un’Europa dell’accoglienza nonostante i due milioni e mezzo di ucraini accolti in Polonia. Gesto eccezionale in questi giorni tragici. Ma forse dovremmo anche interrogarci, come ha fatto coraggiosamente Kenan Malik sull’Observer, sul perché questo forte senso in empatia con le speranze, le paure e le sofferenze delle persone in fuga scatti solo al grido: «Sono come noi».

Se confrontiamo la crisi di oggi con la “crisi dei rifugiati” del 2015, troviamo una narrazione del tutto diversa. Allora fu detto, ricorda Malik, che l’Europa era stata travolta da una «invasione». Arrivarono 1,3 milioni di domande di asilo e «furono usate per serrare la Fortezza Europa e per trattenere centinaia di migliaia di persone nelle condizioni più spaventose su entrambe le sponde del Mediterraneo… Non è una questione di numeri ma di volontà politica e di confini sociali e immaginativi che tracciamo».

Illustrazione di Fabio Magnasciutti per Left


L’editoriale è tratto da Left dell’1-8 aprile 2022 

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A proposito della neutralità dell’Ucraina

Noto che con molta leggerezza e ignoranza si parla della neutralità offerta dall’Ucraina alla Russia al tavolo delle trattative. Conviene fare un po’ di chiarezza, almeno per provare a uscire da quest’epoca in cui tutti da virologi sono diventati esperti di geopolitica.

Secondo il diritto internazionale, un Paese è neutrale se non interferirà in situazioni di conflitto armato internazionale che coinvolgono altre parti belligeranti. Non può consentire a una parte belligerante di utilizzare il suo territorio come base di operazioni militari, schierarsi o fornire attrezzature militari. Ai colloqui di pace in Turchia martedì, i negoziatori ucraini hanno affermato che Kiev era pronta ad accettare la neutralità se, in base a un accordo internazionale, Stati occidentali come Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna fornissero garanzie di sicurezza vincolanti. Ma l’aspirazione dell’Ucraina di aderire alla Nato non è un’invenzione di qualche analista filoputiniano: è scritta nella Costituzione.

Qualsiasi modifica richiederebbe l’approvazione della misura da parte di 300 legislatori su 450 in due sessioni parlamentari separate, e quindi essere convalidata dalla Corte costituzionale. Ad oggi, quasi tutti, riconoscono che nel Parlamento ucraino non ci sarebbero i voti per ottenere la modifica costituzionale.

Poi ci sono i sondaggi: secondo l’ultimo sondaggio condotto dalla società di sondaggi Rating all’inizio di questo mese, il 44% degli ucraini ritiene che il proprio Paese dovrebbe aderire alla Nato, un calo di due punti percentuali rispetto al sondaggio fatto a febbraio prima dell’inizio dell’invasione russa. Circa il 42% ritiene che l’Ucraina dovrebbe continuare a cooperare con la Nato ma non aderire. «Gli ucraini vogliono aderire alla Nato, ma se l’Europa offre l’adesione all’Ue e propone un pacchetto finanziario per ricostruire l’Ucraina, il dibattito sulla Nato potrebbe essere dimenticato per un po’», ha detto Mykola Davydiuk, analista politico con sede a Kiev.

Così, tanto per sapere di cosa stiamo parlando.

Buon giovedì.

Amnesty international: dal 2020 meno diritti e più conflitti

Woman hand holding on chain link fence for remember Human Rights Day concept.

No, non è solo la guerra in Ucraina. Per fortuna Amnesty international ci ricorda che bisogna fare i conti con la delusione generale per le false speranze riposte nel cambiamento di rotta sperato che in un momento difficile come quello della pandemia globale, avrebbe potuto spingere tutti i paesi del mondo e i potenti a puntare alla collaborazione, all’aiuto nei confronti dei paesi più poveri.

Nel suo ultimo rapporto sulla situazione dei diritti umani nel mondo si legge chiaro e tondo. «Gli Stati ad alto reddito hanno colluso coi giganti aziendali ingannando le persone con slogan vuoti e false promesse su un’equa ripresa dalla pandemia da Covid-19, in quello che è risultato uno dei più grandi tradimenti dei nostri tempi». E ancora: «Il rapido sviluppo dei vaccini contro il  Covid-19 era apparso come la perfetta soluzione scientifica e aveva  alimentato la speranza nella fine della pandemia per tutte e per  tutti. Invece, nonostante fossero state prodotte sufficienti dosi per vaccinare tutta la popolazione mondiale entro l’anno, il 2021 si è chiuso con meno del 4% della popolazione degli Stati a basso reddito completamente vaccinata».

«Sui palcoscenici globali del G7, del G20 e della Cop26 – ha commentato Agnès Callamard, segretaria generale di Amnesty international – i leader politici ed economici hanno dedicato scarsa attenzione alle politiche che avrebbero potuto generare un’inversione di rotta nell’accesso ai vaccini, aumentare gli investimenti nella protezione sociale e affrontare l’impatto del cambiamento climatico. I capi di Big Pharma e Big Tech ci hanno raccontato storie sulla responsabilità d’impresa.  Poteva essere il momento spartiacque per la ripresa, per un cambiamento genuino e importante, per un mondo più giusto. Invece l’opportunità è andata persa e si è tornati a quel tipo di politiche che alimentano la disuguaglianza. I soci del ‘Club dei ragazzi ricchi’ hanno fatto promesse in pubblico che si sono rimangiati in privato».

Nel 2021 scrive inoltre Amnesty international a proposito dei danni collaterali per le popolazioni civili, «sono scoppiati o sono proseguiti conflitti in Afghanistan, Burkina Faso, Etiopia, Israele/Territori palestinesi occupati, Libia, Myanmar e Yemen. Tutti gli attori sul terreno hanno violato il diritto internazionale umanitario e il diritto internazionale dei diritti umani». Detto in estrema sintesi, milioni di persone sfollate, migliaia uccise, centinaia sottoposte a violenza sessuale e sistemi economici e sanitari già fragili collassati a causa di nuovi o irrisolti conflitti. «Il fatto che il mondo non sia stato in grado di affrontare questo moltiplicarsi dei conflitti ha prodotto ulteriori instabilità e devastazione. Questa vergognosa mancanza d’azione, la costante paralisi degli organismi multilaterali e la mancata assunzione di responsabilità delle potenze hanno contribuito a spalancare la porta all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, che ha violato nel modo più evidente il diritto internazionale».

E poi c’è la libertà. Nel 2021 – spiega Amnesty international -, in almeno 67 Paesi sono state introdotte nuove leggi per limitare le libertà di espressione, di associazione o di manifestazione. Almeno 36 Stati degli Usa hanno approvato un’ottantina di provvedimenti per restringere la libertà di manifestazione, mentre il governo del Regno Unito ha proposto una legge che penalizzerebbe gravemente la libertà di riunione pacifica, anche attraverso l’ampliamento dei poteri di polizia. È aumentato anche il ricorso a forme nascoste di sorveglianza digitale. «In Russia – specifica l’organizzazione umanitaria – il governo si è basato sul riconoscimento facciale per eseguire arresti di massa di manifestanti pacifici. In Cina le autorità hanno ordinato ai fornitori di servizi Internet di non consentire l’accesso a portali “che mettono in pericolo la sicurezza nazionale” e hanno bloccato applicazioni in cui si discuteva di temi sensibili come lo Xinjiang e Hong Kong. Le autorità di Cuba, Eswatini, Iran, Myanmar, Niger, Senegal, Sudan e Sud Sudan hanno bloccato o limitato Internet per impedire la condivisione di informazioni e l’organizzazione di proteste».

Buon mercoledì.