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L’ostacolo al cambiamento climatico? La politica. (E lo dice il Financial Times)

FILE --- A Uniper energy company coal-fired power plant and a BP refinery are seen beside a wind generator in Gelsenkirchen, Germany, Jan. 16, 2020. A senior German official predicted Tuesday that the war in Ukraine and its impact on fossil fuel prices worldwide will provide a “massive boost” for the means and measures needed to curb climate change. Patrick Graichen, Germany's deputy energy and climate minister, said rising global prices for oil, gas and coal will accelerate the uptake of low-emission technology that simultaneously reduce countries' reliance on imports from Russia. (AP Photo/Martin Meissner, file)

Il rapporto dell’Ipcc (Gruppo intergovernativo delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici) è composto da 3mila pagine fitte di analisi su quali azioni intraprendere per scongiurare i pericolosi livelli di inquinamento già discussi a Parigi nel 2015.

In questi giorni sui media italiani è stato raccontato come un concentrato di speranza per limitare il riscaldamento globale a 1,5°. Come al solito si è scritto e discusso di stili di vita più ecologici a cui tutti noi dobbiamo aderire quanto prima ma secondo gli esperti dell’Ipcc sono necessari cambiamenti strutturali più radicali: ad esempio il consumo di gas, petrolio e soprattutto carbone deve diminuire drasticamente, anche se di petrolio e di carbone qui da noi si è tornato a parlare in questi giorni sfruttando la guerra in Ucraina.

Lo studio mostra che i prezzi delle alternative verdi ai combustibili fossili non solo sono diminuiti, ma sono precipitati. Tra il 2010 e il 2019, i costi dell’energia solare e delle batterie agli ioni di litio sono diminuiti dell’85%, mentre l’energia eolica è diminuita del 55%. I pannelli solari e le turbine eoliche possono ora competere con la produzione di energia da combustibili fossili in molti luoghi e lo sviluppo delle tecnologie verdi è aumentato vertiginosamente.

Ma in quel rapporto c’è scritto anche molto chiaramente che il problema più grande rimane sempre lo stesso: la politica. Addirittura il Financial Times (non propriamente un quotidiano comunista) lo scrive chiaramente: «Il problema più grande è la politica, come ha mostrato lo stesso Ipcc. Il suo rapporto è stato ostacolato da dispute tra i 195 Paesi che lo hanno approvato, alcuni dei quali dipendono fortemente dai combustibili fossili o non hanno le risorse per costruire un’economia più verde. Dopo più di un secolo di energia e uso del suolo insostenibili, il mondo ha iniziato a girare. È ora necessario trovare nuovi modi per spostarsi ancora più velocemente».

La guerra in Ucraina tra l’altro sembra favorire i conservatorismi che frenano lo sviluppo delle rinnovabili. Si inventeranno che non è il tempo, che siamo in emergenza, che è un problema di costi ma nasconderanno sempre la realtà: manca la volontà politica. Se n’è accorto perfino il Financial Times.

Buon giovedì.

Cosa diranno per spendere in armi

Repubblica titolava: “Perché l’aumento delle spese militari è un volano per l’economia”. La guerra per comprare armi è iniziata e trova i suoi scherani tra politici, giornalisti e presunti intellettuali. Ormai l’eccitazione è altissima.

Come scrive su Altraeconomia Lorenzo Guadagnucci «la logica di schieramento ha preso il sopravvento sul bisogno di riflessione. Le voci dissonanti, chi ha paventato un’estensione del conflitto, chi si è impegnato a ricostruire il ruolo della Nato dopo la fine dell’Urss con la sua discutibile espansione verso Est, chi ha fatto notare la discrepanza fra gli interessi della Nato a guida Usa e l’Unione europea, chi ha chiesto alla Ue di assumere un ruolo di mediazione anziché di parte in causa nel conflitto, chi ha parlato di resistenza civile da preferire a quella armata, è stato escluso dal dibattito, o relegato ai suoi margini. O, peggio ancora, è stato indicato come “amico di Putin”. La stessa manifestazione contro la guerra del 5 marzo è stata mal sopportata e quindi mal raccontata e poi espressamente attaccata (si è affermato nei media e in politica un esplicito antipacifismo). Un comodo “giornalismo di guerra” sembra avere preso il posto di un più difficile, ma necessario, “giornalismo nella guerra”. Comunque vada a finire, sarà difficile recuperare la credibilità perduta».

Ora partiranno i soloni a insegnarci che dobbiamo comprare armi per il nostro bene e Francesco Vignarca (di Rete italiana pace e disarmo) ha già suggerito cosa diranno: «Nonostante rapporti di forza in Parlamento non sarà così facile – scrive Vignarca – per governo (e fautori vari) concretizzare il “desiderato” aumento di spesa militare senza contrasto da opinione pubblica. Per cui, conoscendo i miei polli, ecco le “giustificazioni” pronte ad essere rilanciate: 1. “La spesa sociale e la spesa militare non sono in alternativa!” Forse a livello concettuale no (e ci sono vincoli che non permettono di trasferirla tutta…) ma ovviamente con risorse finite date se metti i soldi in una cosa non li hai più (o ne hai di meno) per l’altra… 2. “La spesa militare non è un costo ma un investimento!” Tutto da dimostrare, e comunque non vuol dire che si sa parlando di numeri astratti: sono soldi. In realtà è un gioco di parole (non si definisce nemmeno ambito semantico) per cambiare la “percezione”… 3. “La spesa militare conviene, ha ritorni economici!” Un “evergreen”, ampiamente smontato da numerosi studi… Certo qualsiasi spesa pubblica ha minimo ritorno economico e occupazionale (anche solo fordista) ma il problema è la minore efficacia e convenienza vs altri comparti. 4. “Aumento di spesa militare non è riarmo!” Certo c’è anche parte in uomini ed esercizio (pure missioni militari…) ma in media 25% va in nuovi sistemi d’arma (addirittura 30% per Italia recente). Quindi più spesa militare significa di certo più contratti per l’industria delle armi. 

Osservate bene i giornali e le dichiarazioni dei prossimi giorni e ci troverete dentro tutto.

Buon mercoledì.

Migranti detenuti in Ucraina, sotto le bombe

Men walk in a yard as smoke rises in the air in the background after shelling in Odesa, Ukraine, Sunday, April 3, 2022. (AP Photo/Petros Giannakouris)

Vicino alla città ucraina di Lutsk c’è un centro di detenzione per migranti finanziato anche dall’Unione Europea che sembra continui a trattenere un numero non precisato di migranti nonostante la guerra. Situato in una pineta nel nord-ovest dell’Ucraina, vicino al confine con la Bielorussia, il Zhuravychi Migrant Accommodation Center della regione di Volyn è un’ex caserma dell’esercito costruita nel 1961 che è stata trasformata in un centro di detenzione per migranti nel 2007 con fondi dell’Ue.

La moglie di un detenuto che è stato rilasciato la scorsa settimana ha detto che non c’erano rifugi antiaerei per i detenuti e che le guardie sono corsi giù per la strada quando è suonata la sirena. Un membro del personale di una Ong ha affermato di essere stata in contatto con diversi detenuti nelle ultime settimane. Al Jazeera ha visto i loro documenti d’identità e, in alcuni casi, i visti utilizzati per entrare in Ucraina. I detenuti provengono da Sudan, Pakistan e Bangladesh. Alcuni dei detenuti erano stati arrestati nei mesi precedenti all’invasione russa mentre cercavano di entrare nel territorio dell’Ue e sono stati riconsegnati alle autorità ucraine.

Niamh Ní Bhriain, coordinatrice del programma di guerra e pacificazione presso il Transnational Institute ha raccontato a Al Jazeera che il centro rientra nel programma di esternalizzazione delle frontiere dell’Unione europea. L’Ucraina ha ricevuto 1,7 milioni di euro per attrezzarne il sistema di sicurezza perimetrale e per le sbarre per porte e finestre. Negli ultimi anni vi sono state trattenute circa 150 persone. Fino alle ultime settimane vi erano detenute circa 45 persone.

I casi della storia rapidamente trasformano i popoli che concorrevano nel respingere i disperati in disperati che chiedono di essere accolti. Questa è l’ennesima lezione, solo che noi non impariamo mai.

Buon martedì.

Nella foto: bombardamento a Odessa

I diritti non invecchiano

L’Italia attende da oltre 20 anni una riforma dell’assistenza di lungo termine per le persone anziane (Long term care – Ltc). Intanto, il numero di anziani con problemi di non autosufficienza ha raggiunto i 3,8 milioni di persone. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza offre l’opportunità di riformare il settore prima del termine della legislatura. Sono questi i presupposti che, l’1 marzo scorso, hanno portato il Patto per un nuovo welfare sulla non autosufficienza a presentare una proposta di istituzione di un Sistema nazionale assistenza anziani.

Il welfare pubblico di fronte alla sfida demografica
Secondo i dati Istat, la quota di persone con oltre 65 anni rappresenta circa il 23% del totale della popolazione, un dato destinato a raggiungere il 33% tra il 2040 e il 2060. Si tratta di una percentuale nettamente superiore a quella registrata mediamente dagli altri Paesi europei e che pone il welfare italiano di fronte alla sfida della cosiddetta ageing society. Il rapporto sempre più squilibrato tra giovani e anziani è destinato a crescere in relazione, da un lato, all’invecchiamento della popolazione (in Italia, l’indice di vecchiaia è aumentato di circa 35 punti percentuali dal 2011 al 2021, passando da 145,7 a 179,3) e, dall’altro, al calo demografico dovuto alla riduzione delle nascite. Inoltre, oltre un terzo degli over 75 (circa 1,6 milioni) presenta una grave limitazione dell’autonomia e per un anziano su dieci questo incide sulle attività quotidiane di cura personale e domestica.
Nel prossimo futuro, l’invecchiamento della popolazione e il conseguente incremento dei bisogni di cura delle persone più anziane dovranno necessariamente essere accompagnati da una maggiore attenzione alle tutele (oggi insufficienti) e ai costi crescenti che derivano dalla perdita di autosufficienza e che, allo stato attuale, ricadono ampiamente sui nuclei familiari.

Ripensare la Long term care tra opportunità di riforma e reti di advocacy
La pandemia ha messo in evidenza l’inadeguatezza del modello italiano di assistenza agli anziani – i più colpiti dall’emergenza sanitaria e sociale – mentre l’invecchiamento richiama l’urgenza di una riforma organica del settore. Tuttavia, dagli anni Novanta, sono stati approvati solo interventi circoscritti, incapaci di limitare le ricadute di un sistema stratificato, disorganico e caratterizzato da crescenti disuguaglianze, territoriali e sociali. Nonostante siano state avanzate almeno 18 proposte di riforma, solo una è stata approvata: la legge 296/2006 di istituzione del Fondo per le non autosufficienze. Al contrario, il settore della Long term care è stato oggetto di profonde riforme in numerosi Paesi europei, tra cui Germania (1994), Francia (2002), Portogallo e Spagna (2006), Austria (2011).
Oggi il Pnrr e il fiorire di reti di advocacy rappresentano un’occasione preziosa per sostenere la spinta riformatrice necessaria per costruire il futuro della Long term care in Italia. È questo l’obiettivo del Patto per un nuovo welfare sulla non autosufficienza che ha presentato le…

Le autrici: Franca Maino e Valeria De Tommaso fanno parte di Percorsi di secondo welfare, laboratorio di ricerca dell’Università degli Studi di Milano 

L’articolo prosegue su Left dell’1-8 aprile 2022 

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Caporalato, lo sfruttamento emigra al Nord

Workers during Vendemmia - grape harvest in a vineyard in South Italy, Puglia

Radicchio, asparagi, mele, pere, kiwi e uva. Sono la frutta e la verdura che stavano coltivando e raccogliendo sei braccianti, originari del Marocco, quando ispettori del lavoro e carabinieri sono arrivati a sorpresa nei campi. E hanno scoperto che il padrone, un imprenditore quarantenne, sfruttava il loro lavoro senza un regolare contratto. Inoltre, secondo gli inquirenti, il titolare di una nota azienda agricola avrebbe collaborato con una cooperativa che si occupa di intermediazione di lavoro agricolo, la quale avrebbe fornito altra manodopera su cui speculare, da mettere all’opera aggirando le leggi, e le paghe. Risultato: multa da oltre 100mila euro e denuncia penale.

L’episodio, avvenuto lo scorso 5 marzo, a prima vista potrebbe sembrare uno dei tanti casi di avidità, illegalità e razzismo che si consumano nelle campagne italiane del Mezzogiorno. Ma, piccolo particolare, i fatti non si sono svolti al Sud. Siamo a Codevigo, piccolo paese di seimila anime nel padovano, a ridosso del fiume Brenta e a due passi dalla laguna veneta. E proprio qui, non a caso, è…


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“Attività umanitaria illegale”

Sei attiviste accusate di “attività umanitaria illegale”. «Pochi giorni fa sei nostre attiviste di sono state fermate e accompagnate in caserma da parte della polizia bosniaca mentre erano intente a fornire trattamenti sanitari contro la scabbia alle persone in movimento bloccate alla frontiera tra Bosnia e Croazia. Dopo ore di duro interrogatorio, le autorità bosniache hanno notificato sei decreti di espulsione dalla Bosnia per attività umanitaria illegale e tradimento della Costituzione bosniaca». Lo scrivono YaBasta Bologna e Laboratorio salute popolare , presenti in Bosnia ed Erzegovina da inizio anno nelle zone vicine al confine con la Croazia con il progetto B.u.r.n. – Health on the move promosso insieme a No name kitchen.

La decisione delle associazioni è quella di impugnare il decreto di espulsione per «smascherare l’ipocrisia delle politiche migratorie dell’Unione Europea, delle misure di contenimento, tutela e accoglienza delle persone che attraversano le sue geografie per sfuggire a guerra, miseria, schiavitù. L’intensificazione dei controlli delle zone informali di stanziamento delle persone respinte dall’Europa in Bosnia sta svelando il fallimento e l’incongruenza dell’immenso ammontare di risorse investite sulla sorveglianza dei confini e negli hub per migranti: Lipa è quasi del tutto vuota e militarizzata. Pur di non finire recluse, le persone in movimento, si adattano al meglio lungo la frontiera, sottoponendosi alle reiterate violenze dei respingimenti pur di farcela, mentre, dall’altra parte, le organizzazioni umanitarie subordinate all’Iom (l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, ndr), distribuiscono quelle poche risorse che non sono state destinate all’equipaggiamento delle forze di sicurezza o alla costruzione di muri e torrette».

Le associazioni nella loro denuncia spiegano che «il pretesto è sempre legale e securitario, normalizzando forme di “razzismo istituzionale”, come il divieto di offrire un passaggio a persone senza documenti, l’impossibilità per Pom (people on movement, i migranti, ndr) di prendere mezzi pubblici, il divieto e la stigmatizzazione di azioni di solidarietà da parte dei locali, in forma organizzata o meno».

«L’ipocrisia dell’assetto securitario riscontrato qui sul confine croato-bosniaco svilisce il profuso impegno all’accoglienza delle donne e dei bambini in fuga dall’invasione Russa dell’Ucraina – chiosano le associazioni nella loro nota -. La politica differenziale adottata in questo caso segna l’ennesima inadempienza delle istituzioni europee nella tutela del diritto internazionale e della protezione umanitaria. Se è su questo che oggi l’Europa sta definendo se stessa, sulle frontiere, sulla militarizzazione dei confini, la sorveglianza e l’attraversamento differenziale delle sue geografie, dobbiamo opporre un contraltare che disegni una nuova geografia, una nuova protezione internazionale, una nuova rotta».

Buon lunedì.

 

* Nella foto di Laboratorio di salute popolare un intervento sanitario sul confine bosniaco-croato all’interno del progetto Burn – Health on the move

Massimo Zamboni: È il tempo di ridare senso alle parole

«Patria non è parola leggera. Contiene in sé anche il mascheramento delle diseguaglianze, l’esercizio della violenza in difesa di interessi personali o di casta». È così che Massimo Zamboni parla del suo ultimo album, La mia patria attuale, titolo straniante che anticipa la poetica antiretorica che caratterizza ogni brano.
Il disco è prodotto da Alessandro “Asso” Stefana, storico chitarrista di Vinicio Capossela, che ha anche partecipato come polistrumentista insieme a Gigi Cavalli Cocchi, Simone Beneventi, Cristiano Roversi ed Erik Montanari.

Il risultato è un album il cui sfondo è la migliore tradizione del cantautorato italiano del Novecento: Guccini, Battiato, De André con alcuni riferimenti ai Csi, soprattutto negli arrangiamenti.
Di questo lavoro colpisce subito il rigore della levità. Condotti da sonorità intense ma contenute, si entra in un bosco di parole a volte leggere, a volte spinose, che si impigliano un po’ ovunque e costringono a soffermarsi, a tornare indietro, a guardare ed ascoltare meglio, colti dall’effetto di uno straniamento garbato. Massimo Zamboni, scrittore e musicista, tra i padri fondatori del punk rock italiano, storico chitarrista e compositore, dei Cccp prima, dei Csi poi, approda a questo album solista dopo un percorso intenso e consapevole in cui l’oggetto della ricerca sembrano essere proprio le parole.

La mia patria attuale (Universal) esce dopo dieci anni dal tuo ultimo progetto musicale La macchia mongolica, che era un album quasi esclusivamente strumentale. Nel frattempo hai scritto un libro sulla Mongolia e poi un romanzo, La trionferà (Einaudi), in cui sono invece le parole ad essere protagoniste. A guardare da fuori questa tua ricerca stilistica, La macchia mongolica sembra rappresentare una sorta di cesura come se ci fosse un prima e un dopo separato da un momento in cui le parole erano scomparse ed era rimasta la musica. Come ne sono uscite poi queste parole, quale è stato il loro viaggio e come sono diventate?
Quando ho pensato l’album La macchia mongolica avevo bisogno di lasciare le parole. Perché la Mongolia ha spazi sconfinati che si possono evocare più con i suoni che con le parole. Le parole in Mongolia, sono più definite, più radicate, hanno un significato pieno che noi ci siamo in qualche modo dimenticati e che non riuscivo a restituire con la nostra lingua. La lingua italiana è una lingua ricchissima di parole, ma usiamo sempre le stesse che alla fine si svuotano di significato; vorrei andare alla ricerca dei…


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Kéré e le forme dell’umanesimo

Il più prestigioso premio annuale per l’architettura, paragonabile per il suo valore al premio Nobel, è stato assegnato quest’anno a Diébédo Francis Kéré, primo architetto di origini africane ad essere insignito di questa onorificenza.
La motivazione della giuria recita così: «Sa, dall’interno, che l’architettura non riguarda l’oggetto ma l’obiettivo; non il prodotto, ma il processo. L’intero corpus di opere di Francis Kéré ci mostra il potere della materialità radicata nel luogo. I suoi edifici, per e con le comunità, sono direttamente di quelle comunità: nella loro realizzazione, nei loro materiali, nei loro programmi e nei loro caratteri unici… In un mondo in crisi, tra valori e generazioni che cambiano, ci ricorda ciò che è stato e continuerà senza dubbio ad essere un caposaldo della pratica architettonica: un senso di comunità e qualità narrativa, che lui stesso è così capace di raccontare con compassione e orgoglio. In questo fornisce una narrazione in cui l’architettura può diventare una fonte di felicità e gioia continua e duratura».

Vale qui la pena di ripercorrere la sua sorprendente storia, già raccontata da Left nel numero 5 del 2 febbraio 2018. Nato a Gando in Burkina Faso nel 1965, figlio maggiore di un capo villaggio in un contesto di diffuso analfabetismo, viene mandato a sette anni a studiare lontano dalla sua famiglia per poter leggere e tradurre la corrispondenza del padre.
Inizia così una storia ed una ricerca che lo porterà sino in Germania, prima nelle scuole serali, dove si mantiene facendo lavori artigianali, e poi all’università per apprendere i principi della sostenibilità e del risparmio energetico. Si farà subito notare il giovane Kéré, vincendo svariati premi, tra cui l’Aga Khan award for architecture e arrivando poi ad aprire uno studio a Berlino e quindi ad insegnare in alcune tra le più prestigiose università mondiali.

La sua opera ha sempre avuto una valenza politica: migliorare la qualità della vita e favorire l’istruzione della sua gente, sia attraverso la creazione di una fondazione per finanziare progetti nel suo Paese, sia realizzando architetture sociali sostenibili, molto economiche perché costruite utilizzando materiali, tecniche e mano d’opera locale, attente al contenimento energetico ed al benessere ambientale, in un contesto estremamente povero e flagellato da un clima estremo. Un’opera che sostiene a tutto campo il miglioramento delle condizioni di vita dei cittadini attraverso il sostegno all’istruzione, alla salute, all’occupazione e alla tutela di mestieri e tecniche tradizionali.
È ancora all’università Francis Kéré quando realizza, nel 2001, il primo nucleo della scuola di Gando. Dispone di risorse limitatissime, deve fare i conti con le condizioni dure del contesto, deve ancora conquistare la fiducia della sua gente. Mette a frutto quanto appreso all’università ma senza dimenticare le…


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Profughi di serie A e profughi di serie B, la crudele ipocrisia dell’Europa

Migrants from the Middle East and elsewhere gather at the checkpoint "Kuznitsa" at the Belarus-Poland border near Grodno, Belarus, on Monday, Nov. 15, 2021. The EU is calling for humanitarian aid as up to 4,000 migrants are stuck in makeshift camps in freezing weather in Belarus while Poland has reinforced its border with 15,000 soldiers, in addition to border guards and police. (Leonid Shcheglov/BelTA via AP)

«Le guardie di frontiera non ci danno cibo né acqua, neanche supplicandoli in ginocchio nella neve». Nemmeno le conseguenze della guerra in Ucraina sulle persone in fuga dalle bombe hanno “umanizzato” l’atteggiamento di Polonia e Bielorussia nei confronti di migliaia di profughi extra Ue che si trovano bloccati in territorio bielorusso con il miraggio di raggiungere l’Europa. La crisi umanitaria che si sta consumando dallo scorso autunno nel lembo di terra che divide l’Unione dal Paese alleato di Putin, tra km di filo spinato, ronde armate e gelo invernale non accenna a mostrare segnali di soluzione. Anzi la situazione nelle ultime settimane è peggiorata. Dopo lo scoppio del conflitto per tantissimi giorni i militari di frontiera si sono rifiutati di liberare le persone bloccate nella famigerata zona del filo spinato. Famiglie intere, composte da uomini, donne, bambini e anche persone anziane non hanno potuto mangiare, bere o avere un tetto sotto cui ripararsi.
Negli ultimi giorni oltre a siriani, iracheni, palestinesi yemeniti ed egiziani, si sono aggiunti anche dei cittadini cubani che hanno lasciato la Russia dopo che le loro carte di credito erano state bloccate per via dell’embargo imposto dall’Occidente a Mosca. Erano arrivati in Russia con…


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Profughi dall’Ucraina e non solo, tutte le falle dell’accoglienza italiana

11 March 2022, Poland, Medyka: Refugees from Dnipro talk to each other in front of a tent shortly after crossing the border from Ukraine to Poland. They were picked up by relatives and friends from Italy. Russian troops invaded Ukraine on February 24. Photo by: Sebastian Gollnow/picture-alliance/dpa/AP Images

Alessio Malinconico è un ragazzo di Scisciano, un comune di poche migliaia di abitanti in provincia di Napoli, impegnato con l’associazione Ya Basta – Nova Koinè, nell’assistenza a migranti e rifugiati. Fra le persone con cui collabora c’è una mediatrice culturale e colf ucraina che attende ancora una risposta alla propria richiesta di emersione dal lavoro nero presentata nel 2020. Aveva un figlio sotto i bombardamenti e non poteva uscire dall’Italia per riprenderlo. Alessio e un suo amico, Francesco, sono partiti: «Un viaggio un po’ da pazzi – si schernisce il giovane -. La zia del bambino ci ha raggiunto insieme a lui a Nadarzyn, a 20 km da Varsavia, noi lo abbiamo portato in Italia ed ora è con la madre. Nel mio Paese sono poi arrivati altri profughi e le porte si sono aperte, erano soprattutto donne con figli e l’accoglienza in famiglia è stata la prima risposta. Quando arrivano i ragazzi dai Paesi africani, o dall’Afghanistan, c’è meno disponibilità, ma, almeno loro sono in salvo». Alessio racconta che per queste persone in fuga dalla guerra non è stato possibile trovare posto all’interno del Sistema accoglienza e integrazione (il cosiddetto Sai, che ha sostituito lo Sprar), mentre gran parte dei Centri di accoglienza straordinaria nel napoletano (i Cas) sono gestiti da persone che definisce come “poco raccomandabili”: «In questi centri non vogliono gli ucraini – afferma Alessio – perché non li possono trattare come fanno con chi arriva da altri Paesi, il cui posto per dormire è subordinato a disciplina e obbedienza».

Mauro Collina dell’Associazione La villetta, di Bologna, racconta un contesto diverso. È un “veterano” delle…


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