Home Blog Pagina 315

La scuola dei migliori (tagliata, ancora)

Foto Cecilia Fabiano/ LaPresse 04 Novembre 2020 Roma (Italia) Cronaca Studenti manifestano davanti al ministero della pubblica istruzione per chiedere lezioni in presenza Nella foto: gli studenti svolgono le ore di didattica a distanza davanti al ministero Photo Cecilia Fabiano/LaPresse November 04, 2020 Rome (Italy) News Students demonstrate in front of the Ministry of Education to ask for face-to-face lessons. In the pic: students carry out the hours of distance learning in front of the ministry

Il Documento di economia e finanza è stato pubblicato. Mario Draghi, quello che ci esortava a investire nel “capitale umano” ha tradito le promesse con un bel taglio sull’istruzione: dal 4% del 2020 al (se andrà bene) il 3,5%. Se volete avere un’idea di come agiscano gli altri nell’Ue su scuola e università vi basti pensare che nel 2019 la media era il 4,7% del Prodotto interno lordo dell’Unione, alcuni arrivano oltre il 6% del Pil  come Svezia, Danimarca, Belgio.

«La spesa per la scuola nell’arco temporale del Def 2022-2025, si vede ridotta di mezzo punto di Pil. Come si farà ad attivare le transizioni ecologiche, tecnologiche e digitali con risorse che cambiano importi e destinazione? La musica è sempre la stessa, scritta sullo spartito del neoliberismo che pensavamo, a torto, avesse mostrato tutti i suoi limiti dopo la pandemia e la guerra», è stato il commento a caldo del segretario generale della Uil Scuola, Pino Turi.

Tra l’altro anche nei prossimi decenni non c’è nessuna previsione di crescita perché il Governo dei migliori ci fa sapere che il crollo demografico farà il suo. Ecco quindi come lo racconteranno: ci saranno meno bambini quindi in fondo noi stiamo investendo di più.

Tutto questo dopo 2 anni di pandemia in cui ci hanno ripetuto che non si sarebbero ripetuti gli errori del passato tagliando i soldi alla scuole e all’università. Tutto questo mentre ci ripetono che l’Italia può allegramente aumentare le spese militari perché tutto il resto non ne risentirà. Quindi è tutto normale, va tutto bene. Stiamo a posto così.

Buon lunedì.

 

 

Effetto Truffaut

«Fa bene rivedere i suoi film, fa bene ripassare la sua vita. Perché sia i film che la vita di François Truffaut ci ricordano che è sempre possibile sottrarsi a destini decisi da altri … per scrivere la propria storia».
Sin dalla premessa Paola Malanga, autrice del libro Il cinema di Truffaut – edito da Baldini e Castoldi – introduce il lettore ad un viaggio immersivo all’interno della vita e dell’opera cinematografica del regista francese, per restituirne un ritratto appassionato. A oltre venticinque anni di distanza dalla prima pubblicazione del 1996, questa seconda edizione acquisisce particolare rilievo perché ci sembra rivendicare, in maniera ancora più dichiarata, un’idea di cinema che ritorni ad essere veicolo di idee.

La prefazione al libro, che Paolo Mereghetti titola “Que reste-t-il de nos amours?”, rilancia una riflessione in tal senso, rimarcando la necessità – soprattutto negli anni dello streaming e della serialità – del ritorno ad un’immagine in costante e fecondo rapporto con un certo tipo di linguaggio, di movimento e di pensiero. Affinché l’autenticità dei personaggi, la palpitante spregiudicatezza del cinema di Truffaut, unitamente all’eleganza e alla ricercatezza delle inquadrature e dei movimenti di macchina, non vengano stigmatizzate come cose d’altri tempi.

La forza delle immagini di Truffaut, la loro potenzialità espressiva, risiede probabilmente nella capacità di veicolare una riflessione specificamente cinematografica coniugando arte e vita, autobiografia e universalità. Ed è per questo, come sottolinea Paola Malanga (neo direttrice della Festa del cinema di Roma) che i film di Truffaut «restano, inattaccabili dal tempo che passa».

Grazie ad una…

L’articolo prosegue su Left dell’8-14 aprile 2022 

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

 

L’araldo di Putin

«La Russia porta con sé la libertà… La Russia è l’unico stato Slavo che è stato capace di diventare un impero mondiale… E di secolo in secolo l’oriente russo sta conquistando l’occidente russo sottraendolo all’ovest non russo. Perché noi siamo Roma. Perché Roma siamo noi». Questa frase dai toni sinistri, che dà eco nel nuovo millennio agli orrori nazionalistici del Novecento, è di Alexander Dugin, politologo e filosofo russo. È uno dei massimi ideologi del neo eurasianesimo, un’idea politica reazionaria che richiama alla gloria e alla rifondazione dell’impero russo, basata sul mito della Terza Roma (tanto caro anche a Mussolini). Tutto ciò deve avvenire sotto la guida di un unico uomo dai valori religiosi e morali cristiani. Da alcuni analisti Dugin è definito il Rasputin di Putin, a causa dell’ascendente (ancora non perfettamente chiarito) sul presidente della Federazione Russa. Altri invece sostengono che la sua influenza sull’ex capo del Kgb è solo presunta essendo troppo legata, per i gusti della pragmatica propaganda del Cremlino, alla filosofia europea.

Ma se sul quadro personale ci sono dei dubbi, tutti gli studiosi invece concordano che…

L’articolo prosegue su Left dell’8-14 aprile 2022 

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

 

L’arte di non fare la guerra

Street artist Hijack's mural titled "War Child" is seen on a building wall in the Fairfax District of Los Angeles, on Monday, March 21, 2022

«Abbiamo detto che la vita ci sottrae in continuazione possibilità e ci preclude mille strade. L’arte invece fa il contrario: apre vie, apre alternative. Ed è per questo che dobbiamo riconoscere che non è solo come “d’estate la limonata”, bensì l’aria stessa che respiriamo». Così Jurij Lotman conclude la seconda lezione del quarto ciclo intitolato «L’uomo e l’arte» (1990). L’arte apre vie, apre alternative. Eppure, la guerra di Putin si estende a macchia d’olio e invade ogni cosa, ogni campo, incluso quello della cultura e dell’informazione autentica, ostacolando così ulteriormente il cammino verso la pace. È di questi giorni la notizia della chiusura della testata Novaja gazeta, che aveva resistito 34 giorni dall’inizio dell’«operazione speciale». Altre testate indipendenti e storiche stazioni radio come Echo Moskvy (L’eco di Mosca) erano uscite di scena alla vigilia della repressione imposta dalla legge russa del 5 marzo, che prevede fino a quindici anni di carcere per chi diffonde notizie “false” sulla guerra in Ucraina (è sufficiente chiamare le cose con il loro nome – chiamare “guerra” la guerra, per esempio).

A prendere la parola per annunciare la decisione di chiudere le pubblicazioni è stato il caporedattore di Novaja gazeta Dmitrij Muratov, premio Nobel per la pace nel 2021. Al secondo ammonimento da parte del Roskomnadzor (il servizio federale per il controllo dei mezzi di comunicazione di massa), Muratov ha capito che..

 

* L’autrice: Giulia Marcucci è professoressa associata presso l’Università per stranieri di Siena, dove insegna Lingua e traduzione russa e dirige il Centro studi sulla traduzione (CeST)

L’articolo prosegue su Left dell’8-14 aprile 2022 

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

 

Una cassaforte digitale per i tesori dell’arte ucraina

A view inside the Mariupol theater damaged during fighting in Mariupol, in territory under the government of the Donetsk People's Republic, eastern Ukraine, Monday, April 4, 2022. (AP Photo/Alexei Alexandrov)

Il teatro di Mariupol distrutto, la statua del duca di Richelieu protetta da sacchi sabbia nella Odessa sotto assedio. Sono immagini di alcuni beni culturali ucraini nei giorni della guerra. Secondo l’Unesco dall’inizio dell’invasione russa sono 53 i siti culturali già distrutti o danneggiati. Un salvataggio, seppure a distanza e a livello digitale, è quello che sta realizzando un team internazionale che fa capo all’Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn) che guida un progetto europeo che si chiama 4Ch, Competence center for the conservation of cultural heritage. «Quando è scoppiata la guerra ci siamo guardati tra di noi, dentro 4Ch, in primo luogo con i colleghi del Pin (Polo universitario Città di Prato), abbiamo cercato di capire se in Europa sarebbe partita qualche iniziativa, e qualcosa è partito, abbiamo contattato altri progetti europei e poi ci siamo detti: proviamo a vedere quello che si può fare noi per salvare la documentazione digitale dei beni culturali ucraini», dice Francesco Taccetti, ricercatore Infn e coordinatore del progetto 4Ch.

Avvisata la Commissione europea che ha dato la sua approvazione e l’ambasciata ucraina a Roma, è stata lanciata l’…

L’articolo prosegue su Left dell’8-14 aprile 2022 

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

 

Manon Aubry: Le chance della sinistra alle presidenziali francesi

Reportage au Parlement Europeen a Bruxelles avec Manon Aubry, leadeuse de La France Insoumise et de GUE / NGL.Report to the European Parliament in Br

Nell’imminenza delle elezioni presidenziali abbiamo raggiunto Manon Aubry, parlamentare europea per France insoumise e co-presidente del gruppo The Left, a Strasburgo. Il suo partito, che dopo l’aggregazione con numerosi soggetti sociali si presenta come Union populaire e ha candidato Jean Luc Mélenchon, è accreditato nei sondaggi, mentre scriviamo, di un risultato, dice Aubry, tale da poter impensierire Macron e Le Pen.

Alle presidenziali del 2017 France insoumise prese quasi il 20%. Cosa può accadere con Union populaire?
Macron e Le Pen hanno rifiutato qualsiasi confronto ma tutti i sondaggi hanno mostrato che è necessario fare i conti con noi. Siamo accreditati al 15% nelle intenzioni di voto. Ciò che sembrava impossibile qualche mese fa è ora una seria probabilità. I sondaggi mostrano che potremmo raggiungere il secondo turno eliminando l’estrema destra per poi battere Macron al ballottaggio del 24 aprile. Questa situazione non è frutto del caso ma di un lavoro iniziato più di un anno fa.

Su cosa si è basata la vostra campagna?
Il nostro programma rivendica la rottura netta con le politiche neoliberiste e riflette l’enorme vitalità dei movimenti sociali in Francia degli ultimi 5 anni: marce per il clima, mobilitazioni femministe, manifestazioni antirazziste, contro la distruzione delle pensioni, ecc. Union populaire ha riunito gli attori di queste lotte non attorno a un uomo ma ad un progetto comune lanciando una campagna di mobilitazione a tutto campo con grandi raduni popolari (100mila persone in Place de la République a Parigi) e incontri pubblici guidati da deputati in ogni città e villaggio. Siamo gli unici a bussare alle porte, ad andare davanti alla gente, a cercare gli astensionisti. Una vittoria rappresenterebbe un segnale per tutta la sinistra europea e globale. Il dibattito politico non può essere ridotto al liberalismo estremo contro l’estrema destra. L’alternativa è possibile e intendiamo dimostrarlo.

Avete dato estrema importanza ai temi sociali.
Certo. In caso di vittoria la prima misura che adotteremmo sarebbe il varo di una legge di emergenza per le classi popolari. Salario e pensioni ad un minimo di 1400 euro, il blocco dei prezzi dell’energia e dei generi di prima necessità per contrastare l’inflazione, l’età pensionabile a 60 anni, un’indennità di autonomia giovanile a mille euro e la garanzia che nessuno in Francia viva al di sotto della soglia di povertà.

Programmi ambiziosi, considerando i “danni” prodotti da due anni di pandemia e la crisi sulla crisi provocata dalla guerra.
In questo lasso di tempo le fortune dei 500 più abbienti si sono raddoppiate mentre in Francia ci sono 10 mln di poveri. Noi vogliamo una rivoluzione fiscale affinché l’1% più ricco paghi il dovuto attraverso la tassazione di…

L’intervista prosegue su Left dell’8-14 aprile 2022 

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

 

Quando Guerini voleva dimezzare le spese militari

Che la coerenza non sia una qualità di molta classe dirigente (non solo politica) in Italia lo sappiamo da tempo. Ma che il ministro della guerra Lorenzo Guerini provi a convincerci dell’ineluttabilità e addirittura della moralità che c’è nell’aumentare le spese militari è qualcosa che grida (pacifica) vendetta.

Era il 2014 quando Guerini (all’epoca vicesegretario del Pd) insieme all’allora sottosegretario Graziano Delrio con il gruppo Pd in commissione Difesa lavorava per equilibrare le «spese per la “funzione difesa” sulla base del paradigma 50-25-25, cioè 50 per cento per il personale, 25 per cento per l’esercizio e 25 per cento per gli armamenti». Se così fosse, si produrrebbero «risparmi nella spesa militare per armamenti non inferiori ad un miliardo di euro annui per il prossimo decennio». Avevano scritto proprio così.

Al tempo Guerini incassò anche gli applausi dell’allora Udc Pier Ferdinando Casini che disse testualmente: «Gli impegni militari servono ma io credo che faccia bene il governo, pur confermando gli impegni internazionali, ad alleggerire il programma previsto sugli F-35 perché siamo in una fase di difficoltà economiche e abbiamo necessità di dare ossigeno all’economia».

Era il periodo in cui il Pd veniva raccontato così su Huffington Post: «Rendere “sostenibile gli investimenti nel settore dei sistemi d’arma con le esigenze di finanza pubblica”. Nel mirino c’è il programma di acquisto dei cacciabombardieri americani F-35: da sospendere e ridurre. Ma c’è anche il programma “Forza Nec”, costo oltre 20 miliardi di euro: da sospendere. E poi ci sono anche le due portaerei in Marina militare: troppe, una delle due, via (probabilmente la Garibaldi). Creare “un organismo di controllo sulla qualità degli investimenti” perché al momento in Italia le spese le decidono i “singoli stati maggiori” senza coordinamento e spesso “in concorrenza” tra loro. Razionalizzare gli investimenti per i prossimi anni, che al momento risultano “superiori al 25 per cento del budget per la funzione Difesa”, mentre se questa quota fosse rispettata si produrrebbero “risparmi per un miliardo di euro all’anno per il prossimo decennio”».

Come si cambia, eh?

Buon venerdì.

Per approfondire: Left del 17 dicembre 2021

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

L’insensatezza della russofobia

Mural depicting the face of the Russian writer and philosopher Fedor Dostoevskij, created by the artist Jorit Agoch on the walls of the Righi industrial technical institute in Fuorigrotta. Fuorigrotta, Italy, March 16, 2022. (photo by Vincenzo Izzo/Sipa USA) Sipa Usa/LaPresse Only Italy 38196150

«La prima volta che mi hanno chiamato a parlare in televisione della guerra tra Russia e Ucraina, la prima cosa che ho detto è stata che non so niente di geopolitica, che mi occupo di una cosa meno importante, la letteratura. Uno degli ospiti in studio ha detto «No, be’, non è che sia meno importante», e quella è stata una delle pochissime volte, nella mia vita, che sono stato contento di essere contraddetto perché io, devo confessare, la penso proprio come quel signore lì.
Tanti anni fa ero a San Pietroburgo con un mio amico, passeggiavamo sul Litejnyj prospekt, siamo passati davanti alla sede del Kgb, il mio amico mi ha detto che c’era un funzionario del Kgb che aveva proposto di dichiarare quell’edificio monumento letterario. «Perché?», gli avevano chiesto, e lui aveva risposto «be’, son passati tutti di qui». Molti dei grandi scrittori russi del ventesimo secolo, Daniil Charms, Viktor Šklovskij, Iosif Mandel’štam, Anna Achmatova, Boris Pasternak, Michail Bulgakov, Iosif Brodskij, per esempio, hanno avuto a che fare, a Leningrado o a Mosca, col Kgb. In questo, il Novecento ha perpetuato la tradizione russa ottocentesca del potere costituito che, prima di tutto, ha paura della letteratura. Lev Trockij, in un saggio pubblicato nel 1923, scrive che…

*L’autore: Paolo Nori, scrittore e traduttore, è autore di saggi e romanzi. Tra i quali ricordiamo: Le cose non sono le cose, Bassotuba non c’è, Si chiama Francesca, questo romanzo, La grande Russia portatile. Tra le sue pubblicazioni più recenti, Sanguina ancora. L’incredibile vita di Fëdor M. Dostoevskij (Mondadori), finalista al Premio Campiello 2021. Una biografia sotto forma di romanzo che compone un ritratto inedito del romanziere e pensatore russo

L’articolo prosegue su Left dell’8-14 aprile 2022 

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

 

Il ruolo della cultura per un futuro di pace

A view inside the Mariupol theater damaged during fighting in Mariupol, in territory under the government of the Donetsk People's Republic, eastern Ukraine, Monday, April 4, 2022. (AP Photo/Alexei Alexandrov)

L’orrore compiuto a Bucha dalle truppe al comando di Putin è indicibile. È stato un eccidio di civili, con esecuzioni sommarie anche di anziani, donne e bambini. Di fronte alle immagini delle fosse comuni e dei cadaveri per strada c’è chi ha l’ardire di dubitare, negando questa agghiacciante realtà comprovata anche dalle immagini satellitari oltre che dalle testimonianze dei sopravvissuti. Torna alla mente Primo Levi quando diceva che non riusciva a parlare dell’Olocausto perché nessuno gli avrebbe creduto.

Mentre scriviamo dalla tv arrivano, violentissime, le parole del ministro degli Esteri russo Lavrov che parla di manichini, attori, sceneggiate. Come è possibile, ci chiediamo, che trasmettano questa criminale propaganda sulla tv pubblica italiana senza contraddittorio?
La verità atroce con cui dobbiamo tutti fare i conti è che truppe allo sbando in ritirata da Kiev o comandate dall’alto hanno commesso stragi sistematiche. Lo dicono i cadaveri ritrovati con le mani legate dietro la schiena, uccisi con colpi alla testa, non colpiti “per sbaglio” da un missile.

Ogni giorno si spalancano nuovi abissi di terrore. Non solo a Bucha ma anche a Irpin sarebbero state praticate torture di massa. E a Borodyanka ci potrebbero essere state più vittime civili che a Bucha. Arrivano notizie che parlano di stupri e atrocità di ogni genere con cui i soldati russi, le truppe cecene e i legionari della Wagner si sono accaniti sulle donne e sulla popolazione inerme, per distruggerne l’integrità psicofisica, arrivando poi a farne strage.

Conosciamo i crimini efferati e gratuiti che le truppe naziste in ritirata inflissero ai civili.
Ma guardando le immagini che arrivano da Bucha ci tornano alla mente anche i massacri compiuti nella ex Jugoslavia dai serbo bosniaci di Ratko Mladić, a cominciare da quello di Srebrenica.

E non sappiamo ancora quante persone sono state uccise a Mariupol, quasi rasa al suolo con la stessa tecnica a tenaglia che Putin aveva già usato ad Aleppo e a Grozny. Impossibile tacere. Non lo facemmo allora non lo facciamo oggi. Impossibile, da sinistra, non prendere posizione di fronte a questa atroce e insensata guerra in cui si fronteggiano un aggressore, la Russia di Putin e un aggredito, l’Ucraina di Zelensky, pur con tutti i difetti di una democrazia in fieri, con molte contraddizioni che non sono rappresentate solo dal battaglione Azov.

Fin dall’inizio di questa guerra nel nostro piccolo ci siamo schierati con nettezza per una proposta nonviolenta di risoluzione del conflitto, di costruzione della pace per via diplomatica, che non è stata ancora attuata con determinazione. Con dolore rileviamo che l’Europa non ha ancora esercitato quel ruolo che ci saremmo aspettati. Nata come sogno di pace, di costruzione democratica, inclusiva, basata sul rispetto dei diritti umani e sull’accoglienza, sta ancora mostrando troppo debolmente un volto democratico aprendo le porte ai profughi ucraini ma non facendo altrettanto con chi, di nazionalità diversa, fugge da questa o da altre guerre.

Cosa aspetta l’Unione europea a dare il via a una concreta iniziativa politica che porti a un cessate il fuoco e a una vera trattativa di pace? Perché in modo contraddittorio invia armi all’Ucraina ma poi continua di fatto a finanziare la guerra di Putin acquistando gas russo? Quante altre Bucha ci dovranno essere perché si decida per un embargo totale su gas e petrolio?

Invece di applicare sanzioni che ricadano in primis sullo zar e i suoi oligarchi, insensatamente, colpiamo il popolo russo isolandolo, mettendo al bando la sua straordinaria storia della letteratura e dell’arte, che innerva profondamente la cultura europea. Lavorare per un’Europa dei popoli e delle culture significa proteggere e preservare il patrimonio storico artistico ucraino (a cui – come raccontiamo su questo numero – sta lavorando anche l’Istituto nazionale di fisica nucleare italiano) ma significa anche non abbandonare quello russo, come scrivono ad apertura di questa storia di copertina lo slavista Lorenzo Pompeo, la docente di lingua e traduzione russa dell’Università per stranieri di Siena Giulia Marcucci e lo scrittore Paolo Nori che ha trasformato la minacciata censura delle sue lezioni su Dostoevskij alla Bicocca in un progetto da portare in giro per tutta l’Italia. I loro diversi punti di vista…

L’editoriale prosegue su Left dell’8-14 aprile 2022 

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

E dopo il Covid fu la guerra

Le metafore militari e guerresche con cui giornalisti e intellettuali si sono affrettati a descrivere l’ondata pandemica in modo del tutto non appropriato, da un giorno all’altro, sono divenute perfettamente e drammaticamente calzanti e opportune. Il nemico non è più un elemento naturale che costringe a chiuderci nelle nostre case; ma assume il volto più noto della guerra, così terribilmente umana, che quelle case ce le rade al suolo facendo fuggire nei bunker, nelle strade e in paesi lontani milioni di profughi.

Pare di essere catapultati all’improvviso nell’Europa degli anni Trenta, dopo che il mondo era stato sconvolto dalla prima Guerra mondiale e si preparava a entrare nella Seconda: stessi interessi di potenza, stessa miopia e stessa debolezza dell’Europa, stesse mire espansioniste e stessi metodi di trattativa internazionale e di sanzioni economiche. Negli anni Trenta però la ricerca sul nucleare era soltanto iniziata, ancora la bomba atomica non era stata sganciata e Hitler, Mussolini e Stalin stavano attuando i loro regimi totalitari.

Nell’era della globalizzazione post ideologica e post guerra fredda, segnata dalla fine degli Stati-Nazione, dalla crisi dell’idea di “confine”, ritornano tragicamente in primo piano questioni di nazionalismo acceso e di espansionismo territoriale, che spaccano il mondo intero di nuovo in due blocchi: Usa e Russia, Occidente e Oriente. Il teatro di guerra è la piccola Ucraina che viene utilizzata dalle super potenze per fare i propri interessi meramente economici e di egemonia. Ai tempi della guerra fredda le chiamavano “guerre per procura” ed erano combattute lontano dagli occhi di noi occidentali che ci illudevamo di vivere nell’era più pacifica di tutti i tempi.

Se gli anni Venti del XX secolo mostravano il volto del fascismo più nero che contrastava il pericolo comunista alle porte con l’idea dell’uomo forte al comando, dell’ordine e della violenza deflagrando poi nella seconda Guerra mondiale, gli anni Venti del XXI secolo mostrano i segni evidenti della crisi assoluta di quel modello economico, politico, sociale e culturale che l’Occidente ha messo in campo in maniera continuativa dagli anni Cinquanta fino a oggi. Il crollo del Muro di Berlino è stato infatti letto come una sconfitta esclusiva del modello comunista e il liberismo si è riproposto con autorità indiscussa, senza pensare che la fine della guerra fredda fosse un monito per entrambi i protagonisti.

Il Patto di Varsavia si era dissolto, ma la Nato ha continuato a sussistere e a ingrandirsi nonostante che il nemico contro cui era sorta fosse deceduto. Prima la pandemia ha manifestato in tutta la sua drammaticità le lacune di una logica liberista che considera soltanto il profitto degli interessi capitalisti, riportando al centro della scena pubblica il mondo della scuola e della sanità, ora tornati a essere fanalini di coda delle decisioni governative che stanziano soldi per armi e mezzi pesanti; in questi giorni la guerra tra Russia e Ucraina evidenzia poi che la soluzione non può essere trovata all’interno degli schemi consueti della logica occidentale che risponde alle armi con le armi.

Ciò nonostante il dibattito pubblico si è acuito e polarizzato al punto che pare non si riesca più a ragionare per tentare di condurre un’analisi seria e profonda dei limiti, delle incongruenze di linee politiche ed economiche nostrane, che invece che fermarsi e proporre soluzioni alternative sfruttano il precipitare degli eventi per serrare le fila su se stesse.La razionalità occidentale fonda la sua egemonia su un’idea di essere umano naturalmente aggressivo ed egoista e trasla quest’idea ai rapporti internazionali.

Da Hobbes a Kant, da Hegel a Freud si è sempre affermato che l’individuo, e di conseguenza gli Stati, ricercano soltanto il proprio tornaconto personale per il quale sono disposti a uccidere e ad aggredire. Soltanto la razionalità e un consesso di Nazioni, al massimo, possono tenere a freno le pulsioni violente e animali che, ciclicamente, sono pronte a uscire lungo il corso della storia. Ma l’equilibrio raggiunto sarà sempre precario perché la vera natura degli uomini è la guerra di tutti contro tutti e, qualora essa scoppi, soltanto la paura del più forte potrà tenere a bada gli aggressori.

Se questa è l’antropologia sottesa è ovvio che la ragione si riproponga come unica soluzione, una razionalità che non sa che vedere se stessa e la sua logica e che non è disposta a mettersi da parte per liberare un pensiero nuovo e diverso che non agisce per un tornaconto personale e per un utile. Avere il coraggio di rompere gli antichi schemi, di uscire dal sistema significa, per esempio, sottrarsi all’egemonia statunitense, fondando davvero un’Europa politica e culturale e non soltanto economica, in grado di contrastare il richiamo fascista al nazionalismo etnico con un’idea di Unione culturale tra le genti.

Significa mettere definitivamente da parte gli antichi organismi militari sorti quando ancora era possibile difendersi senza rischiare di far perire l’umanità intera. Tecnologia e conoscenze scientifiche sono andate avanti in maniera esponenziale: mettiamole al servizio degli esseri umani e non per distruggerli. Il XXI secolo ha questo in più rispetto al XX: che viene dopo quest’ultimo e non può dire: “Non immaginavamo…”.

L’editoriale è tratto da Left dell’8-14 aprile 2022 

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO