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Il fascismo è guerra

A Ukrainian serviceman walks on a destroyed Russian fighting vehicle in Bucha, Ukraine, Thursday, April 7, 2022. Russian troops left behind crushed buildings, streets littered with destroyed cars and residents in dire need of food and other aid in a northern Ukrainian city, giving fuel to Kyiv's calls Thursday for more Western support to help halt Moscow's offensive before it refocuses on the country's east. (AP Photo/Vadim Ghirda)

Anche la propaganda ha i suoi arsenali, che, come quelli militari, hanno bisogno di tempo per essere messi a punto.
Cinquantuno giorni fa abbiamo assistito attoniti alla dichiarazione, in diretta tv, dell’invasione dell’Ucraina da parte delle forze armate russe. Fra le parole pronunciate da Putin in quella messinscena grottesca, parole quali «smilitarizzazione, neutralità, indipendenza delle repubbliche autonome», ce n’era (almeno) una che apparve subito, a chi vedeva e ascoltava quanto stava accadendo sotto i suoi occhi, decisamente incongrua, per non dire incredibile.

«Denazificare l’Ucraina»: questo uno degli obiettivi del Cremlino. Che in Europa, in Russia e negli Usa, siano state ormai sdoganate forme, partiti e movimenti di chiara ispirazione fascista, non è un mistero per nessuno. E non suscita alcuna indignazione, anzi (le recentissime elezioni presidenziali in Francia, al di là della tenuta di Macron e dell’exploit della sinistra radicale, hanno assegnato il 30% dei suffragi a due partiti di estrema destra).

Quindi, se nei fatti i (neo o post) fascisti e i (neo o post) nazisti ci sono, perché stupirsi di quella parola, «denazificazione»? Per due motivi. Innanzitutto perché sentirla pronunciare dal capo di una potenza mondiale per giustificare l’aggressione ad uno Stato sovrano, costringe ad un’operazione mentale che ha del pazzesco, cancella 80 anni di storia. Sembra di essere tornati negli anni Trenta. E non è vero. Non lo siamo. Le dinamiche e le motivazioni di questa guerra sono tutte profondamente radicate nel presente, rispondono ad equilibri geopolitici ed interessi economici di enorme portata, ma tutti legati al recente passato e soprattutto al prossimo futuro.

L’altro motivo per cui quell’espressione suona indecente è la connivenza con quella stessa ideologia di chi le pronuncia e contro cui si vorrebbe ergere. Basti pensare a quanto l’imperialismo putiniano faccia uso di una massiccia retorica nazionalista, ispirata all’ideologo dell’euroasianesimo di Dugin. Siamo davanti a un doppio carpiato cognitivo che in un sol colpo vorrebbe farci credere che il XXI secolo non è mai cominciato e che i mercenari del gruppo Wagner sono antifascisti.

Ma da qui in poi il doppio carpiato diventa triplo. Il 18 novembre 2021, appena tre mesi prima dell’invasione, la Terza commissione Onu ha approvato una risoluzione il cui testo recita: «Combattere la glorificazione del nazismo, neonazismo e altre pratiche che contribuiscono ad alimentare le contemporanee forme di razzismo, discriminazione razziale, xenofobia e relativa intolleranza». Gli unici Paesi che hanno votato contro sono stati l’Ucraina e gli Usa. La mozione, proposta allora dalla Russia, aveva lo scopo di cominciare a contarsi? E l’essere o non essere nazisti è diventato un dettaglio, una parola vuota, un metro qualsiasi per decidere chi sta con chi? Ma soprattutto, con l’inizio della guerra d’aggressione voluta da Putin, è cominciato un martellamento mediatico volto ad equiparare i resistenti ucraini ai partigiani italiani, “dimenticando” che la lotta di liberazione italiana, ed europea, fu antifascista e antinazista.

Non c’è bisogno di trasfigurare un Paese aggredito per giustificare il suo diritto alla resistenza. Perché farlo? Perché assimilare le forze armate ucraine, e i volontari che con loro combattono, alle formazioni partigiane che, sotto la guida del Comitato di liberazione dell’alta Italia, il 25 aprile del 1945 proclamarono l’insurrezione in tutti i territori ancora occupati dai nazifascisti? Se lo si fa, e lo si sta facendo, il carpiato cognitivo diventa quadruplo, quintuplo. Solo qualche nota: il 20 dicembre del 2018 la Rada ucraina votò, a larga maggioranza, una risoluzione che contiene le seguenti parole: «Stepan Bandera fu una figura di rilievo e un teorico del movimento di liberazione nazionale dell’Ucraina». Questa risoluzione istituisce l’1 gennaio, giorno della nascita di Bandera, quale festa nazionale. Piazze, monumenti e strade di Leopoli, Kiev, Kharkiv sono intitolate al fondatore dell’Oun, un partito nazionalista e fascista fondato a Vienna alla fine degli anni Venti, che collaborò con la Germania nazista durante l’avvio dell’invasione dell’Urss, nei primi anni 40.

Quando le truppe sovietiche si ritirarono da Leopoli, annunciò la creazione di uno Stato ucraino indipendente e dichiarò di voler sostenere i piani espansionistici nazisti, giurando fedeltà a Hitler. Altra nota: il 7 aprile scorso, il presidente Zelensky è apparso in videoconferenza col Parlamento di Atene, accompagnato da due soldati del reggimento Azov; questo fatto, che ha dell’incredibile, ha suscitato un’ondata di indignazione fra i parlamentari elleni (sono usciti dall’aula parte dei deputati di Syriza, tutto il Kke e il deputato Yanis Varoufakis, leader di Diem 25).

E tuttavia, sarebbe folle affermare che il governo ucraino (e ancora meno lo Stato, e meno ancora il popolo) sia nazista. Folle e falso. Altrettanto folle e falso è equiparare il governo nazionalista di Putin al regime nazionalsocialista tedesco degli anni 30, e fare di Putin un novello Hitler. Sul breve periodo questa operazione mediatica, e politica, serve a giustificare la decisione di appoggiare le forze armate ucraine (ma di nuovo, che bisogno c’è di giustificare con un surplus ideologico e mistificante, il diritto alla resistenza di un popolo aggredito?).

Sul medio periodo invece temo che questo corto circuito storico e cognitivo possa servire a ridimensionare, normalizzare il nazifascismo, per quello che realmente è stato. E relegare in una vecchia soffitta le idee e le vite date per combatterlo. Da questa guerra se ne potrà uscire solo con una pace negoziata. Difficile, impervia, in opposizione a tutti i protagonisti, grandi e piccoli, di questa tragedia. Ma pace. Pace e antifascismo.

L’articolo prosegue su Left del 15-21 aprile 2022 

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Un nuovo ordine mondiale

L’antefatto. Lo scorso 6 febbraio, a pochi minuti dalla conclusione del tutto sommato breve (meno di due ore) “storico” incontro tra Xi Jinpin e Putin a margine dei Giochi olimpici di Pechino, l’ufficio stampa del Cremlino pubblica in tre lingue un lungo comunicato stampa di 15 pagine, nel quale descrive nei particolari (Taiwan, Nato, Ucraina) il “nuovo ordine mondiale” sul quale i due Paesi avrebbero concordato. L’iniziativa prende di sprovvista Pechino, che aveva preparato il solito, scarno comunicato di poche righe e obbliga i locali interpreti agli straordinari.

Ci vorranno oltre 6 ore perché emerga finalmente anche la versione cinese, peraltro traduzione fedele di quella russa. È uno dei tanti segnali che la famosa alleanza strategica «senza limiti», come era stata solennemente definita nella breve apparizione congiunta presso la lussuosa Fang Hua Yuan – la guest house dove i dirigenti cinesi hanno accolto e accolgono gli ospiti stranieri di riguardo, da Kissinger a Kim Jong Un – di limiti ne ha. E che abbia cominciato a vacillare prima ancora di essere annunciata. Se, come e quando ciò verrà in qualche modo “comunicato” all’esterno è altra cosa. Ma già emergono, pur nella…

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Come stiamo messi

Foto Mauro Scrobogna /LaPresse 10-04-2022 Roma, Italy Politica RAI - trasmissione mezz’ora in più Nella foto: Enrico Letta ospite dell’ approfondimento giornalistico condotto da Lucia Annunziata Photo Mauro Scrobogna / LaPresse April 10, 2022 Rome, Italy Politics RAI - mezz’ora in più broadcasting In the photo: Enrico Letta guest of the journalistic study conducted by Lucia Annunziata

Scorrendo solo un po’ di notizie, al di là di quelle terribili sulla guerra. Cosa è accaduto negli ultimi giorni?

Il segretario del Pd Enrico Letta ha scelto Il Foglio (giornale con più bonifici dallo Stato che lettori) per farci dono del suo manifesto politico. L’ha fatto sul giornale dei liberali che sono dalla parte delle libertà delle imprese e intanto mantengono la loro con i sussidi, l’ha fatto sul giornale che nega il cambiamento climatico e che concima l’aporofobia. Il Foglio, per ringraziarlo, il giorno successivo (cioè ieri), ha pubblicato un pubblico elogio del battaglione nazista ucraino Azov.

Quindi, in sostanza, mentre si massacra l’Anpi si normalizzano i nazisti. Lo so, è un copione già visto.

A proposito: ieri Giorgia Meloni ha detto di avere “punti in comune” con Enrico Letta. Avanti così.

Nel frattempo si scopre che con i soldi del Pnrr si costruisce una base militare in un’area protetta. Pd e Lega si sono svegliati e dicono che non sono d’accordo. Troppo tardi. Che sbadataggine curiosa.

Nel frattempo aumentano le spese militari ma chi si oppone è considerato un disertore. Roba già vista, basterebbe studiare un poco:«Tutto quello che c’è da fare è dire alla gente che sta per essere attaccata, denunciare i pacifisti per mancanza di patriottismo e perché mettono in pericolo il Paese. Funziona allo stesso modo in ogni Paese», disse il “maresciallo del Reich” Hermann Göring al processo di Norimberga.

In Francia la sinistra di Melenchon viene dipinta come pittoresco populismo. Esattamente come accade da noi.

Stiamo messi così. Buon giovedì.

 

«I talebani? Saranno le donne e la società civile a spazzarli via dall’Afghanistan»

Women gather to demand their rights under the Taliban rule during a protest in Kabul, Afghanistan, Friday, Sept. 3, 2021. As the world watches intently for clues on how the Taliban will govern, their treatment of the media will be a key indicator, along with their policies toward women. When they ruled Afghanistan between 1996-2001, they enforced a harsh interpretation of Islam, barring girls and women from schools and public life, and brutally suppressing dissent. (AP Photo/Wali Sabawoon)

«Non si tratta tanto di stabilire se i talebani siano 2.0 o meno, è la gente dell’Afghanistan che è cambiata in questi 20 anni». A parlare è Saad Mohseni, presidente di Moby Group e soprattutto fondatore di Tolo Tv: un modello televisivo che dal 2002 ha contribuito in modo determinante alla modernizzazione del Paese. Ora Tolo, espressione di un forte gruppo editoriale con sedi anche in Asia centro-orientale, in Medio Oriente e in Africa, opera ancora in Afghanistan anche se con un difficile rapporto con i talebani. I quali non solo condizionano la programmazione, ma hanno anche di recente arrestato tre suoi dipendenti – uno dei quali torturato – dopo che l’emittente aveva messo in discussione le restrizioni sulle soap-opera. «C’è una realtà con cui dobbiamo fare i conti, un nuovo ambiente in cui dobbiamo navigare», dice Mohseni, 55 anni, figlio di un diplomatico afgano, formatosi in Australia e tornato a Kabul dopo la fine del primo governo talebano. Il manager era uno dei tanti ospiti afgani del Festival internazionale del giornalismo conclusosi il 10 aprile a Perugia, e che ha dedicato molti eventi all’Afghanistan. Tolo Tv, da parte sua, ha una sezione dedicata proprio agli attacchi che continuano contro i giornalisti nel Paese.

Anche i talebani guardavano Tolo Tv? «Certo, alcuni vedevano parte dei nostri programmi – ha detto Mohseni in uno dei suoi incontri a Perugia – e usavano le nuove tecnologie. In prigione guardavano soap opera indiane. E ancora lo fanno». Ma intanto, appunto, l’Afghanistan è cambiato: se prima la popolazione era per l’80% rurale, sottolinea, ora almeno la metà vive o ha avuto esperienze in aree urbane; la maggior parte dei giovani è scolarizzata; si è formata una nuova generazione di giornalisti e registi; le donne hanno preso coscienza dei propri diritti e molte sono pronte a difenderli.

In questi ultimi anni, racconta Mohseni, Tolo Tv ha «sempre parlato con i talebani», nonostante i sette dipendenti morti e i 18 feriti in un attacco suicida del 2016 contro il bus in cui viaggiavano, ha tentato di comprenderne le motivazioni e fatto programmi su di loro. Eppure anche a Tolo sono rimasti sorpresi dalla rapidità del loro arrivo a Kabul, troppo presto per i piani di evacuazione che pur erano pronti. «Poi sono venuti a parlare con noi, in un paio di mesi sono cominciate le restrizioni: abbiamo tolto tutta la musica e le soap opera turche, e cominciato a trasmettere più produzione locale. L’unica cosa che non è cambiata molto sono state le news, dove continuano ad esserci anche le donne, sia davanti che dietro la telecamera». Anzi, ora sono aumentate da 8 a 22 rispetto al 2021, una vera e propria presa di posizione, la definisce, nei confronti dei talebani. Con i quali, proprio sulla presenza delle donne sullo schermo e negli eventi stampa, dove talvolta sono ammesse e altre no, c’è «una strana danza: tutti cerchiamo di conoscerci a vicenda». «È vero, alcuni talebani hanno detto che ci avrebbero chiuso, ma si trattava di individui, non di istituzioni, che invece hanno dichiarato di volere che i media restino». Ma la minaccia rimane, «forse è solo questione di tempo» prima che anche Tolo debba chiudere come tanti altri media. C’è poi il problema dell’economia ferma da mesi e degli introiti pubblicitari, ma Moby Group resta, almeno per ora. E fornisce l’intrattenimento vietato sullo schermo con produzioni delle sedi estere tramite Youtube, i social media e altri supporti internet. E punta anche sui programmi educativi, non solo per le ragazze che ne sono rimaste prive, dopo la recente decisione dei talebani di non riaprire loro le scuole secondarie, ma anche per la carenza di insegnanti, molti dei quali sono fuggiti, insieme ad altri 2-300mila afgani fra i più preparati.

Quanto all’esclusione delle ragazze dalle scuole superiori, «a criticarla è stato un gruppo degli esperti religiosi più autorevoli – sottolinea Mohseni – e questo mi dà speranza: anche i più conservatori sono stati trasformati in questi 20 anni». Possono ancora prevalere i più rigidi? «Sì, possono, ma c’è anche la possibilità che continui l’attuale frammentazione del potere». Fra i talebani infatti, nonostante la compattezza sul piano ideologico, «tutti sono al potere e nessuno è al potere». Ma Mohseni si mostra ottimista: «Dalle ceneri qualcosa di nuovo nascerà, i media sono il ponte con quello che verrà». E se molti afgani sono fuggiti, «non dobbiamo dimenticare i milioni rimasti. Le donne, la società civile, sono loro che manderanno via i talebani, e non con la forza». Ma intanto ci sono opportunità per un governo più inclusivo, sottolinea, che potrebbe fondarsi sulla Loya jirga, assemblea degli anziani da centinaia di distretti. «Serve più inclusione, delle etnie, delle donne, della società civile: se i talebani non la fanno seminano per la propria distruzione futura». Ma ora i talebani, avverte, rappresentano anche «tre minacce per i Paesi vicini e l’Occidente: droga, terrorismo e profughi».

A evidenziare il rischio di un rafforzamento del terrorismo è anche Bilal Sarwary, analista e giornalista afgano che ha lavorato a lungo con i media occidentali e in particolare con la Bbc.
«Penso che il problema maggiore per i talebani sia come uscire dalla loro relazione con al Qaeda e i foreign fighters: una relazione generazionale, ideologica e storica, che ha contribuito alla trasformazione della loro insurrezione secondo il modello iracheno». Ma i talebani sono «una delle tante realtà dell’Afghanistan – aggiunge in una conversazione privata -, non li possiamo ignorare. Ho dovuto fuggire perché sono venuti a bussare alla mia porta – aggiunge il giornalista, che ora vive in Canada -. Ma se li accettiamo come una delle realtà del Paese allora possiamo arrivare da qualche altra parte». D’altronde anche i talebani devono fare molto per cambiare: devono relazionarsi meglio con i loro vicini regionali, per esempio, fra cui l’Iran, con il quale «al momento non hanno un buon rapporto». E soprattutto non hanno acquisito capacità di governo: se non lo faranno, con l’aiuto della gente esperta del Paese, «cadranno come un castello di carte». «Credo che tutti debbano lavorare con i talebani, perché se non proviamo a ridurne il potere, vedremo un altro ciclo» di scontri e guerre.

E i talebani di oggi, come sono? «Si possono dividere – risponde Sarwary – in tre gruppi: i soldati poveri dei villaggi o quelli che hanno avuto familiari uccisi negli attacchi aerei, che sono privi di ogni esperienza nel gestire ora la sicurezza; la leadership militare, influenzata da al Qaeda e dai foreign figthers. Infine, la leadership politica che sta sui social media e incontra i funzionari occidentali in Qatar: è brava sul fronte diplomatico, ma non nel governo e nell’economia».

È possibile riconoscere politicamente i talebani? «I riconoscimenti vanno fatti in un quadro inclusivo, su una strada di riconciliazione e di risanamento delle ferite, sul far ripartire l’economia, sulla coesistenza nella regione. Insomma, un riconoscimento condizionato, ma senza scadenze fissate artificialmente, che ci hanno fatto molto male. Per esempio gli Usa avrebbero potuto dire: non vi parliamo senza un cessate il fuoco, se non vi sedete a discutere con il governo in carica. Ma Biden voleva soltanto lasciare l’Afghanistan».

E cosa può fare intanto l’Occidente? Dai reporter uomini e donne presenti a Perugia, giunge un appello sintetizzabile così. «I giornalisti afgani ora sparsi nel mondo continuano a seguire quanto accade e sono professionisti capaci. I media internazionali diano loro l’opportunità di lavorare e di tenere alta l’attenzione sull’Afghanistan».

Per Renzi i “migliori” sono diventati “inutili”

Foto Mauro Scrobogna /LaPresse 26-02-2022 Roma, Italy Politica Italia Viva - Assemblea nazionale Nella foto: Il leader di Italia viva Matteo Renzi durante il suo intervento all’assemblea nazionale del partito Photo Mauro Scrobogna / LaPresse February 26, 2022 Rome, Italy Politics Italia Viva - National Assembly In the photo: The leader of Italia Viva Matteo Renzi during his speech at the party's national assembly

Renzi ci ha ripensato. La riforma Cartabia non gli piace e come al solito decide di comunicarlo con un tweet (a proposito della “politica che non si fa su twitter”) in cui scrive testualmente: «Non voteremo la riforma della giustizia perché non è una riforma. L’azione di Bonafede era dannosa, quella della Cartabia inutile. Meglio così ma ancora non ci siamo».

Poi con la sua newsletter si spiega più largamente (senza aggiungere molto): «Sulla riforma del Csm – scrive nella sua ultima E-news – siamo gli unici che non voteranno a favore. Lega e Pd, grillini e Forza Italia hanno trovato un compromesso con la riforma Cartabia. Voglio essere molto chiaro: l’azione di Bonafede era dannosa, quella della Cartabia semplicemente inutile. Dunque, un grande passo in avanti. Ma il vero problema dello strapotere delle correnti e del fatto che chi sbaglia non paga mai, con la riforma Cartabia non si risolve. Le correnti continueranno a fare il bello e il cattivo tempo nel Csm. Peccato, una occasione persa. La riforma arriverà, se arriverà, nella prossima legislatura. Questo è un pannicello caldo, anzi tiepido».

Poiché la politica è una cosa seria la sua ministra nel governo, Elena Bonetti, assicura la fiducia al governo. Un capolavoro portato avanti dal deputato di Italia Viva Cosimo Ferri (magistrato sotto procedimento disciplinare per avere brigato le nomine insieme a Palamara) che si correnti nella magistratura ne sa parecchio. E infatti Calenda non le manda a dire e critica la scelta di Renzi che definisce una posizione «sbagliata e anche paradossale», «visto che a prenderla è Cosimo Ferri, una persona di qualità, ma non propriamente estranea alle correnti del Csm e al sistema Palamara. Fate le persone serie. Tutta la magistratura sta cercando di affossare la riforma», dichiara rivolto al leader di Iv.

Del resto quando si fa politica con un occhio ai sondaggi e uno alle amministrative basta poco per smentirsi. Alla fine anche i “migliori” diventano “inutili” nel giro di poco.

I partigiani di Sheikh Jarrah

07 May 2021, Israel, Jerusalem: Israeli security forces arrest a man during a demonstration against the planned eviction process for the Palestinians in the Sheikh Jarrah neighbourhood. Photo by: Ilia Yefimovich/picture-alliance/dpa/AP Images

Ogni venerdì nel quartiere di Sheikh Jarrah una folla di persone, che varia in numero e composizione a seconda di condizioni climatiche ed eventi recenti, si ritrova all’incrocio con Nablus road. Chiedono la fine delle espulsioni dei palestinesi che vivono nel quartiere a favore dei coloni israeliani e, più in generale, la fine dell’occupazione. Questo quartiere di Gerusalemme Est, alla ribalta della cronaca da aprile dell’anno scorso, è un rione prevalentemente palestinese nel nord-est di Gerusalemme, a meno di un chilometro da Monte Scopus, dall’Ospedale Hadassah e dall’Università ebraica, vicino a numerose istituzioni governative, al quartier generale nazionale della polizia israeliana e soprattutto vicinissimo alla città vecchia. È un quartiere arabo nel cuore di Gerusalemme in una posizione geograficamente strategica.

Il ritrovo dei manifestanti è alle 15 di ogni venerdì in un parco fra i due lati del quartiere (che a sua volta si divide in est e ovest) bersaglio delle associazioni di coloni dagli anni 80. Il corteo si sposta prima verso Ovest, dove un blocco stradale di pilastri di cemento impedisce di raggiungere la casa della famiglia Salem. Dietro il blocco stradale, oltre alla famiglia palestinese, abitano anche diversi coloni, infatti due camionette militari impediscono ai manifestanti di scavalcare i pilastri ed avvicinarsi. Il comitato popolare creato in supporto delle famiglie scalda del tè da distribuire ai manifestanti durante il corteo. Seppur vietate, ci sono molte bandiere palestinesi e metà dei partecipanti fanno parte di ciò che resta della sinistra israeliana: molti manifesti e cartelloni sono in ebraico. Il corteo si muove poi verso Est, dal lato opposto della strada dove, verso la fine, si trova un altro blocco stradale che impedisce di avvicinarsi alle case di altre famiglie palestinesi a rischio di espulsione l’anno scorso (fra cui anche quella della famiglia Al-Kurd). Le persone presenti al corteo notano che questo secondo blocco stradale è stato introdotto recentemente.

Dopo poco arriva un provocatore: un colono con la bandiera dello stato d’Israele. La polizia lo difende e gli permette di gridare nel megafono insulti ai manifestanti (soprattutto a quelli israeliani che chiama traditori, tedeschi, nazisti) da dietro i blocchi stradali. A parte qualche momento di maggior tensione fra i provocatori e i manifestanti, non si assiste ad un uso eccessivo della forza, come solitamente accade, da parte della polizia, che anzi, sembra voler cercare di raffreddare gli animi.

Tuttavia qualcosa è cambiato rispetto all’anno scorso. Ad agosto, le sei famiglie coinvolte nell’ordine di espulsione di maggio 2021 hanno rifiutato il “compromesso” proposto dalla Corte suprema israeliana. Tale accordo fra le parti avrebbe riconosciuto i palestinesi residenti a Sheikh Jarrah come inquilini protetti, dando loro la possibilità di restare nelle proprie case pagando un affitto simbolico, in cambio questi avrebbero dovuto riconoscere la proprietà israeliana delle terre sulle quali sono state costruite le loro abitazioni.
L’ordine di esproprio rappresentava il culmine di una lotta decennale, cominciata nel 1972, quando diverse organizzazioni di coloni israeliani intentarono una causa contro le famiglie palestinesi lì residenti rivendicando la proprietà di tali terreni. Infatti, a detta dei coloni, le terre sulle quali sono state costruite le case appartenevano a famiglie di origine ebraica che furono costrette a scappare in seguito alla guerra del 1948 e la conseguente occupazione giordana di Gerusalemme Est. A loro volta, le famiglie palestinesi ricevettero questi terreni dalla Giordania in quanto rifugiati: cacciati da diverse zone di quello che è ora il territorio di Israele. Vittime cioè della Nakba, la catastrofe palestinese.

Ma come mai la Corte non decide in favore dei coloni? Perché dietro la questione del quartiere di Sheikh Jarrah c’è in gioco molto più dello sfratto di sei famiglie: c’è la lotta per il controllo di Gerusalemme, considerata dal popolo palestinese come la propria capitale, e c’è il rischio di creare un precedente giudiziario sul diritto al ritorno che per Israele rappresenta un’arma a doppio taglio. Infatti, afferma la giornalista Nidal Rafa, «se ai coloni venisse riconosciuta la possibilità di ottenere proprietà che risalgono al ’48 allora questo diritto dovrebbe essere garantito a tutti i palestinesi che hanno perso le loro case durante la Nakba, così come stabilito dal diritto al ritorno. Questo è un rischio troppo grosso per lo Stato d’Israele che continua a trovarsi demograficamente in una situazione di svantaggio rispetto al popolo palestinese e non ha mai riconosciuto come valida la Risoluzione 194 dell’Assemblea delle Nazioni Unite».

Per questo motivo, e a causa delle forti pressioni internazionali a cui Israele è stato sottoposto dopo la guerra a Gaza, la Corte auspica che le parti raggiungano un compromesso fra loro senza doversi esprimere con una sentenza che sarebbe a dir poco impopolare.
Non avendo le sei famiglie palestinesi accettato l’accordo di agosto 2021, il loro caso è rimasto aperto e l’1 marzo scorso l’Alta corte israeliana ha sospeso l’ordine di sfratto. Le famiglie e gli attivisti hanno appreso con gioia la notizia, una decisione in buona parte dovuta alla capacità dei residenti di fare conoscere la storia di Sheikh Jarrah a tutto il mondo trasformandolo nel caso simbolo della resistenza palestinese odierna.
Altre 24 famiglie di Sheikh Jarrah sono a rischio di espulsione, ma questa decisione della Corte fa ben sperare per coloro che si trovano in situazioni giuridiche simili, anche in altri quartieri, come quello di Silwan.

Tuttavia è ancora presto per cantare vittoria perché sebbene l’ordine di espulsione sia stato cancellato, la questione della proprietà rimane aperta. E questa non è cosa da poco. Verrà infatti avviato un altro procedimento che dovrà verificare le documentazioni di proprietà di entrambe le parti e decidere in merito. Il risultato di questa verifica è tutt’altro che scontato e né le organizzazioni dei diritti umani né i residenti sono in grado di fare pronostici. «Non sappiamo cosa aspettarci per il futuro ma questa non è la cosa più importante ora» ha detto Aviv Tatarsky, portavoce di Ir Amim (“Città dei popoli”, organizzazione israeliana no profit). «La cosa importante è che Sheikh Jarrah ha dimostrato che quando le persone si mobilitano in massa qualcosa può ancora cambiare».

Sheikh Jarrah è diventata una storia mediatica potentissima che ha visto l’opinione pubblica mondiale mobilitarsi in massa in supporto delle famiglie palestinesi che rischiavano di perdere le loro case. Israele, in prossimità del ramadan, non può permettersi un’altra mobilitazione del genere. Soprattutto quest’anno in cui il ramadan coincide con la pasqua cattolica, ortodossa ed ebraica. Cadono tutte nell’arco dello stesso periodo, una casualità che ha davvero un potenziale esplosivo per la città di Gerusalemme. Inoltre Israele sta pian piano riaprendo al turismo (i non residenti possono entrare nei confini israeliani solo da metà gennaio), principale entrata del Paese dopo il settore militare e tecnologico, e non può rischiare di attraversare un altro periodo di grave instabilità come quello pandemico o dell’escalation del conflitto come l’anno scorso.

Bisogna infine considerare un altro elemento importante: non essendoci atti di proprietà chiari che sanciscono il diritto di proprietà dei palestinesi su qui terreni e su quelle case, i discendenti appartenenti alla seconda generazione avranno grossi problemi ad ereditarle. Ecco perché per il momento ad Israele conviene aspettare. Lo Stato d’Israele ha qualcosa che queste famiglie non hanno: tempo. È questo il suo vero punto di forza. Non essendo messa in dubbio la legittimità dello Stato d’Israele per il momento ha semplicemente poco senso provocare un’altra rivolta popolare.

Soprattutto perché il caso di Sheikh Jarrah ha rimescolato le carte in tavola. Rispetto ad altre proteste il movimento popolare che ne è emerso è stato in grado di unire i palestinesi dal fiume Giordano al mar Mediterraneo coinvolgendo anche quelli della diaspora in quella che è stata chiamata l’intifada dell’unità. Questa unità rappresenta una delle più concrete sfide al divide et impera coloniale israeliano. Gli accordi di Oslo del 1993 hanno delineato la messa in atto di questa divisione sancendo una frammentazione endemica sia a livello territoriale che legale del popolo palestinese. La suddivisione in aree ha separato le varie zone della Palestina rendendo gli spostamenti estremamente lunghi e faticosi per i palestinesi. Mohammad Barak, attivista ed ex residente del quartiere, sostiene che anche l’esproprio di Sheik Jarrah vada in questa direzione. «Sheikh Jarrah si trova su una delle arterie principali della città che collega Gerusalemme con la valle del Giordano fino a Gerico. Il Master plan per la città di Gerusalemme prevede un allargamento di questo crocevia per separare definitivamente la Cisgiordania in due entità distinte da Nord a Sud. Non a caso anche il villaggio di Al-Walaja, a rischio di demolizione, si trova proprio su tale arteria».

Questa strategia non è nuova: le potenze coloniali europee ne hanno fatto da sempre largo uso per poter controllare in maniera più efficace le popolazioni native. Purtroppo assistiamo a questa frammentazione anche a livello di lotte: nelle colline a Sud di Hebron zone come Massafer Yatta sono costantemente bersaglio di demolizioni e i coloni aggrediscono e molestano quotidianamente gli abitanti delle comunità di At-Twuani e Susiya, ugualmente Al-Walaja rischia di essere spazzato via lasciando senza casa più di trecento persone così come i beduini nel Naqab, il cui intero stile di vita rischia di sparire per sempre sotto l’egida espansionista dello stato d’Israele.

Sheikh Jarrah è riuscito a unificare diverse lotte, commenta un residente del quartiere. «Le proteste ci sono sempre state tutti i venerdì dal 2009, quando le famiglie furono costrette a lasciare le loro case per la prima volta. Ma io avevo smesso di andarci. Dall’anno scorso vado tutti i venerdì. Sheikh Jarrah ci ha ridato una speranza che non avevamo più».
Questa unità terrorizza Israele che infatti sta prendendo tutte le precauzioni possibili per evitare una nuova ondata di proteste durante il ramadan. I residenti, e il popolo palestinese in generale, si aspettano un’altra insurrezione di massa, non necessariamente a Sheikh Jarrah, dove Israele ha teso un ramoscello d’ulivo annullando l’ordine di espulsione per sei famiglie (ma altre ventiquattro aspettano ancora di conoscere la propria sorte).
Si parla anche di mediatori internazionali che negli ultimi giorni avrebbero fatto visita alla presidenza dell’Autorità palestinese invitandola a tenere sotto controllo la popolazione. Le proteste a Sheikh Jarrah non avevano però nulla a che fare con l’Autorità palestinese, questa se n’è interessata solo quando è diventato il quartiere che tutto il mondo ha conosciuto. È stata una protesta dal basso e come tale non si poteva prevedere. Le precauzioni israeliane probabilmente non saranno sufficienti. La Palestina, per quanto frammentata, è un arcipelago di resistenze e Sheikh Jarrah ha dimostrato che si possono unire per lanciare l’intifada dell’unità.

L’autrice: Federica Stagni è Phd in Scienza politica e sociologia alla Scuola normale superiore di Pisa

L’articolo è stato pubblicato  su Left dell’8-14 aprile 2022 

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A proposito di sanzioni alla Russia e di aziende italiane

Russian President Vladimir Putin attends a meeting in the Kremlin in Moscow, Russia, Wednesday, April 6, 2022. (Mikhail Klimentyev, Sputnik, Kremlin Pool Photo via AP)

Come va con le sanzioni alla Russia? Lo spiega bene l’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale) che prova a fare chiarezza in mezzo a molta retorica. Partendo dal presupposto che le sanzioni sono una delle vie alternative al conflitto armato, si può registrare che, come spiega Ispi, «dopo 7 settimane di guerra, invece, solo il 19% degli Stati del mondo ha deciso di rispondere all’invasione dell’Ucraina imponendo sanzioni economiche alla Russia. Certo, questi Paesi rappresentano una grande fetta dell’economia mondiale (il 59%), e molti di loro costituiscono partner economici imprescindibili per Mosca. Tuttavia l’assenza di una condanna unanime lascia alla Russia la possibilità di espandere le proprie relazioni commerciali con i Paesi che non hanno aderito alle sanzioni». Quando vi capita di sentire “tutto il mondo condanna” ecco no, le cose non stanno proprio così.

Come si legge nell’articolo di Ispi «in mancanza di sanzioni secondarie (cioè quelle sanzioni che colpirebbero proprio i Paesi che, non sanzionando la Russia, decidessero di fare affari con essa nei settori colpiti da sanzioni altrui), al Cremlino rimane infatti un margine di manovra considerevole, che rappresenta il restante 41% dell’economia mondiale. E così i prodotti russi, pur colpiti, talvolta cambiano semplicemente acquirente. Ad esempio il greggio, che fino all’anno scorso era per circa la metà acquistato dall’Occidente (49% Ue, 3% Stati Uniti), viene oggi almeno parzialmente dirottato verso India e Cina».

E le aziende italiane? Scrive Ispi che «per quanto riguarda la presenza di imprese private estere in Russia, nessun Paese al mondo ha posto divieti stringenti. Un’impresa che lascia la Russia lo fa dunque per motivi politici o morali, e non legali. Malgrado ciò, il clima di indignazione per l’invasione russa ha già spinto quasi 500 imprese straniere a ritirarsi, annunciare il proprio ritiro o a sospendere le proprie operazioni in Russia. Si tratta di circa due terzi (il 63%) del totale delle 773 imprese censite a oggi dalla Yale School of Management. Va tuttavia notato che oltre un terzo di loro ha deciso di rimanere (17%), prendere tempo prima di una decisione (12%) o di ridurre soltanto la propria attività (8%). Inoltre, tra le imprese che hanno preso provvedimenti drastici circa la metà ha solo sospeso la produzione, tenendo dunque un piede in Russia in attesa di tempi migliori per riprendere le stesse attività a oggi messe in standby. Colpisce in particolare la scomposizione geografica delle aziende che decidono di restare. Dal grafico si nota infatti come le imprese cinesi abbiano deciso in tre casi su quattro di rimanere in Russia, magari anche allo scopo di approfittare della dipartita delle imprese occidentali (si pensi per esempio al ritiro di Apple ma alla mancata uscita di Huawei). Dall’altra parte dello spettro ci sono invece le imprese di quei Paesi che più di tutti hanno deciso di mandare un segnale netto a Mosca, come quelle canadesi, britanniche o americane. Sorprende che, in questa classifica “negativa”, la Francia (68%) e l’Italia (64%) si trovino sul podio con percentuali di “non disimpegno” dalla Russia molto vicine a quelle cinesi, e nettamente più elevate rispetto a quelle tedesche (46%)».

Quali sono le imprese? Restano in Russia: Buzzi Unichem, Calzedonia, Campari, Cremonini Group, De Cecco, Delonghi, Geox, Intesa Sanpaolo, Menarini Group, UniCredit, Zegna Group. Stanno prendendo tempo Barilla e Maire Tecnimont. Riducono operazioni Enel, Ferrero, Pirelli. Sospendono l’attività: Ferrari, Iveco, Leonardo, Moncler, Prada. Si ritirano Assicurazioni Generali, Eni, Ferragamo e Yoox.

Buon martedì.

Sospensione dei brevetti sui vaccini anti Covid, un cinico bluff

Health workers check the identity card of a woman before administrating COVID-19 vaccine at a residential area in Ahmedabad, India, Saturday, March 5, 2022. (AP Photo/Ajit Solanki)

Novembre 2021: di fronte al rischio che l’Unione europea si trovasse isolata davanti al mondo, in compagnia unicamente di Gran Bretagna e Svizzera, l’Organizzazione mondiale del commercio (Omc) ha rinviato la 12esima Conferenza interministeriale che aveva all’ordine del giorno la proposta di moratoria per i brevetti sui vaccini contro il Covid. La motivazione ufficiale è stata l’impossibilità di varie delegazioni di raggiungere Ginevra a causa della pandemia da Omicron; giustificazione risibile ma, come si sa, i potenti spesso pensano di poter trattare i popoli come dei perfetti imbecilli.
La prossima riunione interministeriale del Wto dovrebbe svolgersi, salvo ulteriori rinvii, nel giugno 2022; prorogare fino a tale data la contrapposizione tra Ue e i Paesi in via di sviluppo che chiedono la sospensione dei brevetti, riuniti sotto la leadership dell’India e del Sudafrica, costituirebbe un ulteriore ostacolo al tentativo dell’Occidente di costruire un’alleanza globale contro la Russia, tentativo che fino ad ora non ha convinto ad esempio l’India. È probabile che questa valutazione abbia contribuito a convincere la Commissione e i governi europei, da diciotto mesi avvocati di fiducia di Big pharma e totalmente insensibili ai destini dell’umanità, a dare un segnale di disponibilità, piccolo, ma amplificato dai media embedded.

La trattativa prosegue…
Usa, Ue, India e Sudafrica stanno negoziando in queste settimane un accordo in merito alla moratoria parziale sui brevetti dei vaccini anti Covid, che dovrà essere approvato in sede Omc da tutti i 164 Paesi aderenti, nessuno escluso. A inizio ottobre 2020 i governi sudafricano e indiano proposero all’Omc una rinuncia temporanea ai diritti di proprietà intellettuale per tutti i prodotti farmaceutici e diagnostici anti coronavirus, appellandosi a quanto previsto nella stessa carta fondativa dell’Omc, secondo la quale, in…

L’autore: Vittorio Agnoletto è medico e coordinatore in Italia della campagna “Nessun profitto sulla pandemia. Diritto alla cura”. Insegna Globalizzazione e politiche della salute all’Università degli Studi di Milano

L’articolo prosegue su Left dell’8-14 aprile 2022 

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Al Sud la crisi bussa due volte

Filed of harvested wheat at dawn in Sicily with a view of Mount Etna in the distance

Con la guerra in corso in Ucraina assistiamo ad aumenti di prezzi generalizzati che colpiscono tutti i cittadini italiani, a partire da quelli del Mezzogiorno dove addirittura il 10% delle famiglie e oltre il 12% degli individui si trovano già oggi in condizione di povertà assoluta, da dati Istat di inizio marzo 2022. Coldiretti ha lanciato un allarme nazionale sul picco di furti di cibo nei supermercati, richiamando il rischio alimentare per 5,6 milioni di cittadini italiani che si trovano in povertà assoluta. Si tratta di persone che per effetto dei rincari non riescono più a garantirsi un pasto adeguato, ma questo è solo la punta dell’iceberg di un disagio diffuso. Nello stesso tempo l’Onu ha lanciato l’allarme di carestia mondiale nel caso si prolungasse la guerra. Con questa situazione, invece di pensare ai cittadini che vivono difficoltà sempre maggiori in tutto il Paese, il governo aumenta al 2% del Pil il budget per la spesa militare e il senatore Ignazio La Russa (Fdi) non ha trovato di meglio che proporre di sostenere questo aumento «usando una quota del reddito di cittadinanza».

Il Mezzogiorno vedrà così la povertà crescere inevitabilmente, come accade da anni, mentre con l’acquisto di armi si arricchisce, anche in…

L’autore: Natale Cuccurese è presidente del Partito del Sud

L’articolo prosegue su Left dell’8-14 aprile 2022 

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Come (non) funziona l’economia delle sanzioni

The shadow of the oil rig against the background of Russian money. concept of selling minerals for Russian rubles. Earn money from mining gas and oil energy resources

Vi è una profonda incertezza sul futuro delle nostre economie. La domanda che ci dobbiamo porre è se la guerra possa costituire, dopo la pandemia, un altro colpo alla globalizzazione, e se le sanzioni imposte alla Russia possano provocare modifiche nel sistema finanziario internazionale. Dagli anni Settanta del secolo scorso, infatti, esso si è sviluppato con un complesso meccanismo che può così essere descritto: la gran parte delle merci scambiate sui mercati internazionali è pagata o denominata in dollari, ma soprattutto gran parte delle riserve delle banche centrali, imprese e istituzioni finanziarie è investita in dollari o in titoli denominati in dollari. Questa massa monetaria e finanziaria è costituita da pezzi di carta, o meglio numeretti su schermi di computer, rappresentativi di impegni di pagamento per l’immediato o per il futuro. L’enorme debito americano alimenta il sistema finanziario internazionale con mezzi di pagamento, che poi crescono su sé stessi in modo autonomo.

Questo meccanismo, con cui appunto gli Stati Uniti offrono mezzi di pagamento per gli scambi internazionali e fungono da garanti dell’offerta di dollari anche delle altre banche centrali, fornisce agli americani la possibilità di consumare risorse che non producono, vivendo, come qualunque Paese indebitato, al di sopra dei propri mezzi. In cambio di questo privilegio, gli altri Paesi, cioè tutti, ricevono una moneta stabile e sempre spendibile in…

L’articolo prosegue su Left dell’8-14 aprile 2022 

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