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Cosa non abbiamo imparato dalla Guerra fredda

European Commission President Ursula von der Leyen speaks during an extraordinary session on Ukraine at the European Parliament in Brussels, Tuesday, March 1, 2022. The European Union's legislature meets in an extraordinary session to assess the war in Ukraine and condemn the invasion of Russia. EU Commission President Ursula von der Leyen and Council President Charles Michel will be among the speakers. (AP Photo/Virginia Mayo)

È avvenuto quello che Biden considerava da settimane inevitabile: il 24 febbraio la Russia ha violentemente invaso l’Ucraina, scatenando una guerra “fratricida” tra russi ed ucraini che coinvolge eserciti, milizie e, soprattutto, l’intera popolazione civile ucraina, con la sistematica distruzione di veicoli, infrastrutture, case civili e vite umane di un Paese di oltre 40 milioni di persone.
La guerra è diventata inevitabile perché gli Stati Uniti e i loro 29 alleati Nato avevano messo la Russia in un angolo da cui poteva uscire – almeno secondo Putin e il suo ristretto entourage – solo con un’offensiva militare. In effetti, la Russia doveva affrontare uno scenario in cui gli Usa le avrebbero sempre più stretto intorno al collo il cappio con un’ulteriore espansione verso est della Nato, combinata con il rafforzamento militare da parte degli Usa dei loro junior partners Nato dell’Europa orientale.
Ad accompagnare quella militarizzazione c’era la prospettiva di un’accelerata guerra di propaganda, alimentata dai grandi media mainstream occidentali, per infiammare le opinioni pubbliche contro la Russia. Think-thanks finanziate dal governo Usa – come il National endowment for democracy e il German Marshall fund – sono impegnate a fondo per cercare di influenzare la politica europea e russa con l’obiettivo di un cambio di regime.
In questa fase, due sono le domande chiave da porre: cosa verrà fatto? e cosa si dovrebbe fare?

Cosa verrà fatto?
La risposta alla prima domanda è chiara. Siamo dentro un’altra era di guerra fredda, che potrebbe facilmente trasformarsi in calda e persino nucleare. La situazione è molto più pericolosa della prima guerra fredda poiché gli Usa sono molto più potenti della Russia, rispetto alla loro posizione nei confronti dell’ursa. Di conseguenza, l’equilibrio è precario, motivo per cui il mondo potrebbe facilmente precipitare in qualcosa di ancora più terribile della guerra ucraina.
Il punto di vista dei neoconservatori americani – fautori di una declinazione estremista dell’ideologia dell’”eccezionalismo americano” ed eredi della dottrina imperiale Cheney-Rumsfeld – sostiene che gli Usa debbano essere globalmente dominanti e militarmente non sfidabili, e ha definitivamente trionfato nella politica americana. Un trionfo che si riflette nella frase “the United States must retain overmatch” della National Security Strategy del 2017 e ora anche nel Partito Democratico, che rappresenta l’ala “liberal” della politica nazionale americana, oltre che nelle opinioni dei media liberal d’élite.

I vincitori sono le forze politiche, economiche e culturali dello status quo di Washington. Il più grande vincitore è l’ala liberal dell’establishment neoconservatore che ora ha una pista chiara per spingere l’egemonia globale degli Usa sotto la falsa bandiera della promozione della democrazia. Ancora più importante, i neoconservatori hanno intrappolato i leader politici europei – da Scholz a Macron -, avendo sabotato la possibilità che si arrivasse ad un pacifico produttivo riavvicinamento che avrebbe potuto unire la Russia all’economia e alla famiglia europea. Il secondo vincitore è ovviamente il complesso militare-industriale che può aspettarsi di continuare a fare enormi profitti, disponendo di budget utramiliardiari (770 i miliardi chiesti da Biden per il 2023). A differenza della prima guerra fredda, non ci sarà alcun vantaggio per le classi lavoratrici. Questo perché la Russia non ha un’agenda politica economica globale equivalente al socialismo, la cui minaccia aveva costretto l’élite capitalistica dominante a fare concessioni ai lavoratori durante i “trenta anni gloriosi”. In effetti, le classi lavoratrici rischiano di perdere man mano che i budget militari diventeranno ancora più grandi sia negli Usa sia nella Ue. Ancora più importante, la rinascita di nazionalismo e militarismo giocherà il ruolo già sperimentato nel ‘900, dividendo le classi lavoratrici e migliorando così la capacità delle élite economiche e politiche di boicottare qualsiasi programma che preveda un cambiamento economico progressivo.

Ma, di gran lunga il maggiore perdente è l’Unione europea, che è stata vergognosamente svenduta da una classe politica rinunciataria e pavida (dobbiamo, purtroppo, rimpiangere la Merkel). Primo, l’Ue ha rinunciato all’opportunità economica di dare vita ad un partenariato pacifico con la Russia. Perderà invece mercati importanti e pagherà molto di più per l’energia. Si renderà inoltre ancora più vulnerabile economicamente e suscettibile alle punizioni Usa, (soprattutto se la Russia sarà rimossa dal sistema di messaggistica finanziaria Swift), come già accaduto con le multe multimiliardarie imposte alle banche europee in relazione a Cuba, Iran, Sudan, Libia, Myanmar, Siria ed altri Paesi sotto sanzioni Usa. È possibile, infine, che le sanzioni sconvolgano l’economia russa, ma sicuramente faranno molto male all’economia Ue (soprattutto se si arriverà al divieto delle importazioni di petrolio, gas e cereali dalla Russia).
In secondo luogo, ancora una volta, l’Ue subirà il pesantissimo contraccolpo della spinta al dominio degli Usa, soprattutto in termini di un nuovo flusso di richiedenti asilo e profughi. È quello che è successo con Iraq, Libia, Siria e Afghanistan. Le conseguenze hanno già fertilizzato la rinascita dell’estremismo della destra europea, che ora promette di ampliarsi. Nel frattempo, gli Usa sono protetti dalla maggior parte di quell’effetto dagli oceani Atlantico e Pacifico e dalla loro autosufficienza energetica.

Cosa dovrebbe essere fatto?
Anche rispondere alla domanda su cosa dovrebbe essere fatto è facile, ma arrivarci inizia a sembrare impossibile. Ciò che dovrebbe essere fatto è una profonda ricalibrazione che riduca l’influenza degli Usa in Europa, rafforzi l’Unione Europea e miri all’inclusione della Russia nella famiglia europea come era stato previsto dal presidente Gorbačëv nel 1990.
Il punto di partenza è riconoscere che non si può tornare indietro nel tempo. Nuovi fatti sono avvenuti. C’è stata l’espansione verso est della Nato, il colpo di stato sponsorizzato dagli Usa in Ucraina nel 2014, la rioccupazione russa della Crimea e ora l’invasione russa dell’Ucraina.
Poi, c’è bisogno di un fondamentale cambio di mentalità che richiede di riconoscere che la Russia non è l’Unione Sovietica. È un’economia debole con una popolazione in declino che non ha né la capacità né il desiderio di governare i Paesi dell’ex Patto di Varsavia.
Con questi due punti di riferimento, è possibile tracciare una strada da seguire. L’Ucraina deve accettare di essere permanentemente uno stato neutrale, così come la Finlandia e l’Austria durante la Guerra Fredda. Gli Usa devono smettere di armare la Polonia, un Paese dotato di un sistema politico nazionalista intollerante che probabilmente sarà una futura fonte di gravi problemi. E gli Usa devono smettere di potenziare le capacità militari degli stati baltici, una provocazione aggressiva verso la Russia.

L’Unione Europea deve battersi per definire una nuova architettura della sicurezza europea e per espandere gli scambi commerciali con la Russia. Un matrimonio economico tra Ue e Russia sarebbe la vera svolta. La Russia ha materie prime (energetiche, minerali, terra, cibo) e ha bisogno di tecnologia e beni capitali. L’Europa ha tecnologia e beni capitali e ha bisogno di materie prime. Diminuendo la minaccia contro il presidente Putin, tale partenariato promuoverebbe il miglioramento politico interno in Russia. I regimi autoritari reprimono quando sono minacciati, mentre sono più tolleranti quando non lo sono.
La parte difficile è che l’Ucraina dovrebbe essere ricostituita come stato federale e potrebbe anche essere necessario dividerla, dati i fatti nuovi ancora in corso. Con l’incoraggiamento degli Usa, l’Ucraina ha giocato con il fuoco e si è bruciata.
Se il matrimonio tra Ue e Russia non si farà, la Russia convolerà a nozze con la Cina, portando in dote gas, petrolio, materie prime e cibo, ed ottenendo tecnologia e beni capitali. Negli ultimi anni, il Cremlino ha riorientato il commercio lontano dall’Occidente e verso la Cina, attualmente il suo partner commerciale numero uno, per arrivare a superare i 200 miliardi di dollari entro il 2024, il doppio rispetto al 2013. E se Mosca e Pechino diventano partner strategici eserciteranno il dominio sull’Eurasia, chiudendo la porta a Usa e Ue.

La minaccia dei neoconservatori americani
Tragicamente, è probabile che nulla di tutto ciò accada perché è profondamente in contrasto con l’obiettivo del dominio globale dei neoconservatori Usa, e i politici dell’Unione Europea si sono disonorati come tirapiedi degli americani.
Una Russia forte, prospera e politicamente progressiva sarebbe un’enorme minaccia per l’agenda neoconservatrice Usa. Questo è il motivo per cui gli Usa hanno ora chiesto la liberalizzazione politica della Russia, sapendo benissimo che in questo momento storico causerà solo debolezza e disintegrazione.
Un’Unione Europea forte, unita e prospera aggraverebbe la minaccia all’agenda neoconservatrice Usa. E un’Ue che aiutasse la Russia lungo la via della prosperità aggraverebbe doppiamente tale minaccia.
I media occidentali stanno ora concentrando l’attenzione sull’invasione della Russia. In quel punto focale c’è una tacita riscrittura della storia. I neoconservatori Usa vogliono che la storia inizi con l’invasione, mentre tutto il resto che è accaduto prima deve essere spazzato via nel “buco della memoria” di Orwell. Ciò significa dimenticare le ferite e le minacce che gli Usa hanno inflitto alla Russia per 30 anni; dimenticando come gli Usa hanno aiutato a depredare la Russia per un decennio dopo la caduta del Muro di Berlino, dimenticando la promessa fatta di non espandere la Nato verso est, dimenticando la minaccia rappresentata dai missili difensivi ed offensivi installati ai confini della Russia e dimenticando il fatidico colpo di stato del 2014 sponsorizzato dagli Usa in Ucraina.
Affinché la classe politica dell’Ue abbandoni la sua sudditanza al disegno di dominio dei neoconservatori Usa e rivendichi la sua “autonomia strategica”, forse sarà necessario lo shock di un ritorno di Donald J. Trump (o di un suo clone) alla presidenza nel 2024.


Per approfondire, Left del 4-10 marzo 2022 

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La scelta di Pechino

FILE - Chinese President Xi Jinping, right, and Russian President Vladimir Putin talk to each other during their meeting in Beijing, China on Feb. 4, 2022. Three weeks ago, on the eve of the Beijing Winter Olympics, the leaders of China and Russia declared that the friendship between their countries "has no limits." But that was before Russia's invasion of Ukraine, a gambit that will test just how far China is willing to go. (Alexei Druzhinin, Sputnik, Kremlin Pool Photo via AP, File)

Sembra impossibile pensare che i due principali governanti del mondo, che in modi e tempi diversi si vogliono presentare alternativi all’Occidente, si siano accordati secondo una regola alla base della cultura dell’Antica Grecia. Sembra proprio che in occasione dell’incontro fra Xi Jinping e Putin il 4 febbraio 2022 all’apertura dei Giochi Invernali di Pechino, il presidente cinese avrebbe pregato il suo ospite di attendere la fine di giochi prima di sferrare l’attacco all’Ucraina. E così è stato. È successo l’inimmaginabile. Alla fine della Seconda guerra mondiale sembrava che i contendenti cercassero un nuovo assetto vitale. Dopo gli orrori della guerra, Urss e Stati Uniti, Patto di Varsavia e Nato erano alla ricerca di un nuovo equilibrio, ma durò poco. La Guerra di Corea, scoppiata nel giugno del 1950, determinò l’inizio della Guerra fredda, oggi tanto evocata. Nessuno di noi pensava davvero che la Russia di Putin avrebbe invaso l’Ucraina, quando leggevamo il resoconto di quello storico incontro a Pechino di Xi con Putin. Molto probabilmente l’ospite russo informò il suo migliore alleato delle sue vere intenzioni ed è da immaginare che se Russia e Cina si erano trovati d’accordo nel giudizio su Washington, più difficile credere che Xi non abbia avvisato Putin dei rischi di un tale mossa. L’atteggiamento di Pechino – che certamente sapeva che cosa sarebbe successo una volta finiti i giochi invernali (non le para olimpiadi invernali, che si stanno ancora svolgendo) – fin dal primo giorno dell’invasione, iniziata il 24 febbraio (4 giorni dopo la cerimonia di chiusura delle Olimpiadi di Pechino) è stato cauto, fino all’estremo.

Alla prima conferenza stampa del portavoce del ministero degli esteri cinese, i giornalisti hanno fatto di tutto per fargli pronunciare le parole “invasione” o “guerra”, ma non c’è stato verso. Se scorriamo il Quotidiano del Popolo di questi giorni, dobbiamo arrivare alla terza pagina per trovare il toponimo Wukelan o Ucraina. Non troviamo descrizioni di quelli che per noi sono fatti: invasione, guerriglia, guerra, devastazioni, ecc. troviamo solo riferimenti sulla «situazione in Ucraina». La Cina sta tentando di camminare sul difficile crinale di non sostenere completamente il “nuovo” amico russo, ma al tempo stesso non cadere in un abbraccio mortale con il “nuovo” nemico americano. L’Europa, nonostante i tentativi cinesi, agli occhi di Pechino sembra scomparsa dall’orizzonte, completamente manovrata dalla Nato e da Washington che ha voluto spingere per un conflitto in seno all’Europa, con l’intento di allontanare Mosca e Pechino dal nostro continente.
La cautela cinese si è vista anche a New York quando gli ambasciatori cinese ed indiano si sono astenuti sulla risoluzione voluta dagli Stati Uniti di ferma condanna della Russia, per la quale era scontato il veto di Mosca appunto. Ma è pur sempre un segnale. Come è forse più di un gesto, il fatto che Pechino sta cercando di inviare segnali di distensione e richieste al dialogo, raccogliendo il…


L’articolo prosegue su Left del 4-10 marzo 2022 

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Ci sono profughi veri e profughi finti. Davvero

«Sui profughi, l’Ucraina potrà contare sull’Italia. Faremo la nostra parte, senza riserve», ha detto ieri Mario Draghi. In sei giorni di guerra sono già 520mila i profughi fuggiti dall’Ucraina. Come ricorda Matteo Villa dell’Ispi, nel 2015, nel corso della più grande emergenza umanitaria della storia dell’Ue, ci vollero 4 mesi per superare quota 520mila arrivi. Insomma, siano nel bel mezzo di “un’invasione” solo che la parola “invasione” non la usa più nessuno.

Accogliere i profughi ucraini è un dovere morale, su questo non ci sono dubbi. Draghi ieri ha promesso l’applicazione della direttiva 55/2001 che prevede protezione immediata e temporanea per i rifugiati ucraini. Il segretario del Pd Letta ha scritto: «Dobbiamo esprimere gratitudine e sostegno per chi in Polonia, Romania e Moldavia sta accogliendo in queste ore centinaia di migliaia di profughi dall’Ucraina. Uno sforzo umanitario immane. Una straordinaria dimostrazione di solidarietà». A ruota Salvini ha colto la palla al balzo: «Oggi ho mandato un messaggio al premier di Polonia e al premier d’Ungheria, tanto vituperati, per ringraziarli per il grande sforzo di accoglienza umanitaria che stanno facendo».

Ma cosa accade in Polonia? Forse conviene saperlo. Conviene sapere che la Polonia è quello stesso Paese che con l’assenso dell’Ue ha approvato la legge sui “push-back” illegali, quella dei respingimenti, quella dello stato di emergenza al confine con la Bielorussia per impedire l’azione degli operatori umanitari e dei giornalisti che denunciano ripetute aggressioni dalle forze armate polacche. La Polonia è il Paese che lascia uomini, donne e bambini a ghiacciarsi nei boschi senza acque né cibo, che li rinchiude in centri di detenzione illegali dove non possono incontrare operatori umanitari e avvocati. Sono quelli che stanno costruendo una barriera al confine (tra l’altro distruggendo la foresta Białowieża, patrimonio Unesco). Sono gli stessi che hanno lasciato morire al confine almeno 21 persone l’anno scorso.

Gli ucraini passano. E gli altri? Niente. Quelli che scappano da guerre che non consideriamo “nostre” rimangono respinti. Quasi sempre la scelta si basa sul colore della pelle. Scrive Grupa Granica (che riunisce diverse associazioni umanitarie della zona): «Continuiamo a ricevere richieste di assistenza da persone che fuggono da conflitti armati che hanno luogo in altre parti del mondo, tra cui Siria, Yemen e Afghanistan. Incapaci di utilizzare le vie legali per entrare in Polonia, queste persone rischiano la vita nelle foreste di confine. Al confine bielorusso, a differenza di quello ucraino, la guardia di frontiera non accetta domande di protezione internazionale e non offre riparo; ricaccia le persone in Bielorussia, un Paese che sostiene l’invasione russa dell’Ucraina. E mentre secondo le disposizioni della Convenzione di Ginevra ogni persona in fuga da persecuzioni e violenze dovrebbe avere il diritto a un rifugio sicuro, queste due frontiere – quella della Bielorussia e quella dell’Ucraina – rendono chiaro che la possibilità di esercitare questo diritto dipende dalla nazionalità della persona che cerca protezione».

Il modo in cui sono stati accolti i rifugiati e i richiedenti asilo dall’Ucraina ha dimostrato che la Polonia è in grado di garantire la sicurezza delle persone che cercano protezione. È in grado di fornire loro assistenza e sostegno adeguati e, soprattutto, un passaggio sicuro attraverso la frontiera. Ricordate qualche giorno fa quando Salvini parlava di “profughi veri” e “profughi finti” e tutti si sono giustamente ribellati a quella sconcezza? Bene, è diventata la linea politica dell’Ue.

Buon mercoledì.

 

Quale futuro per l’economia circolare

Urban farming sustainability concept, captured in Milan, Lombardy, Italy

La pandemia ha messo in evidenza la fragilità del rapporto fra uomo e natura e le conseguenze catastrofiche che derivano da una sua alterazione. Forse fra i pochi aspetti positivi di questa tragedia planetaria c’è un rinnovato interesse per l’ambiente, sia pure ancora solo a livello potenziale e con tutte le contraddizioni e i limiti di una cultura disabituata a fare i conti con questi temi.
La necessità di far ripartire l’economia in un quadro di maggiore sostenibilità sta gettando le basi per il superamento della dicotomia fra ecologia, reddito e lavoro. Mai come in questo particolare momento della nostra storia recente si è manifestata in tutta la sua evidenza la connessione che lega questi tre elementi dentro la necessità di elaborare un nuovo modello di sviluppo.

A fronte (o forse si potrebbe dire anche a dispetto) di questa evidenza, la politica che governa il mondo intero, l’Europa e i singoli Stati sembrano a volte muoversi in direzione ostinatamente contraria. Come se le emissioni climalteranti non si fossero già manifestate in tutta la loro devastante brutalità, come se l’emergenza climatica non fosse già sufficientemente acclarata, come se la pandemia non ci avesse insegnato nulla.
La Cop 26 di Glasgow, più che fornire risposte, ha posto altre domande. Prima fra tutte come bloccare l’uso dei combustibili fossili per contenere il riscaldamento globale nel limite di 1,5 °C, questione vitale ma rimasta ancora di fatto irrisolta.
Allo stato attuale, le emissioni di CO2 di ogni abitante del pianeta sono mediamente doppie rispetto a quelle necessarie per traguardare questo obiettivo, anche se con forti sperequazioni fra Paesi ricchi e Paesi poveri. Le emissioni climalteranti dell’1% della popolazione più ricca sono non doppie, ma 30 volte superiori a quelle considerate in linea con questo obiettivo.
Per questo, la lotta all’inquinamento e all’emergenza climatica si configura sempre di più come lotta ai privilegi di pochi ai danni di molti.

In Europa, dopo mesi di polemiche molto accese, la Commissione ha pubblicato il testo della tassonomia verde che orienta il piano degli investimenti considerati sostenibili per i prossimi 30 anni. Fra questi, incredibilmente, rispuntano il nucleare e il gas.
Anche le cosiddette sezioni “resilienti” del Piano nazionale di ripresa e resilienza mostrano notevoli contraddizioni. Dei 68,6 miliardi di euro assegnati alla transizione ecologica, 5,27 miliardi di euro sono dedicati complessivamente allo sviluppo di una filiera agroalimentare sostenibile e dell’economia circolare. Nello specifico, all’economia circolare (che è l’unico vero motore di una rivoluzione verde) sono stati assegnati appena 2,6 miliardi di euro. La maggior parte dei fondi sono dedicati alla…


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Non è tempo, ci dicono

Mentre Ucraina e Russia trattavano un eventuale accordo per cessare il fuoco decine di persone e centinaia di feriti rimanevano per terra per gli attacchi missilistici russi sulla città di Kharkiv. Il consigliere del ministero degli interni ucraino Anton Herashchenko ha dichiarato in un post su Facebook: «Kharkiv è appena stata massicciamente attaccata dai razzi. Decine di morti e centinaia di feriti». Solo questo può bastare per stabilire la catastrofe umanitaria che si sta svolgendo. Numeri precisi non ce ne sono ma ieri il ministero ucraino comunicava che «352 civili ucraini sono stati uccisi finora durante l’invasione della Russia, inclusi 14 bambini». Il ministero ha affermato che altre 1.684 persone, inclusi 116 bambini, sono rimaste ferite.

La banca centrale russa ha aumentato i tassi di interesse al 20% dal 9,5% dopo che il rublo è precipitato fino al 40% lunedì sulla scia delle sanzioni occidentali. Amnesty International ha condannato l’uso riferito da parte della Russia di munizioni a grappolo in Ucraina. Josep Borrell, l’alto rappresentante dell’Ue per gli affari esteri, ha dichiarato: «A seguito della richiesta del ministro degli affari esteri ucraino, stiamo immediatamente rispondendo mobilitando il Fondo europeo per la pace per due misure di assistenza di emergenza per finanziare la fornitura di materiale letale e non letale a l’esercito ucraino. Questa è la prima volta nella storia che l’Ue fornirà attrezzature letali a un paese terzo». Fare la pace con la guerra significa tradire la natura stessa della fondazione dell’Unione Europea ma ci dicono che non è tempo per queste cose. Anzi, l’Ucraina ha formalmente presentato la domanda per entrare nell’Ue. Qualcuno ha fatto notare che accettare con procedura d’urgenza un nuovo membro in guerra con la Russia equivalga a una dichiarazione di guerra. Inutili ragionamenti, anche questi, dicono.

Ieri alcuni politici nostrani hanno applaudito la Polonia che ha aperto le porte ai rifugiati ucraini utilizzando per la prima volta in Europa la Direttiva 55 del 2001. Come fa notare Melting Pot Europa è la stessa Polonia che lascia donne, uomini e minori senza acqua né cibo nelle zone boschive al freddo, che rinchiude per mesi le persone in centri di detenzione sorvegliati chiusi privandole della propria libertà, senza poter incontrare né avvocati né attivisti. Qualche giorno fa tutti prendevano in giro Salvini che parlava di “rifugiati veri e rifugiati finti” e poi nel giro di qualche ora hanno attuato quella strategia. Ma non è tempo per disquisire di altri disperati, ci dicono.

A proposito: l’ambasciatore russo alle Nazioni Unite, Vasily Nebenzya, dice che l’invasione russa è una notizia falsa. Sembra un farsa e invece è una tragedia in bilico.

Buon martedì.

Nella foto: frame di un video su attacco missilistico a Kharkiv, Ponomarenko twitter

Ambiente, in Toscana il partito betoniera colpisce ancora

Siena city panoramic skyline, countryside and rolling hills in a misty day. Tuscany, Italy, Europe.

La legge Marson, ovvero la norma della Regione Toscana 65/2014, legge guida in Italia da svariati anni per il suo carattere avanzato in tema di tutela ambientale, territoriale e urbanistica, è sotto attacco. Si tratta di un attacco reiterato, da parte del Partito democratico, avanzato con due proposte di legge in Consiglio regionale. La prima, approvata a novembre 2021, riguarda la semplificazione nel mettere in atto interventi di riuso e riqualificazione del patrimonio edilizio toscano. Si va dall’ampliamento della nozione di ristrutturazione edilizia, alla possibilità di comprendere interventi anche di aumento di volumetria, alla proroga del piano operativo dei Comuni da tre a cinque anni, fino al dimezzamento, rispetto al dettato originario, dei tempi di attesa per l’autorizzazione sismica. Tali modifiche avevano già sollevato polemiche per l’allentamento dei paletti a salvaguardia dell’ambiente inteso in senso ampio. E siamo all’attuale, nuova, proposta di legge di modifica, attualmente in discussione in commissione, dove si sta cercando di far quadrare il cerchio. Infatti, con quest’ultima proposta di legge sempre di marca Pd (partito che d’altro canto rappresenta la stessa maggioranza che nel 2014 dette il via libera alla legge Marson), si sta tentando di semplificare nuovamente la legge nel senso di prevedere, di fronte alla richiesta di celerità per la stesura e messa in cantiere dei progetti legati al Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), una sottrazione, se non di diritto, di certo di fatto degli stessi all’obbligo di Valutazione ambientale strategica (Vas) e della Valutazione di impatto ambientale (Via).

Cosa sono, in pratica, queste due verifiche? La Valutazione di impatto ambientale è una procedura utilizzata per la valutazione dei progetti e delle singole opere. La fase di adozione della Via è quella della progettazione. Il principio che regola la sua attuazione è quello della prevenzione del rischio, che viene quindi ipotizzato e studiato per vagliare alternative e soluzioni più compatibili. La Valutazione ambientale strategica invece, è un processo che viene messo in atto per valutare gli effetti dello sviluppo di piani e programmi territoriali e si adotta quindi in fase di pianificazione e programmazione territoriale. Lo scopo è quello di analizzare gli effetti ambientali che possono verificarsi con la messa in opera di piani e progetti, prevedendo le potenziali risposte ambientali. Si tratta di due strumenti complementari che hanno la stessa finalità: prevenire eventuali danni e tutelare l’ambiente su cui l’uomo interviene.
In cosa consiste la semplificazione oggetto della nuova proposta di legge di modifica? Di fatto, nell’introduzione di molte procedure di silenzio assenso, vale a dire, come spiega la…


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Tanto fumo, niente progresso

Barrister and cannabis leaf (Ikon Images via AP Images)

La battaglia per raggiungere il quorum non sarebbe stata semplice, ma alle urne la maggioranza degli italiani, il 67%, avrebbe votato sì al referendum sulla legalizzazione della cannabis. È quanto emerge da un recente sondaggio Swg per La7. Peccato che non si terrà alcuna votazione popolare sul tema, dopo che la Corte costituzionale la settimana scorsa ha bocciato il quesito abrogativo per cui gli attivisti del comitato promotore del referendum sulla cannabis nell’estate del 2021 avevano raccolto oltre 600mila firme, la maggior parte delle quali in formato digitale. Una doccia fredda per molti cittadini, in particolare tanti giovani, che avevano creduto nella possibilità di cambiare una normativa considerata ipocrita, criminogena e inutilmente repressiva.

In estrema sintesi: il quesito intendeva eliminare il reato di coltivazione, rimuovere le pene detentive per ogni condotta legata alla cannabis e cancellare la sanzione amministrativa del ritiro della patente. Molte sono state le motivazioni addotte a sostegno di questa riforma dai membri del comitato promotore. Meglio legale – progetto che coinvolge tra gli altri parlamentari, medici, imprenditori e avvocati, e che promuove una campagna pubblica per la legalizzazione della cannabis e la decriminalizzazione dell’uso delle altre sostanze – ne cita innanzitutto cinque. Legalizzare la canapa, dicono, avrebbe liberato il sistema giudiziario da migliaia di procedimenti inutili, fatto cadere molti tabù che ancora oggi impediscono a chi ne ha diritto di curarsi, aperto a nuove possibilità di impresa, colpito gli affari delle mafie e fatto risparmiare allo Stato fino a dieci miliardi ogni anno, tra gettito aggiuntivo dovuto alla commercializzazione del prodotto e risparmio economico su attività di polizia e del sistema giustizia (lo evidenzia una ricerca della Università di Messina).
Ma la Consulta, come ha spiegato il presidente Giuliano Amato in una inusuale conferenza stampa lo scorso 16 febbraio, ha cassato il referendum.

«Abbiamo dichiarato inammissibile il referendum, io dico, sulle “sostanze stupefacenti”, non sulla “cannabis”. Basti dire – ha dichiarato il presidente della Corte – che il quesito è articolato in tre sotto-quesiti. Il primo relativo all’articolo 73 comma 1 della legge sulla droga prevede che scompaia tra le attività penalmente punite la coltivazione delle sostanze stupefacenti di cui alle tabelle 1 e 3, ma la cannabis è alla tabella 2, quelle includono il papavero e la coca, le cosiddette droghe pesanti. Già questo – ha specificato Amato – è sufficiente a farci violare obblighi internazionali plurimi che abbiamo e che sono un limite indiscutibile dei referendum. E ci porta a constatare l’inidoneità dello scopo perseguito».
In pratica, per i giudici della Consulta il quesito sarebbe scritto male, aprirebbe alla coltivazione di droghe pesanti e violerebbe il diritto internazionale. È davvero così? Per capirlo, abbiamo chiesto una replica ad…


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La brutta china

In this handout photo taken from video released by Ukrainian Police Department Press Service released on Friday, Feb. 25, 2022, firefighters inspect the damage at a building following a rocket attack on the city of Kyiv, Ukraine, Friday, Feb. 25, 2022. Russia is pressing its invasion of Ukraine to the outskirts of the capital. That comes a day after it unleashed airstrikes on cities and military bases and sent in troops and tanks from three sides. (Ukrainian Police Department Press Service via AP)

Putin fa il Putin, anche perché ormai gli rimane solo quello. Sono fissati per oggi, al netto di prevedibili novità, i colloqui tra Ucraina e Russia. «Abbiamo convenuto che la delegazione ucraina si sarebbe incontrata con la delegazione russa senza precondizioni al confine ucraino-bielorusso, vicino al fiume Pripyat», ha annunciato il presidente ucraino Zelensky sul suo canale ufficiale Telegram, descrivendo una telefonata con il presidente Aleksandr G. Lukashenko di Bielorussia. Lukashenko «si è assunto la responsabilità di garantire che tutti gli aerei, elicotteri e missili di stanza sul territorio bielorusso rimangano a terra durante il viaggio, i colloqui e il ritorno della delegazione ucraina», ha spiegato Zelensky. Il leader bielorusso è uno stretto alleato di Putin.

Negli stessi minuti Putin si è rimesso a fare il Putin, ordinando ai suoi militari di mettere in massima allerta le forze di deterrenza nucleare del Paese in risposta alle “dichiarazioni aggressive” dei Paesi Nato. Minacciare con il nucleare e alzare il livello dello scontro è la strategia del leader russo. Giudicare Putin che apre ai negoziati con l’Ucraina e contemporaneamente minaccia il mondo è fin troppo facile.

L’Europa trova l’intesa per le sanzioni: «Stiamo chiudendo la spazio aereo dell’Ue ai russi. Proponiamo un divieto a tutti gli aerei di proprietà registrati o controllati dalla Russia di atterrare, decollare o sorvolare il territorio dell’Ue», ha dichiarato Josep Borrell. «Sarà applicato a qualsiasi aereo, compreso i jet privati degli oligarchi», ha aggiunto. Ursula von der Leyen parla di «misure restrittive» contro «i più importanti settori» dell’economia della Bielorussia. «Stop all’export di prodotti come  carburanti minerali, tabacco, legname, cemento, ferro e acciaio. E sarà esteso il divieto di scambi commerciali» per quei settori sui quali «è stata sanzionata la Russia», ha detto ancora von der Leyen. Tra le altre misure in campo, «stop alle transazioni con la banca centrale russa e congelamento dei suoi asset all’estero. Esclusione di importanti banche russe da Swift».

Ma l’esultanza vera dei signorotti della guerra arriva per l’annuncio che l’Ue per la prima volta finanzierà l’acquisto di armi. Esultanza generale. Passa qualche minuto e ovviamente si chiede a gran voce (non è per niente una sorpresa) di aumentare le spese militari in Italia. Il ministro della guerra Guerini sorriderà sornione. Poi un giorno ci spiegheranno come possano applaudire il Papa che invoca il silenzio delle armi e con l’altra mano firmare gli assegni. Teneteli bene a mente perché sono gli stessi che fingono di non sapere che armare i civili significa prepararsi a contare le vittime tra i civili. Un altro avviso: tutti quelli che ci dicono che non si possono avanzare ragionamenti complessi sotto le bombe sappiano che potrebbero usare la stessa urgenza per le guerre in Yemen, in Siria, in Libia e altri conflitti.

La china però è evidente: essere interventisti per risultare autorevoli è la via maestra. Del resto quelli che inviano armi all’Ucraina curiosamente sono gli stessi che le spedivano ai russi. La militarizzazione dell’Ue, nata come progetto di pace, si può dire completata. Dicono che sia l’unica soluzione possibile. Una volta si diceva che la guerra era l’ultimo rifugio degli incapaci. Oggi abbiamo un’altra guerra “giusta” da combattere. E la china è brutta.

Buon lunedì.

Nella foto: vigili del fuoco a Kiev dopo un attacco missilistico, 25 febbraio 2022

Cercasi asilo (nido)

father walking little daughter with backpack to school or daycare

L’istruzione e le opportunità educative fin dalla primissima infanzia sono il mezzo più potente che abbiamo per contrastare la disuguaglianza intergenerazionale, ovvero il legame che esiste fra la condizione socio-economica della famiglia di origine e i redditi ottenuti dai figli una volta diventati adulti. Tanto più le opportunità educative sono precoci tanto più è possibile contrastare questa forma di trasmissione della disuguaglianza e garantire a tutti i bambini uguali opportunità di mobilità sociale.

Una solida letteratura dimostra che le esperienze educative extra familiari precoci sono importanti per tutti, ma diventano fondamentali nel caso dei bambini svantaggiati, economicamente e/o socialmente. Un recente volume curato dal Network EducAzioni ha passato in rassegna diversi studi, i quali (in estrema sintesi) hanno evidenziato questi quattro punti: il primo è che i quindicenni che hanno frequentato più di un anno di educazione prescolare ottengono risultati sostanzialmente migliori rispetto a quelli che non hanno fatto tale esperienza e questo anche tenendo conto delle loro condizioni economiche e sociali di provenienza. Il secondo: i bambini che frequentano la scuola dell’infanzia hanno maggiori probabilità di completare i successivi cicli di istruzione e di conseguire un titolo universitario e, nel complesso, tendono ad avere un percorso educativo più lungo. Il terzo punto è che i bambini appartenenti a famiglie povere, che hanno la possibilità di frequentare servizi educativi nella prima infanzia, ottengono migliori risultati nel prosieguo della loro vita, sia durante gli studi che nel mercato del lavoro, guadagnando in media il 25% in più da adulti rispetto a coloro che non sono esposti agli stessi stimoli. Infine il volume ha evidenziato che l’investimento nell’educazione (da parte delle famiglie e del sistema educativo) nei primi anni di vita ha rendimenti più elevati rispetto a investimenti più tardivi, in quanto non si devono rimediare “danni” già avvenuti negli anni precedenti.

Il nido è un servizio d’élite
Nonostante queste evidenze, le famiglie che più diffusamente si avvalgono dei servizi educativi per la prima infanzia (di cui i nidi sono la forma più diffusa) sono quelle con redditi e titoli di studio più alti. Infatti, secondo i dati Istat relativi al 2019, il reddito netto annuo equivalente delle famiglie con bambini iscritti a un servizio per la prima infanzia è mediamente più alto (24.213 euro) di quello in cui ci sono bambini non iscritti pur avendo meno di tre anni (17.706 euro). Inoltre, i tassi di frequenza di tali servizi crescono all’aumentare della fascia di reddito familiare (dal 19,3% del primo quinto di reddito si passa al 34,3% dell’ultimo quinto). Anche il titolo di studio dei genitori è…

L’autrice: Chiara Agostini, ricercatrice in Analisi delle politiche pubbliche, fa parte di Percorsi di secondo welfare, un laboratorio di ricerca legato all’Università degli Studi di Milano


L’articolo prosegue su Left del 25 febbraio 2022 

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Patrimonio d’arte e colonialismo, un passato che non passa

In this Friday, Nov. 23, 2018 file photo a visitor looks at wooden royal statues of the Dahomey kingdom, dated 19th century, at Quai Branly museum in Paris, France. France will return 26 African artworks to Benin later this month as part of long-promised efforts to give back artwork taken from Africa during the colonial era. (AP Photo/Michel Euler, File)

L’arte ha sempre un significato sociale. Ma, oserei dire, anche politico. Maria Pia Guermandi lo rende ben chiaro con il suo Decolonizzare il patrimonio: saggio sfaccettato, coltissimo ma scritto in modo assai coinvolgente. Gli argomenti che l’archeologa affronta sono molteplici: dall’uso e abuso del patrimonio storico artistico sbandierato come un feticcio dal potere per affermare una propria egemonia, al patrimonio distrutto o colonizzato dai regimi, fino al tema attuale della sua colonizzazione da parte di un turismo “estrattivo” (e non della conoscenza) che va di pari passo alla mancata democratizzazione dell’accesso al patrimonio (sono le due facce di una stessa medaglia).

Avremo modo di ritornare su questa molteplicità di temi parlando anche di altri volumi usciti nella collana Antipatrimonio di Castelvecchi diretta dalla archeologa e coordinatrice di Emergenza cultura insieme allo storico dell’arte e rettore dell’Università per stranieri di Siena, Tomaso Montanari.

Ora vorremmo concentrarci qui sui capitoli che Guermandi dedica alla ferocia del colonialismo occidentale che si è abbattuto su popolazioni native inermi ma anche sulla loro storia e cultura, puntando a cancellarne le tracce o a stravolgerne il senso.

Il nerbo della sua ricostruzione riguarda i saccheggi del patrimonio continentale africano che molti Paesi, Italia compresa, hanno compiuto durante lunghi anni di barbarie coloniale.

Tornando a scavare nel nostro passato Maria Pia Guermandi denuncia le distruzioni operate dal “nostro” esercito sul patrimonio libico e etiopico. Altro che italiani brava gente!

Il colonialismo italiano del Regno d’Italia e poi fascista si avventò con ferocia su questi Paesi, facendo stragi anche con gas letali, saccheggiando, deturpando. Salvo poi lucrare anche sulla “ricostruzione” a cui furono costretti operai locali ridotti in schiavitù.

La vicenda dell’Arco di Tripoli ripercorsa da Guermandi nel libro è emblematica e illustra bene questo uso propagandistico della romanità. Dedicato a Marco Aurelio e a Lucio Vero, eretto nel 163 d. C, l’arco fu immediatamente oggetto di interesse degli archeologi italiani, sodali e complici dell’avventura coloniale nel sostenere «il battage retorico sulla necessità di un ritorno nelle terre dell’impero romano». In epoca fascista ne fu avviata una risistemazione, eliminando due fondaci islamici e nel 1937, in occasione della visita di Mussolini in Libia, «poté apparire nel suo isolamento, recintato, al centro di un vuoto asettico di una piazza creata dalla distruzione di edifici e dell’assetto viario precedente», scrive Guermandi.

Di terribili esempi di questo genere Decolonizzare il patrimonio ne racconta molti, mostrando come il recupero di resti archeologi propagandato in termini trionfalistici dalla stampa italica fosse servito a sostenere l’immagine del Regime che rivendicava la legittimità della guerra e della occupazione come riappropriazione di pezzi di storia dell’Impero romano. Con questa enfasi e retorica il turismo italiano in quelle regioni fu incoraggiato dal Touring club in chiave esotica, stigmatizzando le popolazioni locali come inferiori, fin dal colore della pelle, in contrapposizione con il biancore della Venere di Cirene del II del secolo. d.C che fu trasferita a Roma e celebrata anche su francobolli. Sulla rivista Difesa della razza nel 1938, «la purezza della razza ariana era ancora una volta rappresentata da una statua classica», rimarca l’archeologa.

Non andò meglio con la popolazione e con il patrimonio etiope. Anzi: la guerra d’Etiopia del 1935-1936 e l’occupazione fascista falcidiarono la popolazione: bombardamenti con gas, riduzione dei civili ai lavori forzati, stupri. E come “danno collaterale” il saccheggio del patrimonio culturale. È ben nota la vicenda della stele di Axum, portata a Roma, come omaggio a Mussolini e imperituro ricordo della sua «gloriosa impresa bellica».

Grande merito di questo libro di Maria Pia Guermandi è la ricostruzione puntuale di queste pagine buie della nostra storia riportandole nel dibattito di oggi, evidenziando come l’ideologia coloniale sia ancora pienamente attiva e sia insomma «una faccenda che ci riguarda».

Da alcuni anni una nuova sensibilità è cresciuta riguardo alla necessità di restituire opere d’arte saccheggiate ai Paesi dove sono nate. Un dibattito che non riguarda solo l’Italia (che fin qui purtroppo non ne è stata toccata a sufficienza) ma anche molti altri Paesi occidentali. A cominciare dalla Gran Bretagna, dove la querelle va avanti da decenni nel mondo accademico e sui media. Il British Museum, in particolare, è stato al centro di un ampio dibattito per i suoi tesori spesso acquisiti in modo illegittimo. Il prestigioso museo londinese, per statuto, ha sempre respinto ogni richiesta di restituzione. Alla Grecia che da tempo reclama i fregi del Partenone, (su questo Christopher Hitchens scrisse un celebre pamphlet I marmi del Partenone, Fazi, 2006), ha dato solo una risposta scarsamente accettabile.

«I trustee del British – scrive Guermandi – hanno ribadito il valore “universale” dei marmi fidiaci which transcend cultural boundaries, in cui i confini da trascendere continuano però a essere solo quelli greci».

Intanto, in attesa di una più civile risposta, il museo dell’Acropoli ad Atene, che ospita il resto del fregio di Fidia e dei suoi assistenti, ha lasciato spazi vuoti per i marmi mancanti.

Anche questo, purtroppo, è solo uno dei tanti esempi che potremmo fare. Accenniamo solo che il governo dell’Isola di Pasqua, guidato dal popolo indigeno Rapa Nui che ha conquistato l’autonomia dal Cile, ha avanzato una richiesta simile. Lo stesso ha fatto la Nigeria per riavere le opere razziate nel 1897, quando le truppe britanniche misero a sacco e distrussero l’antico palazzo reale del Benin, in quella che è ora Benin City, in Nigeria, trafugandone gli antichi tesori. Le migliaia di opere in bronzo, ottone, avorio e legno che furono rubate sono oggi sparse in 160 musei e collezioni private in diverse parti del mondo.

L’archeologo e docente a Oxford Dan Hicks ha parlato del saccheggio sistematico e pianificato del palazzo reale di Benin in un libro dal titolo eloquente, Brutish Museums. Restituire le opere rubate ai Paesi d’origine è il primo passo, sostiene Hicks, per riparare le ingiustizie e le atrocità del passato.

Il libro di Guermandi affronta e argomenta il tema delle necessarie restituzioni senza trascurare di mettere in luce anche il meno visibile razzismo che talora innerva perfino i progetti più avanzati. Molto si è discusso a questo proposito del seducente Musée du quai Branly inaugurato nel 2006 a Parigi. Per quanto la concezione degli spazi interni disegnati da Jean Nouvel riflettesse il ribaltamento dei criteri etnografici classici, con gli oggetti presentati in una sorta di continuum come opere da percepire emozionalmente più che razionalmente, alla fine, fa notare Guermandi, il fatto che vi siano incluse solo opere extraeuropee, crea comunque una compartimentazione e una separazione fra culture di serie A e serie B.

In Decolonizzare il patrimonio ovviamente, visti i fatti più recenti, non poteva mancare un capitolo dedicato alle proteste contro i monumenti e statue razziste che punteggiano le piazze negli Stati Uniti, ma anche quelle di molte città europee. L’abbattimento della statua di Edward Colston a Bristol, la vandalizzazione della statua del feroce colonialista Leopoldo II in Belgio (che ora potrebbe essere sostituito con monumento alle vittime del colonialismo belga) non sono avvenuti a caso. Il movimento Black lives matter negli Stati Uniti ha segnato un risveglio di pensiero antirazzista, provocando un effetto “domino” che ha coinvolto anche l’Europa. Guermandi se ne occupa nel libro sostenendo la necessità di leggere il significato politico della statuaria nei luoghi pubblici, che – come ci è capitato di scrivere in altre occasioni – sempre estende la sua aura su spazi condivisi ridisegnandone il senso. Questo è un fatto che non può essere trascurato. Anche per questo avevamo salutato su Left come gesto fertile di pensieri anti razzisti le secchiate di vernice rosa che le femministe hanno gettato sulla statua di Montanelli a Milano. Come è noto nel 1935 in Etiopia l’intoccabile Montanelli, in difesa del quale si mobilitano ancora oggi molti colleghi, prese in sposa una dodicenne e ancora nei suoi ultimi anni scrisse parole agghiaccianti nei suoi riguardi. Perché, ci domandiamo, una statua che celebra Montanelli che comprò e violentò una bimba svetta in un giardino pubblico frequentato da bambini?

 


L’articolo prosegue su Left del 25 febbraio 2022 

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