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Luciano Canfora, la Sinistra e il «popolo tradito»

MANTOVA - FESTIVAL DELLA LETTERATURA 2007 - LUCIANO CANFORA

«Abbiamo sotto i nostri occhi un fenomeno macroscopico – afferma Luciano Canfora -, la denigrazione del popolo, un disdegno per di più riservato al popolo da parte della Sinistra – o di ciò che ne resta -, la quale usa la parola “populismo” come accusa contro i propri avversari, rei di amoreggiare con il popolo». Questo il punto di partenza del suo ultimo libro, pubblicato da Laterza, La democrazia dei signori: un pamphlet puntuto, in cui la più stringente attualità è posta sotto una lente critica spietata. «È evidente che la democrazia che hanno in mente le élite dominanti è una democrazia di persone che si distaccano dal popolo e si considerano superiori a esso».

Non solo “populismo”. Spesso si muove anche l’accusa di “sovranismo”.
L’ordinamento costituzionale italiano si fonda, fin dal suo primo articolo, sul concetto che la sovranità appartiene al popolo: com’è potuto accadere che i concetti di “popolo” e “sovranità” presenti nell’articolo fondante della Costituzione italiana si siano trasformati in concetti denigratori? Oltre alla separazione fra popolo ed élite, c’è un altro elemento: la ex-Sinistra non ha più alcuna idealità connessa alla sua origine di movimento dei lavoratori. L’ex-Sinistra ha in testa un’unica idea: l’europeismo, ossia la delega di gran parte del potere decisionale a organismi per nulla elettivi e soprattutto separati, lontani e onnipotenti. A partire da tale delega, la sovranità è divenuta un ingombro e chi si richiama a essa è considerato un avversario. La Destra italiana, con le sue idee ripugnanti, ha buon gioco a richiamarsi alla sovranità e a reclamare il tradimento del popolo da parte della ex-Sinistra.

Chiedendo la fiducia al Senato, Draghi ha affermato: «Nelle aree definite dalla debolezza degli Stati nazionali, essi cedono sovranità nazionale per acquistare sovranità condivisa». Questa della sovranità condivisa non è un’espressione ossimorica?
È un gioco di parole che nasconde un’evidenza ormai consolidata: le leve del potere sono altrove; i Parlamenti nazionali contano poco o nulla potendo solo ratificare e non legiferare; i governi legiferano ma, di fatto, sono rinchiusi nella gabbia d’acciaio dei regolamenti europei. Se questo scenario venisse ammesso in maniera esplicita, susciterebbe sconcerto. Con questa espressione fumosa, “sovranità condivisa”, si può far accettare una dura realtà, che probabilmente si sclerotizzerà fino a produrre ordinamenti nuovi, i quali sostituiranno completamente quelli vigenti.

All’origine della democrazia dei signori, lei colloca le pressioni che l’Ue opera sui propri Paesi membri. L’Italia, essendo membro fondatore, non può essere maltrattata come la Grecia: serve un autorevole intervento dall’interno e da molto in alto. Lei cita, come complice dell’istituzione della democrazia dei signori, la presidenza della Repubblica, nei casi Monti e Draghi.
I due presidenti, fra loro molto diversi come storia personale, cultura, provenienza politica, che si sono susseguiti nell’ultimo quindicennio, Napolitano e Mattarella, si sono trovati sotto una…


L’articolo prosegue su Left del 4-10 marzo 2022 

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Contro la guerra con le armi della conoscenza

Per contrastare lo smarrimento che ci assale davanti alla tragedia dell’Ucraina c’è bisogno di un punto d’avvio che permetta di capire il presente ma di guardare più lontano dalla cronaca, nel passato e nel futuro. Un bell’avvio è lo spunto offerto dalla manifestazione di sabato 26 febbraio a Firenze, animata da un orizzonte largo di sigle e movimenti, tutti accomunati dal ripudio della guerra. Il luogo, intanto: il ponte di Santa Trinità, innalzato nel Cinquecento da Bartolomeo Ammannati e rifatto tal quale dopo che i tedeschi l’ebbero distrutto nel 1944. Se il ponte tradizionalmente unisce, anche superando difficoltà immani, questo ponte, non meno di quello a Mostar, è affatto speciale perché risarcisce una lacerazione di guerra. Chi è contro la guerra deve costruire. Ma cosa, e in che modo? In cosa deve consistere una “cultura di pace”?

Lo suggerisce un manifesto, vera dichiarazione di etica e di metodo, proposto dagli studenti del liceo Giovanni Pascoli. Niente immagini, solo parole su un foglio a quadretti. Ma di quelle che esprimono una coscienza civile che molta della nostra classe politica invidierebbe (o forse non invidia affatto, proprio per questo). Siccome la storia insegna solo a chi ascolta, dicono gli studenti fiorentini, invitiamo tutti quanti ad «informarsi, riflettere e discuterne». Anzi: smettiamo di citare il passato senza agire nel presente, e non dimentichiamo che non altrettanta attenzione sappiamo dimostrare per le sorti di quei popoli che hanno il torto di vivere lontano dall’Europa (ci stiamo già accorgendo che un profugo siriano vale meno di uno ucraino). Sono tre momenti fondamentali di un metodo che è storico e politico al tempo stesso: raccogliere dati e informazioni, indagare le fonti; analizzare questi materiali, interrogarli, distillarli; e quindi farne oggetto di una dialettica condivisa. La storia, insomma, non come strumento di distorsione, ma presupposto necessario della buona politica. Dell’architettura della pace propria dei costruttori di ponti.

Uno dei passaggi più spiazzanti, almeno alle nostre latitudini, dell’agghiacciante discorso con cui Vladimir Putin ha annunciato l’inizio della guerra è quello in cui si proclama la necessità di denazistizzare l’Ucraina. Che per Putin non esiste, perché è sempre stata Russia. Premesso che non è vero, se così fosse come potrebbe essere ancor oggi una terra così infestata dal nazismo da dover venire bonificata con le armi? E come potrebbe presiederla un ebreo? Piegando la storia alla volontà di potenza, Putin ha tuttavia fornito – credo del tutto involontariamente – un contributo a un obiettivo cui devono tendere tanto gli storici quanto i politici, e cioè quello del riconoscimento della complessità dei…


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Mao Valpiana: Cosa significa oggi costruire la pace

Che fine hanno fatto i pacifisti? Perché non si sono mossi prima, in questi anni, per scongiurare questa ennesima guerra? Ma davvero il movimento per la pace pensa di fermare l’invasione russa appendendo le bandiere arcobaleno ai terrazzi? Come si può anche solo immaginare, oggi, un mondo senza armi? Si tratta di domande che tutti abbiamo visto circolare in questi giorni, quesiti con cui si è cercato di delegittimare il pacifismo italiano e internazionale, bollandolo come una ideologia composta solo di illusioni e buoni propositi. La realtà, però, è diversa. E la prima, fondamentale, precisazione che va fatta, riguarda le piazze che in queste settimane si sono riempite per dire un No secco alla guerra di Putin in Ucraina.

«Quei milioni di persone che si sono mobilitati nelle capitali internazionali e in molte città italiane nelle ultime settimane non sono i “pacifisti”, bensì il popolo, la gente, l’opinione pubblica che chiede pace, che ha espresso una volontà di pace», dice a Left Mao Valpiana, militante da anni in prima linea sul fronte della pace, presidente del Movimento nonviolento e direttore della rivista Azione nonviolenta. «Il movimento pacifista vero e proprio, invece, è quella struttura che ha favorito, promosso, sollecitato la possibilità di questa mobilitazione più generale – prosegue Valpiana -. In Italia è coordinata dalla Rete pace e disarmo. I pacifisti, infatti, non si attivano solo quando scoppia una guerra, essi sono impegnati tutto l’anno, tutti i giorni, all’interno di varie organizzazioni e di varie campagne».

Alla luce del fatto che i pacifisti sono al lavoro ogni giorno, le piazze contro il conflitto in Ucraina assumono un significato diverso. «Le recenti mobilitazioni antimilitariste in Europa e non solo indicano una volontà politica che si è espressa attraverso due parole d’ordine chiare: “No alla guerra” e “Sì alla pace”. E si tratta già di un programma abbastanza impegnativo – commenta con un’ironia amara Valpiana -. Intere metropoli si sono mobilitate, penso a Berlino, con 100mila persone, Milano, 50mila, qui nella mia Verona piazza Bra era piena come non mai. Le città si sono mosse per fare diplomazia dal basso. Dove ha fallito la politica dei governi, che non ha trovato un accordo attraverso le trattative, lì si sono attivati i centri abitati coi loro cittadini, Mosca e San Pietroburgo compresi. Esercitando una forte pressione internazionale con cui i governi ora devono fare i conti. Il popolo della pace ha detto che la guerra si ferma con gli strumenti messi a disposizione dalla non violenza. Se i governi sceglieranno una strada diversa, dovranno aprire una discussione con…


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Riforma del catasto, l’ira dei nababbi

Si da quando il governo ha presentato una proposta di riforma del catasto a esclusivo scopo conoscitivo e di trasparenza – prima ancora di avere il tempo di illustrare la norma e di definirne i contorni – si sono alzate alte grida che paventano un infondato rischio di aumento generalizzato della tassazione sulla casa. Andiamo a capire perché, e soprattutto chi ha interesse a protestare.
La proposta, che è contenuta nel disegno di legge delega per la riforma fiscale, prevede la costruzione di un nuovo insieme di informazioni che riguardano l’attribuzione a ciascuna unità immobiliare di un valore patrimoniale e di una rendita aggiornata ai valori di mercato, e l’individuazione di meccanismi per l’adeguamento periodico di questi valori. Queste informazioni saranno rese disponibili solo dal gennaio 2026, e se ne esclude l’utilizzo a fini fiscali.
La precisazione si rende necessaria, perché il catasto, che fornisce una mappatura di tutti gli immobili del Paese, serve anche per finalità fiscali, e in special modo per l’applicazione dell’Imu. L’Imu è un’imposta patrimoniale che fornisce un gettito di circa 18 miliardi all’anno, e che non grava sulla prima casa, a meno che non si tratti di una casa di lusso (villa, castello o palazzo).

Il valore degli immobili a cui è commisurata l’imposta non è attualmente indicato in catasto, ma si ricava moltiplicando la rendita catastale per un apposito coefficiente. Il valore degli immobili residenziali cui si applica l’Imu, ad esempio, è pari a 160 volte il valore della rendita.
Poiché le rendite catastali per i fabbricati sono state stimate da ultimo più di 30 anni fa, nel 1990, il coefficiente è stato via via aumentato (passando in particolare da 100 a 160 dal 2012) per avere una base imponibile dell’Imu più vicina al valore di mercato. Ciononostante la base imponibile così calcolata è, in media, secondo le stime del Dipartimento delle finanze, circa la metà del valore di mercato effettivo.

Qual è allora il problema? Il problema non è tanto che le rendite non sono aggiornate. Se lo scostamento fra la base imponibile e il valore di mercato del bene fosse lo stesso per tutti gli immobili, sarebbe infatti indifferente raddoppiare il valore della stima (colmando quindi, in media, lo scostamento fra la stima e il valore vero di mercato), dimezzando al tempo stesso le aliquote dell’imposta. Si otterrebbe lo stesso gettito e il gettito sarebbe distribuito fra i contribuenti allo stesso modo. Nulla cambierebbe rispetto alla situazione attuale.

Il problema sta nella forte diversità dello scostamento tra il valore stimato e quello di mercato che si registra fra immobile e immobile. In altri termini, rispetto al 1990, ci sono immobili che hanno aumentato di molto il loro valore, e altri che invece lo hanno aumentato di poco, o lo hanno addirittura visto diminuire. Gli studi compiuti dall’Agenzia del territorio ci forniscono un chiaro quadro di questa situazione: la sottovalutazione della base imponibile dell’Imu rispetto al suo valore di mercato è molto più forte nel Nord ovest rispetto al Sud, nei centri urbani rispetto alle periferie. La sottovalutazione tende inoltre a favorire quella parte della popolazione che ha una maggiore quota della ricchezza abitativa. Se si aggiornasse la base imponibile dell’Imu, riducendo contemporaneamente le aliquote in modo da mantenerne, nell’aggregato, invariato il gettito, avremmo una significativa redistribuzione del prelievo.

È ragionevole attendersi che sarebbero molti di più i contribuenti che ci guadagnerebbero (vedendo ridurre il peso dell’imposta) rispetto a quelli che dovrebbero affrontare un inasprimento di onere.

Ecco che allora appare chiaro perché una norma di buon senso, che chiede semplicemente di commisurare un’imposta sul patrimonio al suo valore aggiornato e non a valori obsoleti, che non tengono conto né dello spopolamento delle aree interne, né della forte riqualificazione dei centri urbani, né dell’effetto positivo cha ha avuto sul valore delle case il miglioramento della rete dei trasporti (si pensi alle metropolitane nelle grandi città) o la vicinanza di servizi pubblici (ospedali, asili nido, scuole, ma anche verde pubblico), incontri una tale violenta resistenza.

Eppure si tratterebbe di un intervento di banale equità del prelievo. A chi sembrerebbe logico pagare l’Irpef sul reddito percepito anni fa e non su quello corrente, o l’Iva sui consumi dell’anno scorso e non su quelli di quest’anno, o l’imposta di bollo sul patrimonio finanziario di dieci anni fa e non su quello attuale? Perché per gli immobili si deve seguire una regola diversa? Chi ha paura di perdere i propri privilegi ha anche più forza per fare sentire la propria voce, e lo fa puntando su argomenti tendenziosi in quanto infondati, facendo crescere la paura che l’aggiornamento delle rendite sia il pretesto per fare aumentare per tutti il prelievo fiscale sugli immobili. A causa di questa interessata opposizione, tutte le proposte di aggiornamento del catasto, compresa quella votata all’unanimità dal Parlamento nell’ultima legislatura, non sono riuscite sino ad ora a trovare attuazione.

Per questo, la proposta avanzata dal governo prova, come si è detto, a seguire una via diversa: quella di fornire una informazione, in piena trasparenza, sui valori di mercato degli immobili, senza implicazioni fiscali. Ma la paura è che quando i dati fossero disponibili la verità della sperequazione diventerebbe visibile ai più, e chi ha oggi il privilegio di pagare un’Imu fortemente sottovalutata farebbe fatica a difendere questo privilegio. Da qui il clamore sollevato anche contro questa proposta: un clamore che alla resa dei conti sarà di pochi privilegiati contro i molti penalizzati.

*L’autrice: Maria Cecilia Guerra è sottosegretaria al ministero dell’Economia e delle finanze e responsabile economica di Articolo 1


L’articolo è stato pubblicato su Left del 19-25 novembre 2021

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Disperati “giusti” e disperati “sbagliati”

A police officer talks to refugees fleeing the conflict from neighbouring Ukraine at the Romanian-Ukrainian border, in Siret, Romania, Monday, Feb. 28, 2022. The European Union's commissioner for home affairs Ylva Johansson visited Romania's northern border crossing in Siret Monday where thousands of refugees are entering from neighboring Ukraine as they flee the conflict with Russia. (AP Photo/Andreea Alexandru)

Scusate se insisto. Ieri a Sky Tg24 Susanna Ceccardi, europarlamentare della Lega e già candidata alla presidenza della Regione Toscana, alla domanda «se c’è una donna africana che scappa dall’Ucraina la devono accogliere o no?» ha risposto testualmente: «Bisogna vedere se scappa veramente dall’Ucraina. Non è facile stabilirlo: altrimenti diventa un viatico per tutti quelli che scappano dall’Africa».

Uno studente indiano di 35 anni, Rubi, intervistato da Al Jazeera, ha raccontato di essere scappato da Kiev con altri 25 amici indiani e del Bangladesh. Arrivati al confine con la Polonia racconta: «Tutto gratis solo per gli ucraini. Ma facciamo anche parte dell’Ucraina», ha detto. «Una persona al confine ci ha detto che non possiamo attraversare. Immagina, abbiamo camminato per 30 km (18 miglia) e l’uomo sta dicendo qualcosa del genere. Non abbiamo potuto ottenere alcun mezzo di trasporto, non abbiamo alloggi, nessuno è lì per aiutarci».

Anna Alboth del Minority Rights Group ha confermato che la discriminazione razziale nell’accoglienza dei profughi, sebbene non sistemica, è un dato di fatto. «La discriminazione avviene principalmente sul lato ucraino del confine. Ma ci sono persone in Polonia che offrono il trasporto gratuito e che lo rifiutano una volta avvicinate da un rifugiato non ucraino. Riceviamo messaggi da studenti nigeriani e indiani che non sono stati in grado di gestire il fatto di essere trattati in modo diverso e di essere rimandati a Leopoli», ha affermato. «Non possiamo dividere le persone in profughi degni e indegni. I non ucraini in fuga dalla guerra affrontano le stesse sfide degli ucraini. Dobbiamo offrire supporto a tutte le persone bisognose, non solo a quelle bianche che sono simili a noi».

Perché il punto è esattamente questo: i bianchi che ci assomigliano passano mentre i neri no. Come scrive Francesco Ferri «la tendenza alla classificazione e alla selezione è una caratteristica di fondo del governo dei confini. Nelle prossime settimane e nei prossimi mesi saremo costantemente portatə a pensare che sia giusto che gli/le ucrainə possano muoversi liberamente attraverso le frontiere e che, viceversa, per gli altri gruppi nazionali – in fuga dall’Ucraina o da altri luoghi – sia fisiologicamente più difficile o impossibile. Il punto di partenza di questo ragionamento è da rifiutare con forza: la scelta di favorire il transito di alcunə e impedire quello di altrə è compiutamente politica e, come tale, è necessario e possibile metterla in discussione».

Se notate, il termine “immigrato” sembra essere sparito dal discorso pubblico. Dove una volta erano tutti “clandestini” o “immigrati” ora sono “profughi”. È un’ottima notizia che il Consiglio Ue abbia approvato l’applicazione della direttiva 55/2001 che concede la protezione temporanea ai cittadini ucraini e agli stranieri lungo soggiornanti o titolari di protezione in Ucraina. Ma la tentazione per qualcuno di dire tra non molto “abbiamo già dato” sarà fortissima.

Buon venerdì.

Georges Nivat: «Stiamo ballando su un vulcano nucleare»

Russian President Vladimir Putin, second left, attends a wreath-laying ceremony at the Tomb of the Unknown Soldier, near the Kremlin during the national celebrations of the 'Defender of the Fatherland Day' in Moscow, Russia, Tuesday, Feb. 23, 2021. The Defenders of the Fatherland Day, celebrated in Russia on Feb. 23, honors the nation's military and is a nationwide holiday. (Alexei Druzhinin, Sputnik, Kremlin Pool Photo via AP)

«Non lui ma qualcosa di più universale singhiozzava e piangeva nel suo intimo», scrive Boris Pasternak nel suo capolavoro, Il dottor Zivago, a proposito dei sentimenti del protagonista di fronte alla forza cieca degli eventi. Ed è come lo stesso intimo sentire per Georges Nivat, che è stato grande amico del premio Nobel per la letteratura, di fronte a quanto sta accadendo in Ucraina. Ottantacinque anni, nato a Clermont-Ferrand, in Francia, Nivat, professore emerito e direttore dell’estensione di Ginevra dell’Università “Lomosov” di Mosca, slavista, tra i più grandi esperti di Storia della letteratura russa, era fidanzato con Irina Emélianova, figlia adottiva di Pasternak, un rapporto che portò alla sua espulsione dall’Unione sovietica nel 1960 insieme con la stessa Irina. Testimone d’eccezione della cultura e della storia del Noecento, scrittore e saggista, dottore onorario dell’Accademia russa delle scienze, così come dell’Accademia delle scienze dell’Ucraina, è traduttore e biografo di un altro Nobel, Alexandr Solzhenitsyn, autore di quell’epocale romanzo-inchiesta che è Arcipelago gulag (Mondadori).

Raggiungiamo Nivat telefonicamente nella sua casa di Ginevra. Non si dà pace. «Pensavo che un’invasione dell’Ucraina non fosse possibile, addirittura immaginabile. Mi sbagliavo di grosso…», dice, chiedendoci di cercare la traduzione italiana di una poesia di Natalia Gorbanevskaya. «Non ho salvato né Varsavia né Praga. Sono io il colpevole! La mia colpa è inspiegabile. Rinchiusa, maledetta sia questa casa!/ Casa del male, del peccato, del crimine e della falsità!/ Ma ad esso, incatenato con una catena invisibile, avrò gioia e riposo nell’orribile casa, In un angolo fumoso, miserabile e ubriaco/ Dove vive il mio popolo, innocente e senza Dio».

Sono versi del 1973, la grande poetessa russa era sulla Piazza Rossa il 25 agosto del 1968, prima di trascorrere due anni in una prigione psichiatrica del Kgb a Kaza. Erano in otto a manifestare contro l’invasione della Cecoslovacchia da parte dei carri armati sovietici, quel giorno, e sollevavano un cartello: “Per la tua e la nostra libertà!”. Lo stesso che avevano in mano gli insorti polacchi nel 1831 contro le truppe zariste, poi successivamente ripreso da molti dissidenti sia del XIX che del XX secolo, sia russi che polacchi o ucraini, in particolare sulla Maidan nel novembre 2013 (la celebre rivolta in piazza Maidan, a Kiev, ndr).

“Per la tua e la nostra libertà”. Professore, uno slogan potente.
Divenne l’emblema di tutti i combattenti della resistenza dei due secoli successivi. Oggi deve rimanere un motto europeo. Siamo tutti corresponsabili. In questo momento ci sta esplodendo in faccia.
Quali sentimenti prova nel vedere materializzarsi di ora in ora questa tragedia?
È uno shock profondo per me, e sarà così per il resto della vita che mi resta di vivere. Penso che sia anche uno shock per una parte degli europei. Forse non per tutti, ahimè…
Che cosa ha davvero in mente Putin secondo lei, e che cosa pensa della minaccia di uso della bomba atomica nel caso di azioni militari dell’Occidente?
Chi lo sa? Probabilmente nemmeno i suoi consiglieri più vicini. Credo che il presidente russo pensi di essere perseguitato. E stia tramando da tempo una sorta di vendetta contro il Maidan. Ha l’arma nucleare, e il disarmo nucleare è ancora oggi un’utopia. Così viviamo su un vulcano, Hiroshima è permanentemente davanti a noi, ma ce ne dimentichiamo, balliamo sul vulcano…
Non trova che sia Nato che Europa abbiano contribuito allo scoppio della guerra provocando, se così si può dire, per anni Mosca e il suo presidente “perseguitato” spostando i confini sempre più a Est?
Questo è secondario. Il presidente francese Macron ha detto che l’Alleanza atlantica era «cerebralmente morta». Personalmente ho sempre pensato che fosse meglio non far avanzare i confini della Nato, ma il presidente Biden ha detto che non avrebbe mai mandato un soldato americano in Ucraina. Ho pensato che il presidente Putin aveva, in breve, già vinto, se non de jure, almeno de facto. Anche qui mi sono sbagliato.
Che cosa rispondiamo a chi ricorda che il colpo di Stato che ha fatto sì che salisse al potere il governo filonazista in Ucraina sia stato finanziato da Usa e Nato? Oggi poi sembrano in molti a dimenticare che bombardamenti, rapimenti e delitti per mano di Kiev contro la popolazione filorussa nel Donbass vanno avanti dal 2014…
Non c’è niente da dire a coloro che vogliono “denazificare” l’Ucraina, perché l’Ucraina non è
nazista. L’estrema destra ha solo un deputato nel Parlamento ucraino, quindi di che cosa stiamo parlando?
Possiamo approfondire questo punto?
Se si vuole fare…


L’articolo prosegue su Left del 4-10 marzo 2022 

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I guerrafondai

L’attacco all’Ucraina sferrato da Putin è un atto criminale che in una settimana di guerra è già costato la vita a molti civili ucraini  e militari da entrambe le parti. Sono stati bombardati edifici civili, scuole e anche reparti di maternità. Nessuna guerra è chirurgica; è pura propaganda chiamarla così come ben sappiamo dai tempi della guerra in Iraq.

L’aggressione all’Ucraina ha già prodotto molte centinaia di migliaia di profughi, fra loro soprattutto donne e bambini traumatizzati di bombardamenti e dell’escalation di questo conflitto che li ha costretti a lasciare la scuola, gli affetti, la tranquillità della vita quotidiana in cui hanno tutto il diritto di poter crescere. Accolti in Polonia, Romania e tanti altri Paesi – come affermano gli attivisti di Save the Children – hanno bisogno di sostegno psicologico tanto quanto di beni essenziali. L’Onu stima che 18 milioni di persone avranno bisogno di aiuti umanitari nei prossimi mesi. Secondo l’Unhcr gli sfollati interni saranno tra 6 e i  7,5 milioni e i rifugiati tra i 3 e i 4 milioni. Parliamo di una emergenza umanitaria gigantesca nel cuore dell’Europa dove già da mesi drammaticamente si consuma, nell’indifferenza generale, quella di profughi, siriani, iracheni, afgani bloccati al confine fra Polonia e Bielorussia e stritolati dal braccio di ferro fra i due Paesi, che li lasciano a morire di fame di freddo. Scene analoghe si consumano sulla rotta balcanica dove la polizia croata aggredisce e respinge i profughi con ogni mezzo.

L’Europa non può continuare a voltarsi dall’altra parte, lasciando che si costruiscano nuovi muri e che prevalga la logica della sopraffazione e della violenza. Fermare Putin, sostenere la resistenza ucraina e i profughi- da qualunque area del mondo arrivino!-, ristabilire pace e accoglienza è prioritario e urgente. Ma non è un obiettivo raggiungibile con le armi. «La guerra è disumana, cinica, stupida» diceva il medico di guerra Gino Strada, fondatore di Emergency. Con la guerra non si risolvono mai i problemi. Anzi si aggravano di più. La guerra porta sempre morte e regressione.

È  bastata una settimana per vederne tutti gli effetti devastanti. Compresa la pericolosa corsa al riarmo a cui stiamo assistendo. Per la prima volta l’Unione europea fornisce armi e mezzi militari a un Paese vicino. Perfino la Svezia, la Germania, la Finlandia e la Svizzera hanno compiuto questo passo, con una decisione senza precedenti nella loro storia. E c’è chi esulta…

La Costituzione afferma che l’Italia ripudia la guerra ma il governo Draghi invia armi, dicendo che non è più tempo di dialogo.

«È sempre il tempo del dialogo e della diplomazia perché purtroppo la storia insegna che se alle bombe si risponde con le bombe va a finire male. Evviva la pace prima di tutto e sopra tutto», gli ha risposto perfino Salvini, sia pur per coprire il suo passato recente di ammiratore e sodale di Putin. Ma tant’è. Rinfocolare il vortice militare innescato da Putin invece di continuare a percorrere vie diplomatiche significa assecondare il suo “gioco” che punta ad alzare l’asticella del conflitto ogni giorno di più.

E mentre anche la Bielorussia, alleata di Putin, ha modificato la propria Costituzione per eliminare lo status di Paese “denuclearizzato” invece di ascoltare l’Unione degli scienziati per il disarmo nucleare e le reti per il disarmo che da anni lavorano per la messa al bando delle armi nucleari e non solo, il governo Draghi, sotto il comando Nato, rafforza l’unità militare italiana già schierata in Lettonia, invia forze navali e raddoppia le forze aeree in Romania. «Sono in stato di pre-allerta ulteriori forze già offerte dai singoli Paesi membri all’Alleanza: l’Italia è pronta con un primo gruppo di 1.400 militari e un secondo di 2.000 unità», ha detto Draghi in Aula ringraziando Guerini che come scriviamo da mesi è il ministro che aumentato vertiginosamente le spese militari italiane. I produttori di armi ringraziano. Per loro la guerra è business.

Nel frattempo invece di far intervenire l’Onu e altri mediatori di pace si pensa a come far entrare Ucraina e altri Paesi nella Nato. Invece di implementare l’attività diplomatica e le sanzioni che colpiscono direttamente Putin e gli oligarchi, si inviano armi della popolazione ucraina perché si arrangi come può, perché si combattano fra loro, russi e ucraini. Ma tutto questo in Italia non si può dire perché si viene subito tacciati di essere filo-russi o filo-cinesi. La condanna dell’atto di guerra compiuto da Putin non può che essere netta e totale. Su questo numero di Left civili ucraini e russi dissidenti (fra loro tanti intellettuali, artisti, scienziati, ma anche tanti giovani) denunciano con coraggio l’autocrate che sta facendo precipitare in un baratro due Paesi. Questa guerra è il colpo di coda dello zar che sogna la Grande Russia riducendo l’Ucraina, e chissà, anche i Paesi baltici e altri, a meri satelliti. La Bielorussia lo è già. È un progetto autoritario, antistorico e lucidamente pazzo che Putin coltiva da molti anni.

Ma questa guerra sarà un disastro anche per la Russia stessa. È già una guerra impopolare, come scrive la Novaja Gazeta, il quotidiano di opposizione per il quale scriveva Anna Politkovskaja, voce critica verso il Cremlino, uccisa nel 2006 per le sue coraggiose denunce degli orrori della guerra in Cecenia. Nonostante la repressione delle manifestazioni, nonostante la censura, nonostante la propaganda di regime, nonostante l’obbligo per tutti i media di non chiamarla guerra ma operazione militare le voci di dissenso interno continuano a crescere nelle grandi città russe e potrebbero diventare una valanga accanto al popolo ucraino.


L’editoriale è tratto da Left del 4-10 marzo 2022 

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L’anti imperialismo degli idioti. Lettera da Kiev alla sinistra occidentale

People clean-up the damage at an apartment complex after a rocket attack during Russia's attack on the Ukraine in Kharkivskiy District, Kyiv. Initial reports indicated 8 people were wounded and 1 person is in critical condition. (Photo by Justin Yau/Sipa USA)

Sto scrivendo queste righe a Kiev mentre la mia città è sotto l’attacco dell’artiglieria. Fino all’ultimo minuto avevo sperato che le truppe russe non avrebbero lanciato un’invasione su vasta scala. Ora posso solo ringraziare coloro che hanno fatto trapelare le informazioni ai servizi di intelligence statunitensi. Ieri ho passato metà della giornata a valutare se dovevo entrare a far parte di un’unità di difesa territoriale. Durante la notte le truppe russe si sono preparate ad accerchiare Kiev e il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha firmato un ordine di mobilitazione generale, prendendo la decisione per me. Ma prima di assumere il mio incarico, vorrei comunicare alla sinistra occidentale cosa penso della sua reazione all’aggressione russa contro l’Ucraina.

Prima di tutto, sono grato alle persone di sinistra che ora stanno manifestando davanti alle ambasciate russe, anche a quelli che si sono presi il loro tempo per rendersi conto che è la Russia l’aggressore in questo conflitto. Sono grato ai politici che sostengono la necessità di fare pressione sulla Russia per fermare l’invasione e ritirare le sue truppe. E sono grato alla delegazione di parlamentari, sindacalisti e attivisti britannici e gallesi che è venuta per sostenerci e ascoltarci nei giorni precedenti l’invasione russa. Sono anche grato alla Campagna di solidarietà ucraina nel Regno Unito per l’aiuto che perdura da molti anni.

Questo articolo riguarda l’altra parte della sinistra occidentale. Per esempio coloro che a fine gennaio hanno parlato di un’aggressione della Nato in Ucraina e che non sono stati capaci di vedere l’aggressione russa. Mi riferisco ai Democratic socialists of America (Dsa) di New Orleans.

Il Comitato internazionale Dsa, da parte sua, ha pubblicato una dichiarazione vergognosa evitando di pronunciare una sola parola contro la Russia (sono molto grato al professore e attivista statunitense Dan la Botz e ad altri per la loro critica a quella nota).

Poi c’è chi ha criticato l’Ucraina per non aver attuato gli accordi di Minsk e ha taciuto sulle violazioni commesse dalla Russia e dalle cosiddette Repubbliche popolari.

Infine ci sono coloro che hanno sopravvalutato il peso dell’influenza dell’estrema destra in Ucraina, ma non si sono accorti dell’estrema destra nelle “Repubbliche popolari” ed hanno evitato di criticare la politica conservatrice, nazionalista e autoritaria di Putin. Parte della responsabilità di ciò che sta accadendo ricade su di voi.

I danni del campismo
Tutto ciò fa parte di un fenomeno più ampio presente nel movimento occidentale “contro la guerra”,  definito «campismo» dai critici di sinistra. L’autrice e attivista britannico-siriana Leila Al-Shami gli ha dato un nome più forte: «L’anti imperialismo degli idioti». Leggete il suo meraviglioso saggio del 2018 se non l’avete ancora fatto. Ripeterò qui solo la tesi principale: rispetto al conflitto in Siria, l’impegno di gran parte della sinistra occidentale “contro la guerra” non ha avuto nulla a che fare col fermare il conflitto. Si è solamente opposta all’interferenza occidentale, ignorando, o addirittura sostenendo, il coinvolgimento di Russia e Iran, per non parlare dell’atteggiamento deferente nei confronti del regime di Assad «legittimamente eletto» in Siria. «Un certo numero di organizzazioni contro la guerra hanno giustificato il proprio silenzio sugli interventi russi e iraniani sostenendo che “il principale nemico è in casa”», ha scritto Al-Shami. «Questa “idea” ha impedito loro di fare una qualsiasi seria analisi e quindi di capire chi ha effettivamente tirato le redini della guerra».

Purtroppo abbiamo visto lo stesso cliché ideologico ripetersi nell’analisi dell’attacco all’Ucraina. Anche dopo che la Russia ha riconosciuto l’indipendenza delle “Repubbliche popolari”, all’inizio di questa settimana, sulla rivista di sinistra americana Jacobin Branko Marcetic ha scritto un articolo quasi interamente dedicato alla critica degli Stati Uniti. E quando è arrivato a parlare delle azioni di Putin, si è limitato a rimarcare che il leader russo aveva «mostrato intenzioni tutt’altro che benevoli». Ma stiamo scherzando?

Non sono un fan della Nato
So bene che dopo la fine della Guerra fredda la Nato ha perso la sua funzione difensiva e ha condotto politiche aggressive. So bene che l’espansione verso est della Nato ha indebolito gli sforzi per il disarmo nucleare e la formazione di un sistema di sicurezza “universale”. È la Nato ad aver cercato di ridurre ai minimi termini il ruolo delle Nazioni Unite e dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (l’Osce) e di screditarle definendole «organizzazioni inefficienti». Ma per cercare una via d’uscita da questa situazione non possiamo girare al contrario le lancette della storia. Dobbiamo fare i conti con le circostanze attuali.

Quante volte la sinistra occidentale ha citato le promesse informali degli Stati Uniti all’ex presidente russo, Mikhail Gorbachev, riguardo la Nato (“non un centimetro più a est“), e quante volte ha invece menzionato il Memorandum di Budapest del 1994 che garantisce la sovranità dell’Ucraina? Quante volte la sinistra occidentale ha riconosciuto le «legittime preoccupazioni per la sicurezza» della Russia, uno Stato che possiede il secondo più grande arsenale nucleare del mondo? E quanto spesso si è ricordata delle preoccupazioni per la sicurezza dell’Ucraina, uno Stato che ha dovuto barattare le sue armi nucleari, sotto la pressione degli Stati Uniti e della Russia, per un pezzo di carta (il Memorandum di Budapest) che Putin ha calpestato definitivamente nel 2014? È mai venuto in mente alle persone di sinistra critiche nei confronti della Nato che l’Ucraina è la vittima principale dei mutamenti provocati dall’espansione della Nato?

Più e più volte, la sinistra occidentale ha risposto alle critiche contro la Russia citando l’aggressione degli Stati Uniti contro l’Afghanistan, l’Iraq e altri Stati. Naturalmente, occorre tenere conto di tutto ciò, ma in che modo, di preciso?

Il ragionamento della sinistra dovrebbe essere che nel 2003 gli altri governi non hanno fatto abbastanza pressione sugli Stati Uniti per fermare la guerra contro l’Iraq. Non che ora sia necessario esercitare meno pressione sulla Russia mentre invade l’Ucraina.

Un errore evidente
Immaginate per un momento se, nel 2003, quando gli Stati Uniti si preparavano all’invasione dell’Iraq, la Russia si fosse comportata come gli Stati Uniti nelle ultime settimane: minacciando una escalation. Ora immaginate cosa avrebbe potuto fare la sinistra russa in quella situazione, secondo il dogma del «il nostro principale nemico è in casa». Avrebbe criticato il governo russo per questa “escalation”, dicendo che non doveva «mettere a rischio le contraddizioni inter imperialiste»? È ovvio per tutti che sarebbe stato un errore. Perché questo non è stato ovvio nel caso dell’aggressione all’Ucraina?

In un altro articolo su Jacobin Usa, Marcetic è arrivato a dire che l’opinionista di Fox news Tucker Carlson aveva «completamente ragione» a proposito della «crisi ucraina». Carlson, di fatto, ha messo in discussione «il valore strategico dell’Ucraina per gli Stati Uniti». Lo stesso ha fatto Tariq Ali su New left review quando ha citato, condividendolo, il calcolo dell’ammiraglio tedesco Kay-Achim Schönbach, il quale ha dichiarato che «rispettare» le mosse di Putin sull’Ucraina sarebbe stata una strategia «a basso costo, persino a costo zero», dato che la Russia potrebbe essere un utile alleato contro la Cina. Dite sul serio? Davvero vogliamo che gli Stati Uniti e la Russia raggiungano un accordo e inneschino una nuova guerra fredda contro la Cina come alleati? Deve essere questo il nostro obiettivo?

Riformare l’Onu
Non sono un fan dell’internazionalismo liberale. I socialisti dovrebbero criticarlo. Ma questo non significa che dobbiamo sostenere la divisione delle “sfere di interesse” tra gli Stati imperialisti. Invece di cercare un nuovo equilibrio tra i due imperialismi, la sinistra dovrebbe lottare per una democratizzazione del sistema della sicurezza internazionale. Abbiamo bisogno di una politica globale e di un sistema globale di sicurezza internazionale. Quest’ultimo lo abbiamo già: sono le Nazioni Unite. Sì, ha molti difetti, ed è spesso oggetto di giuste critiche. Ma si può criticare  o per rifiutare qualcosa o per migliorarla. Nel caso dell’Onu, abbiamo bisogno di migliorarla. Abbiamo bisogno di un approccio di sinistra per riformare e democratizzare l’Onu.

Naturalmente questo non significa che la sinistra debba sostenere tutte le decisioni del Palazzo di vetro. Ma un rafforzamento generale del ruolo dell’Onu nella risoluzione dei conflitti armati permetterebbe alla sinistra di ridurre al minimo l’importanza delle alleanze politico-militari e diminuire il numero delle vittime. (In un articolo precedente, ho scritto come le forze di pace dell’Onu avrebbero potuto aiutare a risolvere il conflitto del Donbass. Sfortunatamente, ormai questo articolo ha poco senso). Inoltre, avremmo bisogno delle Nazioni Unite anche per affrontare la questione del climate change e altri problemi globali. La ritrosia di molte persone di sinistra di tutto il mondo a rivolgersi all’Onu rappresenta un terribile errore. 

Dopo che le truppe russe hanno invaso l’Ucraina, David Broder, editor di Jacobin Europa, ha scritto che la sinistra «non dovrebbe scusarsi per essersi opposta a un intervento militare statunitense» in Ucraina. Questa opzione non era nemmeno nei piani di Biden, come ha ripetuto più volte. Gran parte della sinistra occidentale dovrebbe onestamente ammettere di aver completamente sbagliato nel formulare il proprio giudizio rispetto alla “crisi ucraina”.

La mia prospettiva
Concludo scrivendo brevemente di me stesso e del mio punto di vista. Negli ultimi otto anni, la guerra del Donbass è stata la questione principale che ha diviso la sinistra ucraina. Ognuno di noi ha formato la propria posizione sotto l’influenza dell’esperienza personale e di altri fattori. Per questo motivo, un altro ucraino di sinistra avrebbe potuto scrivere questo articolo in modo diverso.

Sono nato nel Donbass, ma in una famiglia ucraina e nazionalista. Mio padre è stato coinvolto nell’estrema destra negli anni 90, osservando la decadenza economica dell’Ucraina e l’arricchimento dell’ex leadership del Partito comunista, che ha combattuto dalla metà degli anni 80. Naturalmente, ha opinioni molto anti-russe, ma anche anti-americane. Ricordo ancora le sue parole l’11 settembre 2001. Mentre guardava in Tv il crollo delle Torri gemelle disse che i responsabili erano «eroi» (non la pensa più così, adesso crede che gli americani le abbiano fatte saltare in aria di proposito).

Quando nel 2014 è iniziata la guerra nel Donbass, mio padre si è unito al battaglione di estrema destra Aidar come volontario, mia madre è fuggita da Luhansk, e mio nonno e mia nonna sono rimasti nel loro villaggio che è caduto sotto il controllo della Repubblica popolare di Luhansk.

Mio nonno ha condannato la rivoluzione ucraina di Euromaidan. Sostiene Putin, che, dice, ha «ristabilito l’ordine in Russia». Tuttavia, cerchiamo tutti di continuare a parlare tra di noi (anche se non di politica) e di aiutarci a vicenda. Io cerco di essere comprensivo nei loro confronti. Dopo tutto, mio nonno e mia nonna hanno passato tutta la vita a lavorare in una fattoria collettiva. Mio padre era un operaio edile. La vita non è stata gentile con loro.

Interesse comune
Gli eventi del 2014 – prima la rivoluzione e poi la guerra – mi hanno spinto nella direzione opposta alla maggior parte delle persone in Ucraina. La guerra ha ucciso il mio “spirito” nazionalista e mi ha spinto a sinistra. Voglio lottare per un futuro migliore per l’umanità, e non per la nazione. I miei genitori, con il loro trauma post-sovietico, non capiscono le mie opinioni socialiste. Mio padre è indulgente riguardo al mio “pacifismo” e abbiamo avuto una brutta conversazione dopo che mi sono presentato a una protesta antifascista con un cartello che chiedeva lo scioglimento del reggimento di estrema destra Azov.

Quando Volodymyr Zelensky è diventato presidente dell’Ucraina nella primavera del 2019, ho sperato che questo potesse impedire la catastrofe attuale. Dopo tutto, è difficile demonizzare un presidente russofono che ha vinto con un programma di pace per il Donbass e le cui battute erano popolari sia tra gli ucraini che tra i russi. Sfortunatamente, mi sbagliavo. Mentre la vittoria di Zelensky ha cambiato l’atteggiamento di molti russi verso l’Ucraina, questo non ha impedito la guerra.

Negli ultimi anni, ho scritto molti articoli sul processo di pace e sulle vittime civili di entrambe le parti in guerra nel Donbass. Ho cercato di promuovere il dialogo. Ma ora tutto questo è andato in fumo. Non ci sarà alcun compromesso. Putin può pianificare quello che vuole, ma anche se la Russia si impadronisce di Kiev e installa il suo governo di occupazione, noi resisteremo. La lotta durerà fino a quando la Russia non se ne andrà dall’Ucraina e pagherà per tutte le vittime e tutte le distruzioni.

Quindi le mie ultime parole sono rivolte al popolo russo: sbrigatevi a rovesciare il regime di Putin. È nel vostro interesse come nel nostro.

 

* L’autore: Taras Bilous è uno storico ucraino e attivista di Smo (Social movement organization). Questo articolo è stato pubblicato il 25 febbraio scorso sul giornale online ucraino Commons: Journal of social critique (commons.com.ua) di cui Bilous è redattore. La traduzione è a cura della redazione di Left


L’articolo è pubblicato su Left del 4-10 marzo 2022 

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SOMMARIO

Il papa, il patriarca e lo zar 2.0

«Ho molti piacevoli ricordi dei nostri incontri e dei nostri costruttivi e significativi colloqui, che hanno riaffermato la somiglianza tra gli atteggiamenti della Russia e della Santa Sede sulle principali questioni internazionali. Sono fiducioso che lavorando insieme potremo fare molto per proteggere i diritti e gli interessi dei cristiani e per mantenere il dialogo interreligioso».
Era il 17 dicembre del 2021 e Putin inviava a Bergoglio gli auguri di compleanno, riaffermando la superiorità del suo potere sulla Chiesa ortodossa di Mosca, ed anzi, rimarcando come la sua direzione politica fosse inclusiva anche delle prospettive religiose.
L’accerchiamento dell’Ucraina da parte delle truppe russe era già iniziato a novembre del 2021.
Il rapporto tra Putin e il patriarca ortodosso di Mosca Kirill è un rapporto di potere ultraventennale, molto saldo, per quanto le sfere di influenza tra istituzioni civili e istituzioni religiose in Russia possano sembrare separate, in effetti sono talmente interconnesse che lui può parlare a nome di entrambi.
Bergoglio, nella cornice della sua politica mondialista, ha costruito negli anni una significativa relazione con le Chiese ortodosse, a cominciare proprio da quella di Mosca.
Come non ricordare l’incontro che ebbe proprio con Kirill a Cuba, acclamato da tutti i cattocomunisti nostrani perché si ritenne che potesse essere risolutivo per neutralizzare il regime di sanzioni contro Cuba da parte della comunità internazionale.
In quella occasione il duo Bergoglio-Kirill, redasse un documento congiunto nel quale si ribadiva il ruolo fondamentale della famiglia formata da uomo e donna, i cui effetti evangelici si stanno palesando proprio in queste ore perché i vescovi cubani, in perfetta continuità con il messaggio congiunto di Bergoglio e Kirill, hanno sferrato un attacco frontale al referendum in corso a Cuba sul nuovo codice della famiglia che permetterà alle coppie dello stesso sesso di sposarsi e di adottare.
Del resto sono proprio queste le finalità sottese a tutti i cosiddetti dialoghi interreligiosi, ovvero la negazione e il ridimensionamento dei diritti civili.
Bergoglio sta edificando la sua politica mondialista sapendo di dover condividere passaggi fondamentali con la chiesa ortodossa, e l’invasione dell’Ucraina ha scardinato pericolosamente il suo risiko religioso.
È per questo motivo che Bergoglio ha fatto carta straccia dei protocolli diplomatici, andando a far visita direttamente all’ambasciatore russo presso la Santa Sede, anziché convocarlo, come fanno normalmente i Capi di Stato.
E anche qui i cattocomunisti, i cattosocialisti e gli atei devoti si sono sovraeccitati davanti alla iniziativa del capo della Santa Sede, scambiando una monarchia allo sbando per una monarchia di grande valore diplomatico.
Bergoglio era talmente consapevole che stavano andando in fumo anni di relazioni bilaterali con le Chiese ortodosse russe, schierate con Putin, che non ha calibrato il suo gesto, la cui scompostezza istituzionale ha banalmente tradito anche il livello di dissidio interno, rimarcato peraltro con il rifiuto a partecipare ad un convegno organizzato a Firenze dai prìncipi della sua monarchia.
Del resto in tutte le monarchie assolute e in tutte le tirannie c’è sempre una opposizione interna poco visibile. Ce l’ha Bergoglio e ce l’ha anche Putin.
La Chiesa ortodossa di Mosca, esageratamente ricca perché attiva nel mercato dell’alcol, del tabacco e del petrolio, il dissidio interno lo aveva già materializzato con lo scisma dalla Chiesa ortodossa ucraina, e come tutte le organizzazioni di potere, ora ambisce ad azzerare i vertici religiosi ucraini quale conseguenza dell’azzeramento dei vertici politici ucraini da parte di Putin.
La Chiesa di Mosca vuole riprendere il controllo della Chiesa di Kiev, e Bergoglio sa che in questa partita rischia di rimanere mero spettatore, così ha spettacolarizzato un intervento che di diplomatico non aveva nulla. Tanto più che non ha espresso nemmeno un cenno alla posizione del suo omologo Kirill, limitandosi ad annunciare che forse si incontreranno in estate.
Resta inqualificabile per ogni persona dotata di un briciolo di umanità la decisione del Governo italiano di inviare armi alla popolazione ucraina, ed è persino banale dirlo, ma quando questa banalità la rimarca il Capo di una monarchia teocratica, si sa già che da parte delle masse parte la “ola”.
Le interferenze religiose negli scenari di guerra non sono mai state la soluzione, ma sono sempre state parte del problema.
E questa volta non ci sarà eccezione alla regola.

Solidarietà intermittente

27.02.2022, Medyka, POL, Krieg in der Ukraine, Flüchtlingsstrom, im Bild nach dem russischen Einmarsch in die Ukraine suchen Tausende Menschen im benachbarten Polen Zuflucht. Die meisten von ihnen sind Frauen und Kinder. Männer können nicht gehen, da sie zum Kampf mobilisiert werden. // After the Russian invasion of Ukraine, thousands of people are seeking shelter in neighboring Poland. Most of them are women and children. Men cannot leave as they are being mobilized to fight. Medyka, Poland on 2022/02/27. EXPA Pictures © 2022, PhotoCredit: EXPA/ Pixsell/ Armin Durgut *****ATTENTION - for AUT, SLO, SUI, SWE, ITA, FRA only*****

Ne abbiamo parlato nel buongiorno di ieri: mentre (per fortuna) l’Europa apre le porte ai profughi ucraini si va formando la sempre più nitida convinzione che esistano disperati che hanno il diritto di essere aiutati e disperati che abbiamo il diritto di lasciare al macello. Non è un argomento da poco perché finita (speriamo presto) la guerra le macerie di questa stortura umanitaria diventeranno combustibile per certa politica. Non è un caso che ieri Giorgia Meloni rilanciasse la questione dei “profughi veri” e dei “profughi finti” sui suoi social.

Ieri è intervenuta anche l’Asgi, l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, esprimendo sconcerto per quanto sta avvenendo ai confini tra Polonia e Ucraina dove viene impedito l’ingresso nel territorio nazionale e quindi nel territorio dell’Unione europea a cittadini di Paesi terzi, in prevalenza africani e asiatici, regolarmente soggiornanti in Ucraina per motivi di studio o di lavoro, nonostante nel territorio ucraino sia in corso un devastante conflitto. «Si tratta – scrive Asgi – di una gravissima violazione del diritto umanitario internazionale – che impone di proteggere qualsiasi civile in fuga dalla guerra – ma anche del diritto alla non discriminazione sulla base della nazionalità. Parimenti vi è violazione del divieto di respingimento della Convenzione di Ginevra del 1951 sullo status dei rifugiati, nonché di una violazione del diritto dell’Unione, al cui rispetto la Polonia come stato membro è vincolata. La Polonia è tenuta al rispetto dell’art.3 della Convenzione europea per i diritti umani  che vieta in modo assoluto il rinvio di qualsiasi persona verso luoghi nei quali essa possa essere esposta a tortura o trattamenti inumani e degradanti e ha l’obbligo di registrare le domande di asilo di tutti coloro che si presentano ai suoi valichi di frontiera senza che possa essere attuata alcuna illegittima differenziazione in base alla cittadinanza, nazionalità o altra condizione del richiedente. Il comportamento delle autorità polacche pone in essere una forma di discriminazione basata sulla appartenenza nazionale che risulta essere in aperta violazione anche della Convenzione internazionale sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale sottoscritta anche dalla Polonia. L’inaudita gravità dei fatti sopra citati evidenzia nuovamente quanto la Polonia stia violando in modo grave e sistematico le normative internazionali ed europee in materia di asilo e di tutela dei diritti fondamentali come già avvenuto sul confine bielorusso dove migliaia di rifugiati sono stati respinti e decine di essi sono morti di stenti anche a causa della condotta delle autorità polacche».

Forse dovrebbe far venire i brividi pensare che alle porte dell’Europa il colore della pelle, nel 2022, sia la discriminante per accedere alla salvezza. E forse dovrebbe provocare una certa vergogna sapere che gli afghani (ve li ricordate gli afghani e tutta Europa che prometteva di salvarli dai talebani?) ormai sono passati di moda e rimangono respinti al gelo. Non è una buona notizia che siano diventati di moda dei rifugiati “utili” da accogliere se serviranno come armi politiche contro gli altri. Chissà se qualcuno se ne accorge.

Buon giovedì.

Nella foto: una profuga a Medyka, al confine tra Polonia e Ucraina, 27 febbraio 2022