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Suicidio assistito, la necessità di una legge che faccia chiarezza sui casi di depressione

Blue intravenous drip in the hospital foyer as a concept of assisted death.

L’eco della bocciatura del referendum per la legalizzazione della procedura di morte volontaria etero-assistita – eutanasia secondo i promotori ma in effetti “omicidio del consenziente” ha rilevato la Consulta – non si è ancora spenta che già la decisione di un tribunale impone nuovamente una riflessione sul tema del fine vita. Come riporta l’Ansa, la Procura di Catania ha fatto appello contro la sentenza del Gup che il 10 novembre scorso aveva assolto Emilio Coveri, presidente dell’associazione Exit-Italia, a conclusione del processo per istigazione al suicidio nel 2019 in Svizzera di una 47enne della provincia etnea. Secondo l’accusa Coveri avrebbe «intrattenuto ininterrottamente dal 2017 al 2019» con la signora «plurimi rapporti e conversazioni telefoniche, via sms e posta elettronica» e avrebbe «indotto» la donna, che «soffriva di forme depressive e sindrome di Eagle, ad iscriversi nel 2018 all’associazione Exit».

A differenza dell’eutanasia che richiede l’azione diretta di un medico che somministra un farmaco letale, nel suicidio assistito il ruolo del sanitario si limita alla preparazione del farmaco che poi il paziente assume per conto proprio. Nel 2019, con una storica sentenza evocata dal celebre caso di Dj Fabo, che fu accompagnato a morire in Svizzera da Marco Cappato, fu la stessa Consulta a depenalizzare di fatto questa procedura ma solo in circostanze ben precise, dichiarando così: «Non è punibile», a «determinate condizioni», chi «agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli».

Come nasce, ci si potrà quindi chiedere, la decisione del gup di Catania? Come avvenne già nel 2013 per il caso del giudice Pietro D’Amico, anch’egli depresso, la paziente in questione non rientrava nelle «determinate condizioni» stabilite dalla Consulta. Tanto la figlia del giudice D’Amico, di cui parlammo su Left, quanto i familiari della donna siciliana, la cui madre, sorella e tre fratelli si sono costituiti parte civile, non hanno mai accettato che il proprio caro, anziché essere curato, venisse indirizzato alla morte. L’elenco dei precedenti è lungo e include anche personalità molto note, come nel caso di Lucio Magri, nel 2011.
Ancora una volta, le istituzioni si pongono dunque correttamente il problema della tutela dei soggetti “deboli”, fra cui rientrano a pieno titolo i pazienti psichici, a cominciare da quelli con diagnosi di depressione. La tutela di questi soggetti è l’interesse primario tanto della recente decisione della Consulta in tema di eutanasia con l’inammissibilità del referendum, quanto di quella del Gup di Catania in tema di suicidio assistito con la richiesta di appello.

In Italia ci sono decine di persone affette da malattie organiche incurabili che sopravvivono in condizioni insopportabili e che si vedono negato il diritto a una morte dignitosa che ponga fine alla sofferenza ogni giorno al risveglio, ammesso che siano riusciti anche solo a dormire. L’auspicio è quindi che la doverosa battaglia per la legalizzazione di queste procedure esca al più presto dalle aule delle corti di giustizia e approdi nel luogo deputato (sic) a fare le leggi su un tema così urgente, il parlamento. Mentre scriviamo ci giunge notizia che la Camera avrebbe dato il via libera alla morte medicalmente assistita, ma con una valanga di emendamenti annunciati.

Resta fondamentale che si faccia il necessario distinguo fra malattie organiche gravissime e incurabili da una parte e patologie psichiche dall’altra, nelle quali, come ha recentemente scritto su Left la psichiatra Daniela Polese, «se una persona depressa vuole suicidarsi si interviene con il ricovero e, se il paziente lo rifiuta, nonostante sia capace di intendere e di volere, si interviene contro la sua volontà per stato di necessità (articolo 32 della Costituzione, articolo 54 Codice penale) o con il trattamento sanitario obbligatorio (legge 833/78), per salvargli la vita». Perché impedire a una persona depressa di suicidarsi non è affatto una negazione della sua libertà.

Disarmo incondizioNato

Ukrainians crowd under a destroyed bridge as they try to flee crossing the Irpin river in the outskirts of Kyiv, Ukraine, Saturday, March 5, 2022. (AP Photo/Emilio Morenatti)

Non esiste soluzione militare alla guerra in Ucraina. L’unica soluzione militare plausibile sarebbe l’intervento della Nato e la generalizzazione della guerra ai Paesi confinanti, con il rischio, praticamente una certezza, di una devastante guerra nucleare. Più ci si infila dentro questo cul de sac più si alzano i decibel della propaganda bellicista. C’è una chiamata alle armi dei cervelli, che non devono più pensare alle responsabilità, all’incredibile sequenza di errori ed orrori che ha portato a questo esito catastrofico. Chiunque prova a ragionare è additato di collusione con il nemico e accusato di essere equidistante tra aggredito ed aggressore. Eppure sta a noi costruttori di pace, in Russia come in Italia, rompere questa spirale, in cui l’intelligenza è sostituita dalla propaganda e provare a dare una alternativa alla guerra. La nostra idea di “neutralità attiva” non significa stare con le mani in mano, attendere che gli eventi avvengano, non prendere parte dentro le controversie. Ma la nostra parte sono sempre stati i popoli, coloro che la guerra la subiscono, gli sfollati, le vedove, gli orfani, insomma l’umanità che si vorrebbe silenziata sotto il fragore delle bombe e della isteria bellica.

Intanto alla propaganda di guerra contrapponiamo alcune semplici domande.

Partiamo dall’invio delle armi all’Ucraina deciso dal nostro Governo e da quelli della Ue: sono in grado di ribaltare i rapporti di forza tra aggredito e aggressore? Nessun generale o esperto di Difesa vi dirà che questo invio di armi cambierà la situazione: troppo sproporzionate sono le forze militari in campo. L’unica soluzione militare possibile è un intervento della Nato a guida Usa, ma è una ipotesi talmente da brividi che sono proprio i vertici politico/militari ad escluderla come dimostra il niet alla richiesta ucraina di una no fly zone.

Chi fa articoli e post patriottici e bellicisti dalle sue calde case in occidente è disponibile a rischiare la vita dei suoi ragazzi e a mettere lo stivale sul terreno? Mandare armi agli ucraini avrebbe senso solo in questo caso, come avvenne in Italia ed in Francia nella seconda guerra mondiale quando britannici e statunitensi lanciarono armi per i partigiani che indebolivano così il nemico nelle retrovie e facilitavano il loro lavoro di liberazione sul fronte militare. Possiamo dire che il “vi armiamo ma crepate voi” senza che a questa segua un intervento diretto della Nato non è solo un poco ipocrita, ma anche vigliacco nei confronti del popolo ucraino?

Questa è la questione che abbiamo davanti, è la domanda che noi giornalisti dobbiamo proporre alle nostre opinioni pubbliche: se scegliamo la soluzione militare dobbiamo entrare in guerra a fianco dell’Ucraina. Siete disponibili? Il resto è tutta ipocrisia.

Ma se la soluzione militare è impossibile sono impossibili altre soluzioni?

Tornare all’Onu per esempio, che…

 

* L’autore: Alfio Nicotra è presidente della ong Un ponte per, associazione per la solidarietà internazionale


L’articolo prosegue su Left dell’11-17 marzo 2022 

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La forza di dire no alla guerra di Putin

Dal 24 febbraio a oggi in Ucraina si sta consumando una inaccettabile strage di civili. Fra loro anche donne e bambini che non sono ancora riusciti a lasciare il Paese come gli ormai quasi due milioni di profughi rifugiati oltre confine. Con l’uso di armi proibite dal diritto internazionale, come le bombe a grappolo, l’esercito russo ha colpito anche edifici civili, asili, ospedali. L’attacco di Putin alla popolazione ucraina è un crimine di guerra, che dovrà essere giudicato dal Tribunale internazionale dell’Aja. Perché allo scempio inaccettabile di vite umane non segua anche l’impunità. Come è accaduto quando il dittatore russo ha raso al suolo Grozny. Il dramma della Cecenia si è consumato tra il 1999 e il 2009 nel sostanziale silenzio dell’Occidente. La Cecenia appariva come un Paese lontano. Forse anche perché i ribelli ceceni erano caucasici e musulmani e avvertiti come “diversi” dai bianchi cristiani? Questo dubbio terribile si è affacciato alla nostra mente.

Ciò che è certo è che oggi dobbiamo fare in modo che non si ripeta quel bagno di sangue che la giornalista russa della Novaja gazeta Anna Politkovskaja denunciò con i suoi reportage, silenziati con un proiettile che la colpì alla testa, mentre rientrava a casa con le borse della spesa. Fu una vera e propria esecuzione e dopo tanti anni non ha avuto ancora giustizia. Intanto Putin torna a silenziare i giornalisti non allineati. Chiude le testate che non rilanciano la sua propaganda (quanto potrà resistere ancora l’unica voce di opposizione, la Novaja gazeta diretta dal premio Nobel per la pace Muratov?), blocca i social, impone la legge marziale per cui per “reati di opinione” si è giudicati da tribunali militari e infligge pene fino a 15 anni a chi è accusato di diffondere notizie sull’esercito russo e sul conflitto che il regime bolla come fake news. Nonostante tutto questo, le proteste proseguono nelle grandi città russe. Sono soprattutto i Put-teens, i ragazzi nati e cresciuti nel suo ventennio di potere a scendere in piazza, con coraggio, e, conseguentemente, ad essere arrestati. Ma non sono i soli. Sono tanti anche gli attivisti, intellettuali, giornalisti, fotografi che hanno avuto la stessa sorte. L’attivista russa Elena Popova del movimento pacifista degli obiettori di coscienza che avevamo provato a contattare per un’intervista dopo aver ascoltato le sue parole di condanna dell’invasione russa in Ucraina è stata arrestata. Su questo numero rilanciamo la sua lotta, insieme a quella degli scienziati russi che hanno stilato un documento di condanna dell’aggressione all’Ucraina. «Per questa guerra non ci sono giustificazioni – scrivono -. I tentativi di sfruttare la situazione del Donbass come occasione per aprire un teatro di guerra non sono per niente credibili. È del tutto evidente che l’Ucraina non rappresenta una minaccia per la sicurezza del nostro Paese. La guerra contro di essa è ingiusta e manifestamente priva di senso».

Che fare ora per evitare che prosegua la carneficina in Ucraina?  «È facile dire da Roma non mandiamo armi agli ucraini», dice a Left Riccardo Noury, portavoce di Amnesty international. «C’è sicuramente un dovere morale che ci colpisce di fronte a un appello di richiesta di aiuto», ma sappiamo anche, aggiunge, che inviare armi non è risolutivo e che anzi innesca una escalation di violenza. Senza dimenticare l’ipocrisia di inviare armi agli ucraini e intanto continuare a foraggiare la Russia acquistando il suo gas. La strada dunque non può che essere quella di inasprire le sanzioni, in modo da colpire Putin e gli oligarchi. Ma come chiedono a gran voce le piazze pacifiste di tutto il mondo, è prioritario percorrere fino in fondo la via diplomatica, delle trattative. L’Europa che troppo a lungo ha fatto finta di non vedere il conflitto tra Ucraina e Russia che divampava nel Donbass da molti anni si assuma la responsabilità di costruire un percorso di pace. Intervenga l’Onu, come scrive qui Alfio Nicotra di un Ponte per, senza tuttavia dimenticare le responsabilità dei caschi blu nella ex Jugoslavia e invocando una urgente riforma di questo organismo internazionale. In questo complesso scenario un ruolo di mediazione, seppur “sotterraneo”, potrebbe essere svolto anche dalla Cina, come suggerisce il sinologo Federico Masini in queste pagine. Per quanto alleata della Russia e suo forte partner economico, la Cina si è astenuta sulla risoluzione dell’Onu contro l’invasione russa. L’attuale situazione in Ucraina è «preoccupante» e la Cina «deplora profondamente» la guerra nel continente europeo ha detto il presidente Xi Jinping nel colloquio con Macron e Scholz.

In questo difficile quadro, ne siamo assolutamente convinti, conta molto anche l’azione dal basso. Mezzo mondo è contro questa guerra. Le proteste di piazza lo dimostrano. Molto possono fare le reti internazionali pacifiste per riunire un grande fronte mondiale. Podemos con il leader laburista Corbyn e altri ha lanciato una piattaforma. Ma in Italia non se ne parla. Sui media mainstream abbondano soprattutto commentatori con l’elmetto. Gli stessi che con sarcasmo hanno attaccato la manifestazione pacifista convocata dalla Cgil, dall’Anpi e da tantissime associazioni e reti per il disarmo. Anche noi c’eravamo, con lo striscione di Left con su scritto una frase di Massimo Fagioli che è, ancor più, un programma per l’oggi: «Una lotta, senza armi, soltanto rivoluzione del pensiero e parola».

 

* In alto: un momento della manifestazione contro la guerra di sabato 5 marzo 2022 a Roma, foto di Lorenzo Foddai


L’editoriale è tratto da Left dell’11-17 marzo 2022 

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Riccardo Noury: Quelle bombe sui civili e sugli ospedali sono la firma di Putin

Da giorni assistiamo a una escalation di violenza disumana contro la popolazione ucraina in fuga dalla guerra ordita da Putin e contro i cittadini russi che manifestano contro l’invasione. In difesa dei civili ucraini e contro il dittatore di Mosca, la Corte penale internazionale ha aperto un fascicolo per crimini di guerra. Amnesty international è stata fra le prime grandi organizzazioni umanitarie a denunciare ripetute e costanti violazioni della Convenzione Onu sui diritti umani e ha pubblicamente accusato la Federazione russa di crimine internazionale di aggressione. Per fare il punto e capire in che modo si può concretamente arrivare a difendere la popolazione civile dalle bombe abbiamo rivolto alcune domande al portavoce di Amnesty international Italia, Riccardo Noury.

Quali sono i crimini di guerra riscontrati da Amnesty nel corso dell’offensiva russa in Ucraina?
Attraverso il monitoraggio e l’analisi del nostro osservatorio gli esperti di Amnesty hanno riscontrato ben più di dieci crimini di guerra nei confronti dei civili ucraini. A cominciare dai bombardamenti in zone urbane e densamente popolate utilizzando bombe a grappolo e razzi privi di guida; oppure pensiamo ai colpi di mortaio che hanno colpito ospedali, scuole, infrastrutture civili e le famiglie in fuga dalle proprie case. Abbiamo inoltre fonti dell’esistenza un numero equivalente di violazioni per cui purtroppo non abbiamo potuto fornire prove certe. Per quanto possa essere paradossale, in guerra ci sono delle regole che vanno rispettate e tra queste c’è il divieto di compiere attacchi contro la popolazione inerme. In questo conflitto tutto ciò è stato deliberatamente ignorato.

Ci può fare un esempio di ciò che contiene il vostro report?
Il 25 febbraio un asilo nella città dell’Ucraina nordorientale di Okhtyrka è stato colpito da un razzo contenente una bomba a grappolo – che per inciso è un’arma vietata in maniera esplicita dal diritto internazionale – uccidendo tre persone, tra cui un bambino. Un altro bambino è rimasto ferito. La struttura era un rifugio per la popolazione civile. Il vero obiettivo del bombardamento molto probabilmente era un deposito a 300 metri a nord della scuola ma i razzi lanciati dagli Uracan 220 mm. sono privi di guida e notoriamente imprecisi. I nostri analisti attraverso le…


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Benaltrindustria

Foto Mauro Scrobogna /LaPresse 06-03-2022 Roma, Italia Cronaca RAI - trasmissione 'Mezz’ora in più’ Nella foto: Carlo Bonomi, Presidente Confindustria Photo Mauro Scrobogna /LaPresse March 06, Rome, Italy Politics RAI - 'Mezz’ora in più ' broadcast In the photo: Carlo Bonomi, Confindustria President

Ne parlavamo giusto l’altro ieri e, com’era perfino prevedibile, oggi ci tocca registrare una mirabolante intervista del presidente di Confindustria Carlo Bonomi, lo stesso che da giorni propone di riscrivere il Pnrr perché c’è la guerra e (indovinate un po’?) gli industriali per questo hanno bisogno di più soldi.

Intervistato da Repubblica sulla passione di certe imprese italiane per la Russia di Putin, per gli oligarchi e per il guadagno garantito dalle giuste amicizie, Bonomi ci spiega che la colpa non è loro ma della politica: «per decenni la politica ha detto: la Russia è un paese amico ed affidabile. E ora il conto si presenta alle imprese. Politica e finanza hanno spinto con agevolazioni le imprese ad andare ad investire in Russia», ci spiega.

Si è dimenticato di dirci però che la sua Confindustria si è strenuamente battuta contro le sanzioni a Putin (a seguito dell’invasione della Crimea nel 2014). Ai tempi il presidente Boccia (sempre a proposito di coscienza politica) ci spiegava che le sanzioni avrebbero dovuto essere tolte per preservare le nostre esportazioni. Nessun cenno sui diritti e sulla politica: soldi, solo e sempre soldi. Del resto il Sole 24 Ore (di Confindustria) nel gennaio del 2017 titolava “Realpolitik e made in Italy: l’ora di eliminare le sanzioni con la Russia”.

Che Russia e Europa dovessero stare dalla stessa parte lo ripeteva ossessivamente Emma Marcegaglia, lo ha sempre detto Marco Tronchetti Provera, e non è un caso se Salvini nel 2018 si presentò ai soci di Confindustria promettendo di “togliere tutte le sanzioni”. È vero che Salvini fa il Salvini ma i confindustriali lo applaudirono tutti entusiasti.

Mentre tutti (giustamente) sfottono Salvini sarebbe il caso di ricordare che Bloomberg qualche giorno prima dell’inizio della guerra raccontò di funzionari italiani in Russia per conto di Ansaldo e Enel a trattare un affare di diverse centinaia di milioni di euro.

E in un’intervista del genere non ci si può non aspettare la stoccata finale: ieri parlavamo proprio nel buongiorno dei danni del carbone, Bonomi dice di “accantonare gli impegni ambientali” e “tornare al carbone”.

Un capolavoro, insomma. E non sembra proprio colpa della politica.

Buon giovedì.

 

 

Forte ‘sta transizione

Le emissioni globali di anidride carbonica legate alla produzione di energia sono rimbalzate nel 2021 al livello più alto della storia registrando un +6% a 36,3 miliardi di tonnellate per la ripresa dell’economia mondiale che ha impiegato molto carbone dopo la crisi del Covid-19. Lo afferma una nuova analisi dell’Agenzia internazionale dell’energia (Aie), organismo espressione dei paesi Ocse. L’aumento delle emissioni globali di Co2 di oltre 2 miliardi di tonnellate, spiega l’Aie, “è stato il più grande nella storia in termini assoluti, che ha più che compensato la riduzione provocata dalla pandemia dell’anno precedente”.

Tutto questo mentre in Italia si pensa di tornare al carbone. In un Paese normale la mancata transizione (sottolineata dalla guerra) avrebbe dovuto far levare qualche mea culpa. Non è andata così: perfino la guerra diventa occasione per continuare a non “transitare” per la gioia del ministro alla transizione omeopatica Cingolani. Eppure nel 2021 il carbone nel mondo è stato responsabile del 40% degli aumenti di emissioni Co2 raggiungendo il massimo storico di 15,3 miliardi di tonnellate oltre il doppio rispetto ai 7,5 miliardi di tonnellate del 2019.

L’Europa la vede diversamente dai signorotti di casa nostra: la Commissione europea ha presentato martedì l’attesa comunicazione RePower EU, n piano per sganciare la Ue dalla dipendenza dalle forniture di gas russo “ben prima del 2030”, secondo cui ogni Paese dovrebbe identificare i progetti per accelerare transizione energetica e la definizione di nuovi impianti per le energie rinnovabili “di preminente interesse pubblico”, velocizzare i permessi e iniziative per le installazioni di pannelli fotovoltaici sui tetti e sviluppare la filiera delle pompe di calore. “Dobbiamo mettere milioni di pannelli solari in più sui tetti di case, uffici e fattorie. E dobbiamo velocizzare le procedure autorizzative per i progetti relativi all’energia eolica onshore e offshore e per l’energia solare: è una questione di interesse pubblico prevalente”, ha sottolineato Timmermans.

Insomma, gli amanti del carbone si mettano il cuore in pace: è tempo di svoltare sulle rinnovabili. Anche in tempo di guerra.

Buon mercoledì.

Gli sciacalli della guerra

A man opens his arms as he stands near a house destroyed in the Russian artillery shelling, in the village of Horenka close to Kyiv, Ukraine, Sunday, March 6, 2022. On Day 11 of Russia's war on Ukraine, Russian troops shelled encircled cities, and it appeared that a second attempt to evacuate civilians from the besieged port city of Mariupol had failed due to continued violence. (AP Photo/Efrem Lukatsky)

Sembra una barzelletta ma Matteo Salvini è partito per una missione di pace. Accompagnato dal capogruppo della Lega al Parlamento europeo Marco Campomenosi e dal deputato Luca Toccalini, Matteo Salvini ha deciso di andare al confine con l’Ucraina perché vuole «fare qualcosa che aiuti». È l’ultimo atto di Salvini in versione pacifista, lo stesso che in questi giorni aveva lanciato una “disarmata marcia per la pace” nei luoghi di guerra facendo arrabbiare tutti i suoi sostenitori. C’è da capirli: li ha convinti a comprarsi un fucile a testa promettendogli di poter sparare per legittima difesa, poi li ha convinti che è straniero chiunque non sia un parente almeno di secondo grado e ora invoca la pace e va a raccogliere donne e bambini. Essere elettori di Salvini deve provocare dei gran giramenti di testa.

Del resto Salvini fa il paio con gli stessi che stanno usando il conflitto per mera propaganda elettorale. È della stessa risma di chi utilizza la guerra per portare avanti i propri interessi da cortile: c’è Confindustria che chiede di riscrivere il Pnrr per il conflitto (e chissà chi lo dovrebbe riscrivere, c’è da scommetterci che si proporranno come redattori), ci sono gli appassionati del nucleare che invocano una centrale in ogni angolo per liberarsi da Putin (dimenticando che la dipendenza da Putin dipende proprio dalla mancata decarbonizzazione), ci sono quelli che usano la guerra per infilzare l’Anpi (una curiosità: sono gli stessi infilzati dall’Anpi sul referendum rovinosamente perso quando erano al governo. Che brutta cosa la vendetta in tempi di guerra), ci sono quelli che usano la guerra per alimentare il proprio testosterone (sono quelli che ordinano di lanciare missili direttamente su Twitter mentre stanno sul divano) e ci sono quelli che usano questa guerra per riscrivere la Resistenza, per attaccare gli avversari politici o per accogliere gli ucraini e legittimare la morte di tutti gli altri.

Comunque la si veda è un Paese imbruttito dalla pandemia che riesce a imbruttirsi anche con la guerra. Un lento scivolamento verso il basso.

Buon martedì.

L’indipendenza energetica si chiama “rinnovabili”

La guerra in Ucraina fa apparire quasi senza senso il continuare a ragionare sulle scelte energetiche del nostro Paese, più in generale dell’Europa. Confesso la mia fatica a scrivere in questi giorni, il pensiero corre subito alle bombe e alle armi, la cui produzione e uso nessuno è mai riuscito a fermare. Per chi come me è cresciuto con la certezza che l’articolo 11 della nostra Costituzione, quello che recita che l’Italia ripudia la guerra, fosse una scelta non derogabile, non può non vivere l’ennesima guerra come una sconfitta e quindi chiedersi a cosa serva denunciare l’insensatezza delle scelte energetiche dell’Europa su fonti fossili e nucleare.

Invece è bene parlarne, perché c’è una relazione fra questa guerra e l’errore appena fatto di prolungare la vita a gas, carbone e nucleare. Se si decide di continuare ad alimentare col metano e col nucleare il sistema energetico europeo, dal quale sappiamo dipendono benessere e tenore di vita delle sue popolazioni, è evidente che fra i tanti motivi che sono alla base di questa guerra c’è anche il controllo di quegli immensi giacimenti di materie prime, gas in particolare, che la Russia possiede.

Il riemergere della guerra nel cuore dell’Europa svela non solo l’orrore per la tragedia umana che si sta consumando, ma anche il caparbio rifiuto dell’Europa di dotarsi di un nuovo modello energetico rinnovabile e liberarsi dalla dipendenza dalle forniture della Russia. Ancora di più chiama in causa le scelte del governo italiano e il suo costante rifiuto di procurarsi l’energia che gli serve sfruttando il patrimonio di sole e vento a disposizione.
Decisamente azzeccato quindi lo slogan delle numerose manifestazioni, convocate dal vasto schieramento associativo del 12 febbraio scorso: “A tutto gas, ma nella direzione sbagliata”.
A chi crede che le cose non stiano così e si lascia abbindolare dalle timide dichiarazioni a favore delle rinnovabili dei vari ministri e dello stesso presidente Draghi, si consiglia di dare un’occhiata alle decisioni appena prese dall’esecutivo per la Sardegna. È credibile che si vogliano le rinnovabili se per un’isola baciata dal sole e spazzolata dal vento, il primo obiettivo che si pone è continuare a bruciare carbone in attesa di rigassificatori collocati su navi per poterla metanizzare? Si pensa così di riparare a un torto storico perché la Sardegna fu la grande esclusa dalla infrastrutturazione a gas del Paese? “Il metano ti da una mano” era lo slogan che accompagnò allora la costruzione della rete che lo distribuì in tutte le case. Fu una grande operazione energetica e culturale e forse proprio per questo c’è oggi tanta resistenza a capire che…


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«In Russia si può solo sopravvivere»

«Putin deve essere impazzito! Ancora non riesco a credere al perché di questa guerra. È assolutamente inutile, non ha proprio senso. Provo tanta amarezza e vergogna per il mio Paese». Sono le parole di Katia, una ragazza russa che vive in Italia da circa due anni, mentre in tv e sui i blog di informazione indipendente scorrono le immagini delle colonne di carri armati dell’esercito di Putin invadere l’Ucraina e cingere d’assedio la città di Kiev. Gran parte della sua famiglia è rimasta a Taganrog, una cittadina affacciata sul mare d’Azov a pochissimi chilometri dal confine ucraino. Katia che insegna il russo a studenti di tutta Europa prosegue: «Il problema è che molti russi pensano di essere fuori dalla politica, non se ne interessano, perché da anni non si sentono rappresentati da chi guida il Paese o causa della continua propaganda. Quando ho chiamato mia madre continuava a non capire cosa stesse succedendo. Le ho spiegato che non so quando potrò tornare in Russia a trovarla ma lei pensava che fosse ancora per colpa del Covid».

Non tutti i russi sono restati indifferenti all’azione militare di Mosca. Nei giorni immediatamente successivi all’attacco più di seimila persone sono state imprigionate per aver protestato contro la guerra nelle piazze delle città della federazione.
Contraddire l’operato di Putin o del governo (anche in queste pagine e in forma anonima) può essere estremamente pericoloso. Negli anni chi si è opposto al potere dell’ex agente del Kgb o è stato incarcerato o addirittura ucciso. Basti ricordare qui Anna Politkovskaja. Tuttavia fra i più giovani il sentimento di una volontà di cambiamento, dopo 23 anni di “democratura” putiniana, si muove rapidamente. Yarmilla, una ragazza di Rostov, una cittadina distesa sul delta del fiume Don, esprime coraggiosamente il proprio dissenso a Left.

«Il nostro presidente-terrorista Putin sta attaccando per il suo interesse personale. L’Ucraina è diventata troppo indipendente così ha deciso di sopprimere il suo popolo con la forza. Putin è un criminale internazionale».
Yarmilla non ha paura di parlare ma teme seriamente di perdere il suo lavoro part time come traduttrice di inglese a causa del blocco internazionale delle banche russe in un Paese in cui la contrazione dei salari e l’aumento del costo della vita stanno inesorabilmente erodendo i risparmi dei cittadini. Secondo un sondaggio reso noto da Rbc, un importante gruppo di media investigativo con sede a Mosca, il 43% per cento dei russi non possiede alcun risparmio.
Anche Tatijana, 23 anni, disoccupata che vive vicino alla grande città centro meridionale di Kazan è preoccupata per il suo futuro. «È impossibile vivere in Russia si può solo sopravvivere. Non si può essere sicuri del domani. C’è un’ansia costante su…


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Ribaltiamo la domanda: qual è la strategia degli “interventisti”?

Poiché siamo un Paese banale e provinciale gli ultimi giorni sono passati con una gazzarra interna tra i testoteronici editorialisti innamorati della guerra che sbeffeggiano i pacifisti e coloro che provano a pretendere almeno un briciolo di complessità che si sentono tacciati all’urlo «non è tempo di analisi!».

Nel frattempo, poiché l’Ucraina ha problemi ben più grossi di qualche giornalista illuminato che filosofeggia sull’equidistanza di cui nessuno ha mai veramente parlato, il corridoio umanitario che avrebbe potuto mettere in salvo qualche civile è stato ripetutamente boicottato, l’esercito di Putin continua a sparare alla gente e sulle case e in Russia le manifestazioni contro la guerra e contro Putin registrano migliaia di arresti. Da parte sua Zelensky alza il tiro nei confronti dell’Europa e della Nato (chiedendo l’istituzione ad esempio di una no fly zone che sarebbe un innesco pericolosissimo a livello mondiale) e Putin fa l’unica cosa che gli resta di fare: alzare la posta e chiedere condizioni per la pace che sono assolutamente inaccettabili.

Una delle frasi più lette e ascoltate nelle ultime ore va urlata in faccia a chiunque provi a chiedere un abbassamento del conflitto e dice più o meno «ah sì, e come pensate di fermare Putin?». Poi c’è tutto il seguito barzotto di quelli che applaudono.

Allora invertiamo la domanda, senza polemica: come pensano gli interventisti di risolvere il conflitto? C’è qualcuno tra questi novelli esperti bellici (prima virologi) che riesce a delineare tempi, modi e costi in vite umane di un’eventuale soluzione? Se l’obiettivo è fiaccare i russi o renderne difficile e costosa l’invasione qualcuno ha idea di quanto costerebbe in termini di vite umane? Oppure l’obiettivo è fare in modo che l’opposizione ucraina e le sanzioni possano fare retrocedere Putin? Non sono domande retoriche, è proprio per capire. Perché qui da fuori la sensazione è che si sprechino molte energie per versare bile sulla piazza pacifista di Roma e poi non ne avanzino per spiegare quale sia il piano.

E se anche cadesse Putin (ce lo auguriamo quasi tutti) davvero credete che come per magia in Russia si instaurerebbe una fulgida democrazia amica del resto del mondo? Il regime putiniano, al di là di come viene raccontato spesso in Italia, non è compatto ma è un mosaico di diverse fazioni che porterebbe a una diversa guerra: c’è il cerchio magico di Putin (come Anton Vaino o Dmitry Peskov), ci sono i colossi di Stato (dell’energia e degli armamenti) e un sottobosco di tecnocrati e oligarchi.

Non solo: come si ha intenzione di gettare le basi per una reale rinascita dell’Europa orientale? Di questo occorrerebbe parlare ora, lasciando perdere le effimere discussioni da cortile. Ne vedete in giro? Ne state ascoltando? Perché altrimenti il dubbio che la strategia sia solo l’eliminazione del nemico senza rendersi conto che di mezzo c’è anche un fragile equilibrio tra pezzi di mondo.

L’analista geopolitico e geostorico Gabriele Catania ad esempio avanza un’ipotesi: «Le diplomazie occidentali – scrive –  dovrebbero fare ogni sforzo per organizzare una Conferenza paneuropea per la pace e la prosperità dove riunire intorno a un tavolo l’Ucraina, la Russia, la Bielorussia, la Moldavia, la UE, gli Stati Uniti e il Regno Unito, nonché il Canada, la Turchia, la Svizzera, la Santa Sede, l’Islanda, la Georgia, l’Armenia, l’Azerbaigian e la Norvegia. In cambio della pace, e del rispetto della sovranità dell’Ucraina e del suo percorso di integrazione nella Ue, la Russia non riceverebbe solo la garanzia di neutralità da parte dell’Ucraina (ipotesi a cui ha recentemente accennato lo stesso presidente Zelens’kyj), ma otterrebbe di beneficiare (al pari dell’Ucraina, della Moldavia e della Bielorussia) di una grande iniziativa di rinascita dell’Europa orientale basata su tre pilastri: un massiccio sostegno finanziario da parte di Ue, Uk, Usa, Norvegia, Svizzera e Canada alla Russia per la riconversione ecologica delle industrie e delle sue infrastrutture, secondo un piano elaborato da una commissione tecnica paritaria; il rilancio del dialogo tra Russia e Nato; il varo di una piattaforma denominata Eastern Dimension che, sulla falsariga della joint policy Nordic Dimension (attiva dal 1999 tra Ue, Russia, Islanda e Norvegia), permetta una collaborazione reale e paritaria tra Ue, Bielorussia, Russia e Ucraina in ambiti concreti come l’ambiente, l’istruzione, la cultura, i trasporti, la salute e il benessere della popolazione ecc.».

È semplicemente un’ipotesi di una sola voce. Ma di questo servirebbe parlare.

Buon lunedì.