Home Blog Pagina 321

Ecco cosa diranno tra poco

Che l’esplosione di solidarietà nei confronti degli ucraini in fuga sia in alcuni casi un losco tentativo di mondare macroscopici errori politici lo dimostra il fatto che la retorica è direttamente proporzionale al passato amore per Putin. Mentre coloro che si occupano (e professano) solidarietà da sempre ora assistono sgomenti all’ennesima guerra drammatica come lo sono tutte le guerre di tutti questi anni (seppure con numeri molto più importanti per l’impatto sull’Europa in termini di sfollati) i sovranisti del mondo insistono nel farci credere che questa sia l’unica guerra giusta di cui occuparci per nascondere la loro cinica indifferenza per le guerre passate e per sublimare il fatto che siano stati i cagnolini di Putin sguinzagliati per l’Europa.

Per questo c’è da scommetterci che non terrà a lungo questa unità di intenti nei confronti del popolo ucraino. Serve solo il tempo per fare dimenticare le felpe con Putin. Passato quello dovranno per forza riprendere le loro posizioni sull’immigrazione, altrimenti dovrebbero riscrivere l’intero programma elettorale e regalare i frutti della xenofobia a qualcun altro.

Se volete sapere come andrà finire un vento del futuro arriva direttamente dalla Francia dove il candidato Eric Zemmour (uno così schifosamente razzista da fare impallidire perfino alcuni razzisti) che ha affermato che gli ucraini con legami familiari con la Francia dovrebbero ricevere i visti, a differenza di coloro che fuggono dai conflitti nelle nazioni musulmane per cui non vale nemmeno un rapporto con il territorio. Zemmour ha applaudito l’approccio più rigoroso del Regno Unito (lunedì il Regno Unito ha respinto le richieste di allentamento dei requisiti di visto per i rifugiati ucraini): «Solo se hanno legami con la Francia, se hanno una famiglia in Francia… diamo loro i visti», ha detto Zemmour a Bfm Tv.

«È una questione di assimilazione», ha detto Zemmour. «Ci sono persone che sono come noi e persone che sono diverse da noi. Tutti ora capiscono che gli immigrati arabi o musulmani sono troppo diversi da noi e che è sempre più difficile integrarli». «Siamo più vicini agli europei cristiani», ha spiegato.

Vedrete che tra poco lo ascolteremo anche qui.

Buon lunedì.

Clima, il nuovo rapporto Ipcc: un futuro vulnerabile

Child is playing on dry brown cracked land in the heat of the desert at Deadvlei in Namib-Naukluft National Park in Namibia, Africa. This image of a young bouy on a parched barren earth can be used for concepts like the effect of global warming or climate change.

La crisi climatica non è più una questione in cima alle agende dei governi occidentali, da quando la guerra tra Russia e Ucraina ha impegnato le loro risorse politiche, finanziarie, diplomatiche e militari nella ricerca di una soluzione che scongiuri il rischio concreto di un nuovo conflitto mondiale.
Come se ciò non bastasse, questa guerra spinge i Paesi industrializzati dell’emisfero nord ad una corsa verso le fonti fossili di energia (gas, petrolio e carbone), proprio nel momento in cui l’urgenza imposta dalla crisi climatica avrebbe richiesto la loro sostituzione con fonti rinnovabili. Paradossalmente, l’aumento vertiginoso dei prezzi di gas e petrolio renderebbe ancora più convenienti gli investimenti sulle energie alternative.

In questo contesto drammatico, è stato pubblicato il secondo volume del sesto Rapporto di valutazione del panel intergovernativo sui cambiamenti climatici (Ipcc) delle Nazioni Unite, dal titolo Cambiamento climatico 2022: impatti, adattamento e vulnerabilità.
Si tratta di una parte del Rapporto di valutazione dell’Ipcc che ha visto coinvolti 270 scienziati di 67 Paesi, tra cui la climatologa ucraina Svitlana Krakovska che ha sottolineato come la crisi climatica e la guerra abbiano in comune le fonti fossili.

Le evidenze scientifiche raccolte nel primo volume del Rapporto dell’Ipcc, pubblicato nell’agosto del 2021, avevano fugato ogni dubbio circa l’origine degli eventi climatici estremi a cui assistiamo, rafforzando la consapevolezza dell’urgenza di un’azione immediata per affrontare le cause del cambiamento climatico, ovvero l’aumento delle emissioni dei gas serra in atmosfera generato dalla produzione di energia da fonti fossili, dai consumi energetici in crescita oltre che dai trasporti, dagli allevamenti zootecnici, dall’agricoltura intensiva e dalla deforestazione, che riduce l’assorbimento della CO2.
Oggi, il secondo volume del Rapporto Ipcc fornisce il quadro delle conoscenze disponibili sugli impatti del cambiamento climatico, sui rischi ad esso collegati e sulle possibilità di adattamento negli scenari di sviluppo socioeconomico prevedibili nei prossimi decenni.
Questo secondo volume di oltre 3mila pagine basato sui lavori scientifici pubblicati negli ultimi anni e approvato dai rappresentanti di 195 Stati delle Nazioni Unite, prende in considerazione in primo luogo gli impatti del cambiamento climatico.

Il quadro complessivo che emerge dal rapporto è, a dir poco, preoccupante: già ora circa la metà della popolazione mondiale (da 3,3 a 3,6 miliardi di persone) vive in aree e in contesti ambientali fortemente vulnerabili agli effetti del cambiamento climatico.
Alcuni di questi effetti sono considerati irreversibili, come l’innalzamento degli oceani che entro la fine del secolo, al di là di ogni possibile azione di mitigazione, sarà superiore ad un metro e ciò comprometterà la disponibilità di risorse idriche potabili, la coltivazione di suoli agricoli, le attività turistiche e gli…


L’articolo prosegue su Left dell’11-17 marzo 2022 

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

Davide Orecchio: Scrivere al confine tra Storia e invenzione

Davide Orecchio è uno dei migliori scrittori italiani in attività, e in pochi anni si è affermato con libri di inconfondibile valore letterario e taglio ibrido, narrazioni tra ricerca documentaristica e invenzione dal vero, unici nel panorama letterario italiano. Di formazione storica, ha esordito con una raccolta di biografie, Città distrutte (Gaffi, 2011), seguito da Stati di grazia (Saggiatore, 2014), Mio padre la rivoluzione (minimum fax, 2017), Il regno dei fossili (Saggiatore, 2019), e l’ultimo, Storia aperta (Bompiani, 2021).

Tu scrivi sempre sul confine tra Storia e invenzione, nel tuo primo libro raccontavi sei biografie “infedeli”. Questa cosa nel tuo ultimo Storia aperta mi sembra ancora più esplicita, anche nella forma estremamente letteraria. Fofi dice che sei «un nipotino di Borges» per le capacità combinatorie e inventive. Perché uno come te che ha una formazione di storico ha bisogno della letteratura per raccontare?
Tra i più bei libri di storia che ho letto, o studiato in gioventù, ci sono opere di autori (Henri Pirenne, Fernand Braudel, Reinhart Koselleck, Benedetto Croce, Carlo Ginzburg) che non hanno nulla da invidiare alla prosa letteraria nella qualità delle loro pagine, sia quando descrivono, sia quando raccontano, sia quando, più “scientificamente”, spiegano. Ma devo dire che a lungo, pur frequentando le scritture di questi storici, e scrivendo anche io fino a una certa età testi storiografici, non mi si è accesa la lampadina, l’idea di poter combinare storia e letteratura partendo dalla seconda. Non ero nemmeno un lettore particolarmente interessato al romanzo storico tradizionale, e non lo sono tutt’ora. La lampadina si è accesa quando un sotterraneo e antico fiume carsico della letteratura mondiale è emerso mentre io passavo di là, e mi ha trovato evidentemente ricettivo e attento. La letteratura di vite, di biografie “fedeli” o finzionali. Quella che alcuni oggi definiscono biofiction. A me, leggendo non solo Borges ma, soprattutto, Danilo Kiš, W.G. Sebald, Roberto Bolaño, Giuseppe Pontiggia e il padre di tutti loro, Marcel Schwob, si è aperto un mondo: la possibilità di mettere al servizio di un lavoro narrativo i ferri del mestiere storiografici appresi negli anni della formazione. Questa importante vena della letteratura mondiale è stata snobbata per molti anni dal nostro sistema editoriale, per questo me ne sono accorto in ritardo. Alla domanda sul “bisogno” di raccontare tramite la letteratura do due risposte. La prima: perché mi piace molto. La seconda (più seriosa): perché pratiche di narrativizzazione storiografica alla Hayden White non avrei mai potuto adottarle per vincoli diciamo “deontologici” legati a una pratica, quella di storico, che…


L’articolo prosegue su Left dell’11-17 marzo 2022 

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

Cile anno zero, le prime mosse di Boric da presidente

«L’emozione che ho sentito ad attraversare la Plaza de la Constitución ed entrare nel Palacio de la Moneda è profonda e ho bisogno di condividerla con voi. Siete una parte fondamentale di questo processo. Il popolo cileno è parte fondamentale di questo processo. Non staremmo qui senza le vostre mobilitazioni. Voglio che sappiate che non siamo qui per occupare incarichi e divertirci, per generare distanze irraggiungibili. Siamo arrivati qui per dedicare corpo e anima all’impegno che ci siamo presi, per far sì che il Cile sia un paese migliore».
Queste sono le prime parole da presidente della Repubblica cilena di Gabriel Boric Font, nella giornata dell’insediamento che ha sancito definitivamente il cambio e la cesura con il passato. Migliaia di persone sono accorse per ascoltare il discorso del giovane presidente, pronunciato dal balcone della Moneda. È stata una giornata lunga, come l’attesa per questo momento. Una giornata carica di emozione e simbolismo. A cominciare con i primi incontri della mattina. Foto scattate cariche di significato, dando continuità alla narrazione simbolica che ha caratterizzato tutta la campagna elettorale e i due mesi di transizione da presidente eletto. Il primo elemento di rottura con il passato è stata la decisione di non indossare la cravatta per questa giornata storica. Di grande rilevanza sono in particolare due momenti antecedenti alla cerimonia tenutasi al Congresso: la decisione di fare colazione a Cerro Castillo con i dirigenti sociali, anziché, come è sempre stato fatto in passato, con autorità del paese. Al termine della colazione non è stata scattata la consueta foto di fronte alla facciata dell’edificio, ma tra gli alberi e le piante, sottolineando il suo compromesso con l’ambiente; l’altro incontro che ha fatto il giovane neo presidente è stato con i governatori delle regioni, per dimostrare quanto per il nuovo esecutivo sia importante la decentralizzazione dello Stato, vista dalla gran parte del Paese come aspetto fondamentale per invertire rotta.

Successivamente si è riunito con il nuovo esecutivo e dopo la foto di rito, si sono recati al Congresso per il giuramento. Boric è arrivato per ultimo, accompagnato dalla sua compagna Irina Karamanos e dalla nuova direttrice del cerimoniale, Manhai Pakarati, l’unica diplomatica del servizio estero che appartiene al popolo Rapa Nui.

La cerimonia è iniziata con qualche minuto di ritardo. Erano presenti capi di stato latinoamericani e non, alcuni leader progressisti, come Dilma Rousseff, gli esponenti del nuovo congresso e altre figure del panorama politico, sociale e religioso cileno. Boric era visibilmente emozionato: prima di firmare gli atti, ha fatto un profondo respiro. Poi ha giurato specificando che rispetterà il suo mandato costituzionale di fronte «al popolo e ai popoli del Cile», sottolineando il carattere plurinazionalista del paese andino. Si è poi passato al giuramento dei ministri e, guardandoli ha fatto un primo commento: «Sono profondamente orgoglioso di questo governo. Sono orgoglioso che sia composta da più donne che uomini. Questo lo dobbiamo al movimento femminista. Non dimentichiamoci mai, giorno dopo giorno, che lo dobbiamo al popolo cileno». La composizione del nuovo esecutivo è il primo segnale di cambiamento di questa nuova fase, per la prima volta nella storia formato da una maggioranza femminile. Non tutti i ministri e le ministre vengono dalla coalizione del Frente Amplio: alcuni dei membri sono indipendenti, altri appartengono ai partiti tradizionali del centro-sinistra. «Ci siamo impegnati a creare in un governo dei cittadini, con porte aperte, vicine e sempre dalla parte del popolo», aveva detto Boric alla presentazione, tenutasi nel parco Quinta Normal nella capitale, Santiago.

Le aspettative sono altissime e il nuovo presidente ha grandi responsabilità nei confronti del Cile: dopo le proteste del 2019 e due anni di pandemia il Paese desidera voltare pagina e rompere definitivamente con il passato. A cominciare dal governo Piñera, che ha perso progressivamente popolarità e appoggio sia per come ha gestito l’estallido social sia per le riforme che ha promulgato. Una su tutte, quella delle pensioni che nelle parole di Boric era stata pensata da Piñera per «fare del sistema previdenziale un business». In discussione non è solo quello che ha combinato il presidente uscente, ma quarant’anni di ingiustizie e disuguaglianze che hanno colpito tutte e tutti e a cui il giovane trentaseienne fa riferimento nel suo discorso: dagli «studenti indebitati» per studiare, alle «persone che non si possono permettere un trattamento sanitario» a causa di un sistema di salute privato; dai «contadini senza acqua, per siccità o saccheggio» alle «famiglie che continuano a cercare ai propri cari incarcerati e dispersi».
Come abbiamo più volte raccontato su Left tutto questo è esploso a fine del 2019. E proprio in merito alle rivolte, il primo segnale del governo entrante è stato l’annuncio del ritiro immediato di 139 cause per la legge sulla sicurezza dello Stato che colpisce le persone arrestate durante quei giorni, oltre alla formazione di un tavolo di riparazione per le vittime delle violazioni dei diritti umani. Questa misura prevede anche un rimborso alle piccole e medie imprese che hanno subito danni durante i momenti di violenza e di scontri. Una decisione che ha acceso un grande dibattito in Cile, ma che soprattutto non convince la destra, perché rischia di erodere «lo Stato di diritto». A rilanciare l’indulto è stata Camila Vallejo, ex leader delle proteste studentesche del 2011 e ora portavoce del nuovo esecutivo, che al termine della cerimonia di insediamento ha voluto sottolineare che «questa misura va inquadrata in un piano di ricostruzione di vincoli per riappacificare il Paese».

Da ieri in Cile è cominciato «un periodo di grandi sfide e di immensa responsabilità». Dal balcone del Palazza de la Moneda, come fece Allende nel 1971, Boric ha tracciato i punti cardine su cui si fonderà l’attività del nuovo esecutivo nel breve periodo. In primo luogo, il governo ha l’importante compito di «accompagnare con entusiasmo il processo costituente», sostenendo «con forza il lavoro della Convenzione», che porterà alla luce un primo testo a luglio. L’altra questione dirimente per il paese andino è la crisi migratoria. L’obiettivo dichiarato è riprendere «il controllo delle frontiere» lavorando «insieme ai paesi fratelli per affrontare collettivamente le sfide poste dall’esodo di migliaia di esseri umani». In ultimo, il giovane presidente ha avvertito che il Cile affronterà un periodo «duro e complesso», soprattutto dal punto di vista economico, causato dall’aumento dei prezzi del carburante, l’inflazione e lo spettro della stagflazione, alimentati dalla guerra che si sta combattendo in Europa.

Bisognerà attendere qualche mese per poter capire bene come il governo Boric farà fronte alle problematiche strutturali e congiunturali che affliggono il Paese. E quali compromessi saranno raggiunti per poter portare a termine le promesse fatte in campagna elettorale. La cosa certa è che sarà necessario mantenere vive le mobilitazioni, per alimentare un rapporto inedito tra nuovo esecutivo, movimenti sociali e cittadini.

Quel virus letale nascosto nel logos

«Parole grandi come “progresso” e “felicità”, invece di essere segni di un’evidente laicizzazione, finiscono per acquisire un alone di sacralità e intangibilità. In nome del progresso e della felicità si può fare qualsiasi cosa (anche le guerre e mandare a morire altri esseri umani). La storia degli uomini diviene una corsa inesorabile verso il successo in una visione ottimistica che poco si distanzia dall’antica provvidenza cristiana. Là dove prima si faceva la volontà di dio, adesso si fa la volontà della ragione».

Con queste parole Elisabetta Amalfitano, autrice del bellissimo saggio Controstoria della ragione. Il grande inganno del pensiero occidentale, di prossima uscita (il 18 marzo) per l’Asino d’oro edizioni, riflette su uno dei tanti nodi irrisolti che la storia del logos ci consegna. Con una scrittura agile, e nello stesso tempo intensa, l’autrice dipana gli innumerevoli fili che si sono intrecciati nel corso della millenaria storia della ragione, assunta a protagonista quasi personificata dell’intero orizzonte culturale e materiale dell’Occidente. Come fosse un film che scorre sotto i nostri occhi, il piano delle idee (dal naturalismo dei primi filosofi al razionalismo platonico o illuminista, dal geometrismo seicentesco all’esistenzialismo o all’idealismo tedesco, solo per fare alcuni esempi) è costantemente calato, “combinato”, immerso nel piano dei fatti; dei piccoli e dei grandi fatti della storia.

L’idea centrale di questo lavoro riposa nell’intenzione di mostrare il sostanziale fallimento dell’intera tradizione filosofica dell’Occidente riguardo alla conoscenza e all’identità dell’essere umano, concepito dai primi filosofi della Grecia classica fino ad arrivare alle ultime propaggini del pensiero post-moderno novecentesco, come un essere scisso, spaccato a metà da un fossato che divide il bene dal male, l’essere dal non-essere, l’umano (il pensiero razionale) dall’animale o dal pazzo. Questo fondo oscuro, in cui si impastano sensazioni e immagini, angosce e passioni, è impossibile da comprendere dalla logica della ragione, la quale, nel momento stesso in cui lo nomina o lo considera esistente, lo fa inorridendo e leva scudi crociati a difesa di se stessa; quasi fosse, sembra suggerire l’autrice, facendo propria la ricerca e la teoria di Massimo Fagioli sul pensiero non cosciente, il frutto di una percezione delirante nei confronti di se stessi, del proprio mondo interiore che una volta riconosciuto nella donna, nello straniero, nel bambino, fa della donna, dello straniero, del bambino i primi nemici del logos occidentale. Ed è questo il senso del titolo di questo volume; come scrive l’autrice nell’Introduzione: «… via via che la storia prendeva corpo … mi sono resa conto che, più che di una storia, si trattava di una “controstoria”, di un racconto al contrario, perché protagonista del libro, ma soprattutto della prossima storia, sarà e…


L’articolo prosegue su Left dell’11-17 marzo 2022 

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

Tenetevi le vostre armi, egregi presidenti

ST PETERSBURG, RUSSIA - MARCH 2, 2022: Law enforcement officers detain a participant in an unauthorized rally against the Russian military operation in Ukraine in Nevsky Avenue. On 24 February, Russia's President Putin announced his decision to launch a special military operation after considering requests from the leaders of the Donetsk People's Republic and Lugansk People's Republic. A sign reads "No War." Valentin Yegorshin/TASS/Sipa USA Sipa Usa/LaPresse Only Italy 37895623

«Ho paura di dire queste cose pubblicamente? Certo, fa paura, perché ovviamente non voglio che gli investigatori mi cerchino e mi mettano in prigione, ma dobbiamo ricordare che coloro che in questo momento sono sotto le bombe hanno più paura». Così Elena Popova, portavoce del Movimento russo degli obiettori di coscienza al servizio militare, interveniva la scorsa settimana nel dibattito online “Ucraina e Russia in dialogo per la pace” organizzato dalla Rete italiana pace e disarmo. Avremmo dovuto contattarla, per chiederle in che modo la società civile russa si sta muovendo per opporsi alla guerra, e soprattutto con quali conseguenze. Ma non abbiamo potuto farlo. Perché nel pomeriggio di domenica 6 marzo, a San Pietroburgo, Popova è stata arrestata con altri pacifisti. Si trovava a San Pietroburgo, nella sua città, e stava partecipando ad una manifestazione antimilitarista, assieme a diverse migliaia di persone, quando un bus della polizia è arrivato sul luogo e ha iniziato ad ammanettare i presenti. La portavoce è stata poi rilasciata, e – dalle poche informazioni che riescono ad arrivare dalla Russia – ancora non si sa se sarà denunciata.

«Noi come movimento degli obiettori di coscienza al servizio militare, così come gran parte della gente in Russia, esigiamo che le autorità russe fermino immediatamente la guerra e ritirino tutte le truppe russe all’interno del territorio russo», dice Popova all’incontro online, durante il quale ha esposto posizioni e strategie dei pacifisti russi. «Esprimiamo la nostra solidarietà con la gente in Ucraina – aggiunge – con chi si nasconde dalle bombe assieme alla famiglia, con coloro che si ribellano all’aggressione cercando di fermarla. Ci rendiamo conto che se l’Ucraina cade in questa guerra, sarà un disastro non solo per l’Ucraina ma anche per la Russia».

Tra i temi che ha affrontato l’attivista, la cui organizzazione fa parte della rete War resisters’ international (rappresentata in Italia dal Movimento nonviolento), c’è anche il trattamento di chi viene bollato come sgradito dalle autorità russe in quanto non si attiene alla propaganda di regime, ad esempio invitando a disertare la guerra di Putin. «Alcuni manifestanti o attivisti vengono trattenuti nella stazione di polizia per uno o più giorni – racconta Popova – dopodiché devono…


L’articolo prosegue su Left dell’11-17 marzo 2022 

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

Cercasi asilo (nido)

father walking little daughter with backpack to school or daycare

L’istruzione e le opportunità educative fin dalla primissima infanzia sono il mezzo più potente che abbiamo per contrastare la disuguaglianza intergenerazionale, ovvero il legame che esiste fra la condizione socio-economica della famiglia di origine e i redditi ottenuti dai figli una volta diventati adulti. Tanto più le opportunità educative sono precoci tanto più è possibile contrastare questa forma di trasmissione della disuguaglianza e garantire a tutti i bambini uguali opportunità di mobilità sociale.

Una solida letteratura dimostra che le esperienze educative extra familiari precoci sono importanti per tutti, ma diventano fondamentali nel caso dei bambini svantaggiati, economicamente e/o socialmente. Un recente volume curato dal Network EducAzioni ha passato in rassegna diversi studi, i quali (in estrema sintesi) hanno evidenziato questi quattro punti: il primo è che i quindicenni che hanno frequentato più di un anno di educazione prescolare ottengono risultati sostanzialmente migliori rispetto a quelli che non hanno fatto tale esperienza e questo anche tenendo conto delle loro condizioni economiche e sociali di provenienza. Il secondo: i bambini che frequentano la scuola dell’infanzia hanno maggiori probabilità di completare i successivi cicli di istruzione e di conseguire un titolo universitario e, nel complesso, tendono ad avere un percorso educativo più lungo. Il terzo punto è che i bambini appartenenti a famiglie povere, che hanno la possibilità di frequentare servizi educativi nella prima infanzia, ottengono migliori risultati nel prosieguo della loro vita, sia durante gli studi che nel mercato del lavoro, guadagnando in media il 25% in più da adulti rispetto a coloro che non sono esposti agli stessi stimoli. Infine il volume ha evidenziato che l’investimento nell’educazione (da parte delle famiglie e del sistema educativo) nei primi anni di vita ha rendimenti più elevati rispetto a investimenti più tardivi, in quanto non si devono rimediare “danni” già avvenuti negli anni precedenti.

Il nido è un servizio d’élite
Nonostante queste evidenze, le famiglie che più diffusamente si avvalgono dei servizi educativi per la prima infanzia (di cui i nidi sono la forma più diffusa) sono quelle con redditi e titoli di studio più alti. Infatti, secondo i dati Istat relativi al 2019, il reddito netto annuo equivalente delle famiglie con bambini iscritti a un servizio per la prima infanzia è mediamente più alto (24.213 euro) di quello in cui ci sono bambini non iscritti pur avendo meno di tre anni (17.706 euro). Inoltre, i tassi di frequenza di tali servizi crescono all’aumentare della fascia di reddito familiare (dal 19,3% del primo quinto di reddito si passa al 34,3% dell’ultimo quinto). Anche il titolo di studio dei genitori è una discriminante nella scelta di frequentare un nido. Considerando il titolo di studio più alto in famiglia, il possesso di una laurea o di un titolo superiore è associato al 33,4% di frequenza; un dato che scende al 18,9% nel caso di genitori con al massimo il diploma superiore. L’accesso ai servizi per l’infanzia è influenzato dalla condizione lavorativa dei genitori e, in particolare, da quella della madre. I nuclei in cui le madri sono occupate usufruiscono per il 32,4% del nido, contro il 15,1% dei nuclei in cui solo il padre lavora.
Il nido rimane dunque un servizio di élite: le famiglie in cui solo un genitore lavora, e che più spesso hanno un reddito più basso, possono infatti avere difficoltà ad accedere sia ai nidi privati (per via dei costi elevati) sia a quelli pubblici (a causa dei criteri di accesso che solitamente danno precedenza ai nuclei in cui entrambi i genitori lavorano).

Un’offerta debole e frammentata
Sono passati ormai venti anni da quando, nel 2002, il Consiglio europeo ha fissato l’obiettivo di garantire almeno 33 posti in un servizio per la prima infanzia ogni 100 bambini sotto i 3 anni entro il 2010. L’Italia è ancora lontana da questo obiettivo e nel 2019 (dato Istat) il tasso di copertura si attesta al 26,9%.
La situazione peraltro è estremamente diversificata: se il Nord-est e il Centro vantano una copertura che supera il target europeo (rispettivamente 34,5% e 35,3%); il Nord-ovest è sotto tale soglia ma non lontano dall’obiettivo (31,4%) mentre il Sud (14,5 %) e le Isole (15,7%) sono molto distanti dal target.
Se si guarda alle regioni, i livelli di copertura più alti si registrano in Valle D’Aosta (43,9%), cui seguono diverse regioni del Centro-nord, che si collocano tutte sopra il target europeo. Sul versante opposto Campania e Calabria sono ancora sotto l’11%.

Uno spiraglio: Pnrr e legge di bilancio
Il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) ha stanziato risorse importanti per i nidi e le scuole dell’infanzia. Si tratta in totale di 4,6 miliardi di cui 2,7 riservati al Mezzogiorno. Al momento, il primo bando (pubblicato a dicembre con scadenza il 28 febbraio) ha messo sul piatto 3 miliardi di cui 2,4 per i nidi d’infanzia.
Si tratta di risorse importanti che tuttavia, in linea con quanto accade per altri finanziamenti europei, possono essere destinate esclusivamente alla realizzazione di investimenti e non al sostegno della spesa corrente, ovvero ai costi di gestione del servizio. Queste risorse quindi possono essere destinate alla costruzione e al rifacimento delle strutture ma non al personale necessario a garantirne il funzionamento. Sul punto è però intervenuta la legge di bilancio che, non solo ha stanziato risorse per la gestione dei servizi, ma ha (per la prima volta) introdotto un livello essenziale delle prestazioni (Lep) da garantire su tutto il territorio nazionale in materia di nidi d’infanzia. Tale Lep è parametrato all’obiettivo europeo e prevede quindi che su tutto il territorio nazionale siano presenti almeno 33 posti al nido ogni 100 bambini fino a tre anni, entro il 2027.
Per superare i divari territoriali, la legge di bilancio ha previsto due step. Inizialmente, solo i territori con una dotazione di posti inferiore al 28,88% potranno accedere alle risorse disponibili. Successivamente, quando tutti i Comuni avranno raggiunto tale soglia, gli investimenti si rivolgeranno anche agli altri enti locali finché tutti raggiungeranno la quota minima del 33% di posti. Le risorse stanziate per questo obiettivo ammontano a 120 milioni di euro per il 2022, 175 milioni per il 2023, 230 milioni per il 2024, 300 milioni per il 2025, 450 milioni per il 2026 e 1.100 milioni dal 2027.

I dubbi irrisolti
Le misure sul piatto aprono uno spiraglio e permettono di azzardare un cauto ottimismo. Tuttavia rimane qualche dubbio circa la possibilità effettiva di superare i divari territoriali. L’esperienza dei fondi strutturali ci dice che i territori più fragili sono quelli che hanno maggiori difficoltà nell’accedere e nello spendere tali fondi. Stanziare risorse è quindi condizione necessaria ma purtroppo non sempre sufficiente a generare un cambiamento. I territori più fragili dovrebbero infatti essere sostenuti anche da solidi percorsi di accompagnamento alla progettazione.
Infine, rimane l’amaro in bocca se pensiamo che il nostro Paese, nella migliore delle ipotesi, raggiungerà l’obiettivo europeo con 17 anni di ritardo rispetto alle scadenze dettate dall’Ue venti anni fa. Verrebbe da dire che una generazione di giovani è stata sacrificata.

*L’autrice Chiara Agostini è ricercatrice in Analisi delle politiche pubbliche, fa parte di Percorsi di secondo welfare


L’articolo è stato pubblicato su Left del 25 febbraio 2022 

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

Russia-Ucraina, la via (possibile) della conciliazione

Chinese President Xi Jinping is seen on a live broadcast of the opening ceremony for the National People's Congress at a mall on Saturday, March 5, 2022, in Beijing. China on Saturday cut its annual economic growth target to its lowest level in decades as Beijing struggles to reverse a slump at a time when Russia's war on Ukraine is pushing up oil prices and roiling the global economy. (AP Photo/Ng Han Guan)

«Tre palmi di ghiaccio non si formano con una sola gelata». Così il ministro degli Esteri cinese ha descritto le cause che hanno prodotto il “conflitto” ucraino, in occasione della annuale conferenza stampa a margine della riunione plenaria dell’Assemblea del Popolo. Wang Yi, navigato diplomatico e già ambasciatore in Giappone, ha commentato diffusamente 27 tematiche internazionali, fra cui, una fra le altre, la “situazione ucraina”, che per la prima volta è stata anche descritta come un «conflitto», ma mai come una “guerra” o una “invasione”. La Cina continua così a tentare di giocare la difficilissima carta dell’equidistanza fra l’Occidente e la Russia. In una crisi così «complicata» – ha dichiarato Wang Yi – non si deve «gettare olio su fuoco» e «inasprire le contraddizioni» (come fanno gli Stati Uniti), ma «garantire la sovranità territoriale» (come non fa la Russia).
Il mondo guarda anche a Pechino nella speranza di vedere una luce in fondo al tunnel della brutale invasione dell’Ucraina da parte delle armate russa.

La Cina potrebbe effettivamente svolgere un ruolo di mediazione in un conflitto nel cuore dell’Europa? Una domanda che solo pochi anni fa sarebbe sembrata uscita da un libro di fantapolitica. Eppure, oggi Pechino potrebbe davvero fare la differenza, ed essere quel terzo polo in grado di dialogare con entrambe le parti.
Ora pensiamo a Russia e Cina come due alleati strategici, ma questo non è vero. Pechino in verità ha normalizzato le relazioni con Mosca solo da vent’anni, dopo decenni di conflitti politici e territoriali con l’Unione Sovietica prima e con la Federazione russa poi. Si tratta di una alleanza diremmo strumentale, una vicinanza prodotta soprattutto dalla politica anticinese delle recenti amministrazioni americane e dopo due anni nei quali la Cina è stata considerata dagli Usa come l’untrice planetaria del Covid-19. Ancora Wang Yi ha dichiarato che le relazioni con Mosca sono «solide come la pietra», ma al tempo stesso «non sono un’alleanza, non mirano al confronto e non sono ostili verso terze parti», quindi la Cina intende sottolineare che sta cercando di non entrare in rotta di collisione con Mosca, e in sostanza – a differenza di quanto sostengono alcuni tanto blasonati che superficiali giornalisti nostrani – non vuole giustificare l’invasione russa in Ucraina, azione che confligge palesemente con il principio della sovranità territoriale, che è uno dei caposaldi della politica estera cinese fin dai tempi di Zhou Enlai, per il quale ha lavorato a lungo il…


L’articolo prosegue su Left dell’11-17 marzo 2022 

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

Russia-Ucraina, il danno universale calcolabile

La lettera aperta degli scienziati russi di forte opposizione alla drammatica invasione dell’Ucraina da parte dell’esercito del loro Paese, ci offre uno spaccato dell’iperbole cognitiva che questa aggressione militare sta comportando.
Gli scienziati russi sollevano questioni basilari contro questa azione di guerra, richiamando la radice comune delle popolazioni ucraine e russe, indicando i rischi di una escalation senza controllo, segnalando l’isolamento internazionale verso cui è destinato il loro Paese. Allo stesso tempo sgombrano il campo dalle svariate giustificazioni con cui il regime sta accompagnando l’invasione ucraina, assegnando la totale responsabilità delle tragedie e delle distruzioni che stanno avvenendo e che, purtroppo, continueranno a succedersi, a Putin e al governo russo. Non sono credibili l’alibi del Donbass, né altre giustificazioni di equilibri geopolitici. Si tratta di una guerra «priva di senso».

La durezza e determinazione con cui il documento affronta questa frattura della moderna storia europea evidenzia, senza dubbio, uno straordinario coraggio dei sottoscrittori che si trovano nel Paese dove in questi giorni il dissenso verso l’invasione dell’Ucraina ha portato nel carcere migliaia di pacifici manifestanti. Dove è stata immediatamente approvata una legge per fare in modo che i media non parlino della guerra (che dovrebbe essere chiamata “missione speciale”) e che ha obbligato la stampa estera a lasciare il Paese per evitare di incorrere in sanzioni che prevedono fino a 15 anni di carcere. Ma la durezza di questo documento degli scienziati russi ci evidenzia, oltre al coraggio e all’indignazione, anche due altri elementi particolari: una concreta previsione di pericolo “apocalittico” e una terrifica sorpresa sul capovolgimento dello sviluppo socio-politico del mondo.

I rischi di un conflitto che, per la prima volta dopo l’ultima guerra mondiale, mette in franca contrapposizione due schieramenti con armamenti nucleari, di cui viene anche richiamata la minaccia (Putin ne ha parlato esplicitamente nelle dichiarazioni pubbliche di questi giorni), non è certo sottovalutata dal novero di scienziati che sottoscrivono il documento. Si tratta quindi di una previsione profondamente ma scientificamente preoccupata, perché calcolabile è il danno immane che comporterebbe una tale genere di conflitto.

C’è poi un aspetto sorprendente che riguarda tanto più chi si occupa di scienza ossia chi con la conoscenza ha un rapporto di diretta confidenza. Mi riferisco al sorprendersi a scoprire che le guerre siano ancora uno strumento utilizzabile per risolvere i conflitti tra nazioni civilizzate. Non si tratta di ignorare che la violenza resti un problema drammatico anche nel nostro tempo, né che il mercato delle armi rappresenti un fattore assai rilevante per l’economia di molti Paesi. Ciò che sembrava essersi esaurito nello sviluppo civile era che l’Istituzione massima di una comunità potesse decidere di…


L’articolo prosegue su Left dell’11-17 marzo 2022 

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

Un passo sul fine vita. Ma il futuro è buio

Foto Mauro Scrobogna /LaPresse 14-09-2020 Roma , Italia Cronaca Fine vita- eutanasia legale Nella foto: Mina Welby, storica sostenitrice del fine vita, assieme ai militanti dell'Associazione Luca Coscioni manifesta davanti alla Camera dei Deputati per protestare contro l'inerzia legislativa del Parlamento a 7 anni dal deposito della proposta popolare per l'eutanasia legale Photo Mauro Scrobogna /LaPresse September 14, 2020  Rome, Italy News End of life - legal euthanasia In the photo: Mina Welby, historical supporter of the end of life, together with the militants of the Luca Coscioni Association demonstrates in front of the Chamber of Deputies to protest against the legislative inertia of Parliament 7 years after the filing of the popular proposal for legal euthanasia

La legge sul fine vita passa alla Camera. Via libera con 223 sì, 168 no e un’astensione all’articolo 2 della norma, in attuazione della sentenza della Corte costituzionale del novembre 2019 sul caso Dj Fabo/Cappato. L’articolo 2 è il pilastro della legge, contiene lo scopo della normativa: «Si intende per morte volontaria medicalmente assistita il decesso cagionato da un atto autonomo con il quale, in esito al percorso disciplinato dalle norme della presente legge, si pone fine alla propria vita in modo volontario, dignitoso e consapevole, con il supporto e sotto il controllo del Servizio sanitario nazionale», si legge nel testo.

L’atto, si precisa, «deve essere il risultato di una volontà attuale, libera e consapevole di un soggetto pienamente capace di intendere e di volere». La norma prevede inoltre che «le strutture del Servizio sanitario nazionale operino nel rispetto dei seguenti princìpi fondamentali: tutela della dignità e dell’autonomia del malato; tutela della qualità della vita fino al suo termine; adeguato sostegno sanitario, psicologico e socio-assistenziale alla persona malata e alla famiglia». Contrari Lega, Forza Italia, Fratelli d’Italia, Coraggio Italia.

Anche ieri abbiamo assistito alla pessima esibizione di alcuni parlamentari, com’era prevedibile. Toccafondi di Italia Viva ha dichiarato: «Trovo innaturale una legge che aiuti a morire. Nella nostra cultura c’è il valore della vita, il diritto alla vita e non a metter fine alla vita». Palmieri, Forza Italia: «Il Pd aderisce a un progetto di società in cui la persona diventa un individuo sciolto da qualsiasi legame sociale e familiare alla mercé del potere di turno e della sofferenza che gli viene inferta». 

Durante il voto finale Riccardo Magi invece ha citato Welby: «Io non sono né un malinconico né un maniaco depresso. Morire mi fa orrore purtroppo ciò che mi è rimasto non è più vita è solo un testardo insensato accanimento nel mantenere attive delle funzioni biologiche».

È passato, ovviamente, l’emendamento che prevede l’obiezione di coscienza. Dentro si legge che «gli enti ospedalieri pubblici autorizzati sono tenuti in ogni caso ad assicurare l’espletamento delle procedure previste dalla presente legge. La regione ne controlla e garantisce l’attuazione». Visto com’è andata con la 194 viene difficile essere ottimisti.

Filomena Gallo e Marco Cappato, rispettivamente Segretario nazionale e Tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni, scrivono che «finalmente il Parlamento dà segno di voler provare ad assumersi le proprie responsabilità. Non sarebbe mai accaduto senza il coraggio di persone come Piergiorgio Welby, Fabiano Antoniani e Davide Trentini, che resero pubblica la loro scelta, senza le disobbedienze civili e senza 1.240.000 persone che hanno firmato il referendum per la legalizzazione dell’eutanasia attiva facendo emergere una profonda consapevolezza e volontà popolare». Dicono anche: «Non ci facciamo illusioni. Siamo ben consapevoli della difficoltà che rappresenta il passaggio al Senato, nonché degli effetti discriminatori del testo nella versione attuale, che esclude dalla possibilità di accedere all’aiuto a morire i pazienti «non tenuti in vita da trattamenti di sostegno vitale (come ad esempio solitamente sono i malati terminali di cancro e alcune malattie neurodegenerative)».

In effetti al Senato i numeri ballano. I malumori all’interno del Pd e di Italia viva saranno meno controllabili e più decisivi. Ve la ricordate la legge Zan? Ecco, siamo su quel bordo.

Buon venerdì.