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Tomaso Montanari: L’interventismo fa strage

Foto Fabio Cimaglia / LaPresse 18-06-2017 Roma Politica Teatro Brancaccio. Assemblea per la Democrazia e l'uguaglianza Nella foto Anna Falcone, Tommaso Montanari Photo Fabio Cimaglia / LaPresse 18-06-2017 Roma (Italy) Politic Brancaccio Theater. Assembly for Democracy and Equality In the pic Anna Falcone, Tommaso Montanari

In queste drammatiche settimane di guerra in Ucraina aggredita da Putin cerchiamo di raccontare quel che sta accadendo, in primis, dando voce ai civili ucraini e ai russi che protestano contro la guerra.
Al contempo ci interroghiamo sulla posizione che ha assunto l’Italia e sul tenore del dibattito infervorato da interventisti di ogni tipo. Che non ci rassicurano. Invece di pensare a come dare man forte ai civili ucraini con la diplomazia, inasprendo le sanzioni e con l’intervento dell’Onu abbiamo fin qui perlopiù solo provveduto ad inviare armi agli ucraini, perché se la vedano da soli.
Colpisce anche il fuoco di fila che sui giornali mainstream bersaglia i pacifisti.A questo proposito abbiamo interpellato lo storico dell’arte e rettore dell’Università per stranieri di Siena Tomaso Montanari che su Il Fatto quotidiano ha acceso il dibattito con un articolo dal titolo “Militaristi da divano”.

Professor Montanari, secondo editorialisti come Mieli e Polito i pacifisti dovrebbero vergognarsi, che ne pensa?
I nostri governi hanno preso una decisione, sostenuta all’unanimità dai Parlamenti: inviare armi agli ucraini e partecipare, di fatto alla guerra. A fronte di tutto questo ci si accanisce contro un’opinione pubblica pacifista contraria all’invio di armi e che per altro, ha mille sfumature al suo interno. Di certo non sono i pacifisti coloro che stanno impedendo di aiutare la resistenza ucraina. L’Occidente sta facendo tutto quello che vuole e forse anche quello che non vuole visto che ogni giorno siamo sempre più vicini allo spettro di un conflitto nucleare. Anche per questo per me è incomprensibile l’accanimento verso voci pacifiste che – tolta quella di papa Francesco che ha più visibilità – sono minoritarie dal punto di vista mediatico.

Inviamo armi alla resistenza ucraina e intanto finanziamo la guerra di Putin comprando il gas russo. Una contraddizione feroce, che ne pensa?
Sì, siamo disposti a celebrare la guerra ucraina e felicissimi che si ammazzino fra loro con le nostre armi ma non siamo disposti ad abbassare di tre gradi il termosifone. E in questo modo continuiamo a inviare soldi alla Russia finanziando la guerra a Putin. Detto questo mi permetta una precisazione.

o una decisione, sostenuta all’unanimità dai Parlamenti: inviare armi agli ucraini e partecipare, di fatto alla guerra. A fronte di tutto questo ci si accanisce contro un’opinione pubblica pacifista contraria all’invio di armi e che per altro, ha mille sfumature al suo interno. Di certo non sono i pacifisti coloro che stanno impedendo di aiutare la resistenza ucraina.

L’Occidente sta facendo tutto quello che vuole e forse anche quello che non vuole visto che ogni giorno siamo sempre più vicini allo spettro di un conflitto nucleare. Anche per questo per me è incomprensibile l’accanimento verso voci pacifiste che – tolta quella di papa Francesco che ha più visibilità – sono minoritarie dal punto di vista mediatico.

Inviamo armi alla resistenza ucraina e intanto finanziamo la guerra di Putin comprando il gas russo. Una contraddizione feroce, che ne pensa?

Sì, siamo disposti a celebrare la guerra ucraina e felicissimi che si ammazzino fra loro con le nostre armi ma non siamo disposti ad abbassare di tre gradi il termosifone. E in questo modo continuiamo a inviare soldi alla Russia finanziando la guerra a Putin. Detto questo mi permetta una precisazione.

Prego.

Quel che vorrei fosse chiaro che nessuno prende decisioni a cuor leggero; è comunque uno strazio, capiamo bene la reazione del popolo ucraino rispetto a questa aggressione che non ha attenuanti. Il tentativo di spiegarla, tuttavia, non significa in nessun modo cercare di giustificare Putin che ha invaso l’Ucrania e ha provocato una insensata carneficina.

Il Tribunale internazionale dell’Aja ha aperto un’inchiesta su Putin per crimini di guerra, cosa ne pensa?

Putin è un criminale di guerra per come sta portando avanti il conflitto. Su questo non ci sono dubbi. La legittima difesa degli ucraini è più che lecita. Ma il punto è se abbia senso. La quantità di morti che si prospetta a forze così spropositate ha una possibilità morale di essere giusta? Dobbiamo tener conto che con il nucleare siamo davanti alla possibilità stessa di estinzione dell’umanità. La manifestazione del 12 marzo a Firenze ha applaudito il presidente ucraino Zelensky che chiedeva la No fly zone. Comprensibilmente da parte sua. Ma concedere la No fly zone, che sarebbe una scelta coerente per chi ha caldeggiato l’invio di armi, vuol dire arrivare a un passo dal conflitto con la Nato. E sarebbe la Terza guerra mondiale. Che fine ha fatto il dibattito sul disarmo atomico?

La Resistenza ucraina è stata paragonata a quella contro il nazifascismo. Lei ha scritto che i partigiani agirono in un contesto diverso e avevano la possibilità di farcela. Che ne pensa  del dibattito che ne è scaturito?

Sono dispiaciuto per le reazioni che ci sono state. Mi sembra paradossale essere accusato di aver sminuito la Resistenza visto l’impegno che ho dedicato in tutti questi anni a difenderne la memoria. Per altro, prima di prendere la parola, ho atteso che lo facesse chi ha più titoli di me come lo studioso e cultore della Resistenza Marco Revelli, figlio di Nuto. Qui non si tratta di sminuire la Resistenza degli ucraini o di celebrare quella italiana. Il punto è che se non fossero arrivati gli alleati, se non fossero sbarcati in Sicilia, se non avessero cominciato la controffensiva proprio dall’Italia, sarebbero stato impossibile per la Resistenza italiana avere successo. Probabilmente sarebbe stata organizzata in altro modo, non avrebbe assunto le forme che ha assunto. La guerra di Liberazione ha avuto un significato morale profondissimo, ci ha meritato un dopoguerra diverso da quello tedesco e ha portato alla nostra Costituzione. Ma dal punto di vista militare, senza l’intervento degli alleati, avrebbe avuto scarse chance di farcela di fronte all’esercito nazista seppur in ritirata. Spingere l’Ucraina alla guerriglia come in Afghanistan significherebbe costringerla ad essere teatro di guerra per anni o per decenni. Mi sembra una prospettiva mostruosa. Ma c’è anche un’altra cosa da dire: la Resistenza al nazifascismo non fu nazionalista. L’invasore di cui parla “Bella ciao” è l’invasore nazista, ma è anche quello fascista. La Resistenza fu anche la guerra contro lo Statuto albertino, per una società più giusta. Quei ragazzi non andavano a morire per  tornare al re, alla corona e all’Italia oligarchica, fascista, ma lottavano per un cambiamento radicale. Il risultato fu la Costituzione italiana, che sarebbe rivoluzionaria se attuata, come diceva l’azionista Calamandrei. 

Il fatto che la Resistenza ucraina sia nazionalista cosa cambia se pensiamo all’aggressione che stanno subendo?

Non toglie nessuna legittimità all’idea e al fatto che gli ucraini lottino per la loro casa, per la loro terra, per le loro vite. Ma come impedire che muoiano altri civili ucraini? Questa è la domanda che ci dovremmo porre noi. Come si arriva a un cessate il fuoco immediato? Ho la sensazione che tutta questa retorica pro Ucraina abbia anche a che fare con il fatto che l’Occidente sta facendo la guerra a Putin attraverso i corpi degli ucraini. Temo che questa enfasi sulla Resistenza ucraina non riguardi la loro sovranità e indipendenza e democraticità.

Ad essere colpiti da questa guerra sono i nostri valori occidentali come ripetono ogni giorno Repubblica e Corsera?

È un discorso che mi lascia piuttosto perplesso dal momento che i cantori della democrazia in Ucraina non hanno difeso nessuna delle libertà che sono state calpestate anche dall’Occidente negli ultimi decenni. Non sono molto credibili. Quando si dice questa è una guerra contro i nostri valori bisognerebbe aprire tutto un discorso su quali siano i nostri valori: quelli delle Costituzioni? O quelli praticati dai governi? Quelli formali o quelli sostanziali? E poi i valori di chi? Di quale parte sociale dell’Occidente? Dei sommersi o dei salvati? Sarebbe un lungo discorso da fare insieme a tutta la pluralità dell’Occidente. I nostri valori non sono quelli enunciati da un capo. Noto che la gran parte di questi opinionisti che coltivano questa idea di guerra all’Occidente erano tutti estremisti di sinistra da giovani e sono poi passati alla destra più conservatrice da vecchi. Von Clausewitz diceva che la guerra è la politica con altri mezzi. Si è giocato una partita a scacchi in Ucraina. Ora quella partita è degenerata in guerra. Non mi pare dicano combattiamo per loro. Mi pare che sotto sotto dicano combattano per noi. Noi non lo facciamo, non lo possiamo fare ma c’è qualcuno che combatte per procura.

Detto questo non possiamo tacere su ciò che sta facendo Putin: una guerra di aggressione totale, benedetta dal Patriarca Kirill come crociata in nome di Dio, patria e famiglia contro l’Occidente debosciato.

Putin va criticato ferocemente. Andava fatto da tempo. I governi occidentali erano tutti con lui e ci hanno fatto affari e Putin era già quello della guerra e della distruzione in Cecenia e in Siria. Io non l’ho mai difeso. L’Italia ha dato cittadinanza e agevolazioni agli oligarchi russi; siamo diventati un banchetto per loro. Ora gli stessi che ci andavano a braccetto sono diventati anti Putin: Berlusconi, Salvini e molti altri. Ricordo un video del 2014 con il capo della Lega nella Piazza rossa che diceva: qui non ci sono rom, non ci sono mendicanti. Nel libro I demoni di Salvini (Chiarelettere) Claudio Gatti scrive che è paragonabile ad un agente di influenza russo. Il presidente russo dice dobbiamo de-nazificare l’Ucraina ma lui ha sostenuto tutte le destre naziste in Europa con fior di finanziamenti. Putin è sempre stato quella cosa lì. Mi ricorda Stalin nella fase del suo isolamento paranoico.

Ricordiamo che nel 1932 e 1933 la carestia provocata dall’Urss di Stalin colpì il territorio ucraino causando milioni di morti…

Ricordiamo anche i libri Vasilij Semënovič Grossman e di tanti altri dissidenti. Oggi più che mai dobbiamo dare voce ai russi del dissenso. All’Università per stranieri di Siena stiamo traducendo in italiano tutte le voci che ci arrivano e che non hanno altri canali. Pubblichiamo i loro testi anche in russo. Dobbiamo far di tutto per alimentare l’opposizione russa. Un esito auspicabile sarebbe il rovesciamento di Putin da parte del popolo russo stesso; speriamo avvenga presto.

Putin agisce da despota: censura i media, reprime il dissenso, semina il terrore con incarcerazioni arbitrarie. Sta facendo precipitare la Russia in un baratro?

Emergono feroci contraddizioni. Putin sembra uno zar, sembra che la rivoluzione del 1917 non ci sia mai stata, ci sono delle caratteristiche imperiali di lunghissimo periodo. La Russia ha sempre avuto due anime: una europea e una imperiale. Ora ha messo nell’angolo quella europea, esaltando quella imperiale.

L’espansionismo Nato ha contribuito a questa deriva? Dovremmo ripensare la nostra alleanza?

La Repubblica italiana, in base alla Costituzione, può cedere sovranità a organismi sovranazionali che costruiscono giustizia e pace. La domanda è se la Nato abbia costruito giustizia e pace. Il che, beninteso, non significa fare sconti Putin, che è un autocrate, un despota sanguinario. Io non mi aspetto nulla da lui, mi attendo molto di più dalle democrazie occidentali. Da occidentale tendo a criticarle di più, perché lui – non so come dire – è insalvabile. Come diceva Michelangelo, bisogna dire a chi sa e non a chi non sa.

Come rettore lei ha preso pubblicamente le distanze dai rettori russi che sostengono Putin. Dall’altro lato occorre dare forza agli artisti e agli intellettuali russi. Il boicottaggio complessivo della cultura russa oltre ad essere inaccettabile rischia di isolarli ancor più?

Dobbiamo guardare alla complessità. Siamo stati i primi a tradurre il documento dei rettori russi e io li ho attaccati con durezza. Non ho visto nessun altro collega farlo. Ma l’Università non è solo dei rettori. Mi è arrivato un documento firmato da 4mila professori della Lomonosov, la prima grande università di Mosca. Il rettore è schierato con Putin, ma molti docenti non sono d’accordo, noi dobbiamo dare loro voce. Abbiamo invitato Paolo Nori non appena ci è giunta la notizia (poi rientrata, ndr) che alla Bicocca non poteva fare lezione su Dostoevskij. Lo farà da noi il 31 marzo. Stiamo cercando di ospitare colleghi in fuga, ucraini e anche russi. L’Università è il luogo dove ci si dovrebbe incontrare, è il contrario del nazionalismo. È il luogo del dissenso, dell’elaborazione di un altro punto di vista, il che non vuol dire terzismo. Ci sono gli aggressori e ci sono gli aggrediti. Ma se noi pensiamo che l’aggressore sia l’intero popolo russo facciamo un enorme favore a Putin e distorciamo la realtà. Sarebbe come se pensassimo che l’intera Italia fosse fascista nel 1942 o nel 1943. Non era così.

L’Ermitage aveva minacciato di ritirare tutti i prestiti. Ancora una volta le opere d’arte sono usate come ostaggio dei governi?

Le opere d’arte vengono usate troppo da tutti. Lo dico da decenni (Vedi Montanari, Trione, Contro le mostre, Einaudi) le mostre non hanno più nulla di scientifico, sono cose politiche. Se sono cose politiche è evidente che la Russia rivuole i propri quadri nel momento in cui mandiamo armi in Ucraina. Ma è giusto che nei musei le opere d’arte vengano risucchiate nel gioco dei governi? Abbiamo appena detto che le opere d’arte e le Università sono un’altra cosa nonostante si tenda a dimenticarlo, anche in Occidente. I musei assomigliano sempre più agli eserciti e al marketing nazionale. Assomigliamo più al brand dei Paesi che alle Università. Dunque la riflessione profonda è proprio sul ruolo delle mostre e dell’uso che se ne è fatto in questi ultimi anni.

 


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Diana Belova: Nessuno salverà la bellezza se l’Europa ci abbandona

Diana Belova, nata a San Pietroburgo, è una regista, sceneggiatrice e produttrice cinematografica, nonché autrice di studi sulla storia del cinema, come ad esempio il saggio Evolution of female image in Italian cinema, (Aletea, San Pietroburgo, 2018).
Il suo film Spaced del 2019, è costruito intorno a una metafora della responsabilità individuale vissuta dalla protagonista come intervento di forze extraterrestri che la costringono a fare cose eccentriche. In Arriving now del 2021 i pregiudizi sono il tema centrale di una storia intrisa di sarcasmo, ma che reclama al contempo allo spettatore un’empatia superiore – un vero e proprio corto circuito di stereotipi sulle culture, le nazioni e l’identità di genere. Quest’ultimo cortometraggio risulta particolarmente attuale nella tragica contingenza odierna.

Dicci qualcosa di più su di te e il tuo percorso umano e professionale.
Ho amato l’arte e ho dipinto fin da bambina. Dopo il liceo artistico, ho studiato alla Facoltà di psicologia a San Pietroburgo dove mi sono laureata nel 2009. Quindi ho intrapreso e concluso, nel 2012, il master in critica dell’arte e storia del cinema alla Facoltà delle libere arti e delle scienze, un programma congiunto russo-americano con il Bard College di New York. Dal 2012 ho lavorato come attrice, sceneggiatrice, e moltissimo come aiuto-regista.

In che modo il problema del dialogo con l’Europa e le questioni sociali e politiche si sono manifestate nel tuo cammino personale e nella tua opera creativa?
Dal 2019 ho deciso di realizzare il mio cinema indipendente, costruito intorno al tema degli stereotipi e dei pregiudizi. La guerra, oltre alle molteplici tragedie che causa, ha anche il potere di appiattire il mondo, di polarizzarlo in culture amiche e nemiche, nell’idea di “proprio” e “altrui”. In un clima di pace, anche quello recente, sarebbe dovuto essere più facile spiegare cosa succede nella società russa e di come il dialogo con l’Europa necessitasse e necessiti di un’analisi più profonda e di un livello superiore di responsabilità individuale e collettiva. Nel mondo dei dissidenti russi, accanto ad autentici eroi, esiste anche una parte di autori e registi che ha avuto in questi anni la responsabilità negativa di raccontare la società russa in termini fin troppo stereotipati, gettandovi sopra a piene mani le tinte del patriarcato, del maschilismo, dell’arretratezza, e ricevendo anche lauti finanziamenti da parte di produttori e venditori in Europa. Ciò ha contribuito a creare un’incapacità reciproca di ascolto fra la maggior parte degli europei e la gente comune in Russia. Oggi invece abbiamo d’improvviso bisogno di una grande e reciproca empatia, per non confondere i politici e i militari russi con il popolo russo, e la vera priorità al momento deve essere quella di conservare ogni possibile strada di…


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Si può dire, su Zelensky?

Members of Congress give Ukraine President Volodymyr Zelensky a standing ovation before he speaks in a virtual address to Congress in the U.S. Capitol Visitors Center Congressional Auditorium in Washington, Wednesday, March 16, 2022. (Sarahbeth Maney/The New York Times via AP, Pool)

Non facendosi corrompere dalla superficialità imperante di questi giorni e da questa metifica logica binaria che vorrebbe polarizzare per non discutere di nient’altro che le bombe credo, anzi lo spero, che sia possibile essere dalla parte del popolo ucraino, riconoscere che sia in atto una feroce aggressione nei confronti dell’Ucraina con logiche criminali che colpiscono anche ospedali, asili e civili e potersi comunque permettere di dire che Zelensky sia ben altro rispetto al politico illuminato e eroe in tour. Mi spiace, so che a qualcuno gli scoppierà il fegato. Fatti suoi.

È significativo e importante che i parlamenti in giro per il mondo accolgano la testimonianza di Zelensky nei loro consessi per far intendere chiaramente, senza ombre, da che parte stanno ma non riconoscere nel presidente ucraino una pericolosa retorica è miope. Non dirlo per paura di andare contro la comunicazione imperante è vigliacco. Ad esempio, usare l’11 settembre come paragone mentre parla al Parlamento Usa è un trucchetto da abile comunicatore, niente a che vedere con il lamento disperato e il disegno di Zelensky di portare con sé gli Stati più guerrafondai dell’Ue insieme a Usa e Regno Unito è una strategia che sicuramente in questo momento infiamma una situazione che avrebbe bisogno di intelligente cautela e diplomazia.

Anche la linea della terza guerra mondiale già in atto (frase che Zelensky ripete dappertutto), della no fly zone richiesta come se non esistesse il pericolo di una guerra globale e nucleare e la sostanziale ripetizione dell’Ucraina che “non cederà di un millimetro” (quando le trattative, per loro stessa etimologia, dovrebbe essere un tentativo di intesa) non sembrano segnali responsabili.

Condannare l’azione di Putin, condannare l’invasione dell’Ucraina e ritenere necessario fare tutto ciò che è possibile per salvaguardare, proteggere e accogliere i cittadini ucraini non ha niente a che vedere con l’osservazione e il riconoscimento di un atteggiamento populista e nazionalista del loro presidente. E forse sarebbe il caso che qualcuno trovi il coraggio di dirlo, senza paura di essere travolto dal massimalismo di questi (brutti) giorni di dibattito.

A proposito: un sondaggio pubblicato da Agorà su Rai Tre tratteggia un popolo italiano molto più pacifista di questi testosteroni militaristi che sventagliano accuse dappertutto. Il 55% degli italiani è contrario all’invio di armi. Il 62% boccia l’ipotesi di entrata in guerra della Nato contro la Russia. Poi c’è il discorso che facevamo da queste parti qualche giorno fa: a scaldare i cuori non è un reale interesse per la guerra ma la possibilità di usarla per randellare i propri avversari politici.

Buon venerdì.

Una luce dall’Oriente?

A television screen shows French President Emmanuel Macron, German Chancellor Olaf Scholz, below right, and Chinese President Xi Jinping, top, discussing the Ukraine crisis during a video-conference at the Elysee Palace in Paris, Tuesday, March 8, 2022. Safe corridors intended to let civilians escape the Russian onslaught in Ukraine could open Tuesday, officials from both sides said, though previous efforts to establish evacuation routes crumbled amid renewed attacks. (Benoit Tessier/Pool via AP)

La soluzione della guerra in Ucraina passa per Pechino? Oggi più di ieri sembra di sì. Il 14 marzo – inaspettatamente – si sono incontrati a Roma il capo della diplomazia della Repubblica Popolare cinese, il Consigliere di Stato, Yang Jiechi, e il Consigliere per la Sicurezza Nazionale degli Usa, Jake Sullivan. Si è trattato di un incontro assolutamente informale, fuori da una sede istituzionale, svoltosi in un hotel romano, non in una delle tante sedi del governo italiano a Roma, fra due personaggi che si erano già incontrati lo scorso anno a Zurigo, ma che hanno una consuetudine politica e diplomatica decennale. Yang è stato ambasciatore negli Usa (2001-2005) e poi ministro degli Esteri (2013-2017) per diventare poi il primo consigliere in politica estera del presidente Xi Jinping. Yang parla inglese per aver anche studiato in Gran Bretagna e conosce bene Sullivan, che ha lavorato come consigliere del Segretario di Stato, Hillary Clinton, proprio quando Yang era ministro degli Esteri in Cina. Insomma, due vecchi conoscenti che hanno discusso per sette ore, forse anche senza ausilio continuo di un interprete, un tempo lunghissimo per un colloquio politico-diplomatico, in un contesto informale di un albergo.

Tuttavia, i comunicati ufficiali di Pechino e di Washington non hanno lasciato trapelare nulla dei veri contenuti del colloquio. Pechino nel comunicato in cui annunciava l’incontro non faceva neppure menzione del problema dell’Ucraina, ma indicava solo «scambi su questioni di comune interesse fra Cina e Usa». Mentre dagli Usa è arrivata la notizia che l’amministrazione americana voleva ammonire la Cina a non fornire armamenti a Mosca. Si noti a latere che, l’eventuale partecipazione indiretta di Pechino al conflitto, pur se prontamente e seccamente smentita, ha avuto l’effetto – forse desiderato – di far cadere le borse di Shanghai e Shenzhen. Sullivan si è poi recato a Palazzo Chigi dove ha incontrato il consigliere diplomatico del presidente del Consiglio e successivamente anche Mario Draghi, con il quale ha parlato della preparazione del suo primo viaggio a Washington, previsto per il maggio prossimo; argomento davvero scottante, se pensiamo al fatto che c’è una guerra in Europa e mancano ancora due mesi!

Le tre notizie sono in realtà cortine di fumo per non farci sapere che cosa è veramente successo a Roma. Mentre tanti giornalisti nostrani si affannano a gettare olio sul fuoco, dobbiamo solo sperare che effettivamente qualche cosa si stia muovendo nelle relazioni fra Pechino e Washington, le prime due economie mondiali, come ormai la stampa cinese indica i due Paesi. Pechino ha tutto l’interesse a spianare la strada per una soluzione della crisi. La Cina fino al mese scorso era il primo partner commerciale dell’Ucraina, e la Russia costituisce per la Cina un mercato importante sia in termini di forniture energetiche che alimentari, ma il mantenimento dell’interscambio con l’Europa e lo scongelamento delle relazioni con gli Stati Uniti sono assai più importanti. Non è un caso che il presidente del Consiglio Li Keqiang nel suo recente discorso annuale all’Assemblea del Popolo (il Parlamento cinese) abbia ricordato il cinquantesimo anniversario della normalizzazione delle relazioni fra Nixon e Mao. Inoltre, Pechino non vuole veder cadere la Russia e il suo presidente, perché una instabilità in Russia avrebbe un effetto destabilizzante in tutta l’Asia Orientale. Insomma, la Cina sembra proprio che non abbia né interesse né intenzione di sacrificare le relazioni con il mondo occidentale, che ha creato la globalizzazione di cui il popolo cinese è stata fra i più grandi beneficiari, per i suoi rapporti con Putin.

La Cina ha bisogno del mondo per continuare a crescere e a soddisfare le esigenze della sua popolazione. Ma in questo momento anche il resto del mondo non può fare a meno della Cina, che potrebbe mediare con Putin, garantendone la sopravvivenza al potere, ma ponendo fine al conflitto in Europa. Forse la vera globalizzazione è iniziata solo ora che l’Occidente e gli Usa si stanno faticosamente rendendo conto che nel mondo non siamo soli.

Il sinologo Federico Masini è docente di Lingua e letteratura cinese all’Università di Roma “la Sapienza”


L’editoriale è tratto da Left del 18-24 marzo 2022 

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«Vivere sotto le bombe era meno terrificante di non poter nutrire i nostri figli»

In this Thursday, March 12, 2020 photo, women prepare food in a room inside Idlib's old central prison, now transformed into a camp for people displaced by fighting, in Idlib, Syria. Idlib city is the last urban area still under opposition control in Syria, located in a shrinking rebel enclave in the northwestern province of the same name. Syria’s civil war, which entered its 10th year Monday, March 15, 2020, has shrunk in geographical scope -- focusing on this corner of the country -- but the misery wreaked by the conflict has not diminished. (AP Photo/Felipe Dana)

«Per quanto scioccante sia, i siriani dicono che vivere sotto le bombe era terribile, ma non aver da mangiare per i figli lo è ancor di più. – racconta Paolo Pezzati, policy advisor per le emergenze umanitarie di Oxfam Italia – A 11 anni dall’inizio della crisi siriana, il dolore e la sofferenza sembrano non avere fine».

A 11 anni esatti dallo scoppio della guerra in Siria, il 60% della popolazione soffre la fame, con i prezzi dei beni alimentari che sono raddoppiati nell’ultimo anno. Il Paese fino ad oggi ha fatto affidamento sulle importazioni di cibo dalla Russia, ma ora, con la crisi ucraina, i prezzi alimentari potranno diventare ancor più proibitivi. È l’allarme lanciato ieri da Oxfam, che ha realizzato un’indagine tra 300 siriani nelle zone del Paese controllate dal Governo: il 90% degli intervistati ha dichiarato di potersi permettere al momento solo un po’ di pane e riso, solo occasionalmente verdura.

In un sistema economico già ridotto ai minimi termini da oltre un decennio di guerra, due anni di pandemia e dalla crisi bancaria libanese, in questo momento le sanzioni sulla Russia hanno un effetto dirompente, provocando l’interruzione delle importazioni di cibo e carburante, con la sterlina siriana che si sta svalutando ad una velocità vertiginosa. In questo momento 12,4 milioni di persone in Siria vivono in una condizione di insicurezza alimentare, il lavoro minorile è diffuso nell’84% delle comunità, mentre i matrimoni precoci nel 71%. Il Paese inoltre fino ad oggi ha fatto affidamento sulle importazioni di grano dalla Russia. Con lo scoppio della crisi in Ucraina, il governo ha deciso perciò il razionamento delle riserve alimentari e non solo: oltre al grano, zucchero, riso e carburante.

«Per noi non ha senso pensare al domani, se non sappiamo cosa mettere in tavola oggi per sfamare i nostri figli», racconta Hala, che vive a Deir-ez-Zor una delle zone più devastate dalla guerra.

«Lavoro 13 ore al giorno per sfamare i miei figli, ma non sembra bastare – continua Majed che vive nel governatorato di Rural Damascus – A volte vorrei che la giornata durasse più di 24 ore per lavorare di più. Sono stanchissimo e non so se riusciremo a sopravvivere».

«Uno stipendio medio basta appena per le spese essenziali», aggiunge Moutaz Adam.

Qualche giorno fa il presidente dell’Ucraina Zelensky raccontava della paura degli ucraini di essere dimenticati. La devastazione delle guerre, quando si spegne la solidarietà emotiva per il rumore delle bombe, continua a mietere vittime. Provate a chiedere a un afghano qualsiasi. Lo spessore di una reale solidarietà si misura nel tempo. Chissà come andrà a finire quando essere solidali non porterà più voti.

Buon giovedì.

Messaggere di umanità

A child sits in a bus next to a woman after fleeing conflict in Ukraine, at the Medyka border crossing in Poland, Monday, Feb. 28, 2022. The head of the United Nations refugee agency says more than a half a million people had fled Ukraine since Russia’s invasion on Thursday. (AP Photo/Visar Kryeziu)

«Siamo arrivate, stiamo bene». Scese dal treno, il primo pensiero è quello di chiamare casa. Costrette a scappare da un Paese in guerra, le donne ucraine che attraversano il confine con l’Ungheria a Záhony si lasciano la loro vita “precedente” alle spalle. Portano i figli in salvo, da qualche parte in Europa, mentre i mariti restano indietro.
La sala d’aspetto della stazione è piena. I treni arrivano da Čop.

Almeno trecento profughi ogni due ore, fino a cinquemila al giorno. Aspettano qui per qualche ora, fino al prossimo treno per Budapest. I volontari ungheresi hanno messo il wi-fi gratuito per permettere a chi arriva di contattare casa e tante prese per ricaricare i telefoni.
Veronika chiude la chiamata. Subito guarda le foto che le sono arrivate. Il marito, 45 anni, e i due figli, 21 e 19 anni, indossano la divisa dell’esercito. Sorridono, ognuno ha in mano un mitra. «Prego non lo debbano mai usare», dice.

Fino a 20 giorni fa avevano una vita normale. Vivevano a Poltava, lei insegnante di inglese, lui impiegato di una multinazionale. I figli maggiori, studenti all’università di Kiev. Le due figlie, ora al fianco della madre, ancora al liceo. «È come vivere un incubo e non riuscire a svegliarsi. Nel giro di pochi giorni abbiamo perso tutto. Non so dove andrò a stare, se potrò lavorare o se le mie figlie riusciranno a studiare. Ma soprattutto, non so se rivedrò mai i miei figli». Alle domande sul governo ucraino preferisce non rispondere, ma di una cosa è sicura: «No, i miei figli non volevano combattere», dice scuotendo la testa. «Ma c’è la legge marziale e non hanno altra scelta. Gli uomini non possono lasciare l’Ucraina. Chi combatte lo fa per necessità, non per volontà».

Olgha invece è sola. Guarda il telefono di continuo, non riesce a contattare il fidanzato. «Lui non può combattere, ha un problema ad una gamba, è zoppo». Vassily, questo il suo nome, ha l’esenzione dal servizio militare per motivi di salute. «Ma per lo stato d’emergenza, hanno detto che non vale. Lo hanno respinto al confine con la Polonia ed io non sono voluta andare via senza di lui. Poi siamo riusciti a contattare un uomo in Moldavia, fa passare le persone attraverso la foresta. Gli abbiamo dato tutti i nostri risparmi, i soldi per il nostro matrimonio. Si dovevano incontrare ieri sera ma non…

*L’autore: Michele Bollino è giornalista dell’agenzia di stampa Dire


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Facciamo sparire i testimoni?

Tra il 1 e il 2 luglio 2018, 276 bambini, donne e uomini (con Loni, che era ancora nella pancia della sua mamma, fanno 277) in acque internazionali salirono a bordo della nave italiana Asso ventinove, chiesero di fare domanda di asilo politico in Italia (Paese di bandiera), ma il comandante della nave fece rotta su Tripoli. Secondo la compagnia di navigazione ad ordinare questo sarebbero state le navi Caprera e Caio Duilio della Marina militare italiana. Il tutto in totale segreto.

Left è stato il primo media a parlarne, nel 2019, quando pubblicammo una lunga inchiesta sul caso.

La storia la racconta Sarita Fratini nel suo blog di saritalibre ed è anche un appello: tra quelle persone c’era Malik. Racconta Sarita: «Negli ultimi cinque anni, dopo la deportazione operata dalla Asso ventinove, è stato recluso in diversi terribili lager, dove ha visto morire tanti compagni e compagne di sventura. È riuscito a fuggire dai lager e nell’autunno-inverno 2021-2022 ha partecipato al presidio di protesta davanti all’ufficio di Unhcr a Tripoli. Malik, come tanti altri rifugiati/e, ha il numero Unhcr ed attende l’evacuazione. Da 4 anni. Due mesi fa le guardie libiche hanno arrestato i rifugiati del presidio e deportato tutti nel lager di Ain Zara. Malik è uno di loro».

«Ieri al tribunale civile di Roma – prosegue Sarita – c’è stata una causa: una donna, un bimbo e tre ragazzi sono riusciti a scappare dalla Libia e hanno presentato un ricorso contro il comandante della nave, la compagnia di navigazione, il consiglio dei ministri italiano e i ministeri di Difesa, Trasporti e Interno (allora retto da Salvini). Malik e tutti gli altri sopravvissuti che sono ancora in Libia purtroppo non hanno diritto a venire rappresentati da avvocati. Non possono quindi unirsi alla causa civile italiana. Malik si sta spegnendo in un lager. Con le poche forze che ancora gli rimangono, ha aiutato a ricostruire il caso Asso ventinove per la causa civile intentata da quei compagni di viaggio che, più fortunati, sono usciti dalla Libia. Il sistema dei lager libici, finanziato dall’Italia, si sta liberando di tutti i testimoni delle violazioni dei diritti umani compiute dal governo italiano».

L’idea di far eliminare i testimoni delle nostre violazioni è qualcosa che non sarebbe nemmeno immaginabile. E invece accade.

Buon mercoledì.

La Spoon river dei ribelli siriani

Muslim women walk in the courtyard of the 7th century Umayyad Mosque in Damascus, Syria, Wednesday, Oct. 3, 2018. President Bashar Assad told a little-known Kuwaiti newspaper Wednesday that Syria has reached a "major understanding" with Arab states after years of hostility over the country's civil war. (AP Photo/Hassan Ammar)

«Stamattina è venuta da me una donna. Suo marito è stato ucciso sotto tortura in un carcere di Damasco, lei è sola qui con i suoi due figli piccoli. Le ho dato conforto, le ho spiegato che cosa poter fare per dare un senso alla sua vita. La cosa più importante è mettere a posto i documenti». È un freddo venerdì ad Atene e Akkad Al-Jabal è al lavoro nel suo piccolo ufficio al 174 di via Aristotelous, accanto a un vecchio baretto. Se alzi lo sguardo a nord, proprio dritto in fondo si scorge la sagoma dell’Acropoli, che pare il fantasma impietrito e addolorato di una umanità rimasta soltanto sui libri poggiati su quei banchi di scuola rivestiti con la fòrmica verdina, profumati di quaderni e matite, in un tempo nel quale qualcuno, anche giovanissimo, poteva sognare per questo contorto pianeta un futuro di pace e democrazia.

Akkad è un avvocato siriano, un attivista, un dissidente del regime sanguinario di Bashar al-Assad che combatte la sua guerra senza “scoppi”, con le armi dell’ascolto, della parola, della memoria scritta. È, anzi, egli stesso la memoria vivente della Rivoluzione scoppiata in Siria il 15 marzo del 2011 con la Primavera araba, quando già alla fine del 2010 in Medio Oriente e nel Nord Africa le popolazioni oppresse cominciarono a ribellarsi scendendo in piazza, diventando protagoniste di quell’onda emozionante che, a cascata, si diffuse dalla Tunisia all’Egitto e quindi allo Yemen, alla Libia e alla Siria. È la prima volta che concede a un occidentale, e per di più a un giornalista, di fargli visita nella sua casa, la “trincea” da dove questo “soldato” solitario, questo “arciere della Rivoluzione”, come lo definiscono, taciturno conduce la sua lunga e faticosa battaglia. Anche sedici ore al giorno a raccogliere e dare notizie, collegando tra essi centinaia di migliaia di siriani sul campo e della diaspora. Tutti lo amano, ma nessuno, o pochissimi, sanno in realtà chi sia, e dove sia. Una primula rossa, o forse meglio un “arciere” della Rivoluzione, come i siriani lo definiscono.

«Sono in realtà in Grecia da 27 anni, ma se mettessi piede nel mio Paese verrei ucciso dopo un’ora – ci spiega – e devo confessare, sì, non ho paura, ma ogni tanto mi guardo attorno. Basterebbe poco, magari senza che nessuno si scomodi dalla Siria, per cadere in un agguato per mano di un killer della mafia russa che qui è molto attiva». Sì, la Russia, quella Russia alleato conclamato di Assad che oggi sta devastando l’Ucraina, che ha nel porto siriano di Tartus una base militare. Basti vedere le…


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Il dibattito sulla guerra fa schifo

A firefighter looks at a fragment of a Ukrainian Tochka-U missile on a street in Donetsk in eastern Ukraine, Monday, March 14, 2022. The Russian military says that 20 civilians have been killed by a ballistic missile launched by the Ukrainian forces. Russian Defense Ministry spokesman Maj. Gen. Igor Konashenkov said that the Soviet-made Tochka-U missile on Monday hit the central part of the eastern city of Donetsk, the center of the separatist Donetsk region. (AP Photo/Alexei Alexandrov)

Ieri un missile balistico presubilmente ucraino ha colpito la città di Donetsk uccidendo 23 persone (tra cui un bambino) e ferendone altre, tutti civili che stavano in coda davanti allo sportello di una banca o che passavano di lì. È uno dei molti fatti terribili che stanno accadendo in questi giorni a seguito dell’invasione della Russia, in cui 90 bambini sono stati uccisi (tanto per dare un’idea) e in cui centri civili vengono continuamente colpiti dall’esercito di Putin.

La notizia è rilevante perché indicherebbe una controffensiva dell’esercito ucraino ed è stata riportata da diverse fonti. Ci sono ovviamente le fonti della propaganda russa (quello devono fare, sono pagate per quello) ma ci sono giornalisti che sulle responsabilità dell’invasione hanno idee ben chiare. C’è il giornalista di Domani Davide Maria De Luca, c’è il giornalista di Avvenire Nello Scavo: una schiera di giornalisti che hanno rilanciato la notizia riportando le versioni di russi e ucraini (ovviamente opposte).

Il dibattito sulla guerra però non cerca notizie per costruire la complessità, no. Il dibattito sulla guerra ha bulimia di notizie che confortino le proprie posizioni. C’è gente talmente piccola che ha bisogno di essere bombardata (e bombardare) di quanto i russi siano cattivi e che non ha lo spazio nel cervello nemmeno per scorgere eventuali mancanze di quegli altri, dimostrando tra l’altro un’abissale ignoranza sulle guerre, dove la prima vittima è la verità.

Nello Scavo per tutto il giorno s’è preso del filoputiniano, lo stesso è accaduto per tutti gli altri. Con me è venuto persino facile visto che l’assonanza sinistra-filoPutin è la nuova formula algebrica dei polarizzatori per professione. Il motivo è semplice: della guerra e dei morti alla maggior parte dei commentatori non gliene frega un bel niente. La guerra e i morti sono piegati al proprio cortile, alle baruffe contro i nemici politici di casa nostra, in un provincialismo che fa schifo. Usare milioni di profughi e migliaia di morti per dimostrare che i presunti “avversari politici” locali stanno sbagliando è una nefandezza schifosa e meschina.

Ieri in collegamento con La7 Francesca Mannocchi, bravissima inviata di guerra amata fino a un secondo prima dai guerriglieri da divano si è permessa di dire che sulla base di quanto ha potuto vedere nei giorni scorsi a Irpin (Ucraina) – dove è stato ucciso il giornalista americano – non è possibile attribuire la morte di Brent Renaud a una parte o all’altra. Funziona così: non è sempre chiaro e non è sempre propaganda.

Ma qui non interessa il giornalismo: l’importante è cogliere indizi per poterti mettere in un cassetto o nell’altro. Siamo a questi livelli di dibattito.

Buon martedì.

Nella foto: Un vigile del fuoco guarda un frammento di un missile ucraino Tocka-U a Donetsk, 14 marzo 2022

Ius soli, prove tecniche di civiltà all’ombra delle Due torri

Foto Mauro Scrobogna /LaPresse 14-02-2022 Roma, Italia Cronaca Diritto di cittadinanza Nella foto: nel giorno di S.Valentino sit in per il diritto di cittadinanza degli stranieri cresciuti in Italia Photo Mauro Scrobogna/LaPresse February 14, Rome Italy News Right of citizenship In the photo: on Valentine's day sit in for the right of citizenship of foreigners raised in Italy

Bolognesi oggi, italiani domani. Ancora una volta, se il Parlamento non riesce a legiferare, ostaggio di veti, distante anni luce da esigenze e sensibilità della società che devono rappresentare, la via viene tracciata altrove.
Oggi tocca alla nuova amministrazione bolognese aprire una breccia in uno dei troppi muri che separano l’Italia dal potersi considerare una nazione moderna, con l’introduzione nello statuto comunale dello ius soli, cioè del diritto all’acquisizione della cittadinanza per quei minori nati in Italia da cittadini stranieri residenti. Un provvedimento che solo nel capoluogo emiliano riguarda oltre 11mila ragazze e ragazzi. «Un atto simbolico – l’ha definito in conferenza stampa il sindaco Matteo Lepore -: ma l’obiettivo è lanciare una campagna che faccia capire al Parlamento la necessità di cambiare le regole sulla cittadinanza».

Ad oggi la norma si basa sullo ius sanguinis, il diritto cioè alla cittadinanza solo se si è figli di almeno un genitore italiano. Un minore di origini straniere può diventare cittadino italiano, ma solo al compimento dei diciotto anni e se ha risieduto in Italia ininterrottamente e continuativamente.
La rivoluzione sotto le due Torri ha il sorriso di Siid Negash che questa storia, come tanti “nuovi italiani” l’ha vissuta sulla pelle. Eritreo, fuggito dalla guerra verso l’Italia nel 1999, ha lavorato per anni come operatore sociale di strada ed ha avviato una miriade di progetti a favore degli stranieri presenti in città; uno fra tutti è legato ai Corridoi universitari che consistono nel rilascio di visti di ingresso per motivi di studio a studenti che siano titolari di protezione internazionale: iniziativa che è stata accolta da decine di atenei e organizzazioni umanitarie in tutta Italia. Negash è stato il più votato nella lista civica del sindaco alle ultime elezioni in autunno, quando dei trentasei consiglieri entrati a palazzo D’Accursio ventiquattro hanno meno di cinquant’anni, sei sono trentenni e quattro ventenni.
«Era un’idea presente già in fase elettorale, dai tempi delle primarie, un chiaro impegno preso nei confronti dei cittadini – racconta Negash -. Io mi sono candidato principalmente con questo fine, deciso ad ogni costo a portarlo a termine e il sindaco Lepore lo ha a sua volta ribadito a più riprese, anche la sera della vittoria alle elezioni. Ci abbiamo lavorato per mesi attraverso un percorso partecipato con le associazioni impegnate sul tema da anni, ascoltando le diverse istanze». I voti favorevoli della maggioranza all’ordine del giorno sono stati 26, mentre Fratelli d’Italia ha giocato prima la carta dell’ostruzionismo con oltre cento ordini del giorno presentati per bloccare la discussione, e poi non ha partecipato al voto, Forza Italia si è astenuta e solo la Lega ha votato contro.
Al momento del…


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