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Stop the war, fermiamo la guerra

Negli occhi abbiamo tutti le immagini dei passeggini vuoti, della manifestazione silenziosa che si è svolta a Leopoli per ricordare i bambini uccisi in questo terribile conflitto. Più di cento bambini hanno perso la vita a causa dell’aggressione russa all’Ucraina.

Non possiamo dimenticare le immagini dell’attacco all’ospedale pediatrico di Mariupol, città fortemente colpita, ormai semi distrutta. La propaganda russa ha sostenuto che fosse un quartier generale del battaglione neonazista Azov di stanza in questa città. Tanti altri obiettivi civili sono stati colpiti come se fossero militari. La popolazione ucraina è stremata, le città assediate e messe alla fame. Impossibile rimanere insensibili al grido di dolore, alla richiesta di aiuto dei civili. In questa forsennata escalation si teme anche che Putin possa usare armi chimiche, come è già accaduto in Siria. Come è accaduto a Grozny, in Cecenia, rasa al suolo con la stessa tecnica usata ad Aleppo.

Da un lato l’agghiacciante show propagandistico allo stadio di Mosca dove Putin, benedetto dal patriarca Kirill, ha inneggiato alla guerra santa e al sacrificio citando la Bibbia, dall’altro il lancio di missili ipersonici che hanno seminato ancora altro terrore in Ucraina. L’imperialismo di Putin, per il quale la rivoluzione russa non è mai esistita, riesuma gli Zar e Stalin, pesca dall’ideologo Dugin, nume tutelare dell’oscurantista Congresso mondiale delle famiglie voluto dalla Lega a Verona nel 2019 e dal filosofo fascista Ivan Ilyin che teorizzava il ruolo della Russia come centro di un vastissimo impero «dove avverrà il ritorno di Dio». Con questa miscela esplosiva Putin nutre la sua guerra che mira a riportare l’Ucraina nella sfera di influenza russa.

Democrazia fragile quella di Kiev, che stava muovendo i primi passi, guidata da un ex comico che proprio questo conflitto ha trasformato in un simbolo della Resistenza. Intanto a causa di «questa guerra voluta da uno solo», come ha detto Zelensky il 22 marzo in video collegamento con il Parlamento italiano i civili ucraini continuano a morire. «Non possiamo voltarci dall’altra parte», ha commentato Draghi. Parole che condividiamo profondamente. Ma poi a Zelensky, che in questa occasione non ha chiesto né l’intervento della Nato, né la No fly zone e nemmeno armi, ma sanzioni al gas russo, embargo navale e sanzioni agli oligarchi di Putin, il nostro presidente del Consiglio ha risposto promettendo l’invio di altri armamenti, in un crescendo interventista.

Ma siamo sicuri che armare ulteriormente l’Ucraina (e innalzare fino al 2 per cento del Pil la spesa militare italiana) sia il modo per fermare questo e altri conflitti? La nostra Costituzione ripudia la guerra come mezzo di risoluzione dei conflitti internazionali, e indica anche la necessità di operare con tutti i mezzi possibili per arrivare a una soluzione pacifica. In Ucraina l’obiettivo primario è un cessate il fuoco immediato. Ciò che conta più di tutto è fermare la strage di civili e soccorrere i profughi. Per questo serve almeno una tregua, servono corridoi umanitari sicuri (non sotto le bombe), occorre finanziare e sostenere le reti di aiuto umanitario. Sono decine e centinaia le persone, attivisti, cooperanti, che ogni giorno rischiano la vita per portare in salvo profughi ucraini, in gran parte donne, bambini. In molti sono partiti anche dall’Italia. Su questo numero abbiamo raccolto alcune loro testimonianze.

Luca Casarini di Mediterranea ha lanciato la proposta provocatoria di una grande marcia della pace a Kiev; azione che se ben costruita e in sicurezza avrebbe un grande significato simbolico. Ma non possono essere certo i volontari a sostituire l’iniziativa dei governi. Quello dei migliori si è precipitato ad aumentare la spesa militare annua, che passa da 25 a 38 miliardi mentre l’Italia stenta a farsi sentire nell’iniziativa umanitaria e diplomatica. Neanche l’Europa fin qui ha giocato un ruolo da protagonista come potrebbe. Perché non si è pensato ad organizzare una conferenza mondiale di pace? Perché non si trova il modo di far intervenire l’Onu? All’orizzonte al momento si prospetta solo l’ambiguo ruolo di mediazione della Turchia.

Un ruolo importante potrebbe svolgerlo la Cina, che, come scrive il sinologo Federico Masini rivendica una lunga tradizione storico culturale di pace (ora nell’ottica di raggiungere l’egemonia economica). Si usi ogni via diplomatica possibile per fermare questa carneficina. La storia umana e l’antropologia insegnano che la guerra non è destino inevitabile, come scrive lo psichiatra Fernando Panzera. Con la violenza e la sopraffazione non si arriva ad alcuna soluzione evolutiva. L’elemento che più ci ha fatto evolvere come specie umana è stata la cooperazione, la socialità, l’esigenza di realizzarci insieme agli altri. Fermiamo questa guerra insensata. Fermiamo la cultura della guerra che la prepara.


L’editoriale è tratto da Left del 25 marzo 2022 

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La variante armata

A dare il la è stata Berlino. Il 27 febbraio il cancelliere socialdemocratico Olaf Scholz ha annunciato di fronte al Bundestag l’innalzamento della spesa militare dall’1,5% al 2% del prodotto interno lordo tedesco e lo stanziamento di 100 miliardi di euro per rafforzare l’esercito. «È chiaro che dobbiamo investire molto di più nella sicurezza del nostro paese, al fine di proteggere la nostra libertà e la nostra democrazia» ha detto Scholz in Parlamento, definendo la nuova guerra in Europa come «una cesura nella storia del continente». Si tratta di una svolta militarista che Angela Merkel in 16 anni di governo non aveva mai voluto fare. Ma per capire come siamo arrivati a questo punto, facciamo un passo indietro. A metà dicembre 2021 rilanciavamo su queste pagine l’appello di oltre 50 premi Nobel e accademici per tagliare la spesa militare mondiale e liberare risorse per sfide globali come «pandemie, cambiamenti climatici e povertà estrema». Sono passati tre mesi, sembrano secoli. L’invasione della Russia in Ucraina iniziata il 24 febbraio scorso ha innescato in tutta Europa una nuova corsa agli armamenti che rischia di ridefinire radicalmente il bilancio dell’Unione e dei Paesi membri, e con essi l’agenda politica dei prossimi anni.

Già perché dopo la Germania si sono mosse Francia, Danimarca e Svezia. Macron punta ad aumentare il budget della difesa a 50 miliardi nel 2025; la premier danese Mette Frederiksen ha dichiarato di voler «rafforzare in modo significativo le forze armate sia a breve che a lungo termine» portando la spesa militare danese dal 1,47% al 2%; il medesimo impegno è stato espresso dalla sua omologa svedese Magdalena Andersson (anche lei come Frederiksen, e Scholz, socialdemocratica). Infine è stata la volta dell’Italia.
Il 16 marzo alla Camera è stato approvato un ordine del giorno collegato al “decreto Ucraina”, che impegna il governo ad incrementare anche la nostra spesa per la difesa fino al 2% del Pil. Il documento è stato proposto dalla Lega (primo firmatario Roberto Paolo Ferrari) e sottoscritto da tutte le forze politiche, tranne Sinistra italiana, ManifestA, Verdi e gli ex grillini di Alternativa. Nel testo si pone come obiettivo la predisposizione di «un sentiero di aumento stabile nel tempo, che garantisca al Paese una capacità di deterrenza e protezione». Come obiettivo più immediato, invece, ci si impegna ad «incrementare alla prima occasione utile il Fondo per le esigenze di difesa nazionale».

Restiamo ai fatti di casa nostra. Occorre notare che lo strumento utilizzato dal Carroccio, l’ordine del giorno, è di fatto uno dei meno incisivi tra quelli a disposizione dei parlamentari e non implica un cambio di rotta immediato. Dal ministero dell’Economia, peraltro, ci si affretta ad escludere che il nuovo impegno economico sul fronte “armamenti” non verrà inserito nel Documento di economia e finanza, il Def, che il governo dovrebbe presentare a stretto giro.
Ad ogni modo, se il governo dovesse dare seguito alle “promesse”, «ciò significherebbe, citando le cifre fornite dal ministro della Difesa Guerini, passare dai circa 25,8 miliardi l’anno attuali (68 milioni al giorno) ad almeno 38 miliardi l’anno (104 milioni al giorno)», come ha spiegato in una nota l’osservatorio sulle spese militari italiane Milex.
Si tratterebbe dunque di una ulteriore svolta militarista, dopo quella che abbiamo denunciato lo scorso dicembre, ricordando…

– Illustrazione di MEO, officinaB5


L’inchiesta prosegue su Left del 25 marzo 2022 

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I Talebani non mantengono le promesse: le donne non vanno a scuola

Afghan girls participate in a lesson at Tajrobawai Girls High School, in Herat, Afghanistan, Thursday, Nov. 25, 2021. Since the chaotic Taliban takeover of Kabul on Aug. 15, an already war-devastated economy once kept alive by international donations alone is now on the verge of collapse. The World Health Organization is warning of millions of children suffering malnutrition, and the U.N. says 97% of Afghans will soon be living below the poverty line. (AP Photo/Petros Giannakouris)

L’avevano ripetuto in molti che fidarsi dei Talebani mentre promettevano un Afghanistan “moderno” nei diritti sarebbe stato un errore enorme. Noi abbiamo fatto perfino di peggio, ce ne siamo proprio dimenticati.

E infatti ieri i talebani hanno bruscamente revocato la loro decisione di consentire la riapertura delle scuole superiori femminili questa settimana, dicendo che rimarranno chiuse fino a quando i funzionari non elaboreranno un piano per la loro riapertura in conformità con la legge islamica. Del resto governare un Paese riferendosi alla presunta parola di un presunto dio comporta sempre questo rischio: ogni interpretazione è legittima.

Così un milione e mezzo di ragazze sopra agli 11 anni vedono soffocato il proprio desiderio di istruirsi, con buona pace anche dell’Occidente che aveva promesso di “non lasciarle mai sole”. In tutta la capitale, Kabul, mercoledì mattina molte ragazze erano arrivate alle scuole superiori entusiaste di tornare nei campus e alcune scuole hanno aperto, almeno per qualche ora. Ma quando si è diffusa la notizia che i talebani avevano invertito la loro decisione, molte se ne sono andati in lacrime.

In questi mesi la comunità internazionale ha fatto dell’educazione delle ragazze una condizione centrale degli aiuti esteri e di ogni futuro riconoscimento dei talebani. Sotto il primo governo talebano, dal 1996 al 2001, il gruppo ha vietato alle donne e alle ragazze la scuola e la maggior parte dei lavori. Vietare di frequentare le scuole secondarie alle ragazze è una scelta che contraddice la linea politica governativa afghana sostenuta in questi mesi, che sembrava mirare agli aiuti e al riconoscimento politico da parte della comunità internazionale: il diritto paritetico all’educazione, per tutti, è infatti uno dei punti dirimenti della trattativa con il regime afgano.

Chissà se torna di moda, l’Afghanistan.

Buon giovedì.

 

Le donne trans intrappolate in Ucraina

Protesters hold a banner and rainbow flags during the Kyiv Trans March in Ukraine's capital Kyiv Saturday, May 22, 2021. (AP Photo/Efrem Lukatsky)

Come racconta il giornalista Lorenzo Tondo su The Guardian alle donne trans in Ucraina viene negato il passaggio in Paesi più sicuri, nonostante il loro status legale di donne e il pericolo rappresentato dalle politiche transfobiche della Russia.

Al The Guardian Judis, una donna transgender il cui certificato di nascita la definisce femmina, racconta che  il 12 marzo verso le 4 del mattino, dopo una lunga e umiliante ricerca, le guardie di frontiera hanno stabilito che fosse un uomo e le hanno impedito il passaggio in Polonia. «Le guardie di frontiera ucraine ti spogliano e ti toccano ovunque», dice Judis. «Puoi vedere sui loro volti che si stanno chiedendo ‘cosa sei?’ come se fossi una specie di animale o qualcosa del genere».

Quando l’Ucraina ha imposto la legge marziale il 24 febbraio, a tutti gli uomini di età compresa tra i 18 ei 60 anni è stato vietato di lasciare il Paese. Da allora, si stima che centinaia di trans ucraini abbiano tentato di attraversare il confine. Al Guardian è stato riferito da attivisti e operatori umanitari che, nonostante il loro status legale di donne, dozzine sono state maltrattate e respinte ai confini, con molte che temono per la propria vita nel caso in cui il regime transfobico della Russia prendesse il sopravvento.

Secondo la International lesbian, gay, bisexual, trans and intersex Association, l’Ucraina è al 39° posto su 49 Paesi europei per il trattamento complessivo delle persone LGBTQ+. I matrimoni gay non sono consentiti nel Paese, la Chiesa cristiano-ortodossa considera l’omosessualità un peccato e non esistono leggi antidiscriminatorie a tutela delle persone LGBTQ+.

Dal 2017, le persone trans in Ucraina sono state legalmente riconosciute, ma devono essere sottoposte a un’ampia osservazione psichiatrica e a un lungo processo burocratico prima che il loro genere possa riflettersi sui documenti formali. Coinvolti in questo complesso processo, migliaia di trans ucraini non avevano alcun documento di identità personale o certificato quando è scoppiata la guerra.

Alice, 24 anni, una donna trans di Brovary, una cittadina vicino a Kiev, ha raccontato un’esperienza simile. Lei e sua moglie, Helen, una 21enne che si identifica come non binaria, sono state fermate dalle guardie di frontiera durante un tentativo di entrare in Polonia. «Ci hanno portato in un edificio vicino al valico di frontiera», racconta Alice. «C’erano tre agenti nella stanza. Ci hanno detto di toglierci le giacche. Ci hanno controllato le mani, le braccia, il collo per vedere se avevo un pomo d’Adamo. Mi hanno toccato il seno. Dopo averci esaminato, le guardie di frontiera ci hanno detto che eravamo uomini. Abbiamo cercato di spiegare la nostra situazione, ma a loro non importava».

Pochi giorni prima dell’invasione, l’ambasciatrice statunitense alle Nazioni Unite, Bathsheba Nell Crocker, ha avvertito in una lettera del piano della Russia di continuare le violazioni dei diritti umani nelle parti dell’Ucraina che già occupa. «Questi atti (uccisioni, rapimenti/sparizioni forzate, detenzioni ingiuste e uso della tortura) prenderebbero probabilmente di mira coloro che si oppongono alle azioni russe, comprese le popolazioni vulnerabili come le minoranze religiose ed etniche e le persone LGBTQI+», ha scritto Crocker.

Salvare tutti, ripetono i leader del mondo in questi giorni. Sì, ma tutti.

Buon mercoledì.

Nella foto: Trans march, Kiev, 22 maggio 2021

Analisi che vale la pena leggere sulla guerra

Mi si perdonerà se oggi decido di mettere questo spazio a disposizione di un’analisi di un giornalista che le guerre le vive per mestiere da anni, non un Giletti qualsiasi affamato di un reality con spari in lontananza ma qualcuno che prova a tenere la barra dritta in questo momento di pericolosa emotività: l’inviato del Tg3 Nico Piro.

Scrive Piro: «#21marzo #Russia #Ucraina #Guerra cominciamo con il bombardamento di oggi a Kyev nelle immagini di un collega della Bild. Non ci vogliono sofisticate indagini per capire che questo è un quartiere residenziale e non un obiettivo militare. Ora di fronte a queste tragiche scene ci sono due possibili reazioni di noi osservatori: 1) condannare attacchi sui civili e spingere per trattative di pace 2) usarle per ricordarci quanto cattivi siano i russi e giustificare l’ampliamento del conflitto. Se fa testo quello che accade dai primi giorni, la voce dominante – anche oggi – sarà quella del Pub (il pensiero unico bellicista) che chiede di fatto un diretto coinvolgimento Nato, quindi una guerra da elevare al cubo. Bisogna precisare che ampliamento del conflitto significherebbe ancora più vittime civili e più distruzione? È scontato ma il Pub lo dimentica fantasticando di una caduta di Putin che un bookmaker serio darebbe 1 a 100. E qui veniamo ad un altro aspetto del conflitto sottaciuto: a mio modesto avviso, è chiaro che gli Usa implicitamente puntano al regime change in Russia, cioè usano la guerra per tentare di liberarsi di Putin. Come si spiegherebbero altrimenti le parole di Biden contro Putin? È un punto di non ritorno. Biden e il “criminale di guerra” come lo ha definito mai più si siederanno allo stesso tavolo. Anche le sanzioni (arma sacrosanta e ben migliore di una guerra) sembrano pensate proprio per mettere contro oligarchi e Putin, far scattare un dissenso popolare e quindi reazioni da epoca Eltsin e assalto alla Casa bianca (di Mosca). Non sta accadendo e difficilmente accadrà. Questo però non aiuta la pace. Vediamo perché.

A mio avviso la soluzione militare in Ucraina non esiste, non c’è possibilità di vittoria per nessuna delle due parti. L’unica soluzione è trattare (e farlo è molto più rischioso per Zelensky che per Putin, al quale basta “poco” per dipingersi da trionfatore). Se non si tratta e non lo si fa subito entro domenica prossima – per azzardare un’ipotesi – il rischio per questo conflitto è di assumere il modello afghano cioè una guerra di guerriglia open-end (senza fine in vista) con un colosso militare che mai (pur raddoppiando i suoi 200mila uomini) potrà controllare un Paese con 40mil di abitanti ostili e armati, e con una avversario (l’invaso) che mai potrà bilanciare la forza militare dell’avversario ma può imporgli un pedaggio altissimo di caduti, equipaggiamento distrutto, soldi spesi. In pratica una situazione in cui nessuno dei due può vincere mentre a perdere sarebbero cmq i civili ucraini. Quando il Pub spinge per ampliamento del conflitto dimentica questo che è lo scenario più probabile. Tra l’altro sarebbe ora di ammettere che nei primi giorni del conflitto sono state fatte analisi che si sono rivelate delle balle finite (sicuramente in buona fede) a convincere l’opinione pubblica che la partita bellica si sarebbe chiusa rapidissimamente di fronte al disorganizzato esercito guidato da un pazzo che maltratta in pubblico persino il capo dei suoi servizi segreti. Decidendo di mandare armi in Ucraina (non bastavano quelle Uk e Usa?) l’Europa si è fatta fuori dal ruolo di possibile mediatore. Resta la Turchia ma 1) Erdogan non è meglio di Putin 2) ha bisogno di rifarsi l’immagine più che del successo nel mettere d’accordo Russia e Ucraina. Ormai credo che l’unico Paese che possa effettivamente mediare tra le parti mettendo (con le quali ha profondi rapporti) sia Israele il quale ha però evidentemente bisogno di una forte investitura Usa che per ora tifano guerra. 

A questo punto del thread spunterà qualcuno (al netto dei troll) che esibisce i danni culturali prodotti dal Pub e denuncia la “richiesta di resa” ai danni dell’Ucraina. È un’identificazione ontologica e lessicale di trattativa con resa. Lo trovo tragico ma do atto agli opinionisti con l’elmetto di essere riusciti in un’opera tutta in salita: dopo 20 anni di guerra-fallimento in Afghanistan, di nuovo c’è chi considera la guerra come uno strumento utile. Siamo tornati al clima post 11/9. Fa paura. Passiamo a Mariupol dove si sta consumando quanto atteso: si va casa per casa. Russi e separatisti continuano a bombardare indiscriminatamente ma credo che la verità su Mariupol emergerà solo tra (molto?) tempo. Intendo la parte di responsabilità portata dai neonazisti (dichiarati) del Reggimento Operazioni Speciali Azov noti per crudeltà e spregiudicatezza in otto anni di conflitto in Donbass. Tra l’altro ho l’impressione (potrei sbagliarmi) che Zelensky nel rifiutare la resa richiesta dai russi per stamane (pur sapendo che la sconfitta è sicura, che su 1/2 milione di abitanti la quota di civili morti è destinata così a crescere) ha mollato Azov al suo destino e quindi allo sterminio. Come dico dai primi giorni Mariupol ha un valore strategico enorme (corridoio di terra tra Rostov e Crimea, controllo mar d’Azov) ma anche simbolico. Se Putin (sbagliando) definisce l’Ucraina un Paese da denazificare, è evidente che vuole foto delle sue truppe nel comando di Azov come fu per i marines nei palazzi di Saddam. Sta di fatto che tra le reciproche accuse in quasi 3 settimane di assedio non si è riusciti ad evacuare Mariupol e la città è in macerie per il 40%. Folle».

In mezzo a tanti superficiali sconsiderati vale la pena regalarsi l’opportunità di leggere un’analisi così. Comunque la si pensi. Grazie, Nico.

Buon martedì.

Aytugan Sharipov e quanto costa chiedere la pace in Russia

Tutto il mondo ha saputo dell’arresto di Marina Ovsyannikova, la giornalista russa che ha interrotto un programma televisivo con un cartello contro la guerra che denunciava la propaganda del Cremlino propinata ai telespettatori. Il giudice l’ha condannata per protesta non autorizzata e gli occhi del mondo hanno probabilmente evitato reazioni peggiori.

Ovd Info, sito indipendente russo che diffonde informazioni e assicura assistenza legale a chi si oppone alla guerra, Mediazona e Doxa stanno pubblicando informazioni sui procedimenti amministrativi avviati contro persone che hanno espresso dichiarazioni contro la guerra sui social network. In base alla nuova legge “sui falsi e sul discredito dell’esercito” sono decine le testimonianza di multe e arresti.

Come racconta il sito azionenonviolenta.it «dall’Università Pediatrica di San Pietroburgo giungono notizie di espulsioni e arresti verso studenti che hanno partecipato a manifestazioni di protesta contro la guerra. Tre giovani del sesto anno, di cui uno disabile, già arrestati e multati nel corso di manifestazioni, ora sono stati espulsi. Una ragazza è stata convocata dall’amministrazione dell’università. Le hanno chiesto a quale scopo si trovava nel centro di San Pietroburgo, da quale ideologia era guidata e chi animava le proteste. L’ateneo ha anche minacciato di licenziare gli insegnanti che hanno firmato le lettere contro la guerra. Il 3 marzo presso la stessa Università si è tenuto un incontro a sostegno di Vladimir Putin con la partecipazione di medici che hanno lavorato nelle autoproclamate repubbliche popolari di Donetsk (Dpr) e Lugansk (Lpr), nel Donbass. È stata discussa una risoluzione di tre punti approvata all’unanimità: “Siamo sicuri che il fascismo non esisterà più in Ucraina. Lunga vita al Presidente della Russia! Viva le forze armate russe, i difensori della nostra Patria!”».

Ma le notizie più drammatiche riguardano Aytugan Sharipov, un attivista ambientale della città di Ufa. Come racconta Azione non violenta il 24 febbraio scorso è stato fermato durante un picchetto contro la guerra e in seguito rilasciato dal dipartimento di polizia. Il quotidiano russo Kommersant riporta che il 2 marzo Sharipov è stato nuovamente arrestato e trattenuto per una notte. La mattina dopo è stato portato in tribunale, dove ha affermato che alcuni ufficiali dell’Fsb (Servizio federale per la sicurezza della Federazione russa) e membri del Sobr (squadra speciale per il controllo dell’ordine pubblico), guidati dall’ufficiale senior Roman Mozgovoy, erano andati a casa sua ancor prima del secondo arresto, per condurre una perquisizione. Sarebbero stati insospettiti da presunti commenti contro la guerra espressi dall’attivista su WhatsApp; secondo le forze di sicurezza, quei commenti insultavano l’esercito russo e indicavano la cooperazione di Sharipov con i servizi segreti ucraini.
Sharipov, dopo la perquisizione, sarebbe stato portato nell’edificio dell’Fsb, dove per circa otto ore sarebbe stato interrogato, picchiato e torturato con scosse elettriche attaccandogli elettrodi al mignolo del piede sinistro. Ha riferito che in quel momento era ammanettato e aveva la testa e gli occhi avvolti con nastro adesivo.
«Quando ho iniziato a urlare, mi hanno messo in bocca un pezzo di carta arrotolato e mi hanno detto che era per il mio bene, così non mi sarei morso la lingua. Diverse volte ho perso conoscenza, mi hanno somministrato l’ammoniaca e hanno aumentato la corrente», ha detto Sharipov. Nel frattempo le forze di sicurezza lo avrebbero insultato come “traditore nazionale” e “banderista”.
In seguito si sarebbero offerti di registrare un video in cui Sharipov avrebbe dovuto scusarsi con l’esercito russo, ma quando ha rifiutato, ne hanno registrato un altro in cui si rifiuta di rispondere alla domanda: «Hai pubblicato dei commenti su un gruppo WhatsApp in merito al contingente militare russo in Ucraina?». Quindi Sharipov sarebbe stato messo su un autobus, dove avrebbero continuato a picchiarlo. Successivamente sarebbe stato ributtato in strada, e poi arrestato dalla polizia. Il video dell’interrogatorio e gli screenshot dei commenti offensivi sull’esercito russo scritti da Sharipov sono stati successivamente pubblicati su canali anonimi di Telegram.
Al processo Sharipov ha mostrato i polsi segnati dalle manette e si è detto pronto a «spogliarsi e mostrare i segni delle percosse». Inoltre, non riusciva a reggersi sulla gamba sinistra. L’attivista ha affermato di non avere rivendicazioni contro gli agenti di polizia, dal momento che «non lo hanno picchiato e hanno chiamato un’ambulanza alla stazione di polizia, il cui paramedico ha registrato le percosse». Il padre di Sharipov ha confermato la perquisizione e ha anche detto che suo figlio lo aveva chiamato dalla stazione di polizia e gli aveva raccontato delle torture.
La polizia ha detto di aver fermato Sharipov per il suo aspetto sospetto e il suo linguaggio scurrile. Il tribunale lo ha condannato a dieci giorni di arresto in base all’articolo sul teppismo minore (parte 1, articolo 20.1 del codice dei reati amministrativi della Federazione Russa), motivando la decisione con la «personalità di Sharipov» e il fatto che la violazione «ha invaso l’ordine pubblico e la sicurezza».

Piccole storie di coraggio guardando dritto negli occhi gli uomini di Putin.

Buon lunedì.

La cultura non è il problema ma la soluzione

St Petersburg, Russia Palace Square and the State Hermitage Museum. | usage worldwide Photo by: Alexander Farnsworth/picture-alliance/dpa/AP Images

Nel discorso pubblico di questi giorni assurdi e terribili tornano più volte non pochi paragoni con la situazione europea del 1939 e soprattutto del 1914. Il riferimento ai primi passi della Grande guerra sembra purtroppo calzante anche in ragione delle sorti del patrimonio culturale. Come mai prima di allora, i monumenti si scoprirono subito fragili. Il bombardamento della Cattedrale di Reims a poche settimane dall’inizio delle ostilità evidenziò la vulnerabilità di un patrimonio che richiedeva attenzioni speciali; la dolorosità di ferite che potevano risultare in un certo senso più devastanti delle perdite di vite umane, quando ad essere colpiti erano i simboli identitari stessi di una nazione; e ancora, e forse soprattutto, la neutralità solo relativa del patrimonio culturale, che suo malgrado finiva per essere arruolato come le truppe combattenti, e brandito dalla propaganda come arma spesso impropria. Le macerie di Reims servirono tanto alla propaganda francese, che accusò il nemico di barbarie intenzionale, quanto a quella tedesca, che rinfacciò ai francesi di aver strumentalizzato quel che non erano stati capaci di proteggere. In Italia un intellettuale di punta come Ugo Ojetti curò la pubblicazione di un notevole libro fotografico (I monumenti italiani e la guerra, Milano 1917) che voleva dimostrare come erano stati disumani gli austriaci nel colpire le nostre opere d’arte e come erano stati bravi gli italiani nel difenderle.

Fanno tenerezza le immagini commoventi giunte nei giorni scorsi da Leopoli – il crocifisso ligneo deposto dal suo altare, le statue pubbliche impacchettate alla meno peggio – anche perché queste misure sono condizionate dai mezzi a disposizione e dalla frenesia del momento: e per proteggersi dalle bombe ci vuol altro che teli di plastica. Ma sono frutto di una cultura internazionale della conservazione che mira a proteggere le opere d’arte nella ferma convinzione che siano l’espressione più alta di ogni civiltà, e dunque il perno di ogni ricostruzione. Alla vigilia della seconda guerra mondiale, Giuseppe Bottai sosteneva che un popolo disposto ad affrontare una guerra deve farlo con tutte le risorse che ha, comprese quelle culturali. Nel senso che un popolo che non si preoccupa di proteggere la propria arte come se proteggesse le cose più care – terra, casa, famiglia, affetti – non avrebbe mai potuto sperare di uscirne. Le notizie dal fronte di oggi sono incerte e confuse. Le opere dei musei di Kyiv sono state poste in sicurezza, e per ora nessuna delle grandi chiese del centro propulsivo della civiltà russa medievale è stata colpita. Non altrettanto bene è…


L’articolo prosegue su Left del 18-24 marzo 2022 

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Matite cilene contro il climate change

«Ragazzo indio, se sei stanco,/ tu ti stendi sulla Terra,/ e lo stesso se sei felice,/ figlio mio, gioca con lei…/ Ruota e ruota, si odono i fiumi/ in cascate che non si contano./ Si odono muggire gli animali;/ Si ode l’ascia mangiare la giungla./ Si odono suonare telai indio./ Si sentono cambi, si odono feste».

Inizia così la poesia “La Tierra”, che Gabriela Mistral incluse in Ternura. Canciones para niños (1924, 1945), un libro che contiene la preoccupazione dell’autrice Premio Nobel cilena per i bambini. Quella terra della quale parla Mistral, la Terra, sta vivendo una crisi climatica e ambientale senza precedenti.
L’umanità ha preso coscienza di questa problematica e sono emerse sempre più iniziative sovranazionali, statali e cittadine per porre rimedio ai danni già generati e per avanzare verso un modo sostenibile di abitare la Terra. In Cile, ad esempio, la redazione della nuova Costituzione, iniziata il 4 luglio 2021, si sta svolgendo con una forte coscienza ambientale. Nell’ottobre 2021, 137 dei 155 costituenti hanno approvato di «riconoscere che la nuova Costituzione è scritta in un contesto di emergenza climatica ed ecologica, per cui deve tenere presente, in tutte le commissioni e proposte che elabora, le garanzie di educazione ambientale, prevenzione, precauzione, non regressione, mitigazione, adattamento e trasformazione per affrontare la crisi climatica e degli ecosistemi».

Sulla stessa linea, il presidente Gabriel Boric ha dichiarato durante la sua campagna che spera che il suo sia «il primo governo ecologista nella storia del Cile». In particolare, propone di affrontare il cambiamento climatico sulla base di una «strategia di adattamento trasformativa alla crisi climatica, a medio-lungo termine e incentrata sulle regioni» che cercherà di affrontare la carenza idrica e di cambiare il modo in cui le acque sono gestite, ridurre le emissioni di gas a effetto serra e progredire verso la neutralità del paese dal carbone, insieme ad altre misure di protezione degli ecosistemi presenti sul territorio e ad altre iniziative.

«Tutto prende, tutto sopporta/ il dorso santo della Terra:/ quello che cammina, quello che dorme,/ ciò che si diverte e ciò che pena;/ e porta i vivi e porta i morti/ il tamburo indio della Terra».

Continua così la poesia di Gabriela Mistral. La cultura e le arti non sono estranee agli interessi, alle sfide e ai conflitti delle società e, come ha scritto la poetessa circa un secolo fa sulla natura, oggi la letteratura per bambini e ragazzi affronta temi come la crisi climatica e, in tal modo, apporta alla riflessione e alla formazione di…


L’articolo prosegue su Left del 18-24 marzo 2022 

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Gli irresponsabili

Dobbiamo partire dalle sofferenze di un popolo che si è visto da un giorno all’altro invaso e bombardato da una potenza straniera. Guai a noi se minimizzassimo il dramma di migliaia di profughi, di un imprecisato numero di vittime civili. Restiamo umani, diceva Vittorio Arrigoni. È il momento di riflettere sulla misura della nostra umanità, ma superando una pur giustificata emotività e giudicando il dramma che si sta compiendo con la ragione della solidarietà e dell’intelligenza. Una ragione che tanto dobbiamo mettere a valore per l’Ucraina quanto non sempre è stata messa a valore in passato: in Libia, in Iraq, in Afghanistan, a Belgrado. È frutto della ragione mettere al primo posto i diritti umani, a cominciare dal diritto alla vita, ma è sonno della ragione immaginare una umanità in gerarchia, ove i diritti umani di alcuni valgono meno dei diritti umani di altri.

L’invasione, che non ci stancheremo mai di condannare, sta avendo ripercussioni violentissime nel dibattito pubblico: la quasi totalità dei media e della politica sembra aver rinunciato sia ad una analisi razionale di questa guerra, dei suoi prodromi e dei suoi scenari, sia ad una visione che conduca alla cessazione più rapida possibile delle ostilità e a una composizione del conflitto attraverso l’unico modo possibile, e cioè il negoziato e la trattativa. In questo deforme dibattito non c’è altro orizzonte mediatico e politico oltre quello delle armi, contestuale al susseguirsi di azioni e controreazioni, di occhio per occhio, che possono portare ad un allargamento del conflitto o, peggio, a una conflagrazione mondiale. Nonostante tutto, però, gli unici sondaggi a disposizione danno la maggioranza degli italiani per una composizione pacifica e contro l’invio di armi in Ucraina. La prima cosa da fare perciò è provare a sanificare questo dibattito espellendo dal lessico quotidiano la categoria delle accuse reciproche, della demonizzazione e della caricatura delle posizioni dell’altro e cercando sempre di cogliere il nocciolo di ragione che c’è in tutte le posizioni.
C’è già una larga opinione pubblica che desidera una composizione pacifica e urgente del conflitto. C’è poi un grande movimento per la pace, che è emerso dal suo consueto scorrere carsico e si è presentato nelle piazze di tutta l’Italia con centinaia di migliaia di persone. Si sono espresse nella stessa direzione singole personalità autorevoli del mondo della diplomazia, della cultura, della comunicazione. E l’Anpi c’è ovviamente, dentro la sua lunga storia di associazione che…

L’autore: Gianfranco Pagliarulo è presidente dell’Associazione nazionale partigiani d’Italia (Anpi) 

L’immagine è un particolare di un’illustrazione di Carolina Calabresi per Left


L’articolo prosegue su Left del 18-24 marzo 2022 

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Cyberwar, la resistenza corre su internet

Hacker in data security concept. Hacker using laptop. Hacking the Internet. Cyber attack.

La guerra in Ucraina ha aperto una stagione nuova nella storia europea e mondiale. Come è ormai scontato, le azioni militari sul campo fisico sono accompagnate da azioni e controazioni sul campo digitale. Le forze armate si muovono sul campo attraverso la gestione di una massa di informazioni gigantesca e le azioni di intelligence, ormai, si avvalgono di analisi dei comportamenti individuali sui social, sulle chat e, più in generale, sul web. Si chiama Osint (da open source intelligence) e basa la sua capacità di estrarre informazioni dalle cosiddette “fonti aperte”, le comunicazioni liberamente disponibili per essere estratte dalle utenze della rete. Tutto ciò che noi produciamo o che viene digitalizzato, infatti, è “setacciato” con applicativi in grado di filtrare la ricerca, così da soddisfare il bisogno informativo espresso attraverso quello che viene chiamato intelligence requirement. Mai come in guerra si comprende che il mondo è sempre più ibrido e che la guerra cibernetica è materiale tanto quanto quella tradizionale.

In questo scenario, Anonymous, il movimento globale di attivisti hacker nato nel 2003, ha immediatamente preso posizione lanciando una serie di attacchi contro i siti governativi russi e alcuni mass media presenti sul web. La campagna ha preso il nome di #OpRussia. Secondo un attivista, «l’obiettivo principale di #OpRussia è smontare la macchina propagandistica di Putin e dare al popolo russo l’accesso a media veritieri e imparziali. Questo è lo scopo su cui la community Yac (@YourAnonCentral) lavora da anni. I bersagli principali sono i siti di propaganda russi, i siti del governo e le sue reti di bot. Abbiamo già avuto un grande successo in tutti e tre i settori, anche se siamo stati presi di mira massicciamente dai bot russi e dalla disinformazione su tutte le forme di social media». L’attacco, partito il giorno dopo l’inizio delle azioni militari, è rimbalzato rapidamente attraverso numerosi canali Twitter con migliaia di condivisioni. Una delle azioni ha portato al recupero di un file con 118 account di posta elettronica e relative password, che rispondono ai domini gov.ru e mil.ru, riconducibili a sistemi istituzionali di Mosca. Nei confronti dei mass media si sono generate azioni miranti alla sostituzioni della programmazione con dei messaggi o attraverso la possibilità di oscurarne le trasmissioni come, tra gli altri, il sito ufficiale di Russia today. Sui siti dei mass media Anonymous ha sostituito la homepage con la scritta: “Putin ci costringe a mentire”. Il 2 marzo Anonymous ha dichiarato di aver hackerato il…

L’autore: Sergio Bellucci è giornalista, saggista, scrittore ed esperto nei processi di trasformazione digitale. Bellucci firma la newsletter di Left Programmare l’imprevedibileInfo e iscrizione qui 


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