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Dubai, dietro la maschera dell’oasi dorata

Gli occhi del mondo sono abbagliati dalle luci dell’Expo2020, che stanno attirando milioni di visitatori in quel di Dubai, paradiso perduto tra dune di contraddizioni. Ospitata per la prima volta nella storia delle esposizioni universali in un Paese arabo, l’Expo è in corso da ottobre 2021 e leverà le tende il 31 marzo. Gli Emirati Arabi Uniti si sono aggiudicati nel 2013 l’onore di ospitare tale evento di portata mondiale che, posticipato di un anno a causa della pandemia, è ricaduto in concomitanza al cinquantesimo anniversario della nascita del giovane Stato mediorientale (2 dicembre 1971). Eventi come l’Expo permettono agli Emirati di esercitare il loro soft power, mostrandosi al grande pubblico come una nazione moderna e tollerante e facendo distogliere lo sguardo dalle ripetute violazioni dei diritti umani.

Da tempo, infatti, lo Stato del “tutto è possibile” viene accusato di non rispettare i diritti umani sia da organizzazioni umanitarie internazionali che da attivisti locali, come l’emiratino Ahmed Mansoor, che sta scontando dal 2017 una condanna di 10 anni di carcere per aver svolto la sua attività in difesa dei diritti umani attraverso i social media. In molti si sono espressi, attivisti e organizzazioni della società civile, per richiedere il rilascio di Mansoor e di tutti i difensori dei diritti umani. È dell’inizio di gennaio un comunicato di Human rights watch (Hrw) e del Centro del Golfo per i diritti umani (Gchr) in cui si lancia l’allarme sullo stato di isolamento a cui sarebbe costretto il prigioniero, privato anche di cure mediche.

Tuttavia, molti altri, turisti e investitori ad esempio, hanno già da tempo scelto di…


L’inchiesta prosegue su Left del 21-27 gennaio 2022 

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«Ho già venduto le mie figlie, ora il mio rene»

Aziz Gul, second from right, and her 10-year-old daughter Qandi, center, sit outside their home with other family members, near Herat, Afghanistan. Dec. 16, 2021. Qandi's father sold her into marriage without telling his wife, Aziz, taking a down-payment so he could feed his family of five children. Without that money, he told her, they would all starve. He had to sacrifice one to save the rest. (AP Photo/Mstyslav Chernov)

Poiché dalle nostre parti i giornali stranieri si leggono solo quando parlano di noi (e soprattutto se parlano bene di mister Draghi) vale la pena recuperare un articolo del The Guardian, a firma di M Mursal e Zahra Nader, che racconta le vicissitudini della famiglia afghana Rahmati che vive in una capanna di fango con un tetto di plastica in uno dei bassifondi della città di Herat.

La temperatura anche da quelle parti sta scendendo sotto lo zero e Delaram Rahmati lotta quotidianamente per dare da mangiare ai suoi figli. La siccità ha reso il loro villaggio invivibile e i terreni impraticabili. Non c’è lavoro. Ma la 50enne Delaram ha le spese ospedaliere per pagare due dei suoi figli, uno dei quali è paralizzato e l’altro che ha una malattia mentale, oltre alle medicine per il marito.

«Sono stata costretta a vendere due delle mie figlie, una di otto e sei anni», racconta. Rahmati dice di aver venduto le sue figlie alcuni mesi fa per 100mila afgani ciascuna a famiglie che non conosce. Le sue figlie rimarranno con lei fino al raggiungimento della pubertà e poi saranno consegnate a estranei. Non è raro in Afghanistan organizzare la vendita di una figlia in un futuro matrimonio, ma crescerla a casa fino al momento della sua partenza. La carestia in atto però sta provocando un abbassamento dell’età in cui i bambini vengono venduti.

Vendere le figlie però non le è bastato e così Delaram Rahmati è stata costretta a vendere un proprio rene per racimolare un po’ di denaro. Il commercio di reni in Afghanistan è in crescita da tempo. Ma da quando i talebani hanno preso il potere, il prezzo e le condizioni in cui avviene il commercio illegale di organi sono cambiati. Il prezzo di un rene, che una volta variava da $ 3.500 a $ 4.000, è sceso a meno di $ 1.500 . Ma il numero dei volontari continua a crescere. Rahmati ha venduto il suo rene destro per 150mila afgani ma la sua guarigione dall’operazione non è stata buona e ora, come suo marito, anche lei è malata, senza soldi per farsi visitare da un medico.

«Sono passati mesi dall’ultima volta che abbiamo mangiato il riso. Difficilmente troviamo pane e tè. Tre sere a settimana non possiamo permetterci di cenare», racconta Salahuddin Taheri, che vive nello stesso quartiere della famiglia Rahmati. Taheri, un 27enne padre di quattro figli, raccoglie abbastanza soldi per cinque pagnotte di pane ogni giorno raccogliendo e vendendo rifiuti riciclati ma sta cercando un acquirente per il suo rene. «Sono molti giorni che chiedo agli ospedali privati ​​di Herat se hanno bisogno di reni. Ho anche detto loro che se ne hanno bisogno urgente, posso venderlo al di sotto del prezzo di mercato, ma non ho avuto risposta», dice Taheri. «Ho bisogno di sfamare i miei figli, non ho altra scelta».

Cercare un rene a buon mercato nelle zone più povere di Herat è ormai una pratica comune, benché illegale, nell’Afghanistan che secondo l’Onu, sta «vivendo la peggiore crisi umanitaria della sua storia contemporanea». La siccità, il Covid-19 e le sanzioni economiche imposte dopo la presa del potere dei talebani nell’agosto 2021 hanno avuto conseguenze catastrofiche sull’economia. I drammatici aumenti dell’inflazione hanno portato all’impennata dei prezzi dei generi alimentari. La fame nel Paese ha raggiunto livelli davvero senza precedenti. Quasi 23 milioni di persone, ovvero il 55% della popolazione, stanno affrontando livelli estremi di fame e quasi 9 milioni di loro sono a rischio di carestia.

Buon martedì.

Nella foto: Una famiglia fuori della propria casa. Una delle ragazze è stata venduta dal padre per sfamare i suoi cinque figli, Herat, 16 dicembre 2021


Per approfondire, Left del 24 dicembre 2021

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La “tagliola Spid” e il diritto di cittadinanza

Salerno, Italy. 1st April, 2016. 545 refugees intercepted a few kilometers from the coast of Pozzallo in Sicily landed by Norwegian ship "Stavanger" in Salerno, waiting to be registered and transferred to welcome centers in Campania. Photo Credit: Ivan Romano/Sintesi/Alamy Live News

Come fa uno straniero a diventare italiano? Il dibattito politico ci ha abituato ad usare bizzarre formule latine, e così tutti sappiamo che esistono lo ius sanguinis e lo ius soli: nel primo caso, è italiano chi è figlio di genitori italiani, mentre nel secondo ottiene la nazionalità chi nasce sul suolo italico. Il problema è che queste due formule ci dicono ben poco sui meccanismi più diffusi di acquisizione della cittadinanza.

Secondo una ricerca di Salvatore Strozza, Cinzia Conti ed Enrico Tucci (Nuovi cittadini, Il Mulino 2021), il 60% degli stranieri divenuti italiani ha ottenuto la nazionalità con meccanismi che non hanno nulla a che fare con queste formulette: si tratta infatti di persone che hanno presentato domanda di “naturalizzazione”, cioè hanno chiesto la cittadinanza o perché erano coniugi di cittadini italiani, o perché erano residenti sul territorio nazionale da almeno dieci anni. Ecco uno strano paradosso: la politica discute da anni di cittadinanza, ma il principale meccanismo con cui si diventa italiani non è quasi mai oggetto di dibattito.

Una cittadinanza «discrezionale»
Eppure, ci sono oggi decine di migliaia di immigrati stranieri che hanno chiesto o stanno chiedendo la naturalizzazione, e che per districarsi nel labirinto burocratico delle relative procedure mobilitano avvocati, sportelli legali, uffici sindacali e commercialisti. E, sul versante opposto, ci sono centinaia di funzionari – nelle prefetture e al ministero dell’Interno – che valutano le domande, e decidono se…


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Due, tre cose sul Presidente

Un pessimo Parlamento non poteva che mostrarci un pessimo avvicinamento all’elezione del presidente della Repubblica. Lo spettacolo era talmente prevedibile che avremmo potuto scriverne la sceneggiatura già da mesi e quando si tratta di non rischiare di smentire la propria mediocrità lo schieramento parlamentare riesce sempre a essere campione.

Così sono passati giorni assistendo alla monopolizzazione del dibattito da parte di Berlusconi, uno che di monopolii se ne intende per vocazione, uno che aspira nella vita a cacciare tutto il cacciabile (che siano donne, influenze giudiziarie, senatori per fare cadere governi, giudici per condizionare sentenze, protezioni mafiose) come se fosse roba potabile. Per aggiungere un tocco di farsa alla tragicommedia abbiamo avuto anche Vittorio Sgarbi nel ruolo di procacciatore per conto del Cavaliere.

Berlusconi si ritira ma nella sua lettera di commiato alle proprie ispirazioni chiarisce di non volere Draghi, non è roba da poco: il predestinato rischia di non arrivare a destinazione e qualcuno riesce addirittura in queste ore a scrivere seriamente che senza Draghi saremo invasi dalle cavallette. Un Paese che sia impiccato su un presidente del Consiglio che dovrebbe diventare presidente della Repubblica per rispettare una cambiale (non si sa firmata esattamente da chi) e che dovrebbe nominare il suo successore che dovrebbe essere il suo sicario senza troppo farsi notare è una stortura che molti vedono dirigibile. Beati loro. Sfortunati noi.

Era prevedibile anche una certa ignoranza istituzionale: il presidente della Repubblica non è una bandierina da piantare per potersela rivendicare ma fino a poche ore prima dell’inizio delle votazioni l’immaturità dei partiti sembra non averlo capito. Così si leggono in giro nomi di politici (più o meno di valore) che nella vita sono stati “di rottura”. Evidentemente ai più sfugge che un Presidente debba essere una figura autorevole e riconosciuta da tutti, abile nelle mediazioni, capace di “tenere insieme” il Paese. Se abbiamo un nostro Presidente “preferito” perché è stato bravo ad affossare l’avversario probabilmente non ha le caratteristiche per diventare Presidente. Sarebbe ora di diventare adulti.

Sfugge a molti anche che il Parlamento sia in maggioranza di centrodestra, altrimenti non sarebbe caduto il secondo governo Conte. Anche fare i conti con la realtà aiuterebbe l’ecologia del dibattito. Siamo una repubblica parlamentare, piaccia o meno, e il Parlamento dei Ciampolillo, degli Sgarbi, dei Renzi, dei transfughi, di Lega e Fratelli d’Italia che guidano la maggioranza nelle Camere, è chiamato a eleggere un Presidente. Confidiamo nel miracolo.

Di sicuro c’è che ancora una volta assistiamo sotto mentite spoglie all’unico esercizio prioritario di questi partiti: provare a garantirsi l’autopreservazione. Iniziamo la conta.

Buon lunedì.

Jorit: L’immaginario collettivo viaggia sui muri

Alessandro Pone - Lapresse Napoli 06 giugno 2020 Cronaca Napoli, quartiere Barra, un murale con 5 volti: Lenin, Martin Luther King, Floyd, Malcom X e Angela Davis. Lo street artist italo olandese Jorit per la prima volta ritrae 5 personaggi in un'unica opera, realizzata su un edficio del rione Bisignano per rendere omaggio a George Floyd ucciso dalla polizia a Minneapolis. Alessandro Pone - Lapresse Naples 06 june 2020 news Naples, Barra district, a mural with 5 faces: Lenin, Martin Luther King, Floyd, Malcom X and Angela Davis. The Italian Dutch street artist Jorit for the first time portrays 5 characters in a single work, made on a building in the Bisignano district to pay homage to George Floyd killed by the police in Minneapolis.

A Spaccanapoli, tra i palazzi di tufo e di cemento raschiato, su un muro c’è il volto di un giovane dai tratti ben definiti (le labbra carnose, i capelli e gli occhi marroni e la pelle non troppo chiara), con le guance segnate da due graffi rossi e lo sguardo rivolto verso i tetti dei palazzi. Non solo il Gennaro popolare a Napoli: Jorit Agoch ha dipinto personaggi come Mandela, Pasolini, Gramsci, Ilaria Cucchi, Luana D’Orazio (la ragazza vittima sul lavoro), Angela Davis, Pablo Neruda in Cile, Jurij Gagarin in Russia, Santiago Maldonado in Argentina, ma anche volti immaginari come la bambina Ael dipinta su un grande muro di Scampia. «Voglio rappresentare lo spirito di una collettività universale e, attraverso le mie opere, creare un immaginario», dice l’artista.

Jorit, la sua attività artistica è sempre stata accompagnata dall’attivismo sociale. Nel tempo, che tipo di evoluzione creativa e politica c’è stata?
Ho iniziato come autodidatta. Ho frequentato l’Accademia, ma il mio professore non dipingeva e non ci ha mai fatto prendere un pennello in mano. Ho perciò imparato per strada e nel corso degli anni c’è stata un’evoluzione, per me incredibile e inaspettata, che è andata dalla realizzazione delle semplici tag (i graffiti che rappresentano le firme dei writer ndr) al dipingere le facciate dei palazzi e poi dei grattacieli. Queste trasformazioni mi hanno fatto capire che più si cresce e più si può penetrare il mondo e avere voce. E adesso vorrei sempre più contribuire a sensibilizzare le persone sulla necessità di avere un pensiero critico.

L’arte come può essere veicolo di rivendicazione dei diritti fondamentali?
Faccio sempre l’esempio di Picasso con Guernica che è un’opera di denuncia sociale, rivoluzionaria. Gli artisti che non si interessano alla realtà, che non entrano nelle contraddizioni del presente, che non si schierano, secondo me non sono veri artisti. Possono essere pittori, decoratori ma nient’altro.

Nelle sue opere i volti sono segnati da due graffi rossi sulle guance. E lei raffigura i personaggi parlando dell’appartenenza alla “tribù umana”. Cosa significa?
Da ragazzino facevo molto volontariato. Avevo il bisogno di portare il mio contributo nei Paesi dove la vita è ancora più difficile rispetto che all’Italia. Sono stato spesso in Tanzania, in Kenya, anche per lunghi periodi. In questi luoghi vedevo i ragazzini con dei tagli sul volto, a volte anche molto profondi. Per loro erano un segno di appartenenza alla loro tribù d’origine che li avrebbe legati per sempre al loro popolo. Mi ha affascinato così tanto questo concetto di…


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Noreena Hertz: La fabbrica della solitudine

Aerial view and top view with blur man with smartphone is walking in business area with pedestrian street and red and yellow block walkway

In questi mesi, abbiamo imparato a convivere con una strana compagna, la solitudine. La pandemia ci ha costretti a isolarci fisicamente da chi ci circonda, a intuire nell’altro una minaccia. Ci ha obbligati a fare i conti con il tempo, così radicalmente mutato; e, rinchiusi in casa, a condividere spazi ristretti, senza che questo riducesse il nostro senso di solitudine, anzi. Noreena Hertz, economista e direttrice del Centre for international business and management dell’Università di Cambridge, avverte nel suo Il secolo della solitudine (il Saggiatore): la pandemia ha potenziato una solitudine che, tuttavia, ha radici ben più profonde e più remote. Soprattutto, con la pandemia ci siamo resi conto che «la solitudine non è solo un problema individuale, ma anche una questione sociale, politica, economica». La solitudine non è la sola disconnessione da coloro con cui dovremmo sentirci intimi: essa «riguarda anche il non sentirsi sostenuti e curati dai nostri concittadini, dai nostri datori di lavoro, dalla comunità, e soffrire l’esclusione politica ed economica da parte delle istituzioni».

Noreena Hertz, viviamo in una società in cui la tecnologia ci permette di connetterci con ogni parte del mondo. Perché il digitale non mantiene ciò che promette, ma provoca l’atrofia delle competenze relazionali?
Ci sono tre modi diversi in cui le tecnologie ci stanno rendendo meno connessi. Il primo è quello dei social media, venduti come un modo per socializzare mentre la realtà rivela l’opposto. Le nostre interazioni sui social media sono meno profonde, meno empatiche. I social media sono dei fast-food della relazione, dove ci si strafoga senza che questo generi un vero benessere. Queste piattaforme poi sono esplicitamente progettate per creare dipendenza, per indebolire le interazioni faccia a faccia. Inoltre, i social media spesso fungono da vettori di esclusione: ho intervistato molti adolescenti per il mio libro, raccogliendo storie di emarginazione attraverso i social network o casi in cui l’adolescente si sentiva non corrisposto perché nessuno apprezzava i suoi post. Certo, i bambini hanno sempre sofferto casi di emarginazione. Ma oggi questa esclusione è pubblica, il dolore perseguita fin dentro il quotidiano. La solitudine va dalla sensazione che chiunque sia più popolare di noi e abbia una vita migliore della nostra, al vero e proprio abuso.

Quali sono le altre forme di tecnologia che ci rendono soli?
Ci sono altre due forme di tecnologia che stanno giocando un ruolo nella nostra vita solitaria. Innanzitutto le…


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Prima che sia troppo tardi

In this image, a relieved little African girl is looked after by the vaccination staff after she has received her first Covid shot

Non si sa se è una donna o un uomo, né se è un giovane o un anziano, oppure un medico o una persona con elevata fragilità. Sappiamo solamente che si tratta di un cittadino del Rwanda colei o colui il quale ha ricevuto (o sta per ricevere) la miliardesima dose di vaccino anti-covid distribuita nell’ambito del progetto Covax coordinato dalle Nazioni Unite e nato con l’obiettivo di immunizzare nel più breve tempo possibile le popolazioni dei Paesi a medio e basso reddito.

Il 15 gennaio scorso la “miliardesima dose” è atterrata insieme a un carico di 1,1 mln di fiale all’aeroporto di Kigali rappresentando una pietra miliare della più grande operazione di approvvigionamento e fornitura di vaccini della storia che ha coinvolto in un anno 144 Paesi di tutti i continenti. Fin qui la buona notizia. Quella che introduce uno scenario meno esaltante è che il programma Covax ha compiuto un deciso salto in avanti in termini di numero di somministrazioni solo nelle ultime settimane: a dicembre infatti sono state il doppio rispetto al mese precedente ma non è sufficiente per guardare il futuro con ottimismo. Al 13 gennaio scorso, su 194 Paesi membri aderenti all’Oms, 36 non sono ancora arrivati a vaccinare nemmeno il 10% della popolazione e altri 88 sono sotto la quota del 40%. Per fare un esempio, nel solo continente africano oltre l’85% delle persone deve ancora ricevere la prima dose. E a livello globale il 49% della popolazione mondiale non ha ricevuto nemmeno una dose. Siamo insomma molto lontani dal traguardo fissato in ottobre dall’Organizzazione mondiale della sanità di vaccinare contro il Covid il 70% della popolazione di ogni Paese entro la metà del 2022.

Le ambizioni di Covax sono state compromesse fin qui da molteplici fattori. L’accendersi di focolai nei Paesi poveri ha portato al blocco delle frontiere e di conseguenza dell’approvvigionamento di dosi; contestualmente c’è stata (e prosegue senza sosta) la corsa all’accaparramento di vaccini e all’accumulo di scorte nei Paesi ricchi (dove le somministrazioni sono state circa 7 miliardi, considerando le quattro dosi). E pesa la mancanza di volontà di condividere licenze, tecnologia e know-how da parte delle grandi farmaceutiche produttrici dei vaccini approvati, impedendo che la capacità di produzione di almeno 120 aziende presenti in Asia, Africa e America latina fosse sfruttata. Secondo un studio pubblicato il 10 dicembre da Medici senza frontiere e Imperial college di Londra tante sono le farmaceutiche in grado di produrre i miliardi di dosi di vaccino necessari per contrastare la diffusione del Covid nei Paesi poveri e ridurre il rischio di nuove varianti che come abbiamo visto anche con la Omicron arrivano velocemente ovunque.

Msf e gli esperti dell’Imperial college sono convinti che queste 120 aziende possano ottenere fino a 8 miliardi di dosi di vaccino mRna in un anno se fossero temporaneamente sospese le licenze e condiviso il know how tecnologico come ormai da oltre un anno richiedono presso l’Organizzazione mondiale del commercio oltre 100 Paesi guidati da India e Sudafrica. «Di fatto – ha detto nei giorni scorsi la direttrice del programma di salute globale di Society for international development Nicoletta Dentico in un intervento radiofonico su Radio3 a Tutta la città ne parla – se si fosse liberalizzata la proprietà intellettuale sarebbe stata decentrata la produzione di tutto ciò che serve contro il Covid». C’è un precedente che riguarda la moratoria sulle licenze: quella concessa per produrre il vaccino contro il vaiolo, tuttavia questa fondamentale decisione trova la ferma opposizione, tra gli altri, dell’Unione europea, e come abbiamo raccontato su Left doveva essere discussa a fine 2021 ma è stata rimandata a marzo prossimo. Nel frattempo la variante Omicron corre ed è segnalata dall’Oms in 142 Paesi di cui 36 africani dove in breve è diventata il tipo dominante.

La sospensione delle licenze risolverebbe anche un altro problema che rallenta l’immunizzazione globale, cioè anche quella di Paesi ricchi come l’Italia. Più volte abbiamo sentito in questi mesi pomposi annunci di donazione di milioni di dosi di vaccino da parte delle grandi economie al programma Covax. Ebbene, spesso è stato scoperto che i lotti donati contengono solo fiale prossime alla scadenza. Disfarsi di dosi…


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Chi soffia sopra il fuoco dei no vax

«Lo avete fatto perché convinti o perché costretti, ma qualcosa non è andata per il verso giusto. Lo avete denunciato, ma non vi hanno ascoltato o non vi hanno dato soddisfazione. Raccontate la vostra storia, solo e soltanto i fatti. Nessuna considerazione sul fatto che sia meglio farlo o non farlo. Non perché non ci interessi la vostra opinione, ma perché il Grande Fratello ha fissato le sue regole».
Questa frase è l’incipit che possiamo leggere nelle informazioni di un gruppo Facebook italiano dal nome altisonante: Danni collaterali. Qui dentro ogni giorno, sfidando il giro di vite che Metaverse di Zuckerberg ha imposto contro il proliferare delle fake news a tema Covid, si raccolgono decine e decine di post che sviluppano centinaia di commenti, condivisioni e reazioni da parte degli utenti. Tutti trattano dello stesso argomento, cioè la paura o la convinzione di reazioni avverse riscontrate dopo la somministrazione di uno dei vaccini contro il virus Sars-Cov-2 e l’intento di inviare una segnalazione di massa all’Agenzia italiana del farmaco (Aifa).

«Dopo la seconda dose del siero, (una mia amica) ha avuto grandi problemi alla schiena, inizialmente come se avesse la colonna verticale in fiamme, poi, dopo esami di vario tipo le è stata diagnosticata una rettilineizzazione della cervicale».
Così scrive un utente preoccupato per la sua salute di un’amica che non utilizza Facebook. La rettilineizzazione delle vertebre cervicali in termini non medici è la diminuzione della normale curvatura della colonna vertebrale, una patologia difficilmente associabile, anche solo per senso comune, ad una reazione avversa ad un vaccino. Qualcuno nella discussione prova anche a farlo notare nei commenti ma viene subito attaccato dai più “estremisti”. Altri azzardano diagnosi e consulenze di vario tipo come l’utente Nino: «Va da sé che il vaccino ha potuto innescare un’infiammazione dei nervi della colonna vertebrale. Si potrebbe ipotizzare per il fatto che la Spike secondo alcuni studiosi è una neurotossina».
Internet oramai ha sostituito impropriamente e pericolosamente ospedali, studi medici e farmacie. Il cellulare e il computer sono diventati da anni la sede dove gli italiani ottengono consulti medici, cercano informazioni e rassicurazioni sulla propria salute e dove addirittura spesso possono comprare farmaci senza la ricetta del medico. Uno studio condotto nel 2019 dalla società di consulenza Bain con la collaborazione di Google lo certifica, ponendo il nostro Paese al quarto posto nel mondo come ricerche a tema medico.

Una tendenza globale così costante da aver creato un termine apposito per descriverla: dottor Google. Ma se cercare informazioni in siti non certificati e senza avere le competenze mediche per comprendere a pieno le informazioni ricevute può essere pericoloso per la propria salute, in questo gruppo gli incitamenti a non vaccinarsi e le proposte di cure alternative da parte di semplici utenti sono continui, recando un serio rischio per la salute di chi lo frequenta. Alla domanda preoccupata di Maria che dopo essere risultata positiva ad un tampone ha chiesto cosa fare, a decine si sono prodigati in consigli senza dichiararsi medici o avere titoli di studio adeguati. Fra i tanti spicca Giovanni: «Per la malattia Covid so che danno Brufen due volte al giorno, vitamina C e vitamina D e se sopraggiunge la febbre (anche con antinfiammatorio) aggiungono Zitromax per 6 giorni».
Il gruppo Danni collaterali, a cinque mesi dalla sua creazione, contiene al suo interno…


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Aeroporto Firenze Peretola, amara storia di una querela

Aeroporto di Firenze - Florence Airport. Italy.

Il 26 gennaio il Tribunale di Pisa dovrà pronunciarsi sul ricorso contro la richiesta di archiviazione fatta dalla Procura della Repubblica, in merito alla querela presentata dall’amministratore delegato della Toscana Aeroporti S.p.a., Roberto Naldi, che è anche presidente della Corporacion America Italia S.p.a., nei confronti di diverse persone, fra cui un consigliere comunale di Pisa (Francesco Auletta) e il portavoce di Firenze Città Aperta, Massimo Torelli per le opinioni espresse sulla vicenda dell’aeroporto di Firenze.
Si aggiunge anche un consigliere regionale di Fratelli d’Italia, che però appartiene a un’area politica (il centrodestra toscano) che ha posizioni tutt’altro che chiare sui progetti del nuovo aeroporto a Firenze (bloccati dal Tar per problemi sulla valutazione di impatto ambientale e quindi azzerati con la sinistra “di opposizione” che è l’unica che si oppone sempre chiaramente a questa visione di sviluppo).

Ci domandiamo allora se lo strumento della querela contro delle dichiarazioni politiche (e tali confermate dalla valutazione dal Procuratore della Repubblica) non sia soltanto strumentale, confidando nella nostra limitata capacità pecuniaria.

Dal 2018, Toscana Aeroporti annuncia infatti ripetutamente iniziative da parte dei suoi avvocati contro le nostre posizioni politiche, dentro e fuori i consigli comunali, contro la realizzazione di un’opera che riteniamo devastante, come la nuova pista aeroportuale di Firenze lungo l’autostrada, contro l’esternalizzazione dei servizi e la svendita dell’Handling.

Ancora una volta lo scontro è tra gli interessi privati di una multinazionale e quelli collettivi, questo è quello che pensiamo. Una multinazionale che evidentemente non tollera il legittimo diritto di critica che ogni cittadino, singolo o associato, ha per Costituzione, come pure le prerogative dei consiglieri eletti dalle comunità locali, tra cui anche le funzioni di controllo che i nostri rappresentanti eletti svolgono quotidianamente su una società che è partecipata anche da enti pubblici, come il Comune di Pisa e la Regione Toscana.

Ma riepiloghiamo. Era il dicembre 2020, quando il Consiglio comunale di Pisa (un comune guidato dalla Lega) approvava all’unanimità una mozione, del consigliere Auletta, in cui chiedeva di non costruire una nuova pista a Firenze.

L’amministratore delegato della società aeroporti, ha quindi fatto dichiarazioni pubbliche in cui ha affermato di non voler più avere niente a che fare con un’istituzione della nostra Repubblica, quale il Consiglio comunale di Pisa.

Pochi giorni dopo viene presentata la denuncia «contro commenti apparsi su facebook» e per l’amministratore delegato scrivere in un comunicato di «smetterla di brandire il ricatto occupazionale per giustificare il proprio modello di sviluppo» è diffamazione.

Anche a noi sono state annunciate querele per le nostre posizioni, che si possono ritenere sbagliate, ma che sono pienamente legittime e contenute anche nei programmi elettorali che abbiamo pubblicato da anni ormai.

I comitati dei rioni “sorvolati” di Firenze – per la cui salute si dice che servirebbe una nuova infrastruttura – sollevano da anni dubbi su quanto avviene oggi, dato che un decreto ministeriale imponeva alla società dell’aeroporto ridimensionamenti e prescrizioni.

Le lavoratrici e i lavoratori di Toscana Aeroporti – per la cui tenuta dei livelli occupazionali e salariali si dice che servirebbe una nuova infrastruttura – sono oggetto di un processo di esternalizzazione nel comparto dell’Handling, con una costante mobilitazione del sindacalismo confederale e di base.

Su questo i consigli comunali di Pisa e Firenze, come pure il Consiglio regionale della Toscana, hanno chiesto in modo chiaro un impegno da parte dell’azienda: dare garanzie prima di ricevere dieci milioni di contributi pubblici straordinari che sono stati previsti nel 2021.

I comitati per la difesa dell’ambiente chiedono che venga realizzato il progettato Parco della Piana, ritenendolo incompatibile con un nuovo aeroporto a Firenze.

Le organizzazioni studentesche e sindacali del mondo dell’università chiedono che sia garantito il futuro e lo sviluppo del Polo scientifico a Sesto Fiorentino, che si teme sarebbero compromessi dall’allargamento del confinante aeroporto fiorentino.

Abbiamo valide ragioni per essere ancora convinte e convinti delle nostre posizioni.

Quindi tutte motivate posizioni, che si accompagnano alle nostre posizioni politiche, ma su cui pare non ci si possa confrontare democraticamente, allorché la risposta sono le querele.

Come se non fosse legittimo pensare e dire che l’attuale modello di sviluppo compromette il futuro del pianeta e del territorio.
Come se le associazioni ambientaliste e le piazze dei Fridays for future non possano ritenere che volare di più non ci aiuterà nel contrastare i cambiamenti climatici.
Come se una legittima posizione politica, anche personale, di chiunque, non possa essere legittimamente espressa se non sia compatibile con i piani industriali di un’azienda?

Intanto il Consiglio comunale di Pisa si è già espresso, con tutti i suoi gruppi politici, di destra, di centro e di sinistra, in solidarietà con le persone querelate, chiedendo il ritiro della denuncia.
Ma la controparte ha risposto a mezzo stampa che lo potrebbe fare solo in caso di pubbliche scuse.

Ci domandiamo però “scusarsi per cosa?”.

Ci domandiamo se valga più il dibattito democratico delle popolazioni direttamente interessate o l’immagine delle quotazioni in borsa di Corporacion America Airport e Mataar Holdings (quest’ultima controllata da Investment corporation Dubai)?

Ci domandiamo se la sproporzione economica tra chi si può permettere lunghi processi, anche perdendoli, e chi svolge una funzione pubblica, come i consiglieri, sia talmente ingiusta da richiedere una presa di posizione chiara da tutti i livelli delle istituzioni, in Toscana come in tutta Italia.

Ci domandiamo perché la commissione consiliare competente del Comune di Firenze (con i voti del Pd e l’astensione del M5s) abbia bocciato una mozione in cui si chiedeva di ritirare l’appello contro l’archiviazione.

Intanto, per far sentire ancora la nostra voce, sabato 22 gennaio facciamo una conferenza stampa davanti all’aeroporto di Peretola, democraticamente e legittimamente.

Gli autori: Antonella Bundu e Dmitrij Palagi sono consiglieri comunali di Sinistra Progetto comune a Firenze

Ve lo ricordate l’Afghanistan?

Vi ricordate tutte le belle parole sull’Afghanistan quando arrivarono i talebani e quando tutto il mondo si dichiarava pronto ad accogliere le persone in difficoltà, persino i più ostici sovranisti? Per sapere cosa stia facendo l’Italia si può leggere l’ordinanza del Tribunale di Roma che già il 21 dicembre ha sancito il diritto di entrare in Italia per proteggersi dal rischio di diritti umani gravemente compromessi. ll caso riguarda due afghani che erano giornalisti sotto il precedente governo in Afghanistan e impegnati in varie attività culturali.

L’Associazione italiana per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) ha scritto un comunicato durissimo: «Nonostante la chiarezza dell’ordinanza, la Farnesina sta opponendo una strenua quanto inaccettabile resistenza, proponendo dapprima ai ricorrenti di entrare a far parte dei corridoi umanitari (che ancora devono essere attivati e dunque attendendo mesi se non anni!) e poi di dimostrare con idonea documentazione il percorso di accoglienza e integrazione in Italia con adeguata copertura finanziaria», ha affermato l’Asgi. Le richieste sono inaccettabili perché «fingono di ignorare non solo che già una cittadina italiana ha offerto la propria disponibilità ad ospitare i due giovani afghani, ma anche che ogni richiedente asilo, nel momento in cui diventa tale, ha diritto all’accoglienza pubblica se privo di risorse proprie ed è un obbligo dello Stato renderlo effettivo».

Il Tribunale di Roma ha accolto poi lo scorso 14 gennaio il nuovo ricorso dei due riconoscendo che la Farnesina aveva tentato di eludere il suo precedente provvedimento. In sostanza un tribunale riconosce che un Ministero non rispetta la legge. Tutto questo accade nei confronti degli afghani che il governo si prometteva di “salvare”.

L’associazione ha affermato che «i giovani afgani hanno subito chiesto ancora una volta al tribunale di Roma di sapere esattamente come sarebbe stata attuata l’ordinanza di dicembre [e] il 14 gennaio 2022 il tribunale ha ritenuto che il ministero avesse tenuto un comportamento elusivo dell’ordinanza giudiziaria e ordinato il rilascio di visti umanitari entro dieci giorni». L’Asgi sottolinea anche come i due afgani potevano beneficiare del visto italiano «esclusivamente sulla base di ragioni umanitarie o obblighi internazionali [che] non possono essere collegati a condizioni aggiuntive». L’associazione sostiene infine che «con tale decisione [del tribunale] viene di fatto respinto il tentativo del ministero di imporre una privatizzazione dell’accoglienza di chi fa ingresso in Italia con visti per motivi umanitari accollandola interamente sui privati, nonostante tale accoglienza sia un obbligo per lo Stato in forza di precise disposizioni europee, che la finanziano»

Insomma, ve lo ricordate l’Afghanistan?

Buon venerdì.

In foto, persone accalcate all’esterno di un ufficio passaporti del governo afghano a Kabul


Per approfondire, Left del 24 dicembre 2021

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