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Bohigas architetto sociale

BARCELONA, SPAIN - MAY 15, 2017: Unknown people resting and sunbathing on a city beach in Barcelona on the Mediterranean sea. With view to the modern skyscrapers and blue sky.

«Era un controsenso troppo grande avere il mare e non avere la costa». Questa affermazione che Oriol Bohigas, architetto ed urbanista catalano di fama mondiale scomparso a fine novembre scorso, formulò riferendosi a Barcellona, ben sintetizza la capacità di cogliere l’aspetto umano e concreto dell’arte del costruire la città.
Nato a Barcellona nel 1925, si era laureato in architettura nel 1951 e fin da giovane aveva mostrato profonda attenzione ai temi sociali e manifestato costantemente una particolare libertà di pensiero che negli anni del franchismo gli costò la cattedra di insegnamento universitario, che riprenderà successivamente.

Appena laureato fondò con Josep Maria Martorell (1925-2017) lo studio professionale cui nel 1962 si unì David Mackay (1933-2014) denominato MBM che per oltre sessanta anni ha firmato lavori in Spagna e in tutta Europa.
La sua prima preoccupazione fu di distaccarsi dal clima chiuso e opprimente del franchismo. Nel 1951 fondò il gruppo R che significava Rinnovamento e Rivoluzione. Il suo riferimento fu subito l’architettura italiana particolarmente rappresentata dalla rivista Casabella e dal mondo degli architetti milanesi, in particolare Ernesto Rogers ed Ignazio Gardella. Ma la sua formazione era indiscutibilmente legata all’identità e alle vicende storico politiche della Catalogna con una forte vicinanza al partito socialista.

Nel suo libro Barcelona entre el Pla Cerdà i el barraquisme del 1963 l’idea della responsabilità sociale dell’architetto è esplicita, con una visione del problema della città moderna particolarmente interessante come quando afferma che «la città del Novecento è un’entità creata proprio da questa nuova società, senza storia, che è il proletariato. Questo proletariato presentava un quadro di bisogni che non avevano nulla a che vedere né con le residenze di corte, né con i gruppi agricoli, né con gli ambienti borghesi medievali. La nuova urbanistica ha dovuto realizzare questo nuovo problema e strutturare, quindi, un programma tutto nuovo».
In un unico piano «le esigenze della circolazione, la formazione delle comunità umane, l’economia della produzione comune, i bisogni intellettuali, sportivi, sociali, i centri di intrattenimento», e quindi «le forme architettoniche di un dato periodo storico sono funzione delle sue forme politiche».
Cinque anni dopo la caduta del franchismo, divenuto sindaco di Barcellona Narcís Serra, economista con alle spalle studi internazionali e cultore di architettura, Bohigas venne chiamato a dirigere l’ufficio dell’Urbanistica di Barcellona.
L’impostazione scelta fu quella di privilegiare l’architettura intesa come fatto culturale oltre la semplice quantificazione di soluzioni tecniche, una imagen urbanística da dare alla città.
Tra le scelte più felici vi fu quella di puntare sulla riqualificazione dello spazio pubblico e quindi, invece di concentrare i finanziamenti nel rinnovo di pochi assi urbani, Bohigas divise il budget a disposizione in un centinaio di interventi in…


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Barry A. Brown e Bob Zellner: «La nostra sfida al razzismo Usa»

Son of the South – Il colore della libertà è un film di Barry Alexander Brown, noto montatore dei film di Spike Lee (Do the right thing!, MalcomX, The 25th hour, Inside man), il quale, in questo progetto, copre il ruolo di produttore esecutivo.
Il lavoro trae ispirazione dal libro di memorie del noto attivista Bob Zellner, The wrong side of Murder Creek: A white southerner in the freedom movement (Il lato sbagliato di Murder Creek: un bianco del sud nei movimenti per la libertà, 2008). Zellner ripercorre alcuni eventi fondamentali della giovinezza, quali la formazione umana e politica, il distacco dalla famiglia (il nonno era un seguace del Ku Klux Klan), l’avvicinamento alla causa dei neri, l’adesione ai principi della lotta non violenta, ma anche l’educazione sentimentale. Nel perimetro delle valutazioni estetiche non entriamo, ma la nobiltà del progetto riaccende la luce sul razzismo, sui diritti degli afroamericani, sulle violenze degli agenti di polizia e del governo federale nei confronti dei neri, sulla segregazione economica e razziale a cui sono stati e ancora oggi sono costretti.

Brown, come nasce l’idea di realizzare un film dal testo di Zellner? E in che modo il progetto è connesso al movimento Black lives matter?
L’idea del film è nata quando ho incontrato Bob, 35 anni fa, a New York. A quei tempi, lui mi raccontava storie sul movimento per i diritti civili e sul suo coinvolgimento nel movimento. Erano storie stimolanti, sbalorditive, davvero scioccanti. Ci ho visto un film lì dentro, ma era così grande il tutto che in realtà ci sono voluti altri venti anni per capire come raccontarlo, quale parte della storia riportare, perché si poteva anche dire tutto. Ma sono rimasto colpito da quello che è successo nella primavera e nell’estate del 1961, quando Bob si è trovato di fronte a una scelta: se essere coinvolto o meno nel movimento per i diritti civili. Quell’estate divenne un attivista. Per quanto riguarda il movimento Black lives matter, è ovviamente connesso al movimento per i diritti civili che parte dai primi anni Sessanta fino a oggi. Per certi aspetti sembra quasi un unico movimento, composto da molti episodi e capitoli diversi e, a mio parere, Black lives matter è quello più recente. Questa lotta per l’uguaglianza in America è…


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Bonus psicologo, strumento errato per un obiettivo giusto

Berlin, Germany - November 10, 2009: People walking along the east side gallery, remins of the Berlin wall

La bocciatura da parte della Camera dei deputati dell’emendamento bipartisan sul “bonus psicologo” nell’ultima Legge di Bilancio rappresenta un fatto rilevante dal quale ripartire per poter ottenere le giuste risposte al disagio mentale, in particolare in conseguenza della pandemia.

La norma prevedeva un primo contributo per recarsi da uno psicologo di 150 euro per le persone senza diagnosi di disturbo mentale e senza limiti di reddito, in pratica un “bonus avviamento psicologico” con un fondo di 15 milioni. Un secondo “bonus sostegno psicologico” vincolato in modo progressivo all’Isee, partendo da 400 euro fino a 1600, con un fondo di altri 35 milioni.

I due fondi, pur di entità limitata, avrebbero consentito ad un numero circoscritto di persone di potersi recare per alcune sedute direttamente da uno psicologo/psicoterapeuta privato utilizzando la modalità del voucher. E dopo?

Il “bonus psicologo” rappresenta uno strumento errato per un obiettivo giusto. La salute psichica non si può paragonare ad una automobile o ad un televisore da acquistare. Si tratta di una strada sbagliata che porta, alla fine del percorso, alla logica del mercato.

La salute psichica, al pari della salute fisica, non è una merce ma un diritto garantito dalla nostra Costituzione. Ricorda l’Oms che non c’è salute senza salute mentale. La stessa psicoterapia già rientra nei livelli essenziali di assistenza, e il fatto che ci siano gravi criticità nella sua effettuazione da parte del servizio pubblico non giustifica lo strumento del voucher. Nell’immediato appare una soluzione vincente, ma ad una…

*L’autore: Già segretario nazionale Fp-Cgil Medici, Massimo Cozza è direttore del Dipartimento salute mentale Asl Roma 2


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Vaccini anti Covid. Per non irritare Big pharma, l’Occidente calpesta l’Africa

People wait to be vaccinated by a member of the Western Cape Metro EMS (Emergency Medical Services) at a mobile "Vaxi Taxi" which is an ambulance converted into a mobile COVID-19 vaccination site in Blackheath in Cape Town, South Africa, Tuesday, Dec. 14, 2021. The omicron variant appears to cause less severe disease than previous versions of the coronavirus, and the Pfizer vaccine seems to offer less defense against infection from it but still good protection from hospitalization, according to an analysis of data from South Africa, where the new variant is driving a surge in infections. (AP Photo/Nardus Engelbrecht)

L’Africa vorrebbe produrre da sola i vaccini necessari per affrontare la pandemia. Ma l’Unione europea continua ad opporsi e così facendo non riconosce il diritto alla salute pubblica globale. Limitarsi ad inviare nei Paesi a medio e basso reddito vaccini anti Covid prodotti nei Paesi ricchi, spesso troppo vicini alla scadenza e senza garantire una distribuzione adeguata sul territorio, così come è accaduto sinora, non rappresenta una risposta efficace alla pandemia.

Guardando all’anno appena passato, la politica di distribuzione dei vaccini nel mondo è risultata inappropriata sia sul piano etico che materiale. Gordon Brown, ambasciatore dell’Oms per il finanziamento della salute globale, nonché ex primo ministro britannico ha affermato: «Avere i vaccini disponibili in una metà del mondo, e tuttavia negarli all’altra metà, è uno dei più grandi fallimenti di politica pubblica internazionale che si possano immaginare. Ed è una catastrofe morale di proporzioni storiche che sconvolgerà le generazioni future». Secondo le stime di Brown, nei Paesi ad alto reddito le dosi non utilizzate, entro febbraio, ammonteranno ad un miliardo. Inoltre, ad oggi, molte di quelle inviate restano inutilizzate e vengono buttate dai Paesi destinatari, in quanto è impossibile inocularle entro la data di scadenza. Per questo motivo, alla fine dello scorso anno, secondo un report di Covid-gap (a cura di Duke University e Covid collaborative) metà dei 92 Paesi in via di sviluppo beneficiari del programma Covax avevano utilizzato meno del 75% delle dosi ricevute.

Lo scorso dicembre la Nigeria ha distrutto più di un milione di dosi di AstraZeneca donate, prossime alla data di scadenza. Il governo ha poi annunciato che non accetterà più questo tipo di donazioni, che non tengono conto delle esigenze interne di…


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Transizione ecologica, la partita è ancora aperta

People hold a globe with a message, during a climate demonstration, in Lausanne, Switzerland, Saturday, Nov. 6, 2021. Many people across the world are taking part in protests as the first week of the COP26, UN Climate Summit in Glasgow comes to an end. (Laurent Gillieron/Keystone via AP)

Non bastavano le ansie e le paure seminate dalla pandemia, ad aggiungere incertezza ci ha pensato la Commissione europea che ci ha fatto un pessimo regalo di capodanno: ha deciso che energia nucleare e gas saranno fonti assimilate al sole, al vento e a tutte le vere rinnovabili. Non è uno scherzo né una magia, ma la conclusione della lunga e travagliata disputa sulla tassonomia, il nome incomprensibile scelto per decidere quali debbano essere considerate le fonti energetiche da finanziare perché utili alla transizione ecologica.

Una prima domanda: state decidendo la strategia per fermare il cambiamento climatico senza coinvolgere o almeno informare le popolazioni? Dove sono finiti i titoloni dei grandi giornali sulla fine della terra durante il vertice di Glasgow, sostituiti ora da distratti trafiletti sulle scelte utili per scongiurarla? Già averle chiamate “Tassonomia” è escludente.

Mi chiedo come si possa pensare di realizzare, da qui al 2050, una trasformazione ecologica della società europea che ci protegga dal caos climatico con i popoli che dovrebbero realizzarla completamente all’oscuro di ciò che questo comporta?

Forse si pensa che saranno le tecnologie e le continue innovazioni che le caratterizzano a realizzare una…


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A voi che siete in coda per i tamponi

Breve messaggio per voi che siete in coda alla ricerca di un tampone, voi che non riuscite a mettervi in contatto con l’azienda sanitaria e che faticate a reperire il vostro medico ingolfato dalle segnalazioni, voi che state chiamando tutte le farmacie della vostra zone (che hanno il telefono occupato per ore) per trovare un buco qualsiasi e guadagnarsi un tampone per rientrare al lavoro, per potersi muovere, per fare tutto ciò che c’è da fare: il governo era favorevole all’allargamento alle parafarmacie per fare test molecolari e antigenici rapidi per diagnosticare l’infezione da Sars-Cov-2 ma in commissione Affari costituzionali l’emendamento non è passato per 13 voti contrari a fronte di 11 favorevoli.

A votare contro è stata Forza Italia (che tra le sue fila ha il vice presidente della Camera Andrea Mandelli, presidente dal 2009 della Federazione Ordine farmacisti italiani), la Lega, Fratelli d’Italia e Italia viva. In pratica il nuovo centrodestra che, se possibile, è persino peggiore di quello vecchio.

La possibilità di effettuare tamponi nelle parafarmacie avrebbe aumentato la capacità diagnostica del 20%, avrebbe snellito le procedure di tutti quelli che sono in coda per il tampone. Ma c’è un altro aspetto essenziale da sottolineare: il centrodestra in Italia (sarebbe ora che non si debba specificare che lì dentro c’è naturalmente anche Italia viva) è la parte che si lamenta per le troppe chiusure e le troppe restrizioni che frenano l’economia. Sono gli stessi che hanno esultato per la disarticolazione delle quarantene (con la magnifica auto-sorveglianza) e che sognano un Paese in cui chi non è semimorto non possa permettersi di non andare a lavorare.

Eppure nonostante si fingano liberali (o liberisti, visto che in Italia non c’è differenza) sono talmente schiavi delle lobby che riescono a contraddire i propri intendimenti pur di non spegnere il sorriso a qualche loro amichetto che non si possono permettere di scontentare. Ha ragione Pierluigi Bersani quando senza troppi giri di parole parla di «un lobbismo senza vergogna. Farmacisti che hanno una laurea come gli altri non possono fare i tamponi mentre la gente è in coda. E poi parlano di liberalizzazioni». Del resto nel periodo natalizio, secondo un’indagine svolta dal centro studi di Conflavoro Pmi, sono stati oltre 8,5 milioni i tamponi effettuati, per un margine registrato nei 14 giorni di festività di 9 milioni di euro per gli importatori e di 102 milioni di euro per le farmacie.

Sandro Ruotolo e Loredana De Petris hanno scritto: «I cittadini devono sapere che quando stanno in fila per ore davanti alle farmacie, Italia viva e centrodestra, per tutelare interessi di pochi, hanno bocciato l’emendamento che consentiva alle parafarmacie di effettuare i tamponi antigenici rapidi».

Secondo la senatrice di Italia viva Annamaria Parente «qualcuno ha citato il problema delle file davanti alle farmacie per fare i tamponi, che aprendo alle parafarmacie si potrebbe risolvere, ma in realtà l’intoppo vero non è lì bensì sulla fase del tracciamento e della gestione delle certificazioni»

Quindi sappiate voi che siete in coda per un tampone che vi state lamentando di un problema che non esiste. Se invece esiste ancora una volta il merito è di Italia viva e dei loro compagnucci Lega, Fi e FdI.

Buon venerdì.

Stupro di Milano. I malati, i complici e i cattivi maestri

“Violenza del branco” titolano i giornali. E in particolare Repubblica con un agghiacciante editoriale di Chiara Valerio che parla dell’abuso di giovanissime in centro a Milano come fosse un fatto normale, dovuto, secondo la nota scrittrice e matematica, a “istinti maschili” “che debbono essere contenuti nella gabbia della ragione”. Come se fossimo ancora nel mondo di Hobbes: “homo homini lupus”. Come se tutti gli uomini fossero stupratori in nuce, per natura.

Lo ribadiamo è inaccettabile quello che è accaduto l’ultimo dell’anno nella capitale italiana della cultura e del business, la nostra città più europea. Ma per altre ragioni da quelle annoverate da Valerio. Perché pensiamo che ancora molto debba e possa essere fatto per vedere e riconoscere la violenza contro le donne, visibile e invisibile e per eradicarla.

Per fortuna, nonostante gli intollerabili appetiti berlusconiani riguardo al Colle, è tramontata da tempo – e per fortuna – la “Milano da bere”. Non siamo più all’epoca delle “cene eleganti” ad Arcore giocate sulla pelle di giovanissime escort, millantando che Ruby fosse la nipote di Mubarak (come sostenne anche l’attuale presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati!). Il fatto drammatico è che ancora oggi, purtroppo, nella Milano di Sala non si è riusciti a impedire che l’orrore di allora, quello delle Olgettine, si ripetesse.

Ma qual che ci inquieta è anche che questo doloroso episodio che umilia tutte le donne sia stato commentato così da una matematica e scrittrice donna, di fama progressista come Chiara Valerio.

L’incipit del suo pezzo già dice molto della sua visione dei bambini come torturatori di piccole bestiole, lei dice, non potendosi sfogare sui coetanei. Ecco il suo incredibile incipit trascritto paro paro: “I bambini staccano la coda alle lucertole perché non possono staccarsi le dita fra loro. E uccidono gli insetti perché non possono farlo fra loro… La tenerezza arriva probabilmente con la conoscenza… se arriva”. Ipse dixit.

Come se i bambini fossero tutti dei piccoli sadici che si divertono ad abusare di altri; come se i bambini fossero esserini non propriamente umani, che lo diventerebbero solo una volta acquisito l’uso della parola e della coscienza.

Il pensiero espresso da Chiara Valerio su Repubblica purtroppo non è nuovo: la pensava così anche Aristotele e molta parte della filosofia greca che considerava i bambini come una tavoletta di cera, da “educare” e plasmare con la violenza della pederastia come documenta in molti suoi libri una grande antichista come Eva Cantarella.

Parliamo di una società, quella dell’antica Grecia, come è noto, misogina, schiavista, e che annullava l’identità umana dei bambini. Chiara Valerio ci propina di nuovo quella visione oltraggiosa della realtà umana annullando millenni di storia e decenni di ricerca psicologica e psichiatrica. Non solo insulta e annulla i bambini indicandoli tout court come malati di mente da educare e ingabbiare in una militare griglia di educazione razionalista, ma cancella d’un colpo anche tutte le lotte millenarie delle donne contro il patriarcato. Facendosi forza di metastoriche e antiscientifiche affermazioni di Zoja arriva a dire: “Il mondo post patriarcale (per cui tanto abbiamo lottato, aggiungo io, ndr)  non è affatto post maschile. Casomai valorizza qualità pre-paterne del maschio. Quelle di lottatore contro i concorrenti di cacciatori di femmine”.

Siamo basiti di tanta violenza e ignoranza. Basta leggere il recente libro di una notissima studiosa del paleolitico come Patou-Mathis per rendersi conto di tanta insipienza: Un violento modello patriarcale non si era ancora strutturato nel paleolitico superiore, scrive la studiosa francese, ma era invece nella mente di quegli studiosi che crearono l’archetipo dell’uomo preistorico armato di clava, che trascina la donna per i capelli, bellicoso, campione di machismo e di stupro. Se stiamo ai reperti archeologici e alle rappresentazioni pittoriche del Paleolitico superiore non troviamo molte tracce di guerra. Piuttosto, come ipotizza la paleontologa Patou-Mathis ne La Preistoria è donna poiché nella preistoria gli esseri umani vivevano in piccoli gruppi, la collaborazione, lo scambio e l’aiuto reciproco era forse più importante per la sopravvivenza dell’aggressività e della competizione. Checché ne dica Chiara Valerio.

*-*

Immagine in apertura tratta dal video pubblicato su YouTube dal media AlaNews 

Caso Assange e diritto/dovere d’informazione: Governo Draghi batti un colpo

È stato appena trasmesso in televisione il film L’ufficiale e la spia sul caso Dreyfus. Quella vicenda segnò uno spartiacque nella terza Repubblica francese, toccata dall’ingiusta campagna nei confronti di un innocente accusato di spionaggio.
Ecco, il caso di Julian Assange ricorda, persino in peggio, quel buco nero.
Infatti, sul giornalista australiano fondatore di Wikileaks pesa un’omologa accusa da parte degli Stati Uniti in base all’Espionage Act del 1917. Il rischio di una interminabile condanna si appalesa per chi ha avuto il coraggio di far venire alla luce crimini e misfatti delle guerre in Iraq e in Afghanistan, nonché connubi e complicità di numerosi Stati occidentali, con la cura di mantenere l’anonimato dei whistleblowers. Sul banco degli accusati Usa, Gran Bretagna e Paesi alleati, ivi compresa l’Italia.
Bombardamenti massivi, attacchi armati alla popolazione civile, torture di Guantánamo disvelate sono tessere di un mosaico di orrori. Il grande sito di informazione, collegato fino al loro voltafaccia a numerose testate note ed influenti, ha rotto il sipario del silenzio che accompagna generalmente le politiche del cinismo bellico.

Da anni, almeno dal 2010, ha preso il via l’odissea di Assange, attraverso tribunali svedesi e poi britannici, con l’incombere – auguriamoci di no, visto che gli avvocati hanno fatto ricorso contro la sentenza dello scorso 10 dicembre 2021 dell’Alta Corte di Londra – di una possibile estradizione oltre oceano. In quella sentenza si accettava l’appello proposto dagli Usa, dopo la precedente decisione del gennaio che aveva respinto al contrario la richiesta per motivi di salute. Del resto, lo stesso inviato speciale delle Nazioni Unite contro la tortura Nils Melzer aveva lanciato l’allarme, ipotizzando rischi suicidari. E così pure la compagna di Assange, avvocata Stella Morris.

Il calvario è passato dall’auto isolamento nell’ambasciata dell’Ecuador nel Regno Unito alla prigione dedicata ai peggiori criminali e terroristi di Belmarsh.

In caso di accoglimento dell’estradizione il pericolo concreto è che il tribunale americano commini una pena di 175 anni, secondo la consuetudine di quella giustizia di usare le addizioni e non la prevalenza della colpa. In tutto questo, quasi per un cinico disegno del destino, uno degli artefici principali della guerra in Iraq, Tony Blair, ha ricevuto la maggiore onorificenza elargita dalla Regina. In verità, già oltre un milione sono le firme di un appello contrario.
Che succederà? Ci sarà qualche iniziativa politica o diplomatica nei riguardi del presidente statunitense Biden (la divulgazione dei Pentagon papers sul Vietnam non ebbe conseguenze giudiziarie), affinché si conceda la grazia ad una figura eminente dell’informazione di inchiesta, cui – se mai – andrebbe conferito un premio Pulitzer? Qualcosa si muove, a parte i generosi sit-in dello specifico comitato nato anche in Italia e la tessera ad honorem consegnata attraverso Stefania Maurizi dall’Associazione Articolo21.

Ad esempio, contro l’estradizione si è schierato il vice premier australiano, mentre il presidente messicano ha offerto l’asilo politico al giornalista.
Purtroppo, a livello istituzionale finora, qui da noi, non va affatto bene. Anzi. La mozione parlamentare presentata dal deputato Pino Cabras è stata bocciata e il governo si è voltato dall’altra parte. Al riguardo, che dice il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, rappresentante di una forza – il M5s – che intratteneva rapporti intensi con Assange? Errori giovanili?
Siamo al cospetto di una pagina decisiva per l’esercizio della libertà di informazione.
Una pagina che fa la Storia.

*L’autore: Vincenzo Vita, giornalista e già senatore Pd, è presidente della Fondazione Archivio audiovisivo del Movimento operaio
e democratico


L’editoriale è tratto da Left del 14-20 gennaio 2022

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Stefania Maurizi: Anche le democrazie hanno il terrore di chi racconta la verità

FILE - In this Wednesday May 1, 2019 file photo buildings are reflected in the window as WikiLeaks founder Julian Assange is taken from court, where he appeared on charges of jumping British bail seven years ago, in London. WikiLeaks founder Julian Assange will find out Monday Jan. 4, 2021 whether he can be extradited from the U.K. to the U.S. to face espionage charges over the publication of secret American military documents. (AP Photo/Matt Dunham, File)

Da oltre mille giorni il fondatore di Wikileaks Julian Assange si trova nel carcere di massima sicurezza di Belmarsh, a Londra. Da un decennio vive da braccato. Le sue condizioni psicofisiche sono precarie e la sua vita è appesa ad un filo. Lo scorso 10 dicembre l’Alta corte della capitale britannica ha stabilito che il giornalista australiano può essere estradato negli Stati Uniti, dove è accusato di spionaggio, accogliendo il ricorso di Washington contro una precedente sentenza contraria. Ma la decisione non è ancora definitiva.

La colpa di Assange? Aver rivelato al mondo i segreti più inconfessabili dietro alle principali guerre condotte dalle potenze occidentali negli ultimi 20 anni, in Afghanistan e in Iraq, e dietro alle attività diplomatiche a stelle e strisce. Uccisioni di civili mai dichiarate, violenze, abusi. E poi interferenze nella politica di altri Paesi. Il pressing degli Usa nei confronti dei governi di mezzo mondo affinché sostenessero il loro impegno militare ad ogni costo. Rivelazioni compiute attraverso la piattaforma Wikileaks e grazie al contributo di whistleblowers che hanno fatto trapelare documenti riservati, come l’ex analista militare statunitense Chelsea Manning, che per aver contribuito a rendere pubblici quei papers ha trascorso oltre otto anni in carcere. La straordinaria e drammatica vicenda di Assange è ora raccontata in un libro di Stefania Maurizi, Il potere segreto (Chiarelettere). La giornalista – oggi al Fatto quotidiano, in passato al gruppo l’Espresso – negli ultimi anni ha pubblicato in Italia le rivelazioni di Wikileaks, lavorando fianco a fianco con il collega australiano e il suo team. In quelle pagine ripercorre quella che è una vera e propria spy story, benché del tutto reale. A Left racconta perché difendere Assange significa proteggere le nostre democrazie. Per capirlo, occorre però ricostruire la vicenda del giornalista australiano e della sua piattaforma.

Stefania, quali sono stati, in sintesi, gli scoop più importanti di Wikileaks?
Le rivelazioni più esplosive sono state senza dubbio quelle sulla guerra in Afghanistan, sulla guerra in Iraq, sui detenuti di Guantanamo e poi la diffusione dei cablo della diplomazia statunitense, che hanno svelato il vero volto della politica estera Usa, mostrando scandali e retroscena. I documenti pubblicati da Wikileaks (nel corso del 2010, ndr) hanno aperto una rivoluzione nel giornalismo e nella percezione dell’opinione pubblica globale. Per la prima volta i cittadini hanno potuto osservare i lati più oscuri dei governi, quelli solitamente invisibili perché coperti da segreto. Una riservatezza che non serviva a proteggere la loro sicurezza, bensì a garantire l’impunità alle istituzioni che avevano commesso atti criminali come la devastazione di intere nazioni, vedi il caso dell’Iraq.

A questo proposito, in Gran Bretagna è scoppiata una polemica dopo la decisione della regina di conferire il più alto grado di cavalierato a Tony Blair…
Già, la decisione della corona inglese sta scatenando una reazione popolare fortissima per le enormi responsabilità dell’ex primo ministro nella distruzione dell’Iraq che ha generato milioni di profughi e ha contribuito alla nascita dell’Isis. È proprio grazie ai files rivelati da Wikileaks che abbiamo potuto guardare alle dinamiche reali di questo conflitto. Dalle stragi agli abusi coperti, alle vere cifre delle vittime civili.

Cosa contenevano i papers sulla guerra in Afghanistan e Iraq, in sintesi?
I documenti rivelavano per la prima volta la realtà nei due teatri di guerra, oltre la propaganda. Vi erano registrate le azioni sul campo, con tanto di coordinate spazio-temporali. Le guerre si vincono prima di tutto vincendo la battaglia dell’informazione, che crea consenso. Quando questa arma viene neutralizzata, o comunque fortemente colpita, la macchina della guerra entra in crisi. È per questo che appena pubblicati i primi papers sull’Afghanistan le autorità statunitensi hanno avuto una reazione ferocissima.

Alcune delle successive rivelazioni di Wikileaks, poi, hanno riguardato direttamente anche la politica italiana.
Sì, come nel caso dell’extraordinary rendition (la deportazione illegale di presunti terroristi per essere detenuti, interrogati o torturati altrove, ndr) dell’imam Abu Omar. I papers divulgati documentano le pressioni esercitate dagli Stati Uniti per garantire l’impunità agli agenti della Cia che hanno rapito un essere umano a Milano e lo hanno portato in Egitto dove è stato torturato brutalmente, nonostante i nostri bravissimi magistrati fossero riusciti a scoprire la loro identità e a condannarli con sentenza definitiva. Nessuno degli agenti, alla fine, è finito in prigione. Dopo che per anni gli Usa hanno fatto pressioni dirette sulla politica italiana, da Enrico Letta a Silvio Berlusconi, come dimostrano i cablo della diplomazia statunitense.

Ci sono state differenze tra le reazioni della destra e del centrosinistra al pressing di Washington, secondo quanto emerge dai documenti divulgati?
I documenti permettono di capire che la sudditanza italiana nei confronti degli Stati Uniti è stata trasversale, da Berlusconi fino al Pd, ma agita con modalità diverse. I diplomatici statunitensi annotano che il governo Berlusconi si impegna immediatamente nel loro interesse durante la guerra in Iraq, mettendo a disposizione porti e aeroporti italiani, tutte le infrastrutture richieste. Arrivando persino a spiare le comunicazioni dei manifestanti pacifisti che tentavano di bloccare treni e veicoli che trasportavano armi ed equipaggiamenti militari. Mentre quando i funzionari statunitensi parlano della coalizione di centrosinistra, indicano di poter contare ugualmente su una forte collaborazione, ma sicuramente più “complicata”, meno automatica di quella garantita da Berlusconi.

Sebbene Wikileaks non abbia mai smesso di operare, le sue rivelazioni più scottanti (Afghanistan war logs, Iraq war logs, il cosiddetto Cablegate) risalgono a oltre dieci anni fa. Perché questa organizzazione è ancora così temuta dai governi di tutto il mondo?
Perché mai prima di Wikileaks si era aperto uno squarcio così profondo nel potere che usa il segreto per nascondere la criminalità di Stato. Certo, nel 1971 c’era stata una fuga di documenti segreti importantissimi sulla guerra in Vietnam, i celebri Pentagon papers rivelati dall’ex analista militare Daniel Ellsberg, però si era trattato di un fatto isolato. Wikileaks ha reso sistematica questa fuga di documenti, ecco perché vogliono distruggere Julien Assange e la sua organizzazione, questo “potere” non può permettergli di farla franca. Hanno tutti contro: le autorità statunitensi, gli alleati degli Usa e persino i Paesi suoi nemici, perché anche loro sono terrorizzati dalla possibilità che grazie a Wikileaks siano rivelati i loro sporchi segreti. È per questo che, al di là di qualche dichiarazione, neanche la Russia, la Cina, neppure la Corea del Nord o l’Iran, ossia gli avversari degli Stati Uniti – che pure restano il Paese più colpito dalle rivelazioni dell’organizzazione giornalistica – si sono schierati per proteggere Assange facendo qualcosa di concreto. Questo “potere” lo vuole “far fuori”, assieme a tutti i giornalisti di Wikileaks, per mandare un messaggio a chiunque si azzardi a rivelare i loro inconfessabili segreti, e a farlo in modo sistematico, non una tantum.

Tu che hai avuto modo di conoscerlo di persona, di lavorare al suo fianco, potresti descriverci chi è davvero Julian Assange?
Innanzitutto è una persona altamente intelligente. Un genio, che anziché usare il proprio talento nell’informatica per fare soldi, magari creandosi una aziendina nella Silicon valley, ha messo in piedi una organizzazione per mettere l’informazione al servizio delle persone, per cambiare il mondo non con la violenza, bensì con la forza della conoscenza. Assange proviene da un ambiente particolare. Già da ragazzino entra nel mondo del software e dell’hacking. A 25 anni viene condannato a una pena mite da un tribunale di Melbourne, per aver hackerato le reti della compagnia telefonica canadese Nortel. Il giudice gli ha riconosciuto di averlo fatto solo per una curiosità intellettuale, per capire come funzionava quello strumento, e non per un fine economico. Chiuso con l’hacking, Assange diventa un esponente del movimento cyberpunk, che negli anni 90 teneva assieme persone di diversa estrazione, da geni dei computer ad attivisti libertari, che si confrontavano sui temi della tecnologia, della sorveglianza, della privacy. I cyberpunk erano dei pionieri e in questo ambiente Assange matura l’idea di trasformare la società con metodi non violenti, così come farà con la sua piattaforma giornalistica.

L’avvento del digitale si è accompagnato in Italia a un populismo che si è scagliato contro i media tradizionali, descritti tout court come figli del potere, da rimpiazzare con l’informazione senza mediazioni del web. Mi colpisce come invece Assange abbia sempre preferito stringere partnership con i grandi giornali occidentali, per essere aiutato nel compito indispensabile di verificare le fonti.
Non c’è assolutamente un rapporto di sfiducia sistematico da parte di Wikileaks nei confronti del giornalismo. Ma è anche vero che l’organizzazione nasce proprio con lo scopo di mettere in crisi quel modo di fare informazione, purtroppo predominante, che anziché esibire le menzogne del potere e mettere in crisi la propaganda, ne diventa uno strumento. Dopo l’11 settembre 2001, una parte dei media erano veramente a letto con il potere. Ad esempio, per ben 13 anni il New York times si era rifiutato di usare la parola “tortura”, preferendo l’espressione enhanced interrogation, “interrogatori rafforzati”. Un termine criptico che nascondeva la brutalità e la disumanità che subivano i presunti terroristi dai militari Usa nelle zone di guerra.

Hai mai subito intimidazioni a causa del tuo lavoro?
Non ho mai avuto problemi paragonabili a quelli dei giornalisti di Wikileaks. I colleghi sono stati sotto indagine del governo americano fin dal 2010, subendo intercettazioni e sorveglianza continui. Non esiste altra organizzazione in uno Stato democratico che è stata sottoposta a un controllo di tale entità. Per non parlare poi della sorte di Assange. Detto questo, sì, ho ricevuto intimidazioni. Sono stata spiata all’interno dell’ambasciata dell’Ecuador, il mio telefono è stato segretamente aperto in due, i miei device elettronici sono stati presi e fotografati, sono stata seguita, ho subito un controllo speciale all’aeroporto. Ma ripeto, sono fatti di una gravità molto inferiore rispetto a quanto subito da altri.

Veniamo ad un capitolo delicato della vita di Assange: le accuse di stupro e molestie da parte delle autorità svedesi.
Poche settimane dopo aver pubblicato i documenti segreti sulla guerra in Afghanistan, Assange è finito in una inchiesta svedese per molestie sessuali e stupro, da cui non è più uscito. Ora, vanno considerate alcune cose. Primo punto, l’inchiesta è stata aperta d’ufficio e non sulla denuncia delle due donne coinvolte, che erano andate alla polizia affinché Assange si sottoponesse al test Hiv. I rapporti sessuali erano stati consensuali, questo non lo nega nessuno. Il giornalista australiano in un caso non avrebbe inizialmente usato il preservativo anche se richiesto dalla partner, mentre nell’altro episodio in questione l’avrebbe utilizzato in un primo momento per poi toglierlo, durante un rapporto in cui l’accusatrice sostiene fosse addormentata. Tutto ruota intorno all’uso del preservativo, ma per la legge svedese si parla anche in questi casi di stupro, anche se una fattispecie meno grave, il cosiddetto minor rape. Secondo punto, l’inchiesta è stata aperta e chiusa più volte, dal 2010 al 2019, senza che mai l’autorità giudiziaria si decidesse a rinviare Assange a giudizio oppure a scagionarlo. Terzo ed ultimo punto, le autorità svedesi non hanno mai voluto interrogare l’indagato che si trovava rifugiato nell’ambasciata dell’Ecuador, benché fosse legalmente possibile e lui fosse disponibile a farlo.

Perché?
Dopo una mia battaglia legale, utilizzando il Foia (la più importante legge americana di accesso pubblico all’informazione statale, ndr) siamo stati in grado di rivelare che le autorità inglesi avevano spinto quelle svedesi a non venire in Gran Bretagna per l’interrogatorio, chiedendo che il colloquio fosse compiuto solo dopo l’estradizione. Così, Londra ha dato un contributo cruciale per creare questo limbo giuridico lungo nove anni in cui Assange è rimasto intrappolato fino all’11 aprile 2019, quando l’Ecuador ha revocato l’asilo al giornalista e Scotland yard lo ha potuto arrestare per la violazione del rilascio su cauzione nel 2012 legata proprio all’indagine per stupro. Solo a quel punto, le autorità statunitensi hanno desecretato il loro mandato di arresto, per la violazione dell’Espionage act del 1917. Era ciò che Assange aveva sempre temuto. Nel frattempo, ad Assange era stata appiccicata addosso l’etichetta di stupratore, utile a sottrarre l’empatia e il supporto della opinione pubblica.

In che situazione si trova ora il giornalista australiano?
Vorrei prima di tutto ricordare che il Gruppo di lavoro sulla detenzione arbitraria dell’Onu ha stabilito che anche Assange ha subito una violazione dei diritti umani di questo tipo. Quando questo organo si esprime sulla Corea del Nord o sulla Cina, tutti lo prendono sul serio, quando invece accusa Svezia e Gran Bretagna no. Dopo il periodo da rifugiato chiuso nella ambasciata ecuadoregna, da oltre mille giorni Assange è recluso nel carcere di massima sicurezza di Belmarsh. Si trova in una situazione di forte isolamento, in condizioni psicologiche e fisiche assai compromesse, tanto è vero che le autorità giudiziarie inglesi in un primo momento avevano negato l’estradizione negli Usa per il rischio che il giornalista potesse suicidarsi. Le perizie mediche sono devastanti, parlano di ripetuti atti di autolesionismo. Ultimamente abbiamo saputo anche che ha avuto un’ischemia transitoria. Ad inizio dicembre, infine, l’Alta corte di Londra ha detto che Assange può essere estradato, dopo che in appello il governo Usa ha promesso che Assange non verrà sottoposto a regime di isolamento estremo, ha offerto “garanzie diplomatiche” a cui però nessuno crede davvero. Amnesty international ha definito le promesse come assolutamente inaffidabili. La battaglia giudiziaria comunque è ancora lunga, la difesa di Assange può ricorrere alla Corte suprema. Nel frattempo, però, il giornalista resta in carcere e la sua vita è appesa ad un filo.

Hai dichiarato che l’unica protezione su cui può contare Assange è l’opinione pubblica. Perché?
Sì, l’opinione pubblica mondiale deve assolutamente mobilitarsi per salvarlo. Non possiamo sperare in una protezione giudiziaria, perché tutto ciò che Assange ha subito sinora è stato compiuto attraverso la legge, la giurisprudenza è stata usata come una spada contro lui e contro Wikileaks. Dobbiamo difendere Assange, non solo tutelare lui, ma anche per salvare il nostro diritto di cittadini di poter guardare agli angoli più bui del potere, in cui i nostri governi compiono azioni terribili. Perché è questa la differenza tra i regimi e le democrazie. Nei primi se scopri cosa fa il governo in segreto puoi finire ucciso o in prigione a vita, nelle seconde devi poterlo fare senza rischi, sennò dobbiamo parlare di regime.


L’intervista è tratta da Left del 14-20 gennaio 2022

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Battaglia navale

La nave è sempre la Bahri Yanbu, che da anni fa la spola tra Usa, Europa e Arabia Saudita. Lunedì ha fatto scalo al porto di La Spezia e trasportava materiali militari e esplosivi. Una fonte ha raccontato a Il Manifesto: «Sono più o meno dieci, carri armati senza i cingoli atti al movimento nel deserto. Sono mezzi da guerra: nonostante la fasciatura chirurgica si può scorgere la forma del cannone. Sui ponti di coperta, come sempre, ci sono moltissimi contenitori con all’interno esplosivo. Lo usano poi per riempire gli involucri delle bombe. Imbarcati negli Stati Uniti».

Opal (l’osservatorio permanente sulle armi leggere e sulle politiche di difesa e sicurezza) ci fa sapere che i veicoli provengono dal Canada, spediti dalla General dinamic land systems, specializzata in mezzi militari corazzati da combattimento e in carri armati. Sono destinati alla Royal Guard, la Guardia Reale della Monarchia assoluta islamica dell’Arabia Saudita. Si tratta di veicoli blindati su gomma Apc (Armoured personal carrier, veicoli per trasporto truppe) modello Lav, fabbricati in Canada nello stabilimento di London, Ontario, dalla General Dynamics Land Systems. Un rapporto di Project Ploughshares e Amnesty International dello scorso agosto documenta che questo tipo di veicoli è stato impiegato nella guerra in Yemen. Conflitto che è iniziato nel marzo del 2015 con l’intervento militare a guida saudita e, secondo l’ufficio delle Nazioni Unite UNDP, ha portato ad oltre 377mila vittime, dirette e indirette, tra cui la metà bambini al di sotto dei cinque anni.

Opal aveva già chiesto alla Prefettura e alla Capitaneria di Porto-Guardia costiera di verificare preventivamente se la nave Bahri Yanbu stia trasportando materiali militari diretti a Paesi sottoposti alle misure di divieto di esportazione. La Legge n. 185 del 1990 (Nuove norme sul controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento), che regolamenta tutta questa materia, ha stabilito una serie di divieti non solo all’esportazione ma anche al transito di materiali militari. Tra questi il divieto all’esportazione e al transito di materiali di armamento «verso i Paesi in stato di conflitto armato», «verso Paesi la cui politica contrasti con i princìpi dell’articolo 11 della Costituzione», «verso i Paesi i cui governi sono responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani» (art. 1.6). L’abbiamo scritto molte volte, vale la pena ripeterlo.

In porto alla Spezia, le operazioni di carico e scarico della nave cargo saudita Bahri Yanbu, arrivata lunedì mattina al Terminal Container Lsct (molo Garibaldi), hanno visto «un ingente dispiegamento di Forze dell’ordine» che avrebbero assistito alle operazioni di carico di una «quarantina di casse di materiali, nello scalo da alcuni giorni, di cui non è stato reso noto né il contenuto né il mittente».

L’Arabia Saudita, nonostante piaccia tanto a qualche nostro senatore, nel 2015 è intervenuta militarmente (e illegittimamente) in Yemen. Contro l’Arabia Saudita ci sono almeno 10 risoluzione dell’Ue per avviare un processo di embargo. Lo Stato italiano, nel gennaio dello scorso anno, a seguito della Risoluzione della Commissione Affari esteri e comunitari, ha deciso di revocare le licenze relative alle esportazioni verso l’Arabia Saudita e gli Emirati arabi uniti di «bombe d’aereo e missili e loro componentistica che possono essere utilizzate per colpire la popolazione civile in Yemen».

Provate a immaginare quanto sarebbe grave un così ampio dispiegamento di forze dell’ordine in un porto per permettere di infrangere la legge.

Buon giovedì.


Per approfondire, Left del 17-23 dicembre 2021

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