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Salario minimo? Ce lo chiede l’Europa

©LAPRESSE 22-01-2002 FRANCOFORTE ESTERO EURO NELLA FOTO: UN GIGANTESCO SIMBOLO DELL' EURO DAVANTI ALLA BANCACENTRALE DI FRANCOFORTE

Chissà come sono saltati sulla sedia tutti i finto-europeisti, che usano l’Ue per fomentare la finanza e poi se ne dimenticano quando si tratta di diritti, leggendo che l’Europarlamento ha approvato il mandato concordato dalla Commissione per l’occupazione e gli affari sociali (443 voti a favore, 192 contro e 58 astensioni) per avviare i colloqui con i governi dell’Unione Europea su una direttiva che garantirà a tutti i lavoratori dell’Ue un salario minimo equo e adeguato.

Quel salario minimo che da noi è visto come il diavolo perché, si sa, potrebbe turbare il sonno di un’imprenditoria che spesso investe sulla ricerca di schiavi più che investire nella qualità del proprio lavoro, dei diritti e dei prodotti. Chissà come saranno terrorizzati del fatto che l’Europarlamento propone due soluzioni: un salario minimo legale (il livello salariale più basso consentito per legge) o la contrattazione collettiva fra i lavoratori e i loro datori di lavoro. Salario minimo e contrattazione collettiva qui da noi sono state attaccate da più parti in tutti questi anni perché i valenti liberali hanno provato a convincerci che fossero la rovina dell’economia. L’Europa non sembra essere d’accordo.

Chissà se qualcuno non si vergognerà di avere cassato il dibattito sul salario minimo qui da noi (dibattito sempre trattato come una fisima di pochi brigatisti dell’economia) e ora gli tocca prendere atto che invece ne stanno parlando tutti.

Intanto in Germania stanno portando il salario minimo a 12 euro; 12 euro è il salario medio di un lavoratore italiano. Quindi il più povero in Germania guadagnerà come un italiano medio. Si nota la differenza? A proposito: Banca d’Italia dice che le imprese non crescono perché non investono, mica per il costo del lavoro (lo scrive qui).

Quanto deve essere dura fare i conti con la realtà.

Buon venerdì.

 

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Femminicidi, per lo Stato ci sono figli e figliastri

CAGLIARI, ITALY - NOVEMBER 25, 2017: Zapatos rojos by Elina Chauvet near Piazza Garibaldi - Sardinia

La storia di Giovanna Zizzo parte da San Giovanni La Punta, in provincia di Catania. In una notte di agosto del 2014 il suo ex marito, allontanato perché aveva un’altra relazione, ha compiuto un gesto atroce per un uomo e per un padre.
Ha riversato la propria ferocia sulle figlie con cui dormiva, uccidendone una col coltello, Lauretta di 11 anni, e ferendo gravemente l’altra, Marika.
Le urla hanno svegliato gli altri due fratelli che erano in un’altra stanza. Marika restò in coma per alcuni giorni. Da quel giorno Giovanna combatte con dignità una battaglia quotidiana per garantire una vita ai tre figli, dando loro un esempio di coraggio. Un’impresa non facile. Al dolore per la figlia persa si è aggiunta l’assenza di sostegno delle istituzioni locali.
Giovanna cresce i figli da sola e ha soltanto il reddito di cittadinanza, vivendo con i genitori, in una Sicilia dove è difficile avere un futuro per chi è giovane.
Conoscevo la vicenda prima di essere eletta in Parlamento e ora, con altri colleghi, ho cercato di portare il caso alle istituzioni nazionali. Mi batto perché a Marika possano giungere aiuti e sostegno dallo Stato. La legge in vigore contro i femminicidi e a favore delle vittime di reati intenzionali violenti offre un indennizzo ai sopravvissuti, ma non a tutti. Giovanna Zizzo ha avuto diritto ad un aiuto ma non i figli. Neanche Marika, oggi una giovane donna carica di dolore, che dopo aver visto morire la sorellina fra le proprie braccia, il coma e 80 punti di sutura ha ottenuto solo il rimborso per le spese sanitarie.
Questo stabilisce l’art 14 della legge 122/2016 che ha introdotto il Fondo per l’indennizzo. Giovanna Zizzo ha incontrato nel 2018 l’allora ministro Bonafede – l’accompagnai io stessa -. Poco dopo fu elaborata la cosiddetta legge “Codice rosso”, furono stanziati nuovi fondi e ampliati i casi di indennizzo, ma fra questi non rientra Marika. Con altre colleghe abbiamo scritto al prefetto Cardona, oggi Commissario per il coordinamento delle iniziative di solidarietà per le vittime dei reati di tipo mafioso e dei reati intenzionali violenti, presso il Viminale esponendogli questo e altri casi. A giugno del 2021, in conferenza stampa, ha promesso di trovare una soluzione per una vicenda considerata “atipica”. La normativa è progredita ma non è ancora sufficiente. Non è solo una questione economica ma …

*L’autrice: Simona Suriano è deputata iscritta al Gruppo misto


L’articolo prosegue su Left del 26 novembre 2021

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Interruzione di gravidanza, quelli che negano la possibilità di scelta

TURIN, ITALY - OCTOBER 31: Women from the Feminist Collective 'Non Una Di Meno' dye their hands with purple paint and leave handprints in protest over Anti-Abortion laws on October 31, 2020 in Turin, Italy. Five hundred people including members of the "Non una di Meno", an Italian feminist association, gathered in Piazza Castello in Turin, to protest over Anti-Abortion laws. (Photo by Stefano Guidi/Getty Images)

Tra una dichiarazione e l’altra del papa, che ci ricorda ad intervalli più o meno regolari che l’aborto è un omicidio e chi lo pratica è un sicario, l’ultima Relazione al Parlamento del ministro della Salute ci fornisce una fotografia dello stato di applicazione della legge 194 nel 2019. Una fotografia sfocata, perché basata su dati chiusi, aggregati per Regione, che difficilmente permettono di comprendere una realtà caratterizzata da forti differenze non solo a livello regionale, ma anche all’interno di una stessa provincia. Basandosi su questa osservazione, Chiara Lalli e Sonia Montegiove hanno inviato alle singole Asl e alle strutture ospedaliere una richiesta di accesso civico ai dati riguardanti l’obiezione di coscienza. I risultati preliminari della loro iniziativa, illustrati al congresso nazionale dell’associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica, ci parlano di tante strutture ospedaliere nelle quali il 100% dei ginecologi è obiettore di coscienza.

Seppur inquietante, questa situazione non dovrebbe avere grandi ripercussioni sulla possibilità di interrompere una gravidanza non voluta, perché la legge 194 è molto chiara in proposito: l’articolo 9, che regola il diritto del personale sanitario a sollevare obiezione di coscienza, stabilisce infatti che tutti gli ospedali – anche quelli nei quali tutti i ginecologi siano obiettori – sono tenuti «in ogni caso ad assicurare l’espletamento delle procedure previste dall’articolo 7 e l’effettuazione degli interventi di interruzione della gravidanza richiesti». Ciò non significa che in tutte le strutture sanitarie si debbano praticare aborti, ma la legge afferma chiaramente che tutte devono garantire alle donne il percorso Ivg. Questo non avviene praticamente mai: negli ospedali dove non si praticano aborti (secondo la relazione ministeriale sono il 36,9% del totale, compresi alcuni di quelli in cui si pratica la diagnostica prenatale), di fronte ad una richiesta di Interruzione volontaria di gravidanza tutti si girano dall’altra parte, convinti che il problema non li riguardi.

Se, fino ad oggi, i dati aggregati avevano garantito l’anonimato alle strutture che arrogantemente violano la legge, i dati aperti rendono drammaticamente visibile l’illegalità, probabilmente ignorata persino dagli assessori alla sanità e dai presidenti delle Regioni che invece sono chiamati dal già citato articolo 9 alla vigilanza sulla corretta applicazione della legge. Così, mentre con la relazione al Parlamento il ministro riferisce sullo stato di applicazione della legge, i dati aperti, disaggregati, ci fanno capire quanto, a 43 anni dalla sua approvazione, la legge 194 sia ancora largamente inapplicata o male applicata; ciò si traduce, soprattutto in alcune aree del nostro paese, in una reale difficoltà di accesso all’aborto. In un articolo pubblicato sul British Medical Journal, le autrici riportano che…

*L’autrice: Anna Pompili è medica specialista in ostetricia e ginecologia, membro della Uaar e dell’associazione Luca Coscioni


L’articolo prosegue su Left del 26 novembre 2021

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Gli inquisitori del terzo millennio

ROME, ITALY - APRIL 20: Pope Francis attends the Liturgy of the Light during the he Easter Vigil Mass at St. Peter's Basilica on April 20, 2019 in Rome, Italy. (Photo by Franco Origlia/Getty Images)

«L’aborto è un omicidio e non è lecito diventarne complici». «Tra le vittime della cultura dello scarto ci sono i bambini che non vogliamo ricevere, con la legge sull’aborto che li rimanda al mittente e li uccide. E questo è diventato normale, una abitudine, una cosa bruttissima, un omicidio». E ancora. «È giusto fare fuori una vita umana per risolvere un problema? È giusto affittare un sicario per eliminare un problema?». Solo negli ultimi due mesi papa Francesco è intervenuto per ben tre volte senza mezzi termini rimarcando qual è la linea della Chiesa in tema di interruzione volontaria di gravidanza e come si devono comportare (in Italia ma non solo) i medici, gli anestesisti e i farmacisti cattolici di fronte a una donna che intende esercitare il diritto di scegliere se abortire o no.
Come accade sempre quando parla Bergoglio, le sue parole veicolate dalle veline della sala stampa vaticana sono state prontamente rilanciate dai media generalisti italiani senza alcun filtro critico. E come sempre nessun politico o rappresentante delle nostre istituzioni si è sentito in dovere di alzare laicamente un argine a difesa del diritto dell’autodeterminazione della donna e delle evidenze scientifiche in tema di aborto.
Fatto sta che l’attacco alla legge 194/78 basato sulla credenza che l’embrione e il feto siano persona, la negazione dell’identità femminile e la chiamata alle armi dei medici obiettori sono una costante di questo papato (curiosamente definito “progressista” anche a sinistra). E stando ai…


L’inchiesta prosegue su Left del 26 novembre 2021

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Padri assassini, alla radice di una violenza poco indagata

young homeless boy sleeping on the bridge, poverty, city, street

L’orrore è tale che non si riesce quasi a immaginare: un bambino di 10 anni, solo a casa, apre la porta a suo padre che lo uccide con una coltellata alla gola. È successo il 16 novembre a Cura di Vetralla, nel viterbese. Marjola Rapaj ha trovato suo figlio Matias già senza vita in un stanza, e nell’altra il suo ex compagno in stato confusionale. Il giorno dopo, a Sassuolo un altro padre stermina l’intera famiglia, due bambini di due e cinque anni, la ex-compagna e la suocera; si salva solo la bambina più grande che era a scuola.

Poi tre femminicidi, tutti in Emilia Romagna, nella stessa settimana, alla fine della quale quasi ci si dimentica di Matias ma anche gli altri bambini uccisi sono vittime come le madri e le altre donne della violenza maschile di chiara matrice patriarcale che si scatena quando la donna decide di separarsi. È tragicamente vero che i bambini sono coinvolti nelle dinamiche tra i genitori, che vengono con colpevole superficialità e assurda imparzialità definite “conflittuali” perfino quando il cosiddetto conflitto esplode nella violenza omicida.

Ma è insopportabile che le morti dei bambini vengano archiviate sotto la categoria del femminicidio perché verrebbero uccisi per vendetta nei confronti delle madri, annullando così l’identità e il valore della vita dei bambini per se stessi, negando l’evidenza della gravità di gran lunga maggiore della violenza rispetto a quella che si rivolge contro la sola donna, e non ovviamente per una questione meramente quantitativa, di uccidere una o più persone, ma piuttosto per il rovesciamento totale del rapporto genitore figlio, fino a togliere la vita che si era data.

Proprio in questo è evidente come l’idea del possesso, a cui la mentalità patriarcale riduce qualunque rapporto umano, sia la cifra di questi delitti, ma basta quest’idea a spingere un padre ad uccidere brutalmente i suoi figli? O non si deve almeno immaginare che quel tanto di affetti dai quali un giorno i figli sono nati siano andati perduti, insieme al rapporto con la madre?

Si sa veramente poco dei figlicidi, perfino le statistiche sono più rare e meno…

*L’autrice: La psichiatra e psicoterapeuta Barbara Pelletti è presidente dell’associazione Cassandra


L’inchiesta prosegue su Left del 26 novembre 2021

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Libere di essere e di scegliere

In Italia c’è un femminicidio ogni tre giorni. Dall’inizio dell’anno sono già 108 le donne uccise, perlopiù da mariti, ex o familiari. In molti casi a scatenare la violenza è la volontà delle donna di separarsi, di rifarsi un’altra vita. Una nota scrittrice qualche giorno fa diceva in tv: il problema è l’idea maschile dell’amore come possesso.

No, torniamo a ripetere con forza, la possessività di alcuni uomini, la gelosia, non è amore, è controllo e sopraffazione. Dove c’è violenza, non ci può essere amore, che al contrario si esprime anche come profondo interesse per l’altro, per la sua piena realizzazione. Così come non c’è nulla di sessuale nello stupro. La sessualità è l’esatto contrario della violenza che è sempre patologica. Ma la cultura dominante nega tutto questo. Anche qualche giorno fa riportando notizie sull’assassinio di Juana Cecilia un quotidiano locale ha titolato: “Sesso nel parco prima di ucciderla”.

Di anno in anno ogni 25 novembre (e non solo) continuiamo a ripetere queste incontrovertibili evidenze che, se non fossero negate, aiuterebbero il cambiamento culturale e farebbero fare un passo avanti nella lotta alla violenza sulle donne. Il punto non è solo sanzionare ma è puntare a eradicare la violenza contro le donne, perché la violenza non è un dato di natura, innato, negli uomini. Per farlo però bisogna agire su più piani e su tutti quanti siamo in ritardo.

Sul piano della legge, per restare all’Italia, il ministro Lamorgese ha annunciato un nuovo pacchetto di norme volte ad aumentare il minimo delle pene per potere poi procedere con strumenti di prevenzione maggiormente efficaci. Come drammaticamente ci dice anche l’uccisione di Juana Cecilia, le donne che denunciano troppo spesso non vengono sufficientemente protette.

Il suo ex compagno era stato condannato per stalking, ma non è bastato. Per questo bisogna urgentemente rafforzare la rete di strutture pubbliche preposte ad aiutare le vittime nel loro percorso di liberazione, dalle case protette ai centri antiviolenza. Il report di Action Aid, Cronache di una occasione mancata, rileva che solo il 2% dei fondi stanziati è arrivato ai centri anti violenza. Oltre al deficit di finanziamento c’è quello culturale. Le stesse forze dell’ordine troppo spesso non hanno una formazione personale tale da riuscire a vedere la violenza se non è conclamata.

Le donne che denunciano un partner violento non di rado non vengono credute oppure vengono incoraggiate alla riconciliazione talora anche da chi raccoglie la denuncia o da parenti ciechi di fronte alla violenza invisibile, quella psicologica, che precede sempre quella fisica.

Per questo è fondamentale continuare a fare quotidianamente, sui media, nei tribunali, nelle scuole un lavoro capillare per decostruire stereotipi, per smascherare i pregiudizi e i giudizi svalutanti nei confronti delle donne ma anche dei bambini, da certi maschi, considerati come esseri inferiori, negati nella loro realtà umana, usati come arma di ricatto. E in casi come quelli recenti di Vetralla e Sassuolo addirittura uccisi. Con l’aiuto delle psicoterapeute Barbara Pelletti e Maria Gabriella Gatti su questo numero di Left siamo tornati ad indagare le radici culturali e patologiche di questi agghiaccianti crimini.

Occupandoci non solo della violenza manifesta ma anche di quella violenza invisibile esercitata sulla donne dai monoteismi. E in particolare da Santa Romana Chiesa che trova alleati fra i cattolici che siedono in Parlamento. Alcuni anni fa il papa volle visitare la parte di un cimitero romano dedicata ai “bambini non nati” e ora alcuni teologi parlano dei feti abortiti come martiri, invocando un iter in Vaticano per il riconoscimento ufficiale del “martirio”. Più volte e anche nelle ultime settimane il papa ha stigmatizzato come assassine le donne che decidono di abortire. «È come affittare un sicario per risolvere il problema», ebbe a dire qualche anno fa.

Che il pontefice segua la dottrina negando ogni evidenza scientifica e arrivando a confondere il feto con il bambino non ci stupisce, fa il suo “mestiere” di papa. Ma che lo faccia una senatrice del Parlamento italiano è ancor più inaccettabile. Qualche giorno fa negando la neonatologia quando afferma che il feto è una realtà puramente biologica, la senatrice e neuropsichiatra infantile Paola Binetti ha presentato nella sala Caduti di Nassirya del Senato una legge di iniziativa popolare in cui si legge: «Ogni essere umano ha la capacità giuridica fin dal momento concepimento».

In Abruzzo, intanto, Fratelli d’Italia ha presentato una proposta di legge regionale per creare «un camposanto dei bambini mai nati». Il testo prevede il seppellimento dei feti abortiti in quell’area anche se i genitori non provvedono e non lo richiedono. L’Abruzzo come il Texas insomma. Come già rischia di esserlo Roma, denuncia Francesca Tolino che dopo aver abortito ha dovuto subire la violenza di vedere il feto tumulato e senza il suo consenso. Sopra la croce c’era scritto il suo nome. Alla gogna per aver deciso di non portare avanti la gravidanza per le gravissime malformazioni del feto. E questa non sarebbe violenza?


L’editoriale è tratto da Left del 26 novembre 2021

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Caro fallocrate

Foto Claudio Furlan - LaPresse 25 Novembre 2020 Milano (Italia) News Azione del collettivo femminista Non una di meno presso la sede della compagnia di assicurazioni in centro a Milano di cui Alberto Genovese è primo azionista , in occasione della giornata mondiale contro la violenza sulle donne Photo Claudio Furlan - LaPresse 25 November 2020 Milan ( Italy ) News Action by the feminist collective No less at the headquarters of the insurance company in the center of Milan of which Alberto Genovese is the main shareholder, on the occasion of the world day against violence against women

Caro fallocrate,

come ti senti oggi che è la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne e tu sei convinto che la cosa non ti tocchi, al massimo un post veloce su Facebook con la manfrina delle donne che non si toccano nemmeno con un fiore o altri gesti facili, veloci, deresponsabilizzanti.

Chissà, caro fallocrate, se poi te ne vai gonfio, tronfio e grondante di gel in ufficio sentendoti un maschio vero mentre rilasci complimenti unti sull’abbigliamento delle tue collaboratrici, mentre ti informi se hanno un fidanzato o meno, mentre inviti insistentemente per un caffè che con quel lavoro non c’entra niente o mentre fai sapere che quelle dovrebbero essere onorate dalla tua attenzione, mica lamentarsi, soprattutto quando tua moglie è in vacanza e non riesci a trattenere l’irresistibile fremito di solitudine del tuo muscolo involontario. Perché sono sicuro caro fallocrate che anche tu sarai uno di quelli che rimane sorpreso che quasi il 70% delle lavoratrici dichiara di aver subito almeno una molestia, quasi 3 lavoratrici su 10 di aver ricevuto domande sulla propria volontà di sposarsi e/o fare figli a un colloquio di lavoro, che  domande insistenti e invadenti sulle proprie relazioni personali le ha ricevute 1 donna su 4, che battute o offese legate al proprio genere, fatte sul lavoro a 2 donne su 10. Lo dicono i dati della ricerca “La cultura della violenza. Curare le radici della violenza maschile contro le donne“, realizzata da WeWorld con Ipsos proprio per la giornata di oggi. Una di quelle ricerche che nelle aziende bisogna fingere di avere letto e magari aggiungerci un po’ di contrizione. Perché sono sicuro, caro fallocrate, che tu sei convinto che quel 70% di donne che hanno subito molestie sul luogo di lavoro ti stupisca, tu e i tuoi colleghi tutti invece così bravi. Come ci si sente a giustificare un mondo pieno di donne molestate e mai nessun molestatore?

Caro fallocrate, all’interno di una relazione sentimentale/familiare il 22% delle donne dichiara di aver ricevuto uno schiaffo/spinta e il 20% una minaccia o un insulto, mentre il 18% ha subito un controllo del proprio telefono o computer e il 17% delle proprie frequentazioni. Nel complesso, all’interno di una relazione, sono 4 su 10 le donne che raccontano di aver subito almeno una molestia o un controllo. Sono certo, caro fallocrate, che non ci sia niente di più facile per te di pensare che tu non c’entri, che il tuo sia amore, forse ami troppo, forse il problema è solo quello.

Caro fallocrate, immagino che ti sia comodo pensare che la violenza sulle donne sia un’emergenza, mica il meccanismo di prevaricazione maschile volto a mantenere (anche inconsapevolmente) quell’asimmetria sociale che si è storicamente radicata. E in fondo non sei solo visto che poco più del 20% degli italiani ritiene che spesso la violenza sia frutto di un raptus momentaneo dell’uomo e il 15% ritiene che spesso sia frutto del fatto che le donne a volte sono esasperanti. Quota simile per quanto riguarda il considerare la violenza come prodotto del troppo amore degli uomini nei confronti di una donna, o dell’abbigliamento della donna considerato troppo provocante. Poco più del 10% ritiene che il tradimento possa giustificare la violenza.

Caro fallocrate, l’incremento di chiamate al 1522, il numero di emergenza per le segnalazioni di violenze e stalking  segna un +79,5% rispetto allo scorso anno, secondo l’Istat. I femminicidi per cui inorridisci sono solo l’ultimo stadio di qualcosa che coltivi tutti i giorni. Facciamo così, per oggi niente smancerie barzotte di solidarietà alle donne. Per oggi pensati, ripensati, fai di meglio. Sarà meglio per tutti.

Buon giovedì.

Nella foto: Manifestazione di Non una di meno, Milano, 25 novembre 2020

 

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Femminicidi, se lo Stato è complice

A gentleman photographs the billboard installed in front of the Liceo Classico in Molfetta, with the photos of the students and a message against violence against women, on November 25th, at Corso Umberto di Molfetta. On the occasion of the international day against violence against women on November 25, the Liceo Classico di Molfetta, in front of the school at Corso Umberto di Molfetta, installed two posters with photos of some students and a message to counter and eliminate violence against women and unrolled a red cloth, a symbol of the blood shed by women affected by this violence. (Photo by Davide Pischettola/NurPhoto via Getty Images)

«Ero una bambina. A 13 anni sei una bambina. Ma questo non è bastato a proteggermi perché mio padre mi ha venduto a uomo sconosciuto che aveva 23 anni più di me. Ho pianto così tanto dopo il matrimonio, fino a farmi mancare il respiro. Sono stata obbligata a una vita del genere perché era così che capitava, era una cosa comune nel nostro villaggio, qui in Afghanistan. Non ho avuto la forza o l’occasione per ribellarmi, ma quando mia figlia ha compiuto 15 anni e mio marito ha cercato di farla sposare ho scelto di lottare per lei, perché non accadesse quello che avevo subito io».

Il matrimonio precoce e forzato subito da Qamar è una violazione dei diritti umani che coinvolge ancora giovani in tutto il mondo: nel 2019 ha riguardato il 16% delle ragazze fra i 15 e i 19 anni (dati Focus2030). Ed è anche una delle tante – troppe – forme della violenza contro le donne. A livello globale, le donne subiscono violenze e discriminazioni in ogni ambito della vita, semplicemente perché sono donne. Possono essere sotto rappresentate nel processo decisionale politico, escluse dalle opportunità economiche e il loro lavoro svalutato all’interno della famiglia. Questa disuguaglianza sistemica ha un forte impatto sui loro diritti e le rende più vulnerabili alla violenza.

«La violenza contro le donne è un problema globale – spiega Katia Scannavini, vice segretaria generale ActionAid Italia – che coinvolge persone di ogni Paese, cultura, condizione economica e sociale. Stiamo parlando di un fenomeno strutturale che tuttavia non viene affrontato con efficacia o con fondi adeguati dalle varie politiche nazionali di prevenzione, protezione e contrasto perché la lotta alla violenza contro le donne non è una priorità».

La punta dell’iceberg sono i femminicidi, con stime che indicano che ogni giorno nel mondo 137 donne vengono uccise dal partner o da un familiare (dati Onu 2020). Il fenomeno è estremamente ampio e oltre a includere violenze fisiche o psicologiche si insinua anche in tradizioni culturali che sfociano nelle mutilazioni genitali femminili – che in Africa, Medio Oriente e Asia coinvolgono, secondo i dati Oms, oltre 200 milioni di donne e ragazze – o nelle aggressioni con l’acido, come quella subita da Jasmen quando aveva solo 16 anni. Il suo aggressore lavorava nel negozio di suo padre e per lei era “lo zio”. Invaghitosi di lei l’ha colpita con l’acido per renderla vulnerabile. In questo modo la famiglia avrebbe certamente acconsentito al matrimonio. «Quella sera avevo finito tardi di studiare per gli esami. Ero a letto quando ho sentito il calore sulla faccia ho pensato che qualcuno mi avesse lanciato dell’acqua calda in faccia, perché bruciava». Solo durante la corsa verso l’ospedale i genitori si sono accorti che non era acqua bensì acido. «Dopo quello che ho subito la vita è…


L’articolo prosegue su Left del 19-25 novembre 2021

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Lo sfregio culturale contro la donna

SAPRI, ITALY - SEPTEMBER 28: The statue of Emanuele Stifano dedicated to the Spigolatrice (Gleaner) on September 28, 2021 in Sapri, Italy. Controversy over the inauguration of a statue created by the artist Emanuele Stifano and dedicated to the Spigolatrice (Gleaner) of Sapri, a legendary farmer who would have played a role in the failed expedition of the Risorgimento hero Carlo Pisacane, who arrived in Sapri in 1857 in an attempt to raise the local populations against the Bourbons. The statue, inaugurated on 25 September 2021 on the Sapri seafront, has sparked heated controversy as it is believed by some to be sexist. (Photo by Ivan Romano/Getty Images)

A passare in questi giorni nelle Gallerie degli Uffizi a Firenze, proprio tra le sale di Leonardo e Michelangelo, capita di incontrare le fotografie di Ilaria Sagaria, che raccontano con delicatezza pari all’intensità storie di donne sfregiate dai loro ex compagni e mariti. Donne che non vediamo in volto, perché ci volgono le spalle, perché sono bendate, o perché semplicemente sono fuori dal campo visivo. Ma a spiazzarci è che queste immagini di silenziosa e tragica eleganza, sotto il titolo Lo sfregio, siano accostate al ritratto femminile forse più sensuale e vitale di tutto il Seicento, la Costanza Bonarelli di Gian Lorenzo Bernini, in temporanea trasferta dalla sua sede abituale (il Museo del Bargello). Sì, perché pure Costanza fu sfregiata, nella carne e non nel marmo, dal suo amante Gian Lorenzo, che così aveva reagito scoprendo una relazione tra lei e il fratello dell’artista. Una violenza consumata a freddo, perché eseguita da un servo. Ma comunque un crimine. Bernini se la cavò con una pena mite e il successivo perdono del Papa (che di lui aveva bisogno). Costanza, vittima ma adultera, ebbe bisogno di un passaggio in convento prima di tornare dal marito, anch’egli scultore, e ricostruirsi vita e carriera con lui. A fronte della sua libertà e della sua determinazione, il furore del più grande scultore del secolo riduce la grandezza a qualcosa di miserrimo.

A prima vista la mostra potrebbe offrire lo spunto per una riflessione in termini di cancel culture. Perché vandalizzare l’effigie di Indro Montanelli per i suoi trascorsi coloniali con una ragazzina etiope e non censurare Bernini, autore di un gesto odioso anche per la giustizia e la morale del XVII secolo? Ma è davvero questo il modo corretto di affrontare la questione? Il fatto che Caravaggio abbia ucciso un uomo e Rimbaud abbia fatto pure il mercante d’armi (per tacere di Verlaine, che gli aveva sparato) può avere la meglio sulla loro opera? Possiamo vandalizzare il Partenone perché espressione di una civiltà schiavista e per molti versi xenofoba? Fino a che punto è legittimo attribuire a epoche e contesti molto diversi dai nostri (anche quando i luoghi sono gli stessi) valori, e dunque comportamenti, propri del nostro tempo?
Il rischio è quello di appiattire tutto sul presente, e di perdere la complessità della prospettiva sul passato. Se boicottassimo Bernini, non credo che la nostra conoscenza del Seicento ne risulterebbe illuminata, né la condizione della donna conoscerebbe un netto miglioramento. Ma la mostra ci suggerisce che la violenza sulle donne è fenomeno di lunga durata e radicamento non meno tenace. E che occorre riflettere su…


L’articolo prosegue su Left del 19-25 novembre 2021

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Salviamo l’isolotto di Santo Stefano dal cemento

Seascape with island in front

Ho incontrato una vertenza (così mi viene di chiamarla) che riguarda il progetto di recupero e valorizzazione dell’ex carcere borbonico dell’isola di Santo Stefano, che prevede la realizzazione di un sito di alta formazione e di produzione, di attrattività culturale e turistica. Un progetto che prevede una riqualificazione paesaggistica, cantieri scuola, visite guidate, allestimenti museali, eventi e installazioni artistiche. Con la costruzione di un molo di cemento a rappresentare l’infrastruttura di approdo.
Avete presente? Santo Stefano è l’isolotto vicino di mare di Ventotene (nell’arcipelago delle isole pontine, al largo delle coste laziali), a cui è legato per prossimità geografica e per condivisione di storie di reclusioni e confini.
Nel carcere di Santo Stefano hanno trovato “ospitalità” lo scrittore Luigi Settembrini, il politico e patriota Silvio Spaventa, gli anarchici Gaetano Bresci e Giuseppe Mariani; durante il fascismo vi furono imprigionati Sandro Pertini, Umberto Terracini e il futuro senatore del Partito Comunista Italiano, Mauro Scoccimarro. Altri antifascisti vennero confinati nella vicina Ventotene.

Santo Stefano è una roccia piena di Storia, come Ventotene. Insieme trasmettono significati che le trascendono, che le fanno essere, loro malgrado, luoghi simbolicamente espressivi e naturalisticamente e culturalmente attrattivi. Sono parte di una sorta di arcipelago geopolitico del federalismo europeista, di un immaginario che, come per una sorta di contrappasso dei significati, trasuda idee di fratellanza e liberazione, pur essendo state, entrambe le isole, luoghi di segregazione e sofferenza.
Proprio in questi giorni, per connessioni misteriose e forse solo ipoteticamente casuali, mentre leggevo gli atti del progetto e le ragioni dei comitati che lo contrastano, mi ronzavano in testa le parole di Rodolfo il Glabro, spietato narratore apocalittico delle calamità naturali avvenute intorno all’anno Mille: «Pareva che gli elementi lottassero tra loro in reciproco conflitto. Mentre è certo che infliggevano una punizione alla superbia degli uomini».

Leggo il progetto e le ragioni dei comitati, mentre Cop26 fallisce e annega in un mare di buone intenzioni, mentre i siciliani fanno i conti con il significato concreto della parola tornado e l’Europa sognata da Spinelli soccombe tra le “ragioni” dei grandi inquinatori del pianeta, nel corso del G20. Mentre mia figlia mi chiede com’è possibile che a Ventotene, nel mar Tirreno, qualcuno vada a pesca di barracuda e non veda l’ora di incontrare i pesci pagliaccio!
Leggo il progetto e penso che sia animato dalle migliori intenzioni sui temi dell’occupazione, del rilancio del sito, della ristrutturazione del carcere, della riduzione del danno ambientale. Ma tutto questo temo non basti.
Leggo e ho sempre più la certezza che i progetti sull’isola (ora disabitata) costituiscano grafemi di una lingua estranea a quella che il pianeta e l’ambiente ci impongono di acquisire con la massima urgenza.

Se questo arcipelago deve essere la porta simbolica dell’Europa, se l’Europa, come sta accadendo, sta provando veramente a diventare capofila mondiale della battaglia ai cambiamenti climatici, allora appare evidente come ogni progetto che riguardi queste isole, per la loro valenza ambientale (siamo in un’area protetta, nella riserva marina e terrestre statale; il molo terminerebbe a pochi metri dalla foresta di Posidonia Oceanica), politica e di messaggio simbolico, debba avere il segno di una radicale controtendenza rispetto al passato.

Il progetto da 70 milioni, avviato dal governo Renzi (!), in una fase storica pre pandemica, avrebbe dovuto, e forse ancora potrebbe, prendere in considerazione un impianto teorico e realizzativo capace di sintonizzarsi con le emergenze del presente; avrebbe potuto superare i cliché di un’epoca che ci ha portato agli attuali squilibri ambientali. Avrebbe dovuto mettere seriamente in discussione gli assiomi che hanno caratterizzato le stagioni precedenti: la crescita occupazionale tramite lo sviluppo e il consumo (di terra, di energia, di spazi fisici), la produzione di scarti, la contaminazione degli equilibri di ecosistemi delicati attraverso progetti di antropizzazione alieni ai luoghi stessi.

Perché l’immagine di una Europa, quella della speranza, della pace e del riscatto disegnata da Altiero Spinelli, non proviamo a costruirla, come ci dicono comitati e molti esperti, attraverso iniziative, progetti, idee che abbiano in seno gli anticorpi al declino ambientale del pianeta? Il comitato che si oppone agli effetti ambientali del molo e di parte del progetto di riqualificazione propone strade alternative, meno impattanti eppure rispettose della necessità di intervenire per riqualificare. Io penso che, considerata la portata del progetto e la posta in gioco di una partita che va oltre le comunità isolane coinvolte, sia necessario riconsiderare l’opera alla luce del messaggio inequivocabile che ci sta mandando il pianeta.