Home Blog Pagina 350

I dimenticati delle campagne

Mamadou Bah, a migrant from Guinea, wears a sanitary mask to protect against coronavirus as he harvests zucchini at the Agricoltura Nuova farm near Rome, Tuesday, April, 7, 2020. In greenhouses workers keep the prescribed safety distance from each other. The new coronavirus causes mild or moderate symptoms for most people, but for some, especially older adults and people with existing health problems, it can cause more severe illness or death. (AP Photo/Alessandra Tarantino)

«Noi continuiamo a lavorare, senza di noi le campagne non possono andare avanti, ma pretendiamo un poco di rispetto. Vogliamo poter avere la residenza per dormire sotto ad un tetto. Non vogliamo soldi. Vogliamo documenti e contratti per lavorare in regola». A parlare dalle frequenze di Radio Onda rossa è un bracciante di origini africane impegnato nelle campagne pugliesi, che lo scorso 6 novembre era a manifestare a Roma in piazza Esquilino assieme a molti suoi compagni di lavoro per chiedere «permesso di soggiorno e sanatoria per tutti».

Nel bel mezzo della raccolta delle olive e alla vigilia di quella delle arance, sono molteplici, infatti, gli ostacoli per le persone straniere che lavorano in agricoltura. Innanzitutto, devono fare i conti con le conseguenze della sanatoria fallimentare disposta nel 2020 dal governo Conte II (v. inchiesta di Stefano Galieni) per favorire l’emersione dal “nero” di badanti, colf e braccianti agricoli. Delle 207.870 domande di regolarizzazione presentate, il 32,7% ha avuto esito positivo, ossia 68.147 (che in gran parte riguardano il lavoro domestico e di cura), a fronte di 10.757 richieste rifiutate e 1.973 terminate per rinuncia. E le altre 136.500? Sono ancora in attesa.

È questo il quadro desolante di una misura mai…


L’articolo prosegue su Left del 12-18 novembre 2021

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

Il maxi processo che ci dovrebbe interessare

Se avete voglia di esercitare un po’ di nauseata indignazione e una preoccupata curiosità per rendersi conto di quanto sia pericoloso lo Stato quando smette di essere Stato e di quale sia la condizione senza diritti, addirittura quasi dittatoriale, all’intento di alcuni settori del Paese allora c’è una maxi processo pronto per voi, uno di quelli che dovrebbe occupare tutte le prime pagine dei giornali e invece vedrete che verrà al massimo bisbigliato quando si arriverà alla sentenza.

Il fatto che le presunte vittime siano quelli che normalmente consideriamo “scarti” della società (ovvero i detenuti) e che i presunti colpevoli siano una delle categorie più solidarizzate da certa destra renderà tutto parossistico. È un processo allo Stato ma lo Stato, vedrete, farà finta che sai semplicemente un accidente laterale.

Ieri la Procura di Santa Maria Capua Vetere ha chiesto il rinvio a giudizio per 108 tra agenti e funzionari dell’amministrazione penitenziaria per la vicenda delle violenze ai danni dei detenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere avvenute il 6 aprile 2020. 108 persone non sono mele marce: 108 persone rinviate a giudizio sono perlomeno il terribile sospetto che la violenza sia sistemica e sistematica ed è qualcosa che fa rabbrividire.

I reati contestati a vario titolo sono quelli di tortura, lesioni, abuso di autorità, falso in atto pubblico e cooperazione nell’omicidio colposo di un detenuto algerino, del cui decesso sono accusati 12 indagati. Per altri 12, invece, i pm hanno chiesto l’archiviazione ma è probabile che a questi venga comunque notificato un decreto penale di condanna a pena pecuniaria per non aver, in qualità di pubblici ufficiali, denunciato quello che stava accadendo in carcere. L’udienza preliminare è stata fissata dal gip Pasquale D’Angelo per mercoledì 15 dicembre alle 9:30 nell’aula bunker dello stesso carcere.

Tra quelli che rischiano il processo ci sono elementi che contano della linea di comando: c’è Pasquale Colucci, comandante del Nucleo operativo traduzioni e piantonamenti del centro penitenziario di Secondigliano e comandante del gruppo di “Supporto agli interventi”, l’ex capo delle carceri campane Antonio Fullone, interdetto dal servizio, Tiziana Perillo, comandante del Nucleo operativo traduzioni e piantonamenti di Avellino, Nunzia Di Donato, comandante del Nucleo operativo traduzioni e piantonamenti di Santa Maria Capua Vetere; Anna Rita Costanzo, commissario capo responsabile del reparto Nilo, l’ex comandante della polizia penitenziaria del carcere di Santa Maria Capua Vetere Gaetano Manganelli.

Le telecamere hanno ripreso i detenuti mentre erano costretti a passare in un corridoio formato da agenti penitenziari con manganelli e caschi, prendendo calci, pugni e manganellate. Tra di loro anche un detenuto su sedia a rotelle. Alcuni detenuti furono trascinati già per le scale. Per la Procura e il gip quei comportamenti hanno integrato il reato di tortura (introdotto nel 2017), mai contestato a così tanti pubblici funzionari. Proprio per questo è un processo storico.

C’è un altro piccolo particolare di cui tenere conto: secondo la Procura dopo il 6 aprile del 2020 iniziò l’attività di depistaggio da parte di agenti e funzionari con certificati medici falsificati per dimostrare che gli agenti avevano subito violenze dai detenuti. Gli indagati inoltre provarono (invano) anche a manomettere le telecamere.

Ce n’è abbastanza per rischiare di essere una vicenda che fa rabbrividire. Conviene interessarsene ora, subito e molto.

Buon lunedì.

Nella foto: Frame dal video pubblicato dal quotidiano Il Domani

 

💥 Porta Left sempre con te, regalati un abbonamento digitale e potremo continuare a regalarti articoli come questo!

🆙  Bastano pochi click!

🔴  Clicca sull’immagine oppure segui questo link > https://left.it/abbonamenti

—> Se vuoi regalare un abbonamento digitale, scrivi a [email protected] oppure vai nella pagina abbonamenti, clicca sull’opzione da 117 euro e inserisci, oltre ai tuoi dati, nome, cognome e indirizzo mail del destinatario <—

Claudio Vercelli: Le cinquanta sfumature di nero che opprimono l’Italia

ROME, ITALY - OCTOBER 09: Forza Nuova members take part in a demonstration organized by No Green Pass, No Vax and far-right movements against the Green Pass, following the new decree outlined by Italian Government, near Italian Parliament, on October 9, 2021 in Rome, Italy. The health pass, "Green Pass", will also be mandatory for workers in the aim to limit the spread of the COVID-19. The pass shows that people have been vaccinated, tested negative in the last 48 hours or recovered from COVID-19. (Photo by Antonio Masiello/Getty Images)

Nel suo nuovo libro intitolato Neofascismo in grigio (Einaudi) lo storico Claudio Vercelli indaga la galassia della destra radicale tra l’Italia e l’Europa, mostrando anche come certe parole d’ordine della destra estrema nel Bel Paese siano diventate pericolosamente “mainstream” grazie a partiti come la Lega e Fratelli d’Italia che ammiccano continuamente a frange estreme. Ma attenzione, avverte il professore, “sovranismo”, “populismo”, “neonazionalismo”, ma anche “identitarismo” e “fondamentalismo” sono fenomeni dei tempi correnti. Non si riesce a fare luce sulla metamorfosi dei gruppi neofascisti e sul loro tentativo di proiettarsi verso una più ampia platea se la si legge come ritorno del fascismo storico. Per comprendere questi fenomeni regressivi e violenti che investono l’attualità occorre distinguere fra il fascismo storico, che è stato sconfitto dalla Resistenza e le forme che assume oggi. «Il fascismo storico occupò una intera società e un intero Paese per circa venti anni. Quel regime, per come fu allora, è irripetibile oggi – spiega Vercelli – anche perché le epoche storiche sono distinte; diversissime sono le condizioni sociali, culturali, economiche. Questo – sottolinea il professore – è un primo punto da cui partire per evitare la trappola dell’idea dell’eterno ritorno».
La tesi dell’Urfascismo sostenuta in particolare da Umberto Eco sottintendeva una inaccettabile idea di un fascismo innato nella natura umana; un’idea di immodificabilità e ci consegnava alla rassegnazione. La proposta che viene invece da Claudio Vercelli (e da Emilio Gentile) è di considerare il fascismo come un fatto storico, non metastorico ed eterno.

Professor Vercelli il fascismo storico è stato definitivamente sconfitto nel 1945?
Il 1945 segnò la conclusione di una guerra mondiale, scatenata dal nazifascismo. Quella data fu per il fascismo una gigantesca battuta di arresto, anzi direi di più fu la conclusione di una traiettoria.
I neofascismi sono nati dopo?
I neofascismi sono nati sulle macerie del 1945, sono vissuti e vivono in condizioni di semi clandestinità oppure su una linea di legalità molto stringente rispetto al loro operato, come si evince dalla storia del Movimento sociale italiano (Msi). Governi costituzionali e liberal-democratici dal 1945 in poi hanno imbrigliato le spinte radicali di destra. Non le hanno azzerate, ma le hanno quanto meno tenute dentro un sistema di vincoli perché restassero gruppi minoritari, anche dal punto di vista numerico. Oggi aree ideologiche neofasciste circoscritte possono però farsi eco di gruppi radicali in senso lato, raccogliendo una serie di umori, di atteggiamenti, una serie di pensieri e di condotte che sono ben più diffuse e…


L’articolo prosegue su Left del 12-18 novembre 2021

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

Bobby Sands, Oscar Wilde e Laurence McKeown: Le loro prigioni

A memorial mural to Bobby Sands by Irish artist and former Irish Republican Army member Danny Devenny, seen in Belfast (file picture April 2021). Today marks the 40th anniversary of Bobby Sands' death. He died on May 5, 1981, at the Maze Prison Hospital, after 66 days on hunger strike, at the age of 27. Sands became the martyr to Irish Republicans. On Wednesday, 5 May 2021, in Belfast, Northern Ireland. (Photo by Artur Widak/NurPhoto via Getty Images)

«L’aria era calda e soffocante, e pensai che l’amministrazione carceraria, dopo averci lasciati letteralmente morire di freddo nel corso di uno dei più gelidi inverni degli ultimi anni, con la neve che cadeva attraverso le finestre aperte sui nostri corpi nudi, avesse avuto un gran tempismo nel decidere improvvisamente di bloccare le finestre, trasformando in forni le nostre celle simili a tombe, proprio mentre arrivavano le lunghe e torride giornate estive».
Lo scriveva poco più di quarant’anni fa Bobby Sands, morto in carcere dopo 66 giorni di sciopero della fame. Stava descrivendo il momento in cui i secondini – nei Blocchi H di quella brutale prigione britannica in Irlanda del Nord chiamata The Maze, “il labirinto” – si accorsero che i detenuti riuscivano a comunicare dalle finestre, usando strisce di tessuto strappate dalle coperte con legato all’estremità un peso morto. Risultato: le sbarrarono. Il resto del resoconto di quella giornata è tra i più crudi, monito ancora oggi per le condizioni di vita in tante carceri nel mondo: «La logica di seppellire completamente degli uomini nudi, che erano già stati privati dell’esercizio fisico, dell’aria fresca e della luce naturale, della vista delle nuvole, delle stelle, della luna e di tutto il resto. Aggiungeteci poi una luce bianca accecante tenuta costantemente accesa all’interno delle celle. Sopravvivere con diete restrittive e dormire su un vecchio, umido e sporco materassino sul pavimento… Una cella… trasformata in tomba. È una questione tutta psicologica, che mira a creare frustrazione, depressione, disperazione e così via».

Non sempre si pensa alle condizioni mentali dei carcerati, eppure sono chiaramente gran parte del loro disagio. Lo sapeva bene un altro prigioniero irlandese illustre, Oscar Wilde, che ne parlò apertamente sulla stampa. Era stato condannato a due anni di lavori forzati dopo vicende giudiziarie agghiaccianti, che vale la pena di riassumere brevemente. Tutto nacque da un processo per diffamazione da lui intentato contro il marchese di Queensberry, padre del suo amante Lord Alfred Douglas, detto Bosie. A difendere il marchese fu un ex compagno di studi di Wilde, Edward Carson, che meno di venti anni dopo, nel 1913, sarebbe stato il fondatore, in Irlanda del Nord, delle feroci milizie protestanti lealiste chiamate Uvf (Ulster volunteer force). Milizie che giurarono col sangue di difendere l’Irlanda da qualunque tentativo di ottenere forme di autonomia dall’Inghilterra, e che furono attivissime, in collusione con gli apparati dell’esercito britannico, anche negli anni di Bobby Sands. È importante ricordare che Wilde era figlio di “Lady Speranza”, ardente repubblicana nazionalista, benché di origini protestanti, e molto attiva nel…

*-* L’autore: Enrico Terrinoni è professore ordinario di Letteratura inglese all’Università di Perugia e traduttore. Insieme a Riccardo Michelucci ha curato la raccolta “Scritti dal carcere. Poesie e prose di Bobby Sands” (Paginauno, 2020)


L’articolo prosegue su Left del 12-18 novembre 2021

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

Giuliano Pisapia: Perché Mimmo Lucano è innocente

ROME, ITALY - OCTOBER 04: Anti-racism demonstrators hold a photo of Mimmo Lucano outside the High Council of the Judiciar as they protest against the condemnation of former Riace Mayor Mimmo Lucano, on October 4, 2021 in Rome, Italy. Domenico "Mimmo" Lucano, former mayor of the southern Italian town of Riace was sentenced to 13 years and two months in prison for "irregularities in managing asylum seekers".

Nel luglio 1998 trecento persone di etnia curda sbarcarono a Riace Marina cambiando da quel momento la storia del piccolo comune calabrese. Accoglienza, lavoro, cultura, scuola e asili, laboratori artigianali ristrutturazioni di immobili, ambulatori medici, collaborazione tra Comune, Regione e Prefettura, contrasto alla criminalità organizzata. Un’idea messa in pratica dal sindaco Lucano per accogliere e ridare nuova vita ad una comunità in via di abbandono. Nell’anno 2017 – Lucano era sindaco dal 2004 – uno dei verbali redatto nel mese di gennaio dal viceprefetto Francesco Campolo – che poco tempo dopo viene trasferito – sottolinea i grandi meriti del modello di accoglienza di Riace e chiede lo sblocco dei fondi destinati al Comune, fermi dal gennaio 2016. L’allora ministro dell’Interno Marco Minniti decide invece la sospensione dei fondi stessi ipotizzando irregolarità nella gestione. Il Gip presso il Tribunale di Locri dispone nell’ottobre 2018 gli arresti domiciliari per Lucano (misura annullata dalla Cassazione nel 2019) accusato dei reati di concussione, abuso d’ufficio, associazione a delinquere, favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, turbativa d’asta, peculato. Il ministro Salvini ordina il trasferimento dei 165 migranti ancora presenti a Riace e la chiusura dello Sprar dello stesso Comune. Atti, l’uno e l’altro, che il Tar prima e il Consiglio di Stato poi giudicheranno illegittimi e per i quali lo stesso Salvini mai ha pagato nulla.

Oggi veniamo a sapere che la Procura della Repubblica di Palmi accusa il funzionario della Prefettura di Reggio Calabria che firmò uno dei verbali negativi sull’accoglienza a Riace di aver commesso il reato di falsità ideologica in atti pubblici perché, nel redigere una relazione sul centro di accoglienza “villa Cristina” nel Comune di Varapodio (sindaco di Fdi), ometteva di indicare irregolarità gravi. Sarà la magistratura ad accertare responsabilità ma i dubbi sull’imparzialità dell’operato della Prefettura di Reggio Calabria nei confronti del Comune di Riace appaiono ragionevoli. Sul processo a Lucano, questa la morale, si scaricano con evidenza i conflitti tra le politiche migratorie dell’Italia e le esperienze che mostrano le menzogne di cui quelle stesse politiche si nutrono. Restiamo convinti che i giudizi di impugnazione confermeranno l’innocenza di Lucano. Chiediamo all’avvocato Giuliano Pisapia, difensore di Lucano ed ex sindaco di Milano, cosa pensa del processo. 

Avete definito «lunare» la sentenza di condanna di Domenico Lucano a 13 anni e 2 mesi di carcere. Perché?
Lunare è che si sia contestato durante tutto il dibattimento a Mimmo Lucano di…


L’articolo prosegue su Left del 12-18 novembre 2021

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

Polonia, cronache dal Paese che odia le donne

Protestors gather outside Poland's Constitutional Tribunal in Warsaw, Poland, on Saturday, Nov. 6, 2021, to protest against the restrictive abortion laws after a woman died of complications during her pregnancy. The protesters held portraits of the woman, 30-year-old Iza, who died in hospital from septic shock. Her family and a lawyer say her doctors did not terminate the pregnancy despite the fact that her fetus lacked enough amniotic fluid to survive. (AP Photo/Czarek Sokolowski)

Tra l’ennesimo dibattito sulla Polexit, l’inflazione galoppante (attualmente intorno al 6,8%) e i racconti terrificanti provenienti dal confine polacco-bielorusso dove si “gioca” un braccio di ferro con l’Europa sulla pelle di migliaia di migranti respinti con violenza, le donne polacche sono scese nelle piazze di Varsavia il 6 novembre per aderire a decine di migliaia alle proteste contro la rigidissima e antiscientifica legge sull’aborto che di fatto ha portato alla morte per setticemia una giovane originaria di Pszczyna, nel sud del Paese. Izabela Budzowska, così si chiamava, è deceduta a 30 anni in ospedale in seguito a complicazioni della gravidanza. Nonostante la donna avesse chiesto di abortire, secondo la legale dei suoi familiari, «i medici hanno atteso che cessassero i segni vitali del feto, poi hanno atteso ancora, e alla file Izabela è morta tra dolori atroci». Il feto era gravemente malformato e destinato a non nascere, ma probabilmente per via di una rigidissima interpretazione della legge contro l’interruzione della gravidanza approvata un anno fa non le è stato permesso di interrompere la gestazione. Izabela è morta il 22 settembre ma la notizia è divenuta di dominio pubblico solo a inizio novembre.

Alcuni giorni prima, il 19 ottobre, il movimento All-Poland women’s strike aveva indetto una manifestazione a cui hanno partecipato solo mille persone o poco più. Era il primo anniversario dello sciopero delle donne. Il 22 ottobre 2020 infatti segna l’inizio della lotta contro il Tribunale costituzionale che in quel giorno aveva sancito l’incostituzionalità della disposizione della legge del 1993 che consentiva l’aborto nel caso in cui il feto presentasse una «disabilità o una malattia incurabile». Se fosse ancora in vigore forse Izabela si sarebbe salvata. Invece quella legge, con undici voti favorevoli e due contrari, è stata ritenuta dal Tribunale costituzionale una violazione della tutela costituzionale della dignità umana. In pratica questa decisione – che si fonda su motivi puramente religiosi – ha fatto sì che la maggior parte dei circa mille-duemila aborti legali praticati mediamente ogni anno in Polonia diventassero illegali. La sentenza non riguarda altri due casi, cioè l’interruzione di gravidanza richiesta da donne vittime di stupro o incesto, né quelli in cui la vita o la salute della donna è a rischio. Nel 2019, secondo il ministero della Salute polacco, 1.074 dei 1.100 aborti ufficiali erano dovuti a malformazioni fetali. Tra questi, casi dovute a sindromi strazianti come quella di Patau o di Edwards, malattie genetiche che comportano gravi conseguenze nello sviluppo del feto.
Ovviamente, la decisione del Tribunale costituzionale del 2020 non era arrivata all’interno di un vuoto politico e sociale. Tutto era iniziato circa un anno prima. Il 19 novembre 2019, un mese dopo le elezioni, 119 membri del nuovo Sejm, la camera bassa del Parlamento, provenienti dai gruppi parlamentari e dai partiti di Diritto e giustizia (PiS), della Confederazione e Coalizione polacca, hanno presentato un…

(traduzione dall’inglese di Alessia Gasparini)

*-* L’autore: Wojciech Alberto Łobodziński è un giornalista di Strajk.eu che, come Left, fa parte di Media alliance, un progetto di transform!Europe in partnership con transform!Italia 


L’articolo prosegue su Left del 12-18 novembre 2021

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO


 

Irlanda, l’isola dei senza casa

Cork Cityscape

Poche case sul mercato, mutui a tassi favorevoli, costruttori fermi, edifici abbandonati. È l’Irlanda di questi anni, quella dello sviluppo tech e dei senzatetto, dei fondi avvoltoi e della Generation rent.
A Cork, 210mila abitanti e seconda città del Paese, trovare un alloggio è complicato e costoso come in una metropoli. La concorrenza è feroce, la ricerca può durare mesi. Eppure, passeggiando per il centro, si notano decine di edifici abbandonati: case, pub, vecchi palazzoni industriali. Sono almeno 450 quelli che si contano soltanto in un raggio di due chilometri, secondo Frank O’Connor e Jude Sherry, due designer irlandesi arrivati nel 2018 dopo anni vissuti all’estero e che, esterrefatti dalla quantità di palazzi in disuso, hanno cominciato un lavoro di ricerca, poi svelato con un racconto fotografico quotidiano su Twitter. Li seguo in un tour desolante tra una via e l’altra. A settembre, più di cento persone si sono unite alla loro passeggiata per il centro, replicata settimane dopo a Dublino. Spontaneamente è nato un movimento, il tema è divenuto nazionale, hanno cominciato a parlarne i media. «Stiamo cercando di far aprire gli occhi alle persone» mi ha detto O’Connor. «Non è accettabile quello che vediamo, ma le persone sono assuefatte, pensano “è così, che ci vuoi fare”. C’è anche chi ci ha detto “bravi, ora però basta”, perché credono si faccia una cattiva pubblicità a Cork. In Irlanda poi è così, sembra inopportuno protestare». Il degrado, spesso, non è segno di noncuranza, ma il frutto di una volontà precisa: speculare. «Uno dei miti da sfatare è proprio questo, cioè che così non si crei profitto. Abbiamo invece calcolato che chi possiede una piccola proprietà in centro guadagni 20mila euro all’anno tenendola in abbandono, visti i prezzi a cui poi sono rivendute, come si vede dai dati del Derelict register», il registro cittadino (incompleto) degli edifici abbandonati. Tra il 2013 e il 2018, i prezzi delle case sono aumentati dell’81,3% e, nel 2019, erano del 77% maggiori rispetto alla media Ue, secondo i dati Eurostat; nell’ultimo anno, il rialzo è stato dell’11%. Il costo degli affitti è aumentato del 65,6% dal 2010.
L’imposta sulle proprietà abbandonate, voluta per incentivare il mercato, non viene praticamente mai riscossa. Anche la norma che prevede la vendita forzosa allo Stato è di fatto inattuata. «Secondo il Census 2016, oltre 183mila abitazioni in Irlanda sono vuote», su circa due milioni. «Non tutte sono in abbandono. Recuperarle sarebbe un passo fondamentale per…


L’articolo prosegue su Left del 12-18 novembre 2021

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

Cop26, le voci inascoltate degli attivisti: «Più azioni concrete e meno ingiustizia sociale»

A climate activist shouts out during a protest organized by the Cop26 Coalition in Glasgow, Scotland, Saturday, Nov. 6, 2021 which is the host city of the COP26 U.N. Climate Summit. The protest was taking place as leaders and activists from around the world were gathering in Scotland's biggest city for the U.N. climate summit, to lay out their vision for addressing the common challenge of global warming. (AP Photo/Alberto Pezzali)

Sono donne e uomini davvero impegnati, tutti ancora giovani – alcuni minorenni – e molti di loro provengono dal sud globale. Così interessati al futuro del genere umano che si sono spinti a percorrere migliaia di chilometri per venire in Scozia, alla Cop26 di Glasgow, per ribadire ai leader del mondo e agli osservatori internazionali che così non va bene, che serve fare di più per il nostro pianeta. E che i bla bla bla non servono a nulla se si vuole davvero evitare una catastrofe climatica.

Stiamo parlando dei ragazzi di Fridays for future, il movimento globale nato nell’agosto 2018 ispirato dall’attivista svedese Greta Thunberg, solita passare i propri venerdì fuori dal Parlamento anziché a scuola, per incalzare i potenti ad affrontare la crisi ecologica e ambientale. Sono loro i “veri leader” secondo la giovane ambientalista con le trecce, al contrario di «politici e persone di potere che fingono di prendere sul serio il futuro e la presenza delle persone colpite già dalla crisi climatica».

In questi giorni i giovanissimi ecologisti si sono divisi tra le proteste ed il palazzo, tra i cortei colorati lungo le strade della città scozzese – arrivando a mobilitare nella sola giornata del 5 novembre circa 100mila persone – e i meeting istituzionali all’interno dello Scottish exhibition centre, la cittadella che ospita quello che è considerato uno dei più importanti vertici delle Nazioni Unite degli ultimi anni.
Pensare globale agire locale: Fridays for future è la declinazione concreta del celebre slogan che animava le piazze delle proteste dei No Global, tra la fine degli anni 90 e l’inizio degli anni 2000. Ne fanno parte persone con storie diverse, e provenienti da tutti e cinque i continenti. Le abbiamo sentite durante i giorni della conferenza di Glasgow.

Oladosu Adenike è un’attivista nigeriana che si definisce ecofemminista. Ha fondato un’associazione che si chiama I Lead Climate, un movimento che sensibilizza sui problemi indotti dai cambiamenti climatici nelle zone di conflitto e nella società africana.
Le aspettative dal vertice dell’Onu? «La Cop26 dovrebbe contribuire a fare in modo che le nostre idee abbiano più spazio: nel XXI secolo non possiamo più trascurare il fatto che i giovani debbano parlare con le persone, interagire, sedersi ai tavoli liberamente senza pressioni di nessun tipo» mi risponde la ventisettenne nigeriana. Che poi rilancia: le piacerebbe dalla conferenza anche un maggiore rispetto degli equilibri di genere e razza, anzi, senza alcuna forma di discriminazione.

Ma sono le donne il pallino della fondatrice di I Lead Climate. «È per questo che siamo a favore di un approccio sensibile alle questioni di genere nel mezzo di questa crisi climatica, ed è importante per noi che le donne abbiano accesso alla terra, all’istruzione, all’energia e ad altre risorse di base in modo che possano esercitare al 100% i loro diritti senza essere ostacolate dalla crisi climatica. Non è giusto che veniamo usate come strategia per la sopravvivenza o che siamo viste come un mero strumento di riproduzione».
E sul futuro del proprio continente, l’Africa? «Abbiamo bisogno di più azione, ci sono ancora molte ingiustizie in corso» ragiona Adenike, che ribadisce come il passaggio «dai combustibili fossili a un’economia più verde, ridurrebbe sicuramente la dipendenza dai Paesi industrializzati. Da cui, ricordo, stiamo attendendo ancora i famosi 100 miliardi di dollari all’anno».

Il riferimento è alla promessa che fece l’ex presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, al vertice di Copenaghen tenutosi nel lontano 2009. Ed è anche uno dei punti più controversi di questo evento, un nodo che secondo molti osservatori sarebbe stato sciolto in questi giorni. Ma di cui non si sa ancora nulla.
«Il mancato adempimenti di queste promesse» conclude molto arrabbiata l’attivista africana «sta mettendo a rischio il mio Paese e gli altri Paesi in via di sviluppo, tutti sottosviluppati. Come possiamo andare nella giusta direzione?».

Dello stesso avviso è anche Kevin Mtai, keniota e coordinatore del movimento Earth Uprising. Secondo Kevin, quei soldi promessi dall’ex inquilino della Casa Bianca sono necessari per adattare il Paese africano alle conseguenze nefaste dei cambiamenti climatici.
Kevin mi guarda, è stanco ed affaticato. Gli chiedo le aspettative da questo vertice. «Che fosse inclusivo, soprattutto con i più giovani e con chi viene dal Sud Globale, la parte del mondo più esposta ai cambiamenti climatici» mi dice. E aggiunge amareggiato che la Cop 26 inclusiva lo è stata. Ma non con chi voleva lui, bensì con gli esponenti del mondo dei combustibili fossili.

E non ha torto Kevin, visto che secondo i dati del think tank indipendente Global Witness, la delegazione più numerosa della Conferenza è stata quella dei lobbisti delle fossili – hanno contato circa 503 delegati delle industrie di carbone, petrolio e gas.
Un’altra notizia di peso è che l’India ha dichiarato che raggiungerà la neutralità climatica non nel 2050, come fortemente consigliato dalla comunità scientifica internazionale per contenere l’aumento delle temperature sotto i due gradi centigradi. Nemmeno nel 2060, come faranno Cina e Russia, bensì nel 2070.

Bhavreen Kandhari è un’attivista ambientalista indiana, proveniente da New Delhi. Chiedo a Bhavreen cosa ne pensa dalla decisione adottata dal governo di Narendra Modi.
«Sì, il 2070 è impossibile da immaginare perché nessuno di noi sarà lì né il primo ministro. Né lo sarò io e alcuni dei giovani come i miei figli, perché allora saranno nonni. Questa cosa è davvero ridicola. Come possiamo immaginare un mondo senza giovani sani e senza una giovinezza senza un’economia sana? Tutti hanno visto che queste azioni devono essere adottate ora. Sappiamo che tutti i limiti e alcune cose non sono così vicini. Sappiamo che nel nostro Paese si sono dati degli obiettivi ma non stiamo facendo abbastanza. Le leggi si fanno ma non si attuano. Siamo in una capitale più inquinate del mondo, e non c’è spazio per errori».

Bhavreen mi racconta poi la situazione della città dove abita, New Delhi. L’aria della capitale indiana è davvero molto inquinata: molte persone, soprattutto i bambini che abitano nella città, hanno i polmoni danneggiati in maniera irreversibile, e non possono essere curati. «Abbiamo una gestione scadente della raccolta dei rifiuti, un alto livello di emissioni e di polveri sottili, la città è un cantiere e le costruzioni la danneggiano ulteriormente. E i politici che fanno? Invece di prendere misure contro l’inquinamento tagliano 14mila alberi. Ma anziché sradicarli, non dovresti piantarli, gli alberi, visto che ci forniscono l’ossigeno di cui abbiamo bisogno?».

Forse uno dei pochi traguardi di questo vertice sul clima è un accordo siglato da diversi Paesi che prevede lo stop della deforestazione entro il 2030. Firmatario di questo patto è, incredibile ma vero, il Brasile presieduto dal negazionista climatico Jair Bolsonaro, che negli ultimi tempi ha fatto parlare molto di sé – la sua visita in Italia in occasione del G20 ha mostrato un Presidente isolato dalla comunità internazionale. Il leader del Paese più popoloso del Latinoamericana è stato denunciato alla Corte penale internazionale per crimini contro l’umanità in quanto responsabile della deforestazione accelerata dell’Amazzonia, causa di un aumento delle emissioni di CO2 su scala mondiale.

«Il Brasile ha firmato la scorsa settimana un accordo che ferma la deforestazione entro il 2030. Ma se guardiamo in faccia alla realtà, nel mio Paese c’è tanta deforestazione, tanta distruzione, tanto agrobusiness, e controllo delle terre indigene e di quelle locali!». Marina Guião la incontro nella zona sottostante l’enorme globo terrestre che troneggia nella hall del centro che ospita la Cop26: ha solo 17 anni ma è un vero e proprio fiume in piena: «Gli accordi che verranno adottati andranno poi attuati, e questo vale per la questione deforestazione come per altro. E vale anche per l’accordo finale che i leader sigleranno ai termini dei lavori: nella bozza che sta circolando, di sole tre pagine, non si nominano affatto i combustibili fossili. Tutti sappiamo che la causa principale dei cambiamenti climatici sono gli stessi combustibili fossili, che non vengono nominati nella dichiarazione finale!». Ma la giovanissima ambientalista brasiliana non risparmia nemmeno Bolsonaro, un «negazionista climatico che non guarda in faccia la realtà, che supporta il business as usual: non possiamo avere una persona così al comando della nazione che ha il più alto tasso di biodiversità di tutto il Pianeta! Vorrei qualcuno che rappresenti i giovani, magari un Partito verde, ma non l’emanazione dell’agrobusiness!».

Storie di persone diverse, accomunate dalla passione per l’ambiente e dalla volontà di voler dare il proprio contributo nella lotta contro i cambiamenti climatici. Sono scesi in campo per riparare ai danni compiuti dalle generazioni che li hanno preceduti e per aiutare quelle che devono ancora venire. Dopotutto, come ripete Gorbacev «Quando le generazioni future giudicheranno coloro che sono venuti prima di loro sulle questioni ambientali, potranno arrivare alla conclusione che questi “non sapevano”: accertiamoci di non passare alla storia come la generazione che sapeva, ma non si è preoccupata».

 

💥 Porta Left sempre con te, regalati un abbonamento digitale e potremo continuare a regalarti articoli come questo!

🆙  Bastano pochi click!

🔴  Clicca sull’immagine oppure segui questo link > https://left.it/abbonamenti

—> Se vuoi regalare un abbonamento digitale, scrivi a [email protected] oppure vai nella pagina abbonamenti, clicca sull’opzione da 117 euro e inserisci, oltre ai tuoi dati, nome, cognome e indirizzo mail del destinatario <—

Speriamo che sia femmina

Donna, democratica, magari ambientalista e femminista. Visti i tanti, troppi, giochi che si vanno facendo intorno alla presidenza della Repubblica da rinnovare, sarebbe bello se dalla società arrivasse una indicazione di valori e di futuro. Troppi giochi, dicevo. Candidature francamente irricevibili come quella di Berlusconi che pure vengono avanzate. Strategie per cui si promuove Draghi così si libera il campo per le elezioni. O al contrario perché Draghi promosso prefiguri il semipresidenzialismo di fatto come dice Giorgetti, come se la Costituzione non lo escludesse. E magari da presidente della Repubblica sponsorizzi un…


L’articolo prosegue su Left del 12-18 novembre 2021

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

Cop 26, niente di nuovo sotto il sole… cocente

TOPSHOT - Activists from the climate change group Extinction Rebellion (XR) take part in a protest in Glasgow on November 8, 2021, during the COP26 UN Climate Change Conference. - The COP26 climate talks resuming Monday have so far unfolded on parallel planes, with high-level announcements stage-managed by host country Britain during week one riding roughshod over a laborious UN process built on consensus among nearly 200 countries. (Photo by ANDY BUCHANAN / AFP) (Photo by ANDY BUCHANAN/AFP via Getty Images)

«Non sono interessati al nostro futuro». Sono le lapidarie parole con cui Greta Thunberg, insieme a oltre centomila persone, ha liquidato i lavori della Cop26. Va detto, in quelle poche parole non c’è rassegnazione, la mobilitazione continuerà ancora più determinata e auguriamoci che si estenda. C’è però una giustificata rabbia per il disinteresse dei cosiddetti potenti della Terra, che in fondo è una vera e propria negazione di futuro per i giovani di oggi e per quelli e quelle che verranno.
Sbaglieremmo a pensare che i governanti agiscono così per ignoranza e stupidità. Al contrario nelle loro scelte c’è la consapevole decisione di difendere i profitti di pochi, i loro, rispetto all’interesse collettivo, sapendo che così espongono l’umanità a rischi terribili, compreso quello di una progressiva estinzione.

Loro non disconoscono, come facevano un tempo, il cambiamento climatico, ma non sono in grado di governarlo perché incapaci di uscire dal vincolo del dogma dell’eterna crescita. Per quanto si arrovellino non c’è compatibilità possibile fra sostenibilità ambientale e sociale e modello di sviluppo capitalistico. Purtroppo il tempo per capirlo è scaduto. Sbaglia il premier britannico Johnson quando sostiene, in apertura dei lavori della Cop26, che mancano pochi minuti al punto di non ritorno. Purtroppo quel punto è stato già superato e infatti il mondo scientifico gli ha subito ricordato che anche se si riuscisse a contenere l’aumento delle temperature entro gli auspicati 1,5 gradi, ciò non eviterebbe gli annunciati guai, ma solo le loro conseguenze più devastanti.

E pur tuttavia colpisce la sproporzione fra i toni apocalittici usati dai capi di Stato nei loro interventi e le decisioni che pensano e alla fine saranno approvate dalla Cop26.
La sensazione che trasmettono non è certo quella dei grandi statisti, come in cuor loro pretenderebbero, ma più semplicemente quella della piccola orchestrina che continuava a suonare sul ponte del Titanic mentre si inabissava. Viene da pensare proprio a quell’immagine ascoltando le parole di Cingolani, ministro italiano per la transizione ecologica, quando ammonisce le e gli ambientalisti sui costi per la realizzazione della Transizione ecologica. Forse colui a cui è affidata la responsabilità di far transitare l’Italia verso un futuro sostenibile dovrebbe chiedersi quanto costi, in termini di vite umane e distruzione del bene amato Pil nazionale, non riuscire a realizzare una vera transizione ecologica.
Il punto più grave però di tutta questa deludente vicenda della Cop26 è che a Glasgow in realtà non è stato possibile decidere niente, se non i contorni, perché la…


L’articolo prosegue su Left del 12-18 novembre 2021

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO