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Muri reali contro invasioni immaginarie

Bulgarian army personnel repair the barbed wire wall border fence on the Bulgaria-Turkey border near the village of Matochina on November 4, 2021. - Bulgaria on November 1, 2021, deployed 350 soldiers to the border with Turkey to help police cope with the growing influx of migrants, the defence minister announced. (Photo by Nikolay DOYCHINOV / AFP) (Photo by NIKOLAY DOYCHINOV/AFP via Getty Images)

Da una parte muri reali di cemento, filo spinato, reti, check point, cani da guardia e nuove tecnologie da intercettazione. Dall’altra più subdoli, addirittura ammantati di “rispetto dei diritti umani”, muri in senso figurato realizzati con tonnellate di banconote, sotto forma di cooperazione allo sviluppo, addestramento militare, “modernizzazione”. Questa sembra essere una delle chiavi con cui interpretare l’Europa (forse) post pandemica che prevede da una parte aumenti della spesa pubblica e degli investimenti, dall’altra la riduzione ulteriore della libertà di circolazione delle persone. La crisi di confine fra Polonia e Bielorussia è solo l’apice – col suo carico di vittime innocenti – di un conflitto politico e non solo personale fra Consiglio e Commissione europea che evidenzia tale progettualità. Di fronte alla proposta avanzata il mese scorso da 12 Stati membri Ue, di realizzare nuovi muri per fermare migranti e rifugiati, le reazioni sono state diverse.

La risposta della presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, è stata immediata: «Comprendiamo le esigenze dei proponenti ma le spese vanno sostenute dai singoli Stati, non con fondi Ue». Più tardive e possibiliste le affermazioni di Charles Michel, presidente del Consiglio europeo, organismo di cui fanno parte tutti i 27 primi ministri o capi di Stato dei Paesi menbri. Il Consiglio risente più direttamente della pressione dei governi e ha creato costernazione il fatto che, alla celebrazione della caduta del Muro di Berlino, il suo presidente abbia evocato la necessità che l’Europa impieghi risorse per limitare la circolazione.

Non una gaffe ma la riproposizione della “Fortezza Europa” come base fondante di un’idea dell’Ue. Per alzare questi muri servono fondi comuni, invoca Michel. Il quale intende così stemperare le divergenze con il governo di Varsavia (che mentre andiamo in stampa annuncia la volontà di innalzare una barriera di cemento al confine con la Bielorussia) e con le altre esperienze sovraniste dell’Est e al tempo stesso ottenere un intervento Ue per fronteggiare un pericolo inesistente: donne, bambini e anziani ammassati al confine polacco.

Un tempo il muro di Berlino, come quello di Nicosia a Cipro, erano…


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L’oltraggio permanente al mondo in movimento

TOPSHOT - A group of migrants stands in front of Belarusian servicemen as they gather for the distribution of humanitarian aid in a camp near the Belarusian-Polish border in the Grodno region on November 14, 2021. - Dozens of migrants have been detained after crossing into Poland from Belarus, Warsaw said on November 14, warning of a possible larger breakthrough ahead of an EU meeting to widen sanctions on Belarus. - Belarus OUT (Photo by Oksana MANCHUK / BELTA / AFP) / Belarus OUT (Photo by OKSANA MANCHUK/BELTA/AFP via Getty Images)

È la concatenazione quella che crea i guai, nel senso della catena di eventi che, una volta messi assieme e saldati gli anelli, generano il problema. Ne sanno qualcosa le migliaia di persone che si trovano in queste ore a bussare alla porta d’Europa via Polonia, passando dalla Bielorussia. Sono soprattutto curdi iracheni, ma sono anche pakistani e afghani. Tutti vittime di catene di tragedie fatte di guerre, ingiustizie, miseria. Concatenazioni di problemi che li hanno fatti scappare da casa, fuggire lontano, in un domino che sembra non finire. Ora sono ammassati lungo una frontiera, al freddo, con l’obiettivo di arrivare, finalmente, in un posto sicuro, che garantisca un futuro. Eserciti, polizia, muri e politica glielo impediscono, creando un nuovo dramma umanitario.

La situazione alla frontiera fra Polonia e Bielorussia non è una novità ai confini orientali dell’Unione Europea. Un po’ più vicino all’Italia, fra Bosnia Erzegovina e Croazia, da anni i migranti della rotta balcanica sbattono contro le reti e i manganelli croati. I campi improvvisati in Bosnia, a Bihac, accolgono 8-10mila persone. Sopravvivono grazie all’aiuto di decine di associazioni e di volontari europei (come Nawal Soufi che apre con il suo reportage questa storia di copertina, ndr), ma il passo resta chiuso, proibito a suon di bastonate sulle gambe e furti da parte della polizia croata. Chi tenta di trovare un passaggio clandestino nella foresta che divide la Bosnia dall’Europa dei ricchi viene punito duramente. Altre migliaia di persone – forse 40mila – sono in Serbia. La Turchia, grazie ai contributi della Ue, blocca entro i propri confini almeno 5 milioni di esseri umani.

Far passare la situazione fra Polonia e Bielorussia come una novità, un’emergenza, è quanto meno fantasioso. Si tratta solo dell’ennesimo spostamento d’asse di una rotta praticata da almeno due decenni, l’unica a rendere possibile – in qualche modo – il collegamento via terra fra Vicino Oriente o Asia e Europa.

La novità, semmai, è il coinvolgimento contemporaneo di…

 

* Raffaele Crocco è direttore responsabile de L’Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo, di cui è appena uscita la decima edizione


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«Qui è peggio che in guerra»

Descrivere ciò che vedo ogni giorno al confine tra Bielorussia e Polonia non è facile. È una situazione agghiacciante, sia per i numeri che per le condizioni in cui sono costrette le persone. È la peggior frontiera che io abbia visto. Parliamo di circa 3-4mila profughi intrappolati in un lembo di terra di pochi km in mezzo ai boschi, a cui se ne aggiungeranno presto altre migliaia ripresi pochi giorni fa in un video mentre si incamminavano verso la frontiera. La stima è di 10mila migranti dalla parte bielorussa.

Costoro sono arrivati in Bielorussia tramite un visto. Cioè sono partiti dall’aeroporto del loro Paese di origine e atterrati a Minsk, convinti, sulla base di informazioni erronee, che poi da qui sarebbe stato semplice raggiungere la Polonia con mezzi privati. Questa almeno è la spiegazione (spesso corredata dai loro biglietti aerei) che la maggior parte di queste persone ci dà.

Il fatto che viaggino con un visto regolare significa che non sono assolutamente preparate a ritrovarsi in queste condizioni e a fronteggiare le avversità, a differenza ad esempio di coloro che intraprendono la rotta balcanica, i quali, ben consapevoli di ciò che dovranno affrontare, si muniscono di abbigliamento idoneo, gps, mappe offline e altre informazioni, quali ad esempio come sopravvivere tra le foreste in inverno, o su quali punti delle montagne o dei fiumi sia meglio attraversare. Qui purtroppo non è stato così, e tutti hanno iniziato a rendersi conto del pericolo che stavano correndo man mano il confine bielorusso-polacco faceva più vicino e continuavano ad ammassarsi. Così è cominciata questa nuova, tragica, crisi umanitaria.

Da giorni ormai i migranti vengono fatti rimbalzare con violenza tra i militari bielorussi, che spingono la gente con la forza verso il confine polacco, e la guardia di frontiera polacca che li respinge di nuovo verso la Bielorussia. I pushback sono violenti e vengono fatti a spintoni, calci, usando i cani e i manganelli elettrici su persone che indossano indumenti zuppi. Uomini, donne, intere famiglie, molte delle quali con bambini piccoli, non mangiano e non bevono da giorni. Le madri non hanno più latte per i neonati. I vestiti sono umidi e non isolano più mentre la temperatura scende sotto lo zero già da un paio di settimane. Numerosi sono i casi di ipotermia, nove i morti ufficiali (ma si teme che il numero sia molto maggiore e soprattutto in continuo aumento).

Ogni tanto dal lato bielorusso si son visti arrivare furgoni con alimenti e serbatoi di acqua portati dalle autorità di Minsk per spingere la gente a restare nelle zone di frontiera e non tornare nella capitale, per poterla usare come pedina di scambio “politico” e obbligare l’Europa a togliere le sanzioni contro la Bielorussia. Questa “novità” riguarda solo il grande gruppo di rifugiati ammassato al valico di frontiera. Ce ne sono poi altri rimasti bloccati tra i fili spinati stesi tra i due Paesi in altre zone del confine. Questi sono senza cibo e senza acqua, senza cure e senza coperte e noi stiamo cercando di fare arrivare loro qualcosa per aiutarli.

In tutto questo, dalla parte polacca, la polizia di frontiera non distribuisce acqua né cibo, nulla, solo qualche volta arriva qualche soccorso – spesso troppo tardi – quando qualcuno è in procinto di morire. Dalla parte polacca agiscono volontari locali che lavorano in condizioni abbastanza difficili, mentre in Bielorussia le Ong sono vietate e il lavoro dei volontari è considerato un crimine.

Dal canto nostro non aiutiamo la gente ad attraversare la frontiera, non è questo il nostro scopo. Aiutiamo le persone dove si trovano. Noi cerchiamo di aiutare e salvare la vita a chi è bloccato senza cibo, senza coperte e senza acqua: come detto ci sono persone malate e ci sono molti bambini e donne. Arriviamo quando possibile nei pressi delle coordinate che ci hanno inviato, consegniamo gli aiuti e il cibo affinché chi è in difficoltà possa usufruirne, e andiamo via. Mi arrivano tutti i giorni richieste di aiuto da migranti che si trovano dalla parte polacca; usano il mio…

*L’autrice del reportage dal confine polacco-bielorusso: Nawal Soufi è assistente sociale e attivista per i diritti umani


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Forti con i deboli

Spinti contro il filo spinato, attanagliati dal gelo, senza cibo e acqua da giorni, sottoposti a ogni tipo di soprusi, derubati da bande e poliziotti e presi a cannonate d’acqua gelida. Tenuti lontani anche da quel minimo di soccorso che possono offrire Ong e volontari. La Bielorussia ha messo fuorilegge le Ong e la Polonia impedisce loro di intervenire. Intrappolati in questa terribile morsa migliaia di migranti e richiedenti asilo rischiano di morire. Molti di loro sono bambini. Ad oggi si ha notizia di 9 morti ma potrebbero essere molti di più nella foresta ghiacciata dove sono costretti. Molti di loro erano arrivati dal Kurdistan iracheno e dalla Turchia con un volo fino a Minsk, attratti da compagnie di viaggi bielorusse controllate dal governo che promettevano loro un facile accesso in Polonia, per arrivare poi in Germania. Non immaginavano certo di dover affrontare una situazione come quella che stanno subendo, da scenario di guerra, se non peggio, con quasi 20mila soldati polacchi con cani d’assalto schierati contro di loro, migranti inermi.

È oltremodo drammatica la testimonianza che l’attivista Nawal Soufi ci ha inviato dal confine fra Polonia e Bielorussia e che pubblichiamo ad apertura di questa nuova e urgente storia di copertina. Lady Sos viene chiamata dai migranti in cerca di aiuto che si passano il suo numero di cellulare. Di solito la chiamano, da lontano, dal mare o dalla rotta balcanica. Ma ora loro sono lì nel buio, magari a pochi passi, ma è quasi impossibile soccorrerli perché i militari lo impediscono insieme a gruppi di neonazisti polacchi che fanno le ronde per intercettare e bloccare chi si mobilita per offrire aiuto.

Di chi è la responsabilità? Certamente della Bielorussia dove il feroce autocrate Alexander Lukašėnka usa cinicamente i migranti come pedine, come merce di scambio, per ottenere soldi e cancellazione delle sanzioni, per vendicarsi delle “intromissioni” europee nella sua violenta repressione del dissenso interno. E certamente le responsabilità sono della Polonia dove la destra liberticida al governo intende costruire un muro alla Trump per tutta la lunghezza della sua frontiera e intanto ha già blindato una zona militarizzata di due miglia dove sono vietati i servizi medici, dove operatori umanitari, volontari e giornalisti non hanno accesso. E certamente è della Russia di Putin che si serve di Lukašėnka. Ma non sono solo tre governi ad aver determinato questa gravissima emergenza umanitaria. La responsabilità è direttamente e indirettamente dell’Unione europea che rimane inerte, che volta la testa dall’altra parte di fronte alla richiesta di asilo di questi profughi che fuggono dalle guerre e dalla miseria che funesta molti Paesi del Medio Oriente e dell’Africa.

Su quel confine fra Bielorussia e Polonia dove è negato il diritto di asilo e sono negati i diritti umani muore ogni idea di Europa civile e democratica, muore ogni senso dell’umano. E non accade solo lì. Accade, e non da ora, anche più a Sud al confine tra la Croazia e la Bosnia-Erzegovina: unità speciali della polizia croata – lo abbiamo documentato con inchieste e reportage dalla rotta balcanica – usano la violenza, infieriscono sadicamente sui migranti spesso lasciandoli senza scarpe nella neve e li respingono con ogni mezzo. Accade in Grecia dove uomini della guardia costiera, con passamontagna e senza segni di riconoscimento, sequestrano i migranti, li mettono su zattere di salvataggio finanziate dall’Ue e li spingono a largo, verso la Turchia, abbandonandoli.

Accade ogni giorno in Libia e in Turchia dove l’Ue ha esternalizzato i propri confini addestrando e foraggiando la cosiddetta guardia costiera libica e gli apparati di Erdoğan perché “trattengano” e riacciuffino i profughi che si mettono per mare.
Per rendere impermeabili i propri confini Bruxelles ha finanziato e alimentato una gigantesca industria di detenzione di migranti in tutta l’Africa. Stringendo accordi con i Paesi del nord e del Corno d’Africa per trattenere i profughi prima che possano raggiungere il Mediterraneo. Dando soldi a personaggi come Omar al-Bashir, l’ex leader del Sudan incriminato dal Tribunale penale internazionale per crimini di guerra. E rendendosi complice di miliziani libici, facendo finta di non sapere delle torture e degli stupri che subiscono i migranti in quei luoghi di morte che sono i centri di “accoglienza” della Libia.

Come se non bastasse, all’interno del territorio europeo, dove già ci sono famigerati campi come quelli greci di Lesbo, anche questi costruiti con soldi Ue, crescono ulteriori muri. Il mese scorso 12 Paesi hanno proposto di costruirne di nuovi oltre quelli esistenti che si snodano per circa 1.500 km. La presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha affermato che i 12 non potranno costruirli con soldi Ue ma il Consiglio europeo per bocca di Charles Michel ha usato altre parole ribadendo l’importanza di difendere i confini europei. La Fortezza Europa è sempre più tale e chi osa mettervi piede è trattato come un criminale. Ma criminali e disumane sono le politiche europee sull’immigrazione. Basta con le politiche dei “respingimenti” ovvero espulsioni illegali e violente. Bisogna costruire canali umanitari, riconoscere il diritto d’asilo, mettere in salvo le persone, rivedere il trattato di Dublino, smettere di pagare autocrati e milizie che trattengano i migranti, smettere di utilizzare gli aiuti come ricatto. L’Europa non abdichi a se stessa e a i principi di umanità.


L’editoriale è tratto da Left del 19-25 novembre 2021

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La fuffa di cittadinanza

Foto FABIO FRUSTACI/LaPresse/POOL Ansa28-10-2021 Roma - ItaliaPoliticaIl presidente del Consiglio, Mario Draghi (S), il ministro dell’economia, Daniele Franco (C) ed il ministro del lavoro, Andrea Orlando, durante la conferenza stampa al termine della riunione del consiglio dei ministri sulla prossima legge di bilancio.Photo FABIO FRUSTACI/LaPresse/POOL Ansa28-10-2021 Rome -ItalyPoliticsCouncil of Ministers, press conference on the budget law

Il governo dei migliori aveva istituito un comitato scientifico di valutazione per valutare le eventuali modifiche del reddito di cittadinanza. A un certo punto è sembrata perfino una buona idea visto che dai partiti arrivavano cannonate (sia da destra che dal presunto centro-centro-centro-centro-sinistra che poi nei fatti sta più a destra della destra) che principalmente puntano a indicare i percettori del reddito di cittadinanza come una massa di fannulloni anche un po’ sfigati. Si è accesa perfino la speranza che il governo dei migliori si affidasse ai migliori mantenendo fede alle aspettative (che ormai sono un dogma, qui in giro) e che finalmente si potessero legge proposte vere su cui dibattere con dati alla mano e non partendo dai deliri del Briatore di turno.

Chiara Saraceno è la presidente del Comitato scientifico per la valutazione del Reddito di cittadinanza e il 16 novembre in un lungo articolo ha disegnato la reale situazione: «Il comitato scientifico di valutazione ha indicato dieci proposte per modificare il reddito di cittadinanza. Il governo ha scelto un’altra strada, ostacolando i beneficiari», scrive Saraceno, che spiega come «il rapporto è stato reso pubblico il 9 novembre, ma i suoi risultati e relative proposte erano già stati anticipati al ministro del Lavoro e portati al tavolo in cui veniva definita la legge di bilancio» e che «poco o nulla di quanto proposto dal comitato ha trovato accoglimento. Al contrario, alcune delle modifiche inserite sembrano rispondere più a una narrazione più o meno fantasiosa e ideologica, e pesantemente negativa, sui beneficiari del reddito di cittadinanza che a una analisi dei dati empirici. In particolare, – scrive Saraceno – la narrazione per cui i beneficiari rifiuterebbero le offerte di lavoro perché il Rdc dà loro abbastanza di che vivere, non trova riscontro empirico non solo nelle somme effettivamente percepite – 577 euro in media per famiglia, non per individuo, al mese – ma neanche in dati attendibili. Manca infatti una base dati nazionale che documenti le offerte effettivamente fatte ai beneficiari “occupabili” (un terzo circa di tutti i beneficiari) e i rifiuti da parte di questi ultimi. Non è ancora stata risolta la questione di come mettere in comunicazione e condivisione centri per l’impiego che dipendono dalle regioni. Quello che sappiamo è che meno di un terzo dei teoricamente “occupabili” è stato preso in carico da un Cpi. Il che non significa che abbia ricevuto una proposta di lavoro o di formazione, ma che il suo caso ha cominciato a essere esaminato. Quindi la stretta inserita in finanziaria, in base alla quale le offerte rifiutabili senza decadere dal beneficio non sono più tre, ma due, ha valore puramente simbolico, che rafforza l’idea dei beneficiari come pigri nullafacenti, evitando di mettere a fuoco la carenza di politiche attive e la mancanza di domanda di lavoro di qualità adeguata alle basse qualifiche della stragrande maggioranza dei beneficiari».

E anche sulla scelta di considerare la seconda offerta di lavoro come sempre congrua e irrinunciabile Saraceno scrive che è  «come se un imprenditore veneto andasse a cercare possibili lavoratori tra i beneficiari campani o siciliani e questi potessero permettersi i costi di spostamento, oltre che organizzativi, stanti i bassi salari cui possono aspirare con le loro qualifiche. Se l’attivazione verso il lavoro non sta funzionando come ci si aspettava, quindi, non è “colpa dei beneficiari”, ma della scarsità, quando non assenza, di politiche attive, unita alla scarsità di una domanda di lavoro adeguata alle caratteristiche di questa particolare offerta».

Le proposte (frutto di un lavoro serio che si basa sui numeri e non sui sentimenti politici) erano in tutto 10:

  1. La modifica della scala di equivalenza che al momento penalizza le famiglie con minorenni e quelle numerose, non solo rispetto all’importo (cosa che può essere in parte corretta dall’introduzione dell’assegno unico), ma anche rispetto all’accesso. Viene proposto di dare ai minorenni lo stesso coefficiente degli adulti e di alzare a 2,8 (rispetto al 2,1 attuale) il coefficiente massimo. Contestualmente la soglia massima di reddito per una persona sola potrebbe essere diminuita a 5.600 euro e l’importo massimo del Rdc a 450;
  2. L’abbassamento a cinque anni del requisito di residenza per gli stranieri, in modo da poter intervenire tempestivamente sulle condizioni di disagio, prima che si cronicizzino
  3. La modulazione del contributo per l’affitto in base alla numerosità della famiglia.
  4. La considerazione di una parte del patrimonio mobiliare come reddito ai fini della determinazione del beneficio, in modo da evitare oggettive disparità di trattamento.
  5. la modifica dei criteri di congruità dell’offerta di lavoro, per tenere meglio conto delle basse qualifiche e della distanza dal mercato del lavoro di molti beneficiari pur teoricamente “occupabili”, per incoraggiarli a fare esperienze di lavoro anche parziali e temporanee, ma considerando congrue dal punto di vista della distanza solo offerte nel raggio di 100 km.
  6. Riduzione dell’attuale altissima aliquota marginale che scoraggia il lavoro regolare, portandola dall’80 al 60 per cento e senza limiti di tempo, ma fino alla soglia di imposizione fiscale.
  7. Eliminazione dell’imposizione di una dichiarazione di immediata disponibilità al lavoro da parte di tutti i beneficiari, richiedendola solo a coloro che vengono indirizzati ai centri per l’impiego, in modo da evitare inutili duplicazioni di prese in carico da parte di questi e dei servizi sociali
  8. Estensione degli incentivi ai datori di lavoro che offrono un contratto almeno annuale a tempo pieno oppure a orario parziale ma a tempo indeterminato, sospendendo anche, in attesa di un aumento dell’efficienza dei centri per l’impiego e delle piattaforme, l’obbligo a registrarsi sulla piattaforma apposita.
  9. Consentire che i partecipanti ai progetti di utilità collettiva – Puc – vengano individuati sulla base delle competenze e interessi.
  10. Eliminare la norma, controproducente e in radicale contrasto con ogni principio di gestione prudente del bilancio familiare, che richiede di spendere integralmente il beneficio mensile, salvo venir decurtato il mese successivo della somma non spesa.

Cosa altro serve per capire quale sia la matrice di questo governo? Cosa altro serve per smetterla con questa narrazione del governo apolitico?

Buon giovedì.

Nella foto: il presidente del Consiglio Mario Draghi, il ministro del Lavoro e delle politiche sociali Andrea Orlando e il ministro dell’Economia Daniele Franco

 

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Quando la scienza si aprì un varco nella religione, Venezia 21 novembre

Una festa, una delle più importanti della città, una vera ricorrenza che è diventata un evento identitario. In ricordo di una pandemia di secoli fa: una epidemia di peste. Siamo a Venezia e la festa è quella della Salute che si celebra ogni anno il 21 novembre. Una festa religiosa ma soprattutto una grande festa popolare cui partecipa la gran parte dei (pochissimi, non contando Mestre che formalmente è parte di Venezia) abitanti della città in mezzo alla laguna. Per l’occasione si costruisce un ponte provvisorio che unisce la riva dal lato di San Marco del Canal Grande all’altra su cui si trova la chiesa della Salute, più semplicemente la Salute. Il ponte resta per solo tre giorni e poi viene smontato per l’anno successivo. Il popolo veneziano percorre il ponte verso la chiesa ricordando la processione che avveniva secoli fa. Entrando nella chiesa per lasciare delle candele che solo in piccola parte verranno accese data la grande affluenza (ridotta se necessario per rispettare le regole della attuale pandemia). Per l’occasione come avviene per altre feste veneziane (e non solo) la ricorrenza è legata ad alcune specialità gastronomiche che si possono mangiare solo in questa occasione. Le frittelle, ciambelle cotte nell’olio alle bancarelle nei pressi della chiesa e la castradina, un piatto a base di cosciotto di montone salato, affumicato e stagionato, con cui si fa, con aggiunta di verza, cipolle e vino, una zuppa che si consuma solo alla vigilia della festa della Salute. Montone che sin dal 1173 arrivava a Venezia da quella che sono ai giorni nostri la Croazia e l’Albania.

Tra 1575 e 1577 a Venezia vi fu un’epidemia di peste che fece morire un terzo della popolazione della città. Il Senato veneziano pensò alla realizzazione di una chiesa votiva che avrebbe dovuto servire a sollecitare un intervento divino per salvare la città. La chiesa verrà realizzata da Andrea Palladio che morì nel 1580 prima che la chiesa venisse conclusa nel 1592. L’intervento divino, per i credenti, funzionò dato che l’epidemia cessò due mesi dopo l’inizio della costruzione nel luglio 1577. E nacque la festa del Redentore che da allora si svolge a luglio, tranne negli ultimi anni, per colpa della pandemia di Covid 19. Anche in questo caso si costruisce un lungo ponte di barche per andare alla chiesa camminando sull’acqua.

Perché era necessario un intervento divino? Avevano capito qualcosa i veneziani (e gli europei) di che cosa era la peste e come si propagava? Le autorità di fronte alla diffusione e alla gravità della epidemia presero una serie di misure che erano abbastanza simili. Scrive lo storico della medicina Alberto Zampieri: “Mettere guardie alle frontiere dello stato in modo che nessuno potesse entrare senza un bolletta di sanità che attestava lo stato di salute; proibizione di fiere e mercati; attenta vigilanza alle porte della città; nomina di commissari con incarichi vari di igiene pubblica; istituzione di lazzaretti ove isolare i colpiti; sepoltura dei morti in fosse comuni, coperte poi di calce; bruciatura delle robe infette (sia vestiti, che panni qualsiasi ed anche mobilio); nomina di appositi medici cui affidare la cura dei malati; bando di quarantene per cercare di debellare l’epidemia.” Ed aggiunge: “Per la terapia, questa era la più varia: tra i medicamenti principi, la teriaca (con cui si credeva si curassero moltissime malattie) la pietra Belzoar, il mitridate, l’orvietano, vari tipi di pillole portentose, l’ingestione di preparati a base di pietre preziose, l’olio contro veleni, la terra sigillata, alcune erbe medicinali (come la tormentilla, la borragine, l’angelica, il cardo mariano. Fra le tante specialità miracolose, vi era quella di pestare insieme arsenico, garofani, zafferano, zenzero e ruta, metterli in un sacchetto da portare sopra la camicia dalla parte del cuore. Era questo un rimedio sicuro per preservarsi dal morbo.” Ed era del tutto naturale rivolgersi ai santi ed ovviamente invocare l’intervento della Madonna.

I veneziani avevano compreso che l’unica possibile difesa era la quarantena. Come ha ricordato Mariano Montagnin “Si accorsero che una nave, proveniente da Oriente o comunque da zone a rischio, lasciata fuori dalla città per quaranta giorni rivelava eventuali epidemie: se non succedeva nulla, gli uomini potevano scaricare le merci, che nel frattempo erano state anch’esse arieggiate, e scendere a terra, altrimenti morivano tutti sulla nave.” Ma successe un imprevisto. L’8 giugno del 1630 arriva a Venezia l’ambasciatore del Duca di Mantova, marchese de Strigis, a Mantova erano stati individuati dei focolai di peste. Data l’importanza del personaggio non andò in quarantena al Lazzaretto Nuovo, ma nell’isola di San Clemente, dove ebbe contatti con un falegname che portò la malattia in città. Il primo Lazzaretto fu realizzato nel 1423: il Lazzaretto Vecchio, nell’isola di Santa Maria di Nazaret. Il secondo, il Lazzaretto Nuovo, nel 1468, nell’isola denominata Vigna Murada, lungo il percorso che porta a Torcello. Saranno 16 mesi di morte, da 48 contagi in luglio, si passò a un migliaio a settembre e a 14mila in novembre. Il doge Nicolò Contarini fece voto alla Vergine Maria di costruire una grande chiesa in suo onore.” Ed aggiunge: “il commercio non poteva fermarsi, pena la scomparsa della città. Così, molti patrizi morivano proprio per rimanere in città e curare gli interessi della famiglia: dopo la peste del 1348, cinquanta famiglie patrizie veneziane scomparvero.”

Architetto della chiesa della Salute sarà un giovanissimo Baldassarre Longhena. La costruzione inizierà nel 1631e sarà consacrata nel 1687. Anche in questo caso come con Palladio l’architetto morirà prima del completamento della chiesa. La peste del 1630 è quella di cui parla Manzoni, a Milano, nel capitolo XXXI de I promessi sposi: “Sul finire del mese di marzo cominciarono, in ogni quartiere della città, a farsi frequenti le malattie, le morti…I medici opposti alla opinion del contagio, non volendo ora confessare ciò che avevano deriso, e dovendo pur dare un nome generico alla nuova malattia, divenuta troppo comune e troppo palese per andarne senza, trovarono quello di febbri maligne, di febbri pestilenti: miserabile transazione, anzi trufferia di parole, e che pur faceva gran danno; perché, figurando di riconoscere la verità, riusciva ancora a non lasciar credere ciò che più importava di credere, di vedere, che il male s’attaccava per mezzo del contatto”.

Si sta ovviamente parlando di 400 anni fa. L’umanità ha da tempo imparato a far tesoro della esperienza (?). Resta il divertimento di passare il Canal Grande sul ponte galleggiante, ovviamente nel senso dal lato di san Marco verso la salute. La cura per la peste sono gli antibiotici, scoperti per caso nel 1928 da Alexander Fleming, che insieme con Ernst Chain e Howard W. Florey otterrà il premio Nobel per la medicina nel 1945. Ci sono voluti centinaia di anni.

 

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Perché il conflitto tra Costituzione tedesca e diritto europeo è un rischio per l’Ue

PRODUCTION - 30 August 2021, Baden-Wuerttemberg, Karlsruhe: ILLUSTRATION - On the bench in the courtroom in the Federal Constitutional Court lie berets of the Federal Constitutional Court judges of the first senate. In September 2021, the Federal Constitutional Court celebrates its 70th birthday. Photo by: Uli Deck/picture-alliance/dpa/AP Images

Il rapporto tra la Corte costituzionale federale tedesca (Fcc) e la Corte di giustizia europea (Cgce) è caratterizzato da una collisione generale tra due prospettive contraddittorie: la prospettiva dello spazio giudiziario europeo esige logicamente il primato del diritto europeo sul diritto nazionale. Tuttavia, la prospettiva nazionale insiste sul fatto che tutte le competenze europee si basano sulla decisione nazionale di delegare la sovranità radicata nella Costituzione e quindi soggetta alla giurisdizione locale.

Le due Corti sono ben consapevoli del loro disaccordo fondamentale e per decenni hanno gestito questa tensione fondamentale eludendo una decisione finale della questione. La Fcc ha sempre più accettato il ruolo ricoperto dalla Corte di giustizia nella salvaguardia dei diritti fondamentali, ma ha espresso alcune riserve: il livello europeo non può di per sé rivendicare nuove competenze e se i limiti di competenza sono violati, il giudice nazionale deve essere alla fine in grado di verificare se l’Ue è ultra vires, al di là cioè delle sue competenze giuridiche dei trattati.

Con il suo giudizio sul Programma di acquisto di titoli pubblici (Public sector purchase programme, Pspp) della Banca centrale europea (Bce), la Fcc ha per la prima volta deciso di entrare in un conflitto ultra vires di questo tipo, in seguito a un parere della Corte di giustizia europea che non teneva conto del necessario controllo di proporzionalità. Tuttavia, la Corte ha lasciato abbastanza tempo a tutti gli attori per reagire, cosa che infatti è accaduta. Dopo che la Bce ha presentato un esame di proporzionalità, la Corte ha accettato e ha respinto un altro ricorso contro il Pspp.

Dopo che il conflitto sopra citato è stato risolto e la collisione Fcc-Corte di giustizia europea è tornata nel suo solito limbo legale, la Commissione ha avviato una procedura di infrazione contro la Germania, riaccendendo così il contrasto già esistente. La Commissione ha attaccato profondamente le fondamenta stesse del dogma della Fcc sull’integrazione europea, sostenendo che i tribunali nazionali non avrebbero mai potuto pronunciarsi sui trattati dell’Ue e che si sarebbero dovuti limitare a chiedere all’infinito nuovi pareri della Corte di giustizia per riconsiderare la sua posizione. Questo modus operandi delle commissioni si è potuto benissimo notare nel contesto del conflitto con l’Ungheria e la Polonia e nella questione ancor più fondamentale degli strumenti dell’Ue per lo stato di diritto negli Stati membri.

In effetti, la sentenza Fcc conferma l’argomentazione generale a favore del controllo ultra vires da parte delle Corti nazionali. Ma questo è stato ampiamente frainteso e strumentalizzato da Orban e Kaczynski. Le differenze tra il caso tedesco e quello polacco sono fondamentali: per prima cosa, la Fcc non ha attaccato la competenza della Corte di giustizia in linea di principio, ma ha chiesto che la Corte di giustizia svolga il suo ruolo di controllo dello sviluppo delle competenze dell’Ue sulla base dei trattati. In più, la Fcc non è nominata dal governo tedesco, né il governo ha avuto alcuna parte nella sentenza. Al contrario, il governo polacco ha chiesto al suo Tribunale costituzionale di pronunciarsi sulla compatibilità della costituzione polacca con i trattati dell’Unione europea e sta pesantemente appoggiando politicamente tale decisione nel suo conflitto con l’Ue e nella sua lotta nazionale contro lo Stato di diritto. Peraltro, i governi di estrema destra sostengono che i trattati non forniscono alcuna base giuridica reale per nuovi strumenti per l’azione dell’Ue sulle violazioni generali dello Stato di diritto negli Stati membri. L’unica competenza valida in questo senso è l’articolo 7 del Trattato sull’Unione europea. Il vero problema è che non c’è nessuna volontà politica di determinare che vi è quantomeno un chiaro rischio di grave violazione dei valori come stato di diritto nell’articolo 7.

Tornando alla Corte tedesca, la Fcc rappresenta in ogni caso uno strumento per gli attori tedeschi a livello europeo. Le forze di opposizione, sia di destra che di sinistra, utilizzano regolarmente i ricorsi costituzionali per cercare di limitare i progetti politici dell’Ue sostenuti dal governo. Il gruppo Left del Bundestag è attualmente impegnato in una procedura di denuncia contro il cosiddetto “Fondo europeo di difesa” con l’argomentazione che i trattati Ue vietano il finanziamento delle spese militari operative (articolo 41 Tue).

Anche le forze di destra dell’opposizione stanno regolarmente presentando ricorsi alla Corte, a volte con il sostegno dei parlamentari del Partito conservatore, al potere da lungo tempo. Questo ha sostenuto la dura posizione tedesca contro il finanziamento comune e la sua richiesta di severe misure di austerità, istituzionalizzandola. Il Bundestag tedesco ha competenze esplicite in merito al Meccanismo europeo di stabilità (Mes), cosicché nelle decisioni fondamentali ha un vero potere di veto. La Fcc ha basato la sua tesi sul principio assoluto della democrazia nella Costituzione, che implica anche un controllo sostanziale del bilancio tedesco che non può essere predeterminato dagli obblighi comunitari o da strumenti europei finanziariamente ampi, con una possibile decisione a maggioranza contro Berlino. La Germania è storicamente restrittiva nel settore della finanza europea e ha rafforzato la sua posizione attraverso i trattati europei, il patto di stabilità e crescita e il mandato della Bce. Se dovessero adottare le necessarie misure per costituire un debito europeo comune e un finanziamento comune, esse saranno certamente contestate dalle forze conservatrici di destra dinanzi alla Fcc.

Per concludere, la sentenza Fcc sul trattato di Lisbona del 2009 ha introdotto limiti generali per un’ulteriore integrazione europea che sono rilevanti anche per la sinistra: secondo la Costituzione tedesca, nessuna istituzione del Paese può condurre la Germania all’interno di uno Stato federale europeo o in un livello di integrazione europea che abbia la facoltà di decidere sulle sue competenze. La Fcc esclude la possibilità, per l’Ue, di essere un soggetto di legittimità europea. Qualsiasi vera democratizzazione dell’Unione europea che spostasse in modo sostanziale il quadro della sovranità nazionale verso una sovranità europea sarebbe, pertanto, limitata dalla Costituzione tedesca e non potrebbe essere attuata da alcuna maggioranza al governo o al Parlamento. L’unico modo, per la Germania, di arrivare a una nuova fase qualitativa dell’integrazione europea risiederebbe nella scelta di promulgare una Costituzione completamente nuova, decisa dal popolo tedesco tramite referendum.

(traduzione dall’inglese di Alessia Gasparini)

L’autore: René Jokisch è parlamentare di Die Linke al Bundenstag (referente per le politiche europee). Questo articolo è stato scritto nell’ambito di Media alliance, di cui fa parte anche Left, un progetto di transform!Europe in partnership con transform!Italia 

 

Italia, la silenziosa signora della guerra

Foto LaPresse - Claudio Furlan 16 aprile 2021 - Milano (Italia) CronacaIl ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, partecipa alla cerimonia di giuramento degli allievi del corso ‘Buffa di Perrero III’ della scuola militare ‘Teulié’. Nella foto: il Ministro della Difesa, Lorenzo Guerini Photo LaPresse - Claudio Furlan April 16 , 2021 Milan ( Italy ) NewsThe Scuola Militare "Teulié" (Military School Teulié) is a highly selective military school of the Italian Army and, founded in 1802, is one of the oldest military academies in the world. In the pic: Lorenzo Guerini Minister of Defence of Italy

Le migrazioni sono solo l’ultimo stadio di una catena di eventi, soprattutto povertà, cambiamenti climatici ma prima di qualsiasi altra cosa la guerra. Che in tutti questi anni si riesca a parlare di migrazioni senza mai fare un minimo cenno alla guerra (tranne per l’Afghanistan ma è stata una svista quasi umana che è durata giusto qualche settimana) è la fotografia dell’ipocrisia di chi con la guerra continua ad arricchirsi e di chi in politica silenzioso e sotterraneo (vedi alla voce Lorenzo Guerini, ministro alla Difesa con una soporifera assenza pubblica) continua a fomentare le guerre fingendo di essere un portavoce della pace.

Tra le guerre di cui si parla sempre troppo poco (a dire la verità di tutte le guerre si parla sempre troppo poco) quella in Yemen è una delle più taciute poiché Arabia Saudita e Emirati Arabi sono troppo amici per permetterci di sporcare le foto ricordo (inutile specificare amici di chi, ci si arriva facile facile). In Yemen dopo sei anni di guerra c’è la peggior crisi umanitaria del mondo: sono stati sinora uccisi o feriti 18.400 civili e due terzi della popolazione – cioè circa 20 milioni di persone – richiedono assistenza alimentare, esposti alla crisi pandemica da Covid, le cui dimensioni sono difficili da valutare. In particolare sono state colpite le infrastrutture civili, comprese le scuole e gli ospedali. Nel Paese mancano il carburante e i servizi di base, e spadroneggiano le milizie abusive locali.

The Weapon watch (l’osservatorio sulle armi nei porti europei e mediterranei) ci fa sapere che lo scorso 12 novembre «con qualche giorno di ritardo sul previsto, la nave “Bahri Abha” è arrivata in porto di Genova, accolta dal solito massiccio schieramento di polizia per scongiurare proteste violente che né a Genova né in altri porti italiani si sono mai verificate». Scrive Weapon watch: «Notizie in attesa di conferma indicano che la Bahri Abha sta trasportando decine di carri armati, un gran numero di casse e contenitori di esplosivi, container di merci infiammabili. Ogni 2-3 settimane, una nave della compagnia Bahri passa da Genova. Da molti anni. Weapon watch ha raccolto e pubblicato dal 2019 ad oggi innumerevoli prove che queste navi violano la legge 185/1990 e il Trattato internazionale sul commercio delle armi convenzionali. Tutto ciò continua ad accadere nell’apparente inerzia delle autorità e del governo italiano, in realtà con il loro pieno sostegno, e anzi su istigazione degli interessi economici coinvolti si è applicata la repressione di polizia a chi osa contestare il “traffico di morte” che continua a svolgersi sotto i nostri occhi».

Cosa trasportano le navi saudite? Ecco qui: «Si va dagli shelter e dai gruppi elettrogeni prodotti dalla società Teknel Srl di Roma ai cannoni Caesar, canons équipés d’un système d’artillerie della francese Nexter, motorizzati Renault su telai Mercedes-Unimog. Poi abbiamo visto una parte degli oltre 700 blindati Lav (Light armoured vehicles) mod. 6.0 fabbricati da General dynamics e il cui acquisto ha generato uno scandalo economico-finanziario in Canada. E anche sono passati da Genova i blindati Patria Amv 1 di produzione finlandese, i soli concorrenti sul mercato dei Lav di General dynamics. Notevoli i quantitativi di main battle tanks visti o documentati nelle stive delle navi Bahri, soprattutto gli Abrams M1a2 e probabilmente anche del modello Seepv 3, recente versione con importanti upgrade elettronici. E persino mezzi specializzati come gli Howitzer 109A6 Paladin e i M88A2 Hercules (Heavy equipment recovery combat utility lift and evacuation system). E, sempre, container e container di munizioni pesanti, missili, esplosivi, in particolare quelle prodotte dalle americane Raytheon e Lockheed Martin, dal gruppo tedesco Rheinmetall, dalla spagnole Defex e Maxam. Non sono mancati gli elicotteri. Sono stati notati gli AH-64 Apache prodotti da Boeing, elicotteri d’attacco che portano la scritta (in arabo e inglese) “God bless you”. Nella nave Bahri Abha, in porto a Genova in queste ore, sono stati rilevati almeno una mezza dozzina di Sikorsky UH-60M Black Hawk, in dotazione alla Guardia nazionale saudita».

Come racconta il giornalista Antonio Mazzeo su il manifesto «a metà marzo, le abitazioni di alcuni militanti del Collettivo autonomo lavoratori portuali (Calp) sono state perquisite dagli agenti della Digos su mandato della Procura della Repubblica. Gli inquirenti genovesi hanno contestato un’incredibile serie di reati, tra cui l’associazione per delinquere, la resistenza a pubblico ufficiale, il lancio di oggetti pericolosi, l’attentato alla sicurezza pubblica dei trasporti, ecc… “Dallo sciopero indetto due anni fa per bloccare un carico destinato alla guerra in Yemen, a oggi, passando per la manifestazione di un anno fa contro il transito di esplosivi a bordo di un’altra Bahri diretti alla guerra siriana, gli armatori sauditi attraverso l’agenzia genovese Delta e il Terminal Gmt avevano chiesto a più riprese alla Procura la testa dei portuali”, scrivono i militanti del Calp. “Per quale colpa? Per avere messo in pratica, con le associazioni e i movimenti contro la guerra e per i diritti civili ciò che il Parlamento ha approvato poco dopo lo sciopero nel porto di Genova: lo stop alla vendita di bombe e missili ad Arabia e Emirati”».

Sì, lo so, non l’avete letto da nessuna parte. Osservare e interrogare sugli armamenti richiede la schiena piuttosto dritta e soprattutto provoca l’irritazione dei signori della guerra che muovono molti, moltissimi soldi. Però varrebbe la pena riempirsi un po’ meno la bocca della parola pace e provare a praticarla. Per questo conviene scriverne e sperare che la voce arrivi a chi dovrebbe dare risposte. Si fa così, la pace.

Buon mercoledì.

* In foto, il ministro della Difesa Guerini partecipa alla cerimonia di giuramento degli allievi della scuola militare Teulié di Milano

 

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Cop26, dalla trappola per le nuove generazioni al neocolonialismo climatico

Non è un risultato entusiasmante se mentre la casa brucia, tutti si dicono d’accordo che l’impianto antincendio andrà un giorno cambiato. Eppure, questo accade a Glasgow.
Nell’affannosa ricerca delle “novità positive” espresse dalla Cop26 si conta infatti il fatto che, per la prima volta nella storia degli accordi conclusivi di una conferenza ONU sul clima, sono stati citati i combustibili fossili, e la necessità di ridurne l’utilizzo: questo solo perché non erano mai stati citati prima. Eppure, c’erano molte aspettative per questa Cop 26 e obiettivi ambiziosi da discutere, anche alla luce degli impegni formalizzati dall’Europa sulla legge del clima, di neutralità climatica al 2050 e di un meno 55% di emissioni rispetto al 1990 entro il 2030.
L’urgenza ci era stata dettata da molti indicatori, dalla pandemia, dagli eventi climatici avversi sempre più incalzanti, dai rapporti climatici ma soprattutto dal VI rapporto dell’Ipcc, che non usa mezzi termini sulla irreversibilità dell’aumento delle temperature, destinate oramai a raggiungere i +2,7 gradi, se continueremo su questa strada, e sulla responsabilità antropica di questi cambiamenti. I delegati più navigati erano addirittura preoccupati di tutta questa aspettativa, “una Cop non è fatta per risolvere i problemi climatici”, dicevano, eppure il mondo si aspettava questo.
Tutti delusi, da Greta, al segretario generale dell’Onu Antonio Gutteres, al presidente della conferenza Alok Sharma, fino naturalmente al delegato di Antigua e Barbuda, che, parlando a nome di molti Paesi in via di sviluppo, ha chiesto che la “delusione” venisse messa a verbale.
I giovani in piazza ribadiscono che bisogna dare ascolto alla scienza come si è fatto con il virus globale; dicono che occorre trattare l’emergenza climatica alla stregua dell’emergenza Covid 19, che è una spia indiscutibile dei pericoli insiti in questo modello di sviluppo.
Questa, a dire il vero, ci sembra una grande indicazione, l’unica davvero all’altezza degli eventi, che da sola esonera i ragazzi della piazza di Greta da giudizi impropri di superficialità che le vengono mossi dai grandi della terra, in capo a tutti dal nostro ministro Cingolani.
Eppure in linea con questo giudizio, in quello che ci sembra un delirio da pensiero unico, proprio il nostro ministro della Transizione ecologica ha avviato a Milano la Youth for clima, che a nostro parere, ha il velato intento non dichiarato di contrapporre ai giovani della piazza, un gruppo di giovani “propositivi”, un tantino troppo filo governativi, a mio improprio giudizio, già opportunamente posti nei binari controllati dell’establishment; che arriva a negare così, alle nuove generazioni di fare la loro parte, di essere spinta propulsiva, critica e autonoma, sui decisori del mondo.
Ho avuto modo di partecipare con una delegazione di parlamentari italiani alla Cop di Glasgow, ho avuto il privilegio di assistere a questa gigantesca operazione di coordinamento e di gestione apparente della democrazia, ho potuto ascoltare e vedere da vicino i delegati dei vari Paesi, quelli più fragili ed esposti, i Paesi in via di sviluppo “incolpevoli” che incidono sul surriscaldamento del pianeta per un percentuale minima e irrisoria, ma che sono quelli su cui ricadono pesantemente le conseguenze di questa emergenza climatica, già da decenni, quelli che subiscono da anni i danni devastanti degli eventi climatici estremi; ho ascoltato i delegati prendere parola e prendere posizione, denunciare uno ad uno, come un mantra le disuguaglianze incolmabili.
Ma, sebbene non si risparmino parole su questo, i grandi del mondo continuano a negare il nesso di casualità sul dato più importante ed urgente, sui “danni e le perdite”.
Sono 500mila i morti per eventi climatici estremi negli ultimi venti anni, e quasi tutti nei Paesi più fragili e incolpevoli.
Eppure, da tredici anni si continua a parlare e a spostare la data del fondo di sostegno per i Paesi più poveri, e si continua a volerlo fare su base volontaria e dato più grave, solo a sostegno della transizione.
Siamo di fronte a quello che possiamo chiamare, senza remore, un neocolonialismo climatico, si vogliono esportare fondi di investimento, prestiti, tecnologie e progetti, dai Paesi più ricchi a quelli più poveri, ma si nega la necessità di mettere mano al portafoglio per riparare ai danni e alle perdite causati dal cambiamento climatico.
Eppure, è cosa accertata dal VI rapporto, i cambiamenti climatici hanno una causa antropica, sono stati innescati dalla mano dell’uomo, dai Paesi più industrializzati, che ancora oggi a Glasgow hanno dimostrato di non voler rinunciare al proprio modello di sviluppo capitalistico, coloniale, e di sfruttamento delle risorse. Un paradosso.
Se andiamo avanti di questo passo si salveranno solo le terre che potranno adattarsi ai cambiamenti in atto, “da qualche parte lo avranno calcolato bene”, alcune economie potranno certamente beneficiare anche di questo, come della pandemia, salvaguardando il modello di sviluppo che rappresentano, senza troppe perdite, con nuovi opportuni investimenti nelle opportune tecnologie, potranno continuare a generare profitto per la parte del pianeta più ricca, “qualcuno avrà citato anche una inevitabile legge di Darwin a cui ci dovremo arrendere”?
In fondo anche “il patto dell’Europa per l’asilo” ce lo mostra, la Ue si sta organizzando affinché le masse di immigrati climatici che inevitabilmente invaderanno le nostre terre siano fermate nelle aree limitrofe, anche a costo di consistenti stanziamenti economici; si ergono muri reali e fattuali a difesa dei confini. Per un mondo per pochi.

*L’autrice: La senatrice Paola Nugnes è membro della 13^ Commissione permanente (Territorio, ambiente, beni ambientali)

Foto di Alan Morris, Pixabay

 

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Fedez, i cantieri e gli umarell

Ieri la giornata politica ha parlato di Fedez. Anzi, peggio. Anche ieri la politica e il giornalismo politico hanno pensato bene di parlare di Fedez che solo per avere registrato un dominio internet (fedezelezioni2023) si è ritrovato preso sul serio. Del resto non è facile riempire le pagine di politica in quest’epoca in cui tutti sono proni a Draghi e ai draghismi, tutti sospesi come se questo non fosse un governo ma un balsamo da gustare in attesa che torni la politica, una benedetta sospensione in cui scrivere di quello che accade nel Paese può essere scambiato come un tentativo di guastare la benedetta opera del manovratore.

Giorni interi sprecati a parlare di Quirinale come se nel Paese non esistano problemi contingenti da affrontare con urgenza, leader politici che ora hanno promesso di rimettersi a cuccia per lasciare passare indenne la prossima manovra finanziaria senza nemmeno prendersi la briga di spiegare cosa abbiano intenzione di metterci dentro. La notizia è che hanno promesso che faranno i bravi e che Fedez forse vuole fare politica. Capite il sotto vuoto?

Così scrivere di tutto il resto rischia di diventare un’attività collaterale, finire nel cassetto degli agitatori e mica di quelli che danno le notizie. Sono momenti che ciclicamente tornano quelli in cui alzare il dito per porre domande o allungarlo per indicare un problema viene vissuto con fastidio. Ma non è il giornalismo proprio questo perseverante insistere? E allora insistiamo, insistiamo nonostante il fatto che più di 100 agenti e funzionari penitenziari rinviati a giudizio per avere massacrato di botte dei detenuti sia rimasto lì solo soletto nel buongiorno di ieri come se fosse una favola nordica da leggere di passaggio o qualcosa di esotico per un’effimera sorpresa.

Lo scorso fine settimana ad esempio è accaduto (oltre agli editorialisti che si sono spremuti su Fedez) che i sindacati dell’edilizia tutti insieme abbiano manifestato a Roma raccontando che mentre piovono soldi sul settore (un po’ per i bonus del governo e un po’ perché in Italia la “ripresa” si misura sempre con i chili di cemento) quelli continuano a morire: i dati dell’Inail mostrano un aumento del 16% delle denunce di infortuni nelle costruzioni tra gennaio e settembre 2021 rispetto allo stesso periodo del 2020 (segnato, va ricordato, dal lockdown): da 17.891 a 21.236, di cui 87 mortali. Nel solo mese di settembre sono state 1.826. Si lavora di più, si muore di più, si viene pagati di meno.

Ci hanno ricordato che la patente a punti per le imprese (che dovrebbe agevolare quelle che seguono le regole e che rispettano le norme di sicurezza) è stata annunciata 12 anni fa e non è mai stata attuata. Ci hanno dovuto ricordare che sarebbe ora di aggiungere al codice penale l’aggravante per infortunio mortale sul lavoro che consisterebbe di contestare l’omicidio doloso (e non colposo come avviene adesso) e magari riuscire a bloccare i beni dell’imprenditore che quando viene condannato è già riuscito a vendere tutto (o a intestarlo a qualche testa di legno) lasciando senza soldi la famiglia delle vittime, cornuti e mazziati.

Ci hanno ricordato (a proposito dei giovani che dovrebbero cambiare il Paese) che l’aspettativa di vita dei lavoratori del settore è tra le più basse. L’80% delle malattie professionali colpisce gli over 55. E un quarto dei morti in cantiere quest’anno era over 60, in alcuni casi addirittura over 70.

Ci hanno ricordato che gli ispettori sui cantieri sono troppo pochi (ma va?) e che arrivano sempre tardi quando le aziende sono già state avvisate. Ci hanno ricordato che la politica del massimo ribasso spinge le aziende a fare in fretta e che per accarezzare la fretta i caschi e le corde salvavita sono una perdita di tempo.

Intanto ieri a Cerreto Guidi (Firenze) un operaio di 51 anni, che stava lavorando in un cantiere per la realizzazione di un collettore fognario nei pressi del depuratore, ha perso la vita ribaltandosi con lo schiacciasassi che stava guidando, finendo in un fossato. A Bellizzi (Salerno) un operaio di 57 anni ha perso la vita in un incidente sul lavoro avvenuto  in un’abitazione. L’uomo, secondo una prima ricostruzione dei fatti, stava ispezionando la canna fumaria di una stufa a pellet in un appartamento di via Olmo quando, per cause ancora ignote, ha perso l’equilibrio ed è caduto nel vuoto battendo la testa.

Il Paese reale, al di là di Fedez. Ma ormai gli umarell non guardano nemmeno i cantieri, rimangono incantati di fronte agli influencer.

Buon martedì.

 

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