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«Contro greenwashing e finto ambientalismo». Alla Camera nasce “Facciamo eco”, il gruppo ecologista

«Siamo felici di annunciare la nascita di Facciamo Eco, la nostra componente ecologista». Dopo ben tredici anni i verdi sono tornati in Parlamento. Lo fanno sotto le insegne di “Facciamo eco”, la nuova componente ecologista nel Gruppo misto della Camera, presentata in conferenza stampa a Montecitorio. A fondarla Rossella Muroni, ex presidente di Legambiente, che ha abbandonato nei giorni scorsi il gruppo di Leu per entrare nel Misto. Ad aderire da subito al progetto sono stati Lorenzo Fioramonti, ex 5Stelle ed ex ministro dell’Istruzione, e Alessandro Fusacchia, eletto con +Europa e poi passato al Centro democratico.

Il progetto ha potuto vedere la luce grazie al contributo del Partito dei Verdi che hanno concesso l’utilizzo del proprio simbolo, con cui si erano presentati alle scorse elezioni, un passaggio indispensabile per ottemperare agli obblighi del regolamento parlamentare.

Ecologia, Europa, cura, talento e riscatto. Queste le parole chiave. Il programma verterà sui temi da sempre cari ai Verdi, come il futuro sostenibile per le nuove generazioni, l’economia green, il lavoro, l’impresa, l’istruzione e la ricerca. «È necessaria una voce autonoma che parli di transizione ecologica, senza slogan. Senza verniciate di facciata. Partiamo da una componente che si chiama Facciamo Eco, per parlare di un progetto più ampio. Che diventi una voce e che possa essere una guida per il Paese», ha dichiarato Muroni. Un Paese che sembra aver perso fiducia nel Parlamento e pare sempre più distante dalle Istituzioni e che ha necessità di affacciarsi di nuovo alla politica concreta.

Per i fondatori della nuova componente gli obiettivi sono chiari: gestire con trasparenza il ciclo dei rifiuti e la tutela delle acque, prevenire il dissesto idrogeologico, istituire nuove aree protette, in sinergia con le realtà locali. La componente ha ribadito l’appoggio convinto al nuovo governo e poi ha chiarito di volerlo però incalzare senza indugio né esitazione, per portare avanti gli obiettivi, che dovranno essere comuni e trasversali.

«Grazie all’accordo con la Federazione dei Verdi – affermano i tre parlamentari promotori del progetto -, abbiamo deciso di mobilitarci per ricordare come un vero cambiamento sia possibile solo dando “voce” a chi non ce l’ha, soprattutto le nuove generazioni, che ci chiedono un’inversione di rotta tanto radicale quanto concreta per garantire un futuro sostenibile. L’ambientalismo politico non può prescindere da una nuova visione dell’economia, che sia improntata ai valori dell’ecologia, facendo leva su tutti gli ecosistemi dell’innovazione tecnologica e sociale»

«In questa fase politica in cui tutti si reinventano ecologisti – dichiarano i deputati – è importante che chi ha una storia di impegno concreto sul fronte ambientalista faccia sentire la propria voce, dando spazio a tutte quelle realtà associative e scientifiche che da decenni si battono per una vera transizione ecologica del Paese». Un progetto, dunque, che va contro i “furbetti” dell’ecologia.

«Lotteremo contro il greenwashing, contro la finta transizione che si trasforma in “transazione” e incalzeremo il governo per passare dalle parole ai fatti. Cominciando con una serie di proposte concrete, dall’inserimento di un servizio civile ambientale nel Pnrr per unire lavoro e formazione sulla messa in sicurezza del territorio, fino ad una riforma fiscale green (partendo dal taglio graduale dei sussidi ambientalmente dannosi) e ad un nuovo approccio sulla scuola e sulla ricerca, vere leve dello sviluppo di una nazione», concludono i tre.

Sebbene le culture politiche di provenienza dei tre deputati siano diverse, per l’onorevole Fusacchia vi sono obiettivi e valori comuni: «Abbiamo la ferma volontà di fare una sintesi al rialzo, guidati dalla stella polare che è la sostenibilità». Un appello poi ai colleghi in Parlamento, ai cittadini e a tutte le realtà associazionistiche e del territorio: «Abbiamo un indirizzo mail, inviateci idee, suggerimenti, proposte, siamo una filiera corta».

A riveder le Stelle nella scia di Conte

Foto Roberto Monaldo / LaPresse 24-01-2021 Roma Politica Trasmissione tv "Mezz'ora in più" Nella foto Luigi Di Maio, sullo schermo Giuseppe Conte Photo Roberto Monaldo / LaPresse 24-01-2021 Rome (Italy) Tv program "Mezz'ora in più" In the pic Luigi Di Maio

«L’unico che può restituire dignità e unità al Movimento è Giuseppe Conte». Nelle chat dei parlamentari Cinque stelle da settimane è tutto un ripetersi di stima e affetto nei confronti dell’ex presidente del Consiglio. Soprattutto dopo la spaccatura verificatasi sia al Senato sia alla Camera dinanzi al voto di fiducia per il governo Draghi, è diventato sempre più evidente che l’unico modo per “salvare” il Movimento fosse quello di scomodare il nome di Conte, il quale solo pochi giorni fa in un incontro “carbonaro” con Beppe Grillo e una cerchia ristrettissima di parlamentari (sarebbero stati presenti pochi fedelissimi, tra cui Luigi Di Maio, Alfonso Bonafede e Riccardo Fraccaro), ha sciolto le riserve e accettato di guidare i Cinque stelle in una sorta di rifondazione.

«Il Movimento cinque stelle – spiega tra il serio e il faceto un senatore pentastellato – diventerà Movimento “5.0” stelle». Una battuta, certo. Ma che rivela l’intenzione di rivoluzionare per intero quello che fino ad oggi sono stati i grillini. Tra le condizioni volute dallo stesso Conte c’è innanzitutto la volontà di rendere l’alleanza con Pd e Leu chiara, certa, inequivocabile. «Giuseppe – rivela a Left una persona che ha avuto modo di parlare con l’ex premier – ha chiesto che non ci siano più tentennamenti a riguardo: quello che deve nascere è un nuovo fronte riformista, opposto ai sovranisti».

Non è un caso che tra i registi “occulti” del ritorno immediato di Conte ci sarebbe anche il…


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SOMMARIO

Centomila

Foto Cecilia Fabiano/ LaPresse 16 marzo 2020 Roma (Italia) Cronaca Emergenza Coronavirus, operativo a Roma il Covid 2 Hospital alla Columbus Nella foto: l'arrivo di un paziente in una barella di Bio-contenimento per l’isolamento e il trasporto in ambulanza di pazienti ad elevato rischio di contagio Photo Cecilia Fabiano/LaPresse March 16, 2020 Rome (Italy) News Coronavirus Emergency, new set opening of the Columbus Gemelli Covid 19 department In the pic: biocontainment systems to transport patients infected by highly contagious diseases

Centomila morti fa avevamo problemi che ci disturbavano il sonno e che ora sogniamo che tornino, piccoli come ci appaiono rispetto al nero che si è spanso centomila morti dopo. Se ci pensate centomila morti fa intravedevamo un futuro, un futuro magari difficile, ostico, piuttosto faticoso, che ci sarebbe costato, tutto da conquistare ma ci si alzava al mattino successivo dicendosi dai ora vediamo di sistemare le cose e invece oggi, centomila morti dopo, abbiamo l’orrenda sensazione che le cose si sistemino solo grazie a fattori esterni di cui non abbiamo controllo e nemmeno troppa contezza.

Centomila morti fa se ci avessero detto che in un anno sarebbe scomparso dalla cartina geografica un intero capoluogo di provincia non ci avremmo mai creduto, i soliti apocalittici avremmo risposto e poi ci saremmo dati di gomito. Centomila morti tra l’altro sono almeno dieci parenti, una decina di amici, sono due milioni di persone che si portano addosso il lutto e hanno paura del lutto successivo mentre hanno la sensazione che stia salendo le scale del pianerottolo.

Centomila morti fa ci ripetevamo che sarebbe andato tutto bene, lo scrivevamo perfino sui cartelloni, avevamo una vitalità che si era convinta semplicemente di dover prendere un po’ di rincorsa per saettare fuori veloce e invece centomila morti dopo ci siamo convinti che l’ottimismo sia irrispettoso, sia una maleducata mancanza di rispetto.

Centomila morti fa ci dicevano che dipendeva tutto da noi e invece centomila morti dopo ci possiamo dire serenamente che no, che noi contiamo per le precauzioni che possiamo adottare ma l’architettura del mondo che abitiamo, dalla scuola al lavoro al modo in cui ci spostiamo al modo in cui usufruiamo dei nostri servizi primari, non è stata capace di adattarsi e ancora adesso rincorre il virus e si preoccupa della retorica.

La retorica, appunto: dicono abbiate fiducia, non perdete la fiducia e intanto si perde il lavoro, si logorano i risparmi, si perde la casa, si perde l’istruzione, si perde perfino la possibilità di curarsi una malattia che non sia il virus di cui tutti parlano perché intanto il virus di cui tutti parlano si è mangiato il resto di cui si fatica a parlare.

A livello generale si è instaurato lo stigma che prima valeva solo per le piccole situazioni: si è stanchi ma non si deve dire, eppure si è stanchi non perché non si è consapevoli dell’inevitabile ma perché i numeri continuano a traballare, le soluzioni sono le stesse ripetute negli stessi modi (anche da quelli che prima strepitavano e ora al governo semplicemente non strepitano più). Si è stanchi perché la speranza declamata è un bluff ormai riconosciuto da tutti: la speranza si progetta, si costruisce, si mantiene, si revisiona. La speranza non si dice.

Buon martedì.

Uomini che odiano le donne

Cardinals sit as Pope Francis celebrates Mass the day after he raised 13 new cardinals to the highest rank in the Catholic hierarchy, at St. Peter's Basilica, Sunday, Nov. 29, 2020. (AP Photo/Gregorio Borgia, Pool)

Abbiamo bisogno di definire le cose e le persone, non con la finalità di cristallizzarle, ma nella prospettiva della relazione, perché nella conoscenza e nella condivisione dei significati qualifichiamo lo scambio. Quando non si conoscono le definizioni, quando non si dà lo stesso significato alle parole, quando si attribuiscono qualificazioni diverse, c’è una frattura nella comunicazione, e la divergenza, spesso voluta, può generare mostri.
Per dare completezza allo scambio, dunque, ci si deve intendere sul significato dei termini che si usano. Le definizioni sono importanti nella misura in cui la manipolazione dei termini e dei significati si è articolata attorno ad obiettivi oscurantisti e criminogeni.
Anche grazie ai movimenti femministi e ai movimenti transfemministi il dibattito politico e sociale ha contribuito alla diffusione della conoscenza dei linguaggi sull’identità sessuale e di genere, nell’ottica del superamento degli stereotipi patriarcali.
Più sono cresciuti i movimenti femministi e i movimenti transfemministi, e più le caste sacerdotali hanno pianificato la loro guerra al femminismo e al tranfemminismo.
Sarà opportuno ricostruirne le vicende nella loro successione storica.
Nel 1994 al Cairo, in Egitto, si tenne la Conferenza internazionale su popolazione e sviluppo che si concluse con una affermazione condivisa sulla necessità di dare risposte effettive ai bisogni delle donne di istruzione e salute, ivi compresa la salute riproduttiva, promuovendo la parità tra uomo e donna, la eliminazione della violenza di genere, consentendo alle donne l’autodeterminazione attraverso il controllo delle nascite.
Nel 1995 a Pechino si tenne la IV Conferenza mondiale delle donne e in quel contesto i movimenti di tutto il mondo convennero sulla necessità di “guardare il mondo con occhi di donna” proclamando che “i diritti delle donne sono diritti umani”.
Entrambe le conferenze hanno scatenato le crociate antifemministe delle caste sacerdotali, preoccupate che l’eccessiva autodeterminazione femminile potesse incrinare i loro privilegi, perché è ormai chiaro che se le donne hanno potere decisionale sui loro corpi e sulle loro vite, al potere clericale di femminile restano solo le sottane.
Wojtyla pianificò di neutralizzare le conclusioni della Conferenza del Cairo e della Conferenza di Pechino, e affidò a tale Alfonso López Trujillo, un cardinale colombiano, acerrimo oppositore della Teologia della Liberazione perché infarcita di marxismo, l’incarico di redigere un documento che affrontasse le questioni del genere e della sessualità riaffermando la struttura patriarcale, la sottomissione del genere femminile e lo stigma verso tutte le altre forme di sessualità e di identità di genere non binarie, ma soprattutto tutti quei riconoscimenti biologici e psicologici che avrebbero potuto minare la famiglia tradizionale, quella, per intenderci, che il Pontificio Consiglio della Famiglia vuole difendere dal “relativismo egualitarista”.
Nelle pianificazioni di Wojtyla occorreva elaborare una ideologia di contrasto all’egualitarismo perché se si fosse affermato che siamo davvero tutti uguali, non si sarebbe più trovata giustificazione alcuna al fatto che il clero intende essere più uguale degli altri.
Trujillo elaborò un dizionario, il Lexicon, con la precisa finalità di costruire uno strumento ideologico nelle mani dei cattolici per opporsi a forme di emancipazione in ogni sede, sociale, scolastica e istituzionale, ma soprattutto legislativa, per imporre anche ai non cattolici le loro teorie oscurantiste su sessualità e genere, per attaccare frontalmente coloro che sono stati definiti i “negazionisti” della famiglia tradizionale.
Nel calderone delle teorizzazioni di Trujillo, che si collocano attorno al 1999, sono stati inclusi anche i marxisti e gli ambientalisti estremi, colpevoli di non essere obbedienti alle costruzioni divine.
In questa follia ideologica hanno trovato di che nutrirsi le destre conservatrici di molti Paesi, soprattutto statunitensi, e le lobby familiaristiche cattoliche vicine all’Opus Dei, che sono arrivate finanche a introdurre le teorie riparative per l’omosessualità, a conferma che la perversione cattolica resta una assurdità senza soluzione.
In Italia le ideologie del Lexicon sono state recepite dalle organizzazioni violente di estrema destra, da organizzazioni di fondamentalisti, soprattutto da omofobici (e sappiamo che generalmente sono omosessuali latenti irrisolti) ma anche da persone per le quali è legittimo il sospetto che vivano il proprio ruolo sessuale con così poca convinzione da farsi paladini di pratiche impositive per altri, per giustificare ai propri occhi ciò che hanno autoimposto a loro stessi.
L’8 dicembre 2002 venne pubblicato il Lexicon e la data non è casuale: il giorno 8 dicembre i cattolici celebrano la Madonna, la loro dea ascesa al cielo con tutto il corpo, esempio di femminilità cui è negata ogni forma di sessualità, ma soprattutto di cui si celebra l’assenza di qualsivoglia forma di consenso rispetto ad una gravidanza imposta.
Scorrendo il Lexicon le forme di aggressione ossessiva sono state formulate contro tutto ciò che ruota attorno all’autodeterminazione sessuale e riproduttiva delle donne. Si dà addosso al termine “interruzione volontaria della gravidanza” e all’espressione “pro-choice”. Si critica aspramente il positivismo legislativo la cui deriva starebbe tutta nel fatto che non ha fondamento etico. Orbene, le democrazie si contrappongono alle dittature non solo per organizzazione dello Stato ma anche perché lo Stato etico si pone come decisore, arbitro e giudice assoluto del bene e del male, mentre le democrazie si fondano sulla supremazia del diritto e della libertà dell’uomo e della donna.
Nel Lexicon si assiste ad un paradosso folle: questo dizionario nasce con il preciso obiettivo di manipolare la semantica dei diritti umani e ci si trova di fronte ad un lungo exursus sulla manipolazione semantica di cui si accusano coloro che non si predispongono a seguire i dettami della loro mitologia.
Si affronta il tema della discriminazione e, con stridore di unghie sugli specchi, si condannano i Parlamenti che legiferano sui progetti delle unioni di fatto, anche delle unioni omosessuali e lesbiche, e persino con la possibilità di adozione.
Si attacca la Cedaw, la Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione della donna approvata dall’Assemblea delle Nazioni Unite nel 1981, perché esclude che la casalinghizzazione possa costituire momento di affermazione della donna il cui unico compito, secondo la religione cattolica, deve essere quello della cura dei figli e della casa.
La salute riproduttiva viene indicata come formula subdola di appropriazione semantica di idee malsane.
La cosa buffa è che si nega che l’embrione possa essere di proprietà della madre mentre invece secondo il loro diritto canonico i figli sono di proprietà del padre.
Si passa ad attaccare qualsiasi forma di amore libero perché in realtà rende schiavi, per poi passare a vietare l’introduzione dell’educazione sessuale nelle scuole.
Viene introdotto il termine pro-life per contrastare il termine pro-choice, e si conferma l’equivalenza tra infanticidio e aborto terapeutico.
In Lexicon si ricorda con orgoglio quando nella Conferenza del Cairo del 1994 dovette intervenire il Papa in persona e richiamare all’ordine i Capi di Stato perché stavano per licenziare un accordo che prevedeva come le giovani generazioni potessero ricevere adeguata informazione sui metodi contraccettivi, oltre ad una sana educazione sessuale.
Con il Lexicon sono state elaborate 78 voci, la maggior parte delle quali sono rivolte contro le donne e questa non è una novità.
Diventa interessante conoscere quali espressioni patologiche hanno adottato con l’omosessualità: “L’omosessualità non ha alcun valore sociale”, è ”un intrigo psichico che la società non può istituzionalizzare”; bisogna smettere di ”stigmatizzare tutti quelli che si interrogano sulla omosessualità” tacciandoli di ”omofobia”.
Dunque la Chiesa cattolica Apostolica Romana ha messo nero su bianco, già dal 2002 le modalità con le quali le società si devono orientare all’omofobia avendola legittimata eticamente e avendo diramato precise indicazioni su come esternarla.
Nel 2008 la moratoria per la depenalizzazione della omosessualità, promossa dalla Francia, che aveva come scopo la modifica delle legislazioni sulla pena di morte contro gli omosessuali, trovò il voto contrario del Vaticano che in maniera cinica si preoccupò di poter vedere garantita la posizione espressa nel Lexicon.
Ancora oggi quel testo detta l’agenda politica del Vaticano per condizionare per prima l’Italia e poi a seguire tutti gli altri Stati.
È legittimo affermare che con il Lexicon il Vaticano ha dichiarato guerra ai diritti umani, e quel dizionario è assolutamente incompatibile con la nostra Costituzione.
O si aderisce al Lexicon o si sta dalla parte della Costituzione, tertium non datur.

*-*

L’autrice: Carla Corsetti è segretario di Democrazia Atea e membro del coordinamento di Potere al Popolo

Livia Turco: Costruttrici di un nuovo umanesimo

Alcune componenti dell'assemblea Costituente il gruppo delle elette il 25 giugno 1946, giorno di apertura dei lavori dell’Assemblea: Laura Bianchini è la seconda da destra

Il 21 gennaio del 1921 al Teatro San Marco di Livorno, andava in scena la nascita del Partito comunista d’Italia. All’alba della dittatura fascista, la sinistra italiana conosceva la sua prima grande scissione e oggi a cento anni da quel giorno, varrebbe la pena ricordare quanto le donne abbiano contribuito alla costruzione di quel progetto politico in cui si sono sviluppati i principi e i valori della Repubblica. Con Livia Turco, ultima responsabile nazionale delle donne comuniste e presidente della Fondazione Nilde Iotti ripercorriamo qual è stato il ruolo delle donne nella Resistenza, nella Costituente e poi all’interno dello stesso partito.

«Senza le donne, senza le loro battaglie di emancipazione e di liberazione, il Pci non avrebbe potuto essere quel partito nazionale, di popolo, costruttore della democrazia, della giustizia sociale, della modernizzazione del Paese. Lo si dimentica troppo nella celebrazione di questo centenario. La prima guerra mondiale fu un evento spartiacque nella condizione e nella coscienza delle donne. Costrette a sostituire gli uomini, sfruttate, mal pagate con a carico la fatica del lavoro e il peso delle responsabilità famigliari, furono le prime a ribellarsi e ad animare il biennio rosso del 1918-1920: gli scioperi, gli assalti ai forni, furono le manifestazioni esasperate del loro stato d’animo che tuttavia non trovava nel partito socialista la guida politica che sarebbe stata necessaria per trasformare questi moti spontanei, in azione e lotta organizzata e cosciente. Colsero il loro disagio i sindacati e alcune donne che appartenevano al gruppo dell’Ordine Nuovo diretto da Antonio Gramsci. Sull’onda di quelle battaglie, nacque il 10 marzo del 1921, Il manifesto “Il nostro femminismo” scritto da Camilla Ravera che inaugurò sul giornale la rubrica “la Tribuna delle donne”. L’avvento del fascismo portò all’organizzazione clandestina del partito comunista d’Italia e del fronte popolare. Le donne furono presenti in questa dura fase, subirono processi, carcere, torture, vissero l’esperienza dei campi di concentramento e furono tessitrici preziose della rete nella lotta antifascista e partigiana. Si batterono in modo unitario per il loro diritto di voto, parteciparono in massa alla elezione della Assemblea Costituente e al referendum che scelse la Repubblica: furono elette 21 di cui 9 comuniste, le madri della nostra Repubblica che hanno inciso nella elaborazione di articoli fondamentali della nostra Costituzione. Lavorarono tutte insieme lasciandoci in eredità la lezione di un mirabile ed efficace gioco di squadra».

Che cosa accadde dopo, riuscirono le donne a mantenere viva questa complicità costruttiva?
Le donne comuniste investirono sulla costruzione dell’Udi (Unione donne italiane), associazione autonoma ed unitaria delle donne che si batteva per l’emancipazione femminile. Fu Palmiro Togliatti, nell’importante discorso pronunciato alla prima Conferenza nazionale delle donne comuniste nel 1945, a…


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L’allergia del Pci alla libertà delle donne

anni '60 Leonilde Iotti, detta Nilde (Reggio nell'Emilia, 10 aprile 1920 – Poli, 4 dicembre 1999), è stata una politica italiana Nella foto: Nilde Iotti con Palmiro Togliatti

«Cogli uomini sfilarono le partigiane, in abiti maschili, e qui qualcuno tra la gente cominciò a mormorare: – Ahi, povera Italia! – perché queste ragazze avevano delle facce e un’andatura che i cittadini presero tutti a strizzar l’occhio. I comandanti che su questo punto non si facevano illusioni, alla vigilia della calata avevano dato ordine che le partigiane restassero assolutamente sulle colline, ma quelle li avevano mandati a farsi fottere e s’erano scaraventate in città». Lo scrive Beppe Fenoglio ne I ventitré giorni della città di Alba (Einaudi). A Milano, denuncia Lidia Menapace, è Palmiro Togliatti a dire: le donne no. Non sfilano. Il messaggio è chiaro: il tempo dell’eroismo e degli amori è finito. Si torna a casa. Casta fuit, domi mansit, lanam fecit. Il ruolo della donna, da duemila anni, è circoscritto all’ambito domestico: procreare, prendersi cura dei figli, servire il dominus; la “natura” a lei riserva la sfera privata e gli affetti, all’uomo la sfera pubblica e la razionalità.

La scelta è tornare a casa o militare nei partiti. La normalità, al prezzo della sparizione dell’immagine di donna nuova a cui hanno dato vita, andando verso la libertà e l’avventura. La ragazza insoddisfatta, che non sa cosa vuole, deve sparire, suggerisce Michelangelo Antonioni ne L’Avventura, perché disfunzionale alla logica del “partito nuovo” e della democrazia progressiva, voluti da Togliatti per un cambiamento epocale dell’Italia quando rientra in Italia da leader carismatico e con un piano preciso sul partito da costruire.
Pietro Nenni ha vita più difficile nel Psiup, pur godendo di un indiscusso prestigio esterno. Altro soggetto politico della sinistra è il Partito d’Azione, ma la sua composizione plurima – liberali, socialisti e repubblicani – lo porterà al dissolvimento. Le donne si indirizzano a Pci e Psi. I socialisti scarseggiano di donne sia nel partito che al Parlamento; ma sono più laici e molte conquiste portano il loro nome.
Più numerose le donne del Pci. Comuniste e socialiste da I Gruppi di difesa della donna nel ’45 confluiscono nell’Udi (Unione donne italiane); le cattoliche fondano il Cif (Centro italiano femminile), come rilevò Togliatti nel giugno del ’45 alla prima conferenza delle donne comuniste. Il leader comunista si rivolse ad un pubblico di ex partigiane a cui doveva fornire nuovi obiettivi perché continuassero a…


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Serena Sorrentino: Fuori dalla crisi sostenendo il lavoro femminile

L’Italia non è un Paese per giovani. Ma neanche per donne, come evidenziano i preoccupanti dati che riguardano il lavoro. A dicembre l’Istat ha segnalato che il 98 per cento dei posti di lavoro andati perduti in un mese erano occupati da donne. A rendere ancor più inquietante il quadro è la ferita aperta delle molestie e delle violenze che le donne subiscono sui posti di lavoro. Questa settimana (in vista dell’8 marzo ma non solo) torniamo ad analizzare questa difficile situazione con Serena Sorrentino, segretaria generale della Funzione pubblica Cgil.

Sorrentino, cosa possiamo leggere dietro questi dati Istat?
Ci dicono di una forte crisi nonostante i provvedimenti presi per l’occupazione, compreso il blocco dei licenziamenti. Ma ci dicono anche che i contratti delle donne sono spesso precari. In Italia c’è un problema che riguarda l’occupazione femminile in senso ampio. Non riguarda solo la distribuzione territoriale e le questioni di inquadramento. Le donne devono affrontare grandi difficoltà di inserimento nel mondo del lavoro soprattutto al Sud. Ma c’è anche una questione che riguarda la qualità del lavoro che viene loro offerto. Purtroppo questo è un problema strutturale, non abbiamo ancora trovato una ricetta risolutiva. Detto questo, conta molto il livello di servizi e di welfare. Per aumentare l’occupazione femminile serve un intervento strutturale in questi ambiti.

C’è un problema ancora molto esteso che riguarda le molestie, le violenze, gli stereotipi, le denigrazioni che colpiscono le donne al lavoro. La convenzione di Istanbul e quella di Oil ratificata il 26 gennaio scorso bastano a sanare un problema che ha forti radici culturali?
La convenzione di Istanbul, in modo particolare, ha segnato un importante passo in avanti. Ma è vero, non basta affrontare la questione da un punto di vista normativo. Dietro questi comportamenti c’è un problema culturale, occorre una analisi del fenomeno, bisogna capire quali sono gli strumenti di prevenzione e di protezione delle donne, sul lavoro come nella dimensione privata. Vi è un panorama abbastanza incerto, ancora da esplorare, anche dal punto di vista degli strumenti di tutela. Perché distinguere tra molestie e violenze non è sempre facile. C’è carenza di formazione anche dei dirigenti a questo riguardo. Bisogna imparare a leggere il dato culturale che traspare dalla costruzione degli ambienti di lavoro, dall’esercizio del potere, dal riconoscimento sociale dei ruoli al maschile sempre a svantaggio di una visione di genere. Il lavoro da fare è ancora tantissimo. Anche perché il tasso di denuncia non è indice del reale tasso di benessere o di malessere nei luoghi di lavoro, c’è un’area grigia molto grande come vediamo dal nostro osservatorio sindacale. Per esempio sono tantissime le denunce che ci arrivano ex post. Quando cerchiamo di istruire dei percorsi per portare alla luce atti di violenza sui luoghi di lavoro molte si spaventano, temono ritorsioni di carattere psicologico, di essere isolate nei luoghi di lavoro. La colpevolizzazione della vittima è il fenomeno più complesso da contrastare.

Anche per questo serve più formazione culturale?
Il rispetto delle differenze, quelle di genere ma non solo, è poco presente nella cultura e negli ambienti di lavoro, come del resto nella società tutta. La pubblica amministrazione ha organizzato corsi per formare i dirigenti a costruire ambienti di lavoro protetti, sensibilizzandoli a cogliere i sintomi di casi di molestie e di abusi, ma siamo alle buone prassi, non alla regola. Non c’è ancora una cultura della cittadinanza nel lavoro e nella società che stigmatizzi e marginalizzi i comportamenti discriminatori. L’abuso e la violenza sulle donne non sono visti da tutti come fenomeni da condannare recisamente. Regolamentare e normare non significa fare prevenzione. La legge interviene quando il fatto è già accaduto, è sanzione del comportamento scorretto ma non è il contrasto all’insorgenza dei prodromi dell’esercizio della violenza. Per questo condivido l’idea che sia un tema prima di tutto culturale. Non c’è ancora la convinzione diffusa che la violenza si possa eradicare (come è scritto giustamente nella convenzione di Istanbul), non dobbiamo rassegnarci all’idea che si possa solo contrastare il comportamento violento. Questo è un salto culturale importante. Su questa base auspichiamo azioni positive che riguardino maggiori tutele sul mondo del lavoro ma in generale più tutele anche nella vita pubblica. Dobbiamo tutelare la salute delle donne intesa anche come equilibrio psicofisico sul posto di lavoro.

Venendo ora al tema più generale, il 31 marzo scade il blocco dei licenziamenti, quali strumenti mettere in campo per evitare la bomba sociale legata alla perdita di posti di lavoro che andrebbero a sommarsi a i moltissimi già perduti nell’ultimo anno?
Intanto come sindacati abbiamo chiesto una proroga del blocco dei licenziamenti e anche una riforma degli ammortizzatori sociali in senso universale. Credo che il Paese sia di fronte a un bivio che dovrà essere affrontato considerando i tre corni dell’emergenza, ovvero, come ha detto il presidente Mattarella: emergenza sociale, sanitaria ed economica e provando a costruire un ordine di equilibrio fra i tre livelli dell’intervento dello Stato rispetto a questi tre grandi capitoli, ben sapendo che anche dopo l’emergenza pandemica ci saranno scenari di incertezza. Riguardo ai 209 miliardi del Recovery plan bisogna saperli spendere e spenderli bene. Questo secondo aspetto mi interessa di più. L’obiettivo non è tanto la performance riguardo alla capacità di spesa del nostro Paese ma la qualità della progettazione che è alla base del Recovery plan. Questo può incidere positivamente sull’emergenza economica se superiamo presto e bene quella sanitaria.

E riguardo agli obiettivi di scadenza più immediata in questa difficile fase in cui aumentano i contagi a causa delle varianti del virus?
La politica ha un dovere primario nelle prossime settimane: assumere l’emergenza sanitaria e sociale come una dominante rispetto al modo con cui affronta l’emergenza economica. Ripartenza e resilienza sono le due parole chiave. E poi prolungamento del blocco dei licenziamenti, riforma degli ammortizzatori sociali e politiche attive del lavoro. Serve una riforma sanitaria che investa sulla medicina territoriale rovesciando il paradigma dell’assistenza. Bisogna fare in modo che le persone possano contare su un sistema socio sanitario integrato sul territorio. Non basta occuparsi delle fragilità, bisogna promuovere la salute. Bisogna potenziare i servizi educativi. Purtroppo in Italia un milione e centomila bambini ne sono esclusi. Ricordiamoci che il welfare e le politiche che guardano all’innovazione sociale hanno una funzione anti ciclica, perché sono un settore ad ampio impatto di intensità di lavoro e soprattutto possono essere governati integralmente dalla programmazione delle politiche pubbliche che oggi con il Recovery plan hanno un’occasione straordinaria con tante risorse per riconfigurare il nostro sistema di protezione sociale delle persone. Investire sul benessere diventa una coordinata fondamentale, soprattutto se la guardiamo dal punto di vista della spinta all’occupazione iniziale anche perché poi la diffusione dei servizi pubblici e la promozione dell’occupazione femminile hanno un effetto moltiplicatore dell’economia perché determinando anche un aumento della domanda anche privata di beni e servizi. In questo momento l’emergenza economica riguarda trasversalmente molti settori. Alcuni – come cultura e turismo – sono fortemente condizionati dalla pandemia, altri hanno bisogno di un processo profondo di innovazione: il lavoro pubblico deve affrontare la sfida del salto tecnologico. Molte aziende dovranno riconvertirsi, c’è però un tema che non possiamo derubricare: il ruolo delle politiche pubbliche e dello Stato nell’irrobustire la rete di protezione delle persone, guardando anche all’impatto che può avere sulla buona occupazione. Per questo proponiamo un piano straordinario di assunzioni nelle pubbliche amministrazioni.

La scelta di Renato Brunetta come ministro della Funzione pubblica del governo Draghi suona invece come un salto nel passato a una stagione di privatizzazioni e blocco della concertazione?
I giudizi non sono mai sulle persone, il giudizio è sull’attività istituzionale. In una sua precedente vita da ministro lo scontro frontale con il lavoro pubblico era su elementi qualificanti che riguardavano il valore del servizio pubblico, la funzione della componente lavoro all’interno dell’organizzazione dei servizi. La sua idea di gestione della pubblica amministrazione era ispirata al new public management. Contare solo sull’efficienza della pubblica amministrazione e valutare solo quanto sono coerenti le attività delle pubbliche amministrazioni rispetto alle procedure che sono previste non determina di per sé efficacia. Bisogna vedere se l’attività della pubblica amministrazione risponde agli obiettivi generali di missione nel garantire il bene comune. Questo implica che si facciano investimenti importanti sul lavoro pubblico che mettano al centro la persona. C’è un percorso di innovazione da avviare. L’età media del personale dipendente nel nostro settore si attesta a più di 50 anni. Serve formazione qualificata e implementazione di competenze attraverso nuova occupazione nella pubblica amministrazione non guardando solo alle specializzazioni in ambito normo giuridico. La pubblica amministrazione del futuro deve poter affrontare la sfida dell’innovazione tecnologica e quindi ci servono tante competenze digitali. Ma abbiamo davanti anche la sfida della ricostruzione del welfare. Quindi ci servono tanti profili diversi, capaci di governare e stimolare attraverso l’azione pubblica l’innovazione sociale.

Per affrontare questi grandi cambiamenti la parola chiave è contrattazione?
Non si può pensare di riformare il sistema Paese senza una interlocuzione e senza la partecipazione delle lavoratrici e dei lavoratori. Proprio per gli effetti delle leggi Brunetta la pubblica amministrazione si è abituata a procedere con una prevalenza di atti unilaterali dei dirigenti. Nel 2017 siamo riusciti in parte a modificare questa situazione ridando spazio alla contrattazione. La pandemia ha mostrato quanto sia importante coinvolgere i lavoratori, penso allo sforzo che è stato fatto per la salute e la sicurezza sul lavoro. Ma anche all’intensità di lavoro che è stata chiesta a chi lavora nella sanità e in tutta la filiera dei servizi essenziali, compresi i lavoratori del settore educativo. Abbiamo visto anche quanto sia stato complicato dover gestire un tema molto delicato e innovativo come lo smart working senza il potere della contrattazione. Se il ministro Brunetta cambia registro anche visto il contesto economico politico nel quale oggi si trova a dover esercitare la sua funzione, non c’è dubbio che l’appello fatto a tutte le forze democratiche, di diminuire il termometro di conflitto politico e sociale, potrebbe costruire le premesse per una modalità diversa di costruzione del dialogo, per noi non ci sono né cambiali in bianco né pregiudizi, c’è bisogno in questo momento di cambiare la logica della contrapposizione fra dirigente e dipendente e c’è bisogno di mettere in atto un modello di cooperazione che poggia molto sulla partecipazione dei lavoratori, altrimenti un cambiamento radicale della pubblica amministrazione non riusciremo a farlo. Abbiamo poco tempo, dobbiamo correre se, quando usciremo dalla emergenza sanitaria, non possiamo avere un Paese che non sia pronto ad affrontare la sfida dell’emergenza economica.

Cosa ne pensa dell’incontro del ministro Andrea Orlando con le parti sociali e della proposta di riforma degli ammortizzatori sociali?
La riforma in senso universale degli ammortizzatori è un primo passo verso una nuova cittadinanza del lavoro, questo è importante. Assumere il dato che a prescindere dal settore nel quale lavori, dal tipo di contratto che si ha, si vada verso una direzione nella quale tra precari e strutturati si parifichino le condizioni di proattività delle politiche passive ed attive, attivando tra momenti di lavoro e non lavoro una vera ricollocazione al lavoro è sicuramente la riconquista di un tratto di riforma del mercato di lavoro fondamentale. Io penso che in questo momento la sinistra abbia un dovere: cercare di scommettere sul terreno dell’uguaglianza e della traduzione materiale della Costituzione in diritti sostanziali, certi ed esigibili. Recuperare l’orientamento costituzionale e al bene comune, all’equilibrio sociale, alla lotta alle discriminazioni, alla sostenibilità ambientale, ad una nuova cittadinanza anche digitale che eradichi la dimensione geografica e si fondi su un globalismo cooperativo, sono tutte coordinate di una nuova sinistra che deve assumere la centralità del lavoro come strumento di autonomia della persona, di libertà e di diritti. Che Orlando stia scommettendo sulla riforma degli ammortizzatori – provando a dire che da dopo il 1996, passando dalla legge 30 al Jobs act, anni in cui il lavoro ha vissuto momenti di pesante deregolamentazione e di erosione del codice dei diritti, fino allo scalfire la tutela reintegratoria per licenziamento senza giustificato motivo – significa iniziare a rispondere a chi in questi anni ha sofferto la precarietà, l’insicurezza sociale, la negazione della propria dignità nel lavoro, facendosi carico di unificare attraverso un sistema solidale la tutela di tutte le condizioni di sospensione dal lavoro. Certo bisogna vedere cosa ci sarà scritto nella riforma degli ammortizzatori sociali, ma sui principi e sulla modalità di dialogo e partecipazione c’è sicuramente un elemento di maggiore condivisione.

 

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L’intervista è stata pubblicata su Left del 5-11 marzo 2021

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Tecnici dappertutto, perfino da asporto

Foto Riccardo Antimiani/LaPresse/POOL Ansa 18 febbraio 2021 Roma, Italia Politica Camera - Voto di fiducia su governo Draghi Nella foto: Mario Draghi Photo Riccardo Antimiani/LaPresse/POOL Ansa February 18, 2021 Rome (Italy) Politics Chamber of Deputies - Vote of confidence on Draghi's government the pic: Mario Draghi Italian Prime Minister Mario Draghi adjust his face mask as he waits at the lower Chamber of Deputies prior to a confidence vote on his new government, Rome, Italy, 18 February 2021.

Poiché sono in molti a fingere di non vedere e di non capire quale sia la china che ha preso spedito il governo Draghi allora conviene mettere in fila un paio di cose, impegnarsi ostinatamente nel controbattere ai minimizzatori o auto finti distratti che in queste ore sono tutti impegnati nel convincerci che tutto vada bene e che tutto sia normale perché basta annusare l’aria che c’è fuori per farsi un’idea sul progetto che c’è dietro.

Mario Draghi continua a rimanere sotto vuoto silenzioso nel suo caveau, mentre qui fuori si accavallano le predizioni sulla terza ondata in cui sembra di essere già finiti dentro. Che i Dpcm fossero uno strumento simbolo di “dittatura sanitaria” e che di Dpcm siamo ancora qui a dilagare ne abbiamo già scritto qualche giorno fa ma che qui tutte le regioni (se non addirittura taluni comuni) stiano andando per conto loro sembra sotto gli occhi di tutti. I vaccini continuano a mancare e anche le vaccinazioni faticano. Insomma: ci siamo liberati delle inutili primule, abbiamo tutte le mattine una bella adunata con tromba militare ma la “guerra” alla pandemia continua a sciogliersi nei rivoli di esperti dappertutto, è cambiato solo il mesto silenzio del governo.

In questi giorni si discute parecchio della scelta da parte di Draghi (l’ha scelto lui? Chi l’ha scelto? Come? Perché?) di affidare un incarico alla società di consulenza McKinsey, per aiutare il ministero dell’Economia nella fase di stesura del Recovery Plan. Destrorsi e turboliberisti ci sgridano perché ritengono questa polemica una cosa “da cialtroni”. Curioso che siano gli stessi che criticarono Conte per la sua intenzione di affidare i 209 miliardi del Recovery Plan a un gruppo di manager pescati dalle società controllate dal Tesoro. Curioso anche ricordare che un senatore toscano disse che c’era da fare cadere un governo che voleva decidere con gli esperti e ora rimane zitto zitto. Volendo vedere è anche piuttosto curioso che il governo dei competenti e dei super tecnici abbia bisogno di altri tecnici da asporto.

Pensare che il ministero delle Finanze ha anche un eccellente centro studi (a proposito di meritocrazia) e volendo ben vedere di competenze è anche pieno il centro studi di Banca d’Italia. Ma niente. Ieri Fabrizio Barca ha ricordato la sua esperienza personale: «Quando entrai nel ’98 al Tesoro – ha dichiarato in un’intervista al Fatto – insieme a tante persone di valore, provammo a liberarci di questa sudditanza strategica a consulenze di terzi, rafforzando l’amministrazione pubblica con contributi esterni, e quando necessario selezionando con cura consulenze specialistiche».

Quelli si difendono dicendo che si tratta di una consulenza praticamente gratis, solo 25mila euro e che questo dovrebbe bastare per tenerci tranquilli: peccato che il tema vero sia a quali informazioni avrà accesso la società di consulenza. Dicono: state tranquilli, è quasi gratis ma quando un servizio è gratis il prodotto sei tu, ormai l’abbiamo imparato tutti. L’ha scritto benissimo Stefano Feltri: «Nel fare consulenza a un governo, McKinsey può influenzare il contesto di regole che rendono possibile o vietano quel nuovo business, e quindi creare o meno le opportunità che poi potrà aiutare clienti aziendali a sfruttare». Non dovrebbe essere difficile per tutti questi grandi esperti di mercato, no?

A proposito di aria che si annusa: c’è un comunicato di Confindustria a proposito dello sciopero dei portuali di Genova che in un Paese normale avrebbe provocato dei brividi. «Si ricordino che una giornata di lavoro oggi costituisce un privilegio», ha scritto l’associazione degli imprenditori. Un comunicato stampa che sembra una testa di maiale lasciata appesa alla porta di casa. Il partito che avrebbe potuto alzare la voce per ora è senza dirigenza però ha dei ragazzini in tenda che si fanno fare delle foto bellissime per i loro profili social.

Tutto bene?

Buon lunedì.

Se il sovranista e l’europeista si prendon per mano

Non è tempo di donare vaccini agli altri. Lo dice Draghi, nella sua prima uscita come presidente al Consiglio europeo. La questione, che lo vede in una posizione diversa da Macron, riguarda il programma Covax, cioè il fondo per i vaccini da destinare ai Paesi più poveri. Sentire questa posizione fa pensare a come la Lega non sia presente a caso nel governo. Una sorta di “prima gli europei”, in un momento in cui gli europei per altro sui vaccini non sono primi per niente. Nel Consiglio europeo si sono accese tensioni molto forti. Il meccanismo messo in opera dalla presidente della Commissione Ursula Von der Leyen non sta funzionando come dovrebbe. Gli accordi con le multinazionali, a cui si è affidato tutto, fanno acqua da molte parti. In Germania Der spiegel ospita una critica molto forte a Merkel accusata di non avere una visione, di aver gestito ma non costruito, di subire una seconda ondata della pandemia che questa volta è molto pesante. Ancora più grave la défaillance sulla strategia vaccinale, perché la Germania era presidente di turno dell’Unione. E Von der Leyen è tedesca. Non una buona cosa per Merkel, ormai in uscita a settembre dopo 15 anni di cancellierato. Al Consiglio europeo Draghi lamenta i ritardi e le inadempienze, alzando anche la voce verso le case produttrici. Dice che bisogna guardare anche alle produzioni extra Ue. Che occorre ampliare le capacità produttive in casa. Un mix di cose che guardano a relazioni diplomatiche “aperte” in base alle esigenze vaccinali, ad attrezzare le produzioni industriali, a favorire accordi commerciali. Tutte cose, alcune anche parzialmente giuste, che arrivano tardi, confuse e che non affrontano il tema reale e che è la dipendenza che si ha dalle multinazionali a causa dell’assenza di industrie pubbliche e dei brevetti che non si ha la volontà, e la forza, di mettere in discussione. Tra pochi giorni, l’11 marzo, si discuterà al Consiglio Trips del Wto (l’organo decisionale dell’Accordo sugli aspetti commerciali dei diritti di proprietà intellettuale, ndr) la proposta avanzata da alcuni Paesi di sospendere i brevetti. Ma non sembra che l’Ue sia propensa ad accettarla. Nel “prima l’Europa” di Draghi – accompagnato da diplomazia vaccinale e accordi produttivi facilitati alle multinazionali – c’è una linea diversa. Una sorta di sovranismo europeo che riconosce il predominio delle multinazionali e si concede relazioni diplomatiche utilitaristiche. Una linea che già alcuni Paesi, come l’Ungheria, ma anche la Serbia, stanno seguendo. Una linea che cerca di tappare le falle aperte nel Titanic Ue al secondo scontro con un iceberg in pochi anni. Quello della pandemia, dopo la montagna ghiacciata della crisi finanziaria. Una linea che la Lega può sostenere e gestire. A cui può prestare le sue forze. Una Lega che rischia di diventare il vero socio forte del governo. Un governo che certamente non lascerà il panorama politico italiano, ma anche europeo, immutato. Colpisce che una personalità attenta come Enrico Letta si spinga a considerare positiva un’entrata della Lega nel Gruppo  popolare europeo, dove, per altro, fino a ieri si sarebbe ricongiunta con Orbán. Che ora invece, notizia dell’ultima ora, ha deciso di uscirne, anche per il fuoco di fila aperto contro di lui.

La linea dello sdoganamento sembra non cogliere come nella crisi drammatica che sta vivendo l’Europa questo più che una normalizzazione possa riecheggiare una sorta di giolittismo, con le élite che stringono…


L’articolo prosegue su Left del 5-11 marzo 2021

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Pompei non è solo un evento mediatico

A photo shows a general view of the archaeological site of Pompeii, near Naples, on January 25, 2021. (Photo by Andreas SOLARO / AFP) (Photo by ANDREAS SOLARO/AFP via Getty Images)

A intervalli regolari Pompei e il suo territorio continuano a svelare i loro tesori. Al 27 febbraio scorso risale la notizia del ritrovamento di un carro cerimoniale riemerso nella villa di Civita Giuliano, a poca distanza dal sito vesuviano.
Nel commentare il ritrovamento, il neoministro della Cultura Dario Franceschini ha dichiarato: «Pompei continua a stupire con le sue scoperte e sarà così ancora per molti anni con venti ettari ancora da scavare. Ma soprattutto dimostra che si può fare valorizzazione, si possono attrarre turisti da tutto il mondo e contemporaneamente si può fare ricerca, formazione e studi, e un giovane direttore come Zuchtriegel valorizzerà questo impegno».

In poche righe, un programma operativo chiaramente espresso che reca l’eco delle polemiche suscitate dalla nomina del neo direttore del Parco archeologico, recentissima anche se preannunciata da mesi. Polemiche innescate dalle dimissioni di due dei consiglieri del Comitato scientifico di Pompei in disaccordo con la scelta del ministro (al quale, come si sa, è riservata la designazione dei direttori dei musei e siti statali più importanti). Non potendo essere messa in discussione la competenza scientifica dei due consiglieri, fra i maggiori studiosi a livello internazionale di Pompei, la polemica è stata prontamente incanalata su un presunto conflitto giovani (il neo direttore designato)-vecchi (i consiglieri dissidenti) in cui, con sprezzo del ridicolo, è stata persino evocata la querelle dei Anciens et des Modernes e che, su media e social, ha espresso nuovi vertici di un’antica specialità italica: il salto acrobatico sul carro del vincitore.

Ora, al giovane neo direttore è doveroso – prima di tutto per le sorti di un sito così complesso e fragile – augurare un lavoro proficuo, anche se va sottolineato come, assieme alla sua benevolenza, il ministro gli abbia già precostituito il percorso da compiere, in perfetta continuità con il precedente, a base di scoperte sensazionali e flussi turistici in costante aumento.

E d’altro canto, meccanismi di selezione come quelli per Pompei, in cui la scelta finale è delegata al rappresentante politico pro tempore del Ministero, sono costruiti per privilegiare l’affidabilità, o meglio la fedeltà dei prescelti, la cui competenza, molta o poca che sia, finisce gioco-forza per essere penalizzata.
Nessun dubbio, d’altro canto, lasciano le dichiarazioni del ministro che, ben al di là di generici indirizzi di politica culturale, esprimono senza remore un piano d’azione cui il nuovo direttore è chiamato ad adeguarsi: avanti tutta con le scoperte che i «20 ettari ancora da scavare» potranno riservare. Scoperte che…

*-*
L’autrice: Maria Pia Guermandi è archeologa ed è responsabile progetti europei presso l’Istituto beni culturali della Regione Emilia Romagna


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