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Si riapre tutto, perché le università rimangono chiuse?

Foto Claudio Furlan - LaPresse 05 Marzo 2020 Milano (Italia) News Lezione senza studenti in aula in collegamento via webcam a causa dell’emergenza coronavirus al Politecnico di Milano Photo Claudio Furlan - Lapresse 05 March 2020 Milan (Italy) News An hydraulics professor from Milan Polytechnic in an empty classroom teaching a lesson via webcam to comply with the new measures against the spread of coronavirus

Hanno già riaperto i bar, i ristoranti, le aziende e i negozi di ogni categoria merceologica.
In base al nuovo Dpcm, datato 11 giugno 2020, dal 15 giugno sono ripartite le attività ludiche, ricreative – al chiuso e all’aperto – e le competizioni sportive, seppure a porte chiuse. Perfino le sale giochi, le sale scommesse e le sale bingo sono nuovamente accessibili, come pure i cinema e i teatri, sebbene con le dovute limitazioni, necessarie per il rispetto del distanziamento fisico (che prevede un massimo rispettivamente di 1000 spettatori all’aperto e di 200 al chiuso).
Dal primo luglio saranno consentiti i viaggi da e per l’estero nella Ue, nell’area Schengen, in UK e nell’Irlanda del Nord.

Le scuole hanno spalancato le porte solo ai maturandi dal 17 giugno, mentre il Miur ha indicato come data orientativa per la riapertura delle scuole primarie e secondarie il prossimo 14 settembre. Ma per la formazione terziaria – le Università, le Istituzioni di Alta Formazione Artistica Musicale e Coreutica e i master – continua la sospensione senza certezze sul futuro. Eppure si sa che per gli studenti fuori sede l’iscrizione all’università è legata alla ricerca di un alloggio, che normalmente si svolge nei mesi estivi, ma che l’attuale grado di incertezza scoraggerà inevitabilmente.

Insomma tutto riparte, dai giochi nei parchi pubblici agli aperitivi, dalle vacanze al gioco d’azzardo, dalle sagre agli spettacoli, ma il comparto dei “saperi alti” può attendere. Questo ritardo restituisce l’immagine di un Paese che mette all’ultimo posto – nella scala di priorità della ripartenza – la formazione alta “empatica”, quella che permette lo scambio di conoscenza e coscienza critica nella relazione diretta tra docenti e discenti e nella socialità tra studenti. Non è un bel segnale per un Paese che ha una bassa percentuale di adulti in formazione (solo l’8,1%, contro il 19,5% della Francia e l’11,6% dell’area euro) e un’alta percentuale di abbandoni scolastici (il 13,5% contro l’8,2% della Francia e il 10,6% dell’area euro), in base ai più recenti dati del cruscotto dell’European Pillar of Social Rights e che destina all’università meno della metà della spesa pubblica in percentuale al Pil, rispetto alla media Ue (0,4% contro lo 0,9%).

Resta il sospetto che tale scelta – più che da protocolli sanitari – sia dettata dalla volontà di approfittare del Covid-19 per cambiare paradigma e per accelerare lo sviluppo del 5G, uno dei messaggi chiave del rapporto finale della task force Colao: virando decisamente verso la didattica a distanza, con la sostituzione progressiva delle lezioni frontali (in una formula ibrida, denominata “blended”) per poi passare direttamente alla versione “smart” on line. Una visione che mentre persegue il marketing degli “upskilling” e la retorica delle università 5.0, usa la formazione terziaria, come grimaldello per tagliare ulteriormente i costi, per spingere gli investimenti sul 5G (in barba al principio di precauzione tutelato dalla nostra Costituzione), per eliminare il valore legale del titolo di studio (come proposto dall’Ambrosetti Club), facilitando così la privatizzazione della formazione universitaria e, non ultimo, per operare più facilmente il “distanziamento” anche a fini di controllo sociale.

Come dice Naomi Klein “Al centro di questa visione, che vuole scuole, ospedali, studi medici, polizia e altri corpi militari deleghino molte delle loro funzioni principali a società della tecnologia privata, c’è la perfetta integrazione dei governi con un piccolo gruppo di giganti della Silicon Valley”. Del resto quel piccolo gruppo di giganti, è lo stesso che attraverso le proprie piattaforme ha consentito la prosecuzione dell’attività didattica e degli esami durante il lockdown.

Ma la protesta non tarderà a farsi sentire. In maggio c’è stato il primo sciopero che ha visto professori, studenti e genitori invocare il ritorno, in sicurezza, alla scuola “normale”, non quella falsamente “smart”. Giovedì 25 giugno ci sarà un secondo sciopero, indetto sulla base di un appello di circa 900 docenti, cui il Comitato Rodotà aderisce convintamente e che contribuirà ad animare.

Antonella Trocino, Coordinamento Nazionale del Comitato Rodotà

I deportati del Mediterraneo

Non vale solo per i neri statunitensi fermati dalla polizia: riuscire a respirare, a sopravvivere, è un’impresa anche per i migranti che dalle coste del Nord Africa tentano di attraversare il Mediterraneo per raggiungere l’Europa. Lo è da tempo, lo è ancora oggi: le stragi nel Mare nostrum non si sono mai fermate nemmeno quando eravamo tutti concentrati sul lockdown per la pandemia. C’è stata quella “di Pasquetta”, quando 12 persone sono morte e 51 sono state respinte in Libia da una motopesca in seguito al mancato soccorso e alle negligenze di Malta e dell’Unione europea (su cui indaga la procura di Ragusa). E c’è stata quella del 10 giugno al largo delle coste tunisine, in cui hanno perso la vita oltre 50 persone provenienti principalmente dall’Africa subsahariana. Di tanti altri naufragi, come spesso purtroppo accade, non sapremo mai nulla. Ma, ad aggravare il quadro, si aggiunge un’ulteriore questione: chi si salva dalla morte in mare viene forzatamente ricondotto in Libia e sempre più spesso qui viene fatto sparire. E ora vi racconteremo come e da chi.

«L’Onu ha segnalato la recente scomparsa di più di 1.700 persone nel sistema dei lager libici», così si apre l’interrogazione al presidente Conte e ai ministri Di Maio, Guerini, Lamorgese presentata alcuni giorni fa alla Camera da Rossella Muroni, deputata Leu, per fare luce sulla vicenda. La cifra indicata emerge da un calcolo preciso. «Nei primi cinque mesi del 2020 – si legge nella interrogazione – un totale di oltre 3.115 persone è stato catturato in mare dalla cosiddetta Guardia costiera libica e dai maltesi, con la quotidiana collaborazione degli aerei della missione Frontex; le 3.115 persone catturate in mare sono state tutte respinte in Libia, con sbarco nel porto di Tripoli. Di queste, segnala l’Onu (in un report del Consiglio di sicurezza di maggio, ndr), solo 1.400 si trovano attualmente nel sistema dei campi migranti “ufficiali” di Al Serraj. Riguardo alle altre 1.700 persone non si conosce la fine che hanno fatto. In questi mesi tutti i gruppi di attivisti che si occupano di Libia hanno ricevuto moltissime segnalazioni di persone scomparse. Più di quante ne ricevono di solito. Parenti di rifugiati catturati nel Mediterraneo chiedono agli attivisti notizie dei loro cari, letteralmente scomparsi».

Tra questi attivisti c’è Sarita Fratini, scrittrice, autrice del blog SaritaLibre e portavoce del collettivo Josi & Loni project, in prima linea contro le deportazioni di migranti verso la Libia. È grazie all’impegno di ricerca e documentazione suo e del collettivo se è nata questa interrogazione parlamentare. Un impegno che, unito a quello di Giulia Tranchina, avvocatessa dello studio legale londinese Wilson Solicitors esperta in diritto d’asilo, ci aveva portato a raccontare alcuni mesi fa su queste pagine l’odissea di Omar e Nat (nomi di fantasia, v. Left del 28 febbraio, ndr), giovani migranti in fuga dalle bombe che piovevano in Libia, intercettati in mare il 17 febbraio dalla sedicente Guardia costiera di Tripoli e ricondotti forzatamente verso le coste nordafricane.

La testimonianza dei due ragazzi…

L’inchiesta prosegue su Left in edicola dal 19 giugno

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Tante promesse per nulla

Niente, gli è andata male anche questa: Salvini ci teneva così tanto a fare il martire per il suo processo che avrebbe dovuto cominciare il prossimo 4 luglio, quello che lo vede imputato per sequestro di persona per il cosiddetto “caso Gregoretti” quando 131 migranti rimasero per quattro giorni su una nave militare italiana prima dello sbarco ad Augusta il 31 luglio del 2019. Ci teneva moltissimo Salvini perché avrebbe potuto mettere in scena la trama del povero perseguitato che viene messo all’angolo dalla magistratura cercando un legame (che non c’è) con la vicenda delle orrende intercettazioni del magistrato Palamara. E invece niente. «C’è mezza Italia ferma però mi è arrivata una convocazione a Catania per il 4 luglio», aveva dichiarato il leader leghista e invece il presidente dell’ufficio del giudice dell’udienza preliminare Nunzio Sarpietro è stato costretto al rinvio: «I nostri ruoli sono stati travolti dallo stop per l’emergenza coronavirus, ci sono migliaia di processi rinviati che hanno precedenza e ho dovuto spostare l’inizio del processo che vede imputato il senatore Salvini ad ottobre», spiega. E anche sui dubbi di un processo ingiusto Sarpietro tranquillizza l’ex ministro: «Stia tranquillo il senatore Salvini, avrà un processo equo, giusto e imparziale come tutti i cittadini. Né io né nessun giudice che si è occupato di questo fascicolo abbiamo nulla a che spartire con Palamara. E sono d’accordo con lui: quelle intercettazioni tra magistrati sono una vergogna».

Tutto fermo, quindi e niente scontro giudiziario come quelli che piacciono così tanto al centrodestra eppure l’ombra di Salvini, al di là delle vicende processuali, continua a pesare su questo governo e a essere un macigno per questo centro sinistra che si ritrova alleato con gli stessi alleati che furono di Salvini, con lo stesso presidente del Consiglio che celebrò proprio i decreti sicurezza e con un’aria stagnante per quello che riguarda il futuro prossimo sul tema. “Discontinuità”, avevano promesso proprio all’inizio del Conte bis. In molti si ricordano che le due leggi estremamente restrittive sull’immigrazione furono ampiamente contestate da buona parte del Partito democratico, in molti si ricordano le promesse che furono fatte e poi ripetute e in molti si ricordano che furono proprio i maggiorenti democratici a dirci di stare tranquilli che sarebbe cambiato tutto e che si sarebbe cancellato presto quell’abominio. Niente di niente. I decreti sicurezza sono lì e dopo otto mesi non sono stati cambiati. Non sono nemmeno state apportate le modifiche che addirittura il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, aveva chiesto in una sua comunicazione ufficiale. E se è vero che il numero di persone che cercano di attraversare il Mediterraneo è diminuito in questi primi mesi dell’anno è altresì vero che dopo la pandemia sicuramente ci si ritroverà di fronte allo stesso identico problema, con le stesse identiche strumentalizzazioni di Salvini (e della ringalluzzita Meloni) e ancora una volta si assisterà al cortocircuito del governo che tiene insieme quelli che andavano a visitare le barche tenute alla deriva di Salvini e quegli stessi che con Salvini definivano «taxi del mare» le navi delle Ong. Sono diverse le proposte di modifica depositate nei mesi: la riduzione delle multe che i decreti prevedono per le navi Ong impegnate nei salvataggi in mare (su cui anche Mattarella aveva avuto da ridire), il ripristino di alcune forme di protezione internazionale per rendere più facile la regolarizzazione delle persone sbarcate nonché maggiori investimenti nel sistema di accoglienza diffusa, quella che ha sempre funzionato meglio coinvolgendo piccoli gruppi in piccole strutture sparse sul territorio italiano. Niente di niente. Rimane solo qualche parola delle poche interviste rilasciate dalla ministra dell’Interno Lamorgese, l’ultima all’inizio di questa settimana, che ha più volte ripetuto di non essere favorevole allo stravolgimento delle leggi. A posto così. Figuratevi, tra l’altro, se in un contesto del genere si possa anche solo lontanamente parlare di ius soli o di ius culturae che erano altri capisaldi di una certa sinistra progressista che urlava ad alto volume contro Salvini e che ora si è inabissata in un penoso silenzio.

Ma è rimasto tutto fermo? No, no, è andata addirittura peggio di così: all’inizio di aprile il governo ha stabilito che i porti italiani non possono più essere definiti “porti sicuri” per le persone soccorse in mare e di nazionalità diversa da quella italiana, di fatto impedendo l’accesso delle navi delle Ong, riuscendo nel capolavoro di fare ciò che nemmeno Salvini era riuscito a fare con tutte le carte a posto. Nonostante la sanatoria approvata dal Consiglio dei ministri per rimpinzare di braccia i campi dell’ortofrutticolo e per garantire l’ingrasso della grande distribuzione il governo non ha nemmeno trovato il tempo di rivedere la legge Bossi-Fini del 2002 che di fatto rende impossibile trovare lavoro regolare per qualsiasi straniero extra comunitario. A metà dello scorso aprile dodici persone sono morte per sete e per annegamento (mentre altre cinquantuno sono state riportate nei lager libici) e anche l’indignazione per i morti sembra ormai essersi rarefatta. Il giornalista Francesco Cundari il 18 aprile ha colto perfettamente il punto: «Il governo ha abbandonato anche quel minimo di ipocrisia che ancora consentiva di accreditare una qualche differenza, almeno di principio, tra le parole d’ordine di Matteo Salvini e la linea della nuova maggioranza in tema di immigrazione, sicurezza e diritti umani», ha scritto per Linkiesta. Ed è proprio così: ormai la sinistra non finge nemmeno più di essere sinistra e spera solo che non si sollevi troppa polemica. Tutto si trascina in un desolante silenzio spezzato solo dalle inascoltate parole di qualche associazione umanitaria e dalla interrogazione parlamentare di Rossella Muroni sui respingimenti illegali, di cui leggerete nell’inchiesta di Leonardo Filippi che apre questo numero. Mentre in Parlamento ci si inginocchia in memoria di George Floyd qui ci si dimentica di quelli che senza ginocchio si riempiono i polmoni d’acqua per i criminali accordi che l’Italia continua a sostenere con la Libia e ci si dimentica di quelli che muoiono nelle baracche di qualche borgo di fortuna per schiavi.

Poi, in tutto questo, vedrete che arriverà il tempo in cui Salvini tornerà a fare il Salvini e tutti si mostreranno stupiti, ci diranno che vogliono fare tutto e che vogliono farlo presto e intanto sarà troppo tardi, intanto la gente muore, intanto gli elettori si allontanano e si ricomincia di nuovo daccapo.

L’editoriale è tratto da Left in edicola dal 19 giugno

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Montanelli, cilindro fascista

Era già successo. Le attiviste di Non una di meno avevano versato vernice rosa sulla testa di Indro Montanelli formato statua. Mica al tempo di quegli slogan così fastidiosi per certuni: «Tremate, tremate, le streghe son tornate», solo un anno fa. L’8 marzo, manco a dirlo. Rivendicazione in nome di Destà, la bambina etiope («animalino selvatico ma docile» per dirla col “gran maestro del giornalismo”) «comprata assieme a un cavallo e un fucile per 500 lire». Diceva – il “gran” – che era usanza (certo, non obbligatoria, ma «usanza»). Si diceva «madamato», significava stupro. Beh, l’interpretazione di quel «madamato» da parte del “maestro” pare sia stata molto estensiva, stando allo stesso manuale coloniale sui Principi di diritto consuetudinario dell’Eritrea pubblicato a cura del Ministero delle Colonie.

Come spiega il collega Maurizio Peggio – che di quel manuale possiede una copia – «è vero che nel diritto eritreo esisteva un matrimonio a termine chiamato damòz, che venne reso illegale dopo la guerra di liberazione dall’Italia, ma quell’istituto prevedeva diverse misure a protezione della sposa che però non vennero mai rispettare dalla dominazione coloniale italiana». Era inoltre previsto che l’età delle spose-bambine non fosse inferiore ai 14 anni, e che lo sposo-adulto non avesse un’età che superasse i 5 anni di differenza. Consuetudine, a cui si appellava Montanelli (e ora i suoi fan) voleva 3 anni al massimo di differenza. Lui ne aveva tre volte tanti (rispetto ai 5 non ai 3): cioè come quei barbagianni che in certe regioni del mondo sposano (comprano) spose-bambine provocando tutto il nostro occidentalissimo sdegno. Si sdegnano pure quelle voci corse in aiuto dell’onore montanelliano.

Nessuna «legge del luogo», quindi, come qualcuna di quelle voci ha acrobaticamente cercato di spiegare su giornali e tv. Va anche ricordato anche che la pedofilia (ché è di questo che stiamo parlando) era inquadrata come reato già dal fascistissimo Regio decreto dal codice Rocco. Sento già il rumore degli «e allora questo?», «e allora quello?». Portandomi avanti ricorderò i criminali Luigi Cadorna e Nino Bixio. Di loro ci si ricorda raramente e malamente, il “gran maestro” è invece regolarmente attenzionato da qualche anno…

L’articolo prosegue su Left in edicola dal 19 giugno

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Bussano a Villa Pamphilj

Che immagine potente vedere la classe dirigente riunita in un consesso sull’economia nell’elegante Villa Pamphilj a decidere delle sorti post pandemia e fuori c’è un sindacalista, un sindacalista di quelli che viene dalla scuola di Di Vittorio, uno di quelli con il nerbo di chi tira fuori la testa anche se molte mani gliela schiacciano sotto terra, a reclamare i diritti degli invisibili. Aboubakar Soumahoro è stato ricevuto da Conte e da qualche ministro, gli hanno promesso che valuteranno le risposte, si sono addirittura lanciati a dirgli che la revisione dei decreti sicurezza di salviniana memoria sono nell’agenda di governo (sì, ciao) e sono stati costretti ad aprire il portone agli sfruttati che bussano.

Bussare alle porte del potere è considerato così maleducato, in questi tempi in cui la moderazione e la buona educazione sono i sinonimi di un invito perpetuo a restare tiepidi, che c’è da augurarsi che invece lo imparino in fretta i nostri ragazzi, quel buon sapore che c’è nel parteggiare, nell’odiare gli indifferenti, nell’insistere fino allo sfinimento a frugare tra i diritti seviziati e tra tutti i laterali che sembrano non entrare mai in partita.

Bussa a Villa Pamphilj anche la scuola, quella scuola che in questi giorni si è rabberciata ancora una volta per permettere lo svolgimento degli esami e che si merita un solo punto di studio nell’articolato piano in discussione durante questi Stati Generali. È la scuola a cui nelle intenzioni, in quel mare di soldi che arrivano per la pandemia, sono stati destinati 1 miliardo e 4oo milioni, nemmeno la metà di quello che si è speso per Alitalia. È la scuola figlia dei disastri di tutti i governi passati che ci hanno reso il Paese con il più basso tasso di laureati d’Europa (dopo la Romania) con strutture scolastiche spesso fatiscenti e con un 6,9% della spesa pubblica dedicato all’istruzione mentre negli Usa spendono quasi il doppio e in Cile addirittura il triplo.

Bussa a Villa Pamphilj un Paese che si accorgerà dei disastri del Covid a settembre, nell’economia e nel lavoro, e mai come ora è il momento di bussare, di esserci, di farsi sentire, di decidere fortissimamente da che parte stare, di non tacere. Il futuro si disegna decidendo i capitoli di spesa per gli anni a venire e questo è il momento.

Aboubakar ci è andato. Noi?

Buon giovedì.

A sinistra ci vorrebbe un partito

La sinistra ha avuto ragione su (quasi) tutto, ma ha perso. Le analisi critiche svolte da un punto di vista socialista, ecologista, femminista si sono rivelate giuste, ma i diritti e i salari dei lavoratori, le condizioni delle donne e il nostro ambiente stanno peggio di prima. Le forze politiche che si ispirano a questi valori rischiano di scomparire. Abbiamo studiato e analizzato tanto, ora dobbiamo organizzarci. Per questo, ci vorrebbe un Partito.

Viviamo in una società sempre più ingiusta dal punto di vista economico e sociale. Le spaventose disuguaglianze si riflettono anche sul mondo politico: chi ha di più in termini di ricchezza e di potere ha anche maggiore forza e maggiore capacità per farsi ascoltare, mentre coloro che più sopportano il peso della crisi, della povertà, delle discriminazioni e dello sfruttamento hanno sempre meno forza e meno strumenti per farsi ascoltare.

In questi anni non sono mancati dalla nostra parte, dalla parte socialista ecologista e progressista della società, analisi e riflessioni sulle cause del malessere sociale che attraversa le fasce più basse della nostra società: i lavoratori e le lavoratrici, i precari e le precarie, le donne, i giovani, i disoccupati. Queste analisi e riflessioni si sono rivelate oltretutto per lo più analisi e riflessioni giuste. Come più giusto sarebbe il nostro Paese se le ricette che da quelle analisi abbiamo fatto derivare venissero tradotte in legge dal mondo politico. Eppure queste idee e queste riflessioni non hanno voce in politica.

In questi anni non sono mancate neppure le mobilitazioni da parte delle fasce di popolazione più colpite dalla crisi. Dalle manifestazioni oceaniche contro l’abolizione dell’articolo 18 alle piazze di Genova contro il G8, dal Social forum alle manifestazioni contro le guerre, dalle lotte dei precari e dei lavoratori fino ai Fridays for future, paradossalmente nel nostro Paese si è raggiunta una grande capacità di mobilitazione negli stessi anni in cui si è perso di più in termini di diritti e di benessere da parte della gente comune. In assenza di risultati tangibili, alla fine il potenziale dei movimenti sociali rischia di affievolirsi.

L’epidemia di coronavirus ed il tracollo economico che la sta accompagnando stanno evidenziando sempre di più le ingiustizie legate a questo stato di cose. Eppure tutti possiamo vedere che è in atto un tentativo di scaricare addosso alle lavoratrici e ai lavoratori, ai precari e ai giovani, alle partite Iva parasubordinate e agli artigiani, i costi sociali e ambientali della crisi. La nostra oligarchia capitalista si attende di ricevere tutto e di essere l’unica casta ad avere il potere di orientare tutte le scelte per far uscire il Paese dalla crisi.

O per farcelo cadere sempre di più, visto che l’epidemia ha fatto da acceleratore a tendenze già in atto di impoverimento del Paese, del lavoro e dei servizi pubblici. E così, dopo aver sopportato la crisi, dopo aver retto l’urto dell’epidemia ed aver pagato – statistiche alla mano – di più in termini di vite umane e di salute, ora si vorrebbe che le lavoratrici e i lavoratori, i precari e i giovani vedessero gravare sulle proprie spalle il peso della ricostruzione.

In questa situazione, le oligarchie non solo sono più forti e si ritrovano più mezzi a disposizione per farsi ascoltare, ma sono anche più attrezzate e meglio organizzate. Agiscono con unitarietà di intenti, dispongono di canali organizzativi e di mezzi di comunicazione di massa, hanno capacità egemonica, cioè di coinvolgere attorno alle proprie parole d’ordine anche pezzi di società non direttamente interessati alle loro ricette.

Per rispondere a questa offensiva le lavoratrici ed i lavoratori, i socialisti, i progressisti e gli ecologisti hanno il dovere di organizzarsi. Abbiamo accumulato analisi, pensiero critico, capacità di mobilitazione. Ora occorre organizzarsi e unirsi. Occorre far confluire tutti gli sforzi fatti fino a qui in una organizzazione aperta a tutti quelli che si riconoscono nella necessità di rappresentare i bisogni delle lavoratrici e dei lavoratori, dei giovani e dei precari e che si riconoscono in un orizzonte di mutamento sociale; in una organizzazione chiusa soltanto ai rappresentanti politici dell’oligarchia e ai settarismi; in una organizzazione che si faccia interprete dei bisogni della società e non delle sommatorie del ceto politico; in una organizzazione che sappia raccogliere il meglio della storia popolare del Paese, del comunismo e del socialismo italiani, delle lotte sindacali e per i diritti, delle case del popolo; in una organizzazione rinnovata nelle facce e nelle pratiche organizzative e di propaganda.

Non è più attuale una distinzione tra “sinistra radicale” e “sinistra moderata”, tra gli idealisti e chi è disposto a scendere a compromessi: distinzioni destinate solo ad accendere dibattiti tra i pochi che riusciamo a coinvolgere. Come non è tempo per vie di mezzo, equilibrismi, tatticismi, attenzioni ossessive nei confronti delle ipotetiche alleanze, purismi identitari e rendite di posizione. Ci vorrebbe un Partito.

Per aderire compila QUI il form oppure scrivici a: [email protected]

Marco Adorni (Centro studi sui movimenti)
Fausto Anderlini (Sociologo)
Luca Baccelli (Docente universitario)
Dusca Bartoli
Paolo Borioni (Docente universitario)
Maurizio Brotini (Direttivo nazionale Cgil)
Salvatore Cingari (Docente universitario)
Domenico De Blasio (Senso Comune)
Sabatino De Lucia (Cgil Vinci)
Nicola Dessì 
Antonio Floridia (Politologo)
Zaccaria Gigli (Studente)
Roberto Giordano (Fiom Lazio)
Denise Latini (Avvocato)
Senka Majda (Assemblea Nazionale Fp Cgil)
Tommaso Nencioni (Senso comune)
Laura Pinzauti (Senso comune)
Stefano Poggi (Storico)
Paolo Solimleno (Giuristi democratici)
Serena Spinelli (Consigliere regionale Toscana)
Mauro Valiani

La Spagna verso la transizione ecologica

Il governo spagnolo gioca d’anticipo sugli altri pPaesi europei lanciando, come via d’uscita dalla crisi del coronavirus, la legge sul cambiamento climatico. La ministra e vicepresidente del governo Teresa Ribera ha inviato al congresso dei deputati, per l’approvazione definitiva, il disegno di legge che dovrebbe portare la Spagna all’eliminazione dei combustibili fossili e avviare la tanto acclamata transizione ecologica, richiesta per il rilancio dopo Covid-19 anche nel Next Generation Ue, che parla proprio di una economia digitale, sostenibile e climaticamente neutra.
In estrema sintesi con il disegno di legge spagnolo si intende azzerare, entro il 2050, le emissioni clima alteranti e i combustibili fossili. Fondi e risparmio energetico sono gli ingredienti della proposta, più di 200 miliardi di euro di investimenti – il 70% di capitale privato, il resto pubblico – tra il 2021 e il 2030. Gli obiettivi sono realisticamente scaglionati stabilendo il 2030 come tappa intermedia in cui si prevede di ridurre le emissioni del 23% rispetto al 1990, portando l’uso delle rinnovabili al 35-42% e riducendo del 35% il consumo energetico del paese, attraverso l’efficienza e la riqualificazione del patrimonio abitativo e incentivando la mobilità con mezzi ad alimentazione elettrica. L’idea chiave della legge è mettere al centro della transizione ecologica un modello energetico rinnovabile e bisognoso di poca energia, liberando il paese dalla sua dipendenza da fonti fossili e nucleari, a cui viene da subito tolto ogni sussidio e ogni sgravio fiscale. Sarà anche un vero modello di ripresa economica, perché esprime il potenziale di generare un occupazione di qualità e stabile, stimando un aumento di quasi 350mila nuove persone occupate.
Strategica è la scelta del momento per avviare questo disegno di legge mentre in Spagna, come in tutta Europa, si anima il dibattito sulle misure da intraprendere per rispondere alla crisi economica e sociale che si inasprisce ogni giorno di più, mentre tende a diminuire quella sanitaria.
Ha fatto bene la ministra a ricordare che l’ambizione di questa legge è anche quella di essere l’opzione che guida questa discussione: mentre si progetta come ricostruire il paese indica con chiarezza quale sia la direzione su cui il governo Sánchez ha deciso di avviare la Spagna. Vengono definite le politiche necessarie per rispettare gli impegni internazionali in materia di clima, come l’accordo di Parigi e le varie norme europee, finora disattese un po’ da tutti.

L’obiettivo illustrato nella proposta di legge non è però valutato abbastanza ambizioso secondo le principali ong ambientaliste, Ecologistas en Acción e Greenpeace. La proposta contiene elementi poco chiari, soprattutto per quanto riguarda l’idea di mobilità di persone e cose, proprio quando le fabbriche automobilistiche e i concessionari spagnoli hanno subito una chiusura prolungata per lo stato di allarme e le vendite continuano a non riprendersi dopo aver registrato i minimi storici in aprile e maggio. O scarseggiano progetti di riconversione per la produzione industriale adesso che la Nissan ha annunciato l’intenzione di chiudere il suo impianto di produzione a Barcellona, mossa che potrebbe portare alla perdita di almeno 3mila posti di lavoro.
Il governo Psoe-Unidas Podemos per la realizzazione del piano per avviare la transizione ecologica, che incorpori anche l’inclusione sociale, prevede di utilizzare una parte consistente di quel fondo di 750 miliardi destinato dall’Europa alla Spagna.
Tutto questo ha risvegliato le critiche del Partito Popolare ben attento a tutelare gli interessi delle grandi corporazioni energetiche che traggono profitti con fonti fossili e trivellazioni per estrarre petrolio, gas e carbone. Lo stesso Sánchez, in un intervento pubblico, ha chiesto al partito della destra di non aderire all’opposizione dei paesi cosiddetti frugali – come i Paesi Bassi, l’Austria, la Svezia e la Danimarca – che vogliono imporre alla Spagna dure condizioni di accesso ai fondi europei, vincolandoli ai soliti tagli di spesa per pensioni e stato sociale. Per le destre spagnole, da decenni abituate a sperperare il denaro pubblico per i loro affari privati, restare lontano dalla gestione dei soldi che la commissione europea vuole mobilitare, essere ininfluenti sulle scelte politiche di come spenderli, o meglio di come assegnarli ai soliti imprenditori legati all’economia liberista, è insopportabile, è un virus più letale del Covid-19.

Che affare, la pandemia

La pandemia no non ci ha reso tutti uguali e secondo il premio Nobel Joseph Stiglitz e l’economista francese Thomas Piketty «ha esacerbato le diseguaglianze». «Le stesse grandi compagnie di Internet, fino a ieri impegnate in pratiche di elusione fiscale, sono state le principali beneficiarie del coronavirus», ha detto Stiglitz durante la conferenza stampa virtuale convocata dalla Commissione indipendente per la riforma della fiscalità internazionale d’impresa (Icrict) e dall’Ong Oxfam.

Facebook, Amazon, Apple, Alphabet, Google nel cuore dell’Europa, in Irlanda, «pagano tasse su una frazione del loro fatturato», dicono i due economisti che propongono anche un soluzione: un regime fiscale minimo. «Sarà molto difficile», ha detto Piketty, ma il fatto che tutta l’Europa stia riflettendo sul debito e stia muovendo somme impensabili potrebbe fare ritrovare il coraggio di parlarne una volta per tutte.

Eppure se ci pensate sono molte le disuguaglianze di cui si è discusso durante l’epidemia, quando davvero si credeva che potesse essere messo in discussione almeno un pezzo di sistema e invece è tornato già tutto nei binari normali. Anche gli eroi si sono già normalizzati, rientrati nei ranghi. Infermieri, insegnanti e perfino i rider, quelli che ringraziavamo ogni giorno su tutte le prime pagine dei giornali, sono finiti ancora nelle retrovie. La scuola è rimasta l’ultima preoccupazione del governo che non ha riaperto le aule e che non sa ancora quando e come si riapriranno mentre ci si assembra sui campi da calcio e nelle manifestazioni politiche. Gli artisti che hanno addolcito la quarantena sono lasciati a inventarsi qualcosa. Lo spettacolo dal vivo è ripartito claudicante.

Tutto bene, tutto normale. Che affare, la pandemia, per i ricchi che sono rimasti ricchi e non sono nemmeno stati messi in discussione. Che affare, la pandemia, per gli eroi che hanno avuto i loro 5 minuti di notorietà e ora devono tornare ai loro posti.

Buon mercoledì.

Come ti sconsiglio l’aborto in Umbria

Foto Stefano Cavicchi / lapresse 27/10/2019 Montefalco / Perugia politicaElezioni Umbria: Donatella Tesei presidente, Trionfo Salvini Nella Foto Donatella Tesei (Presidente Regione Umbri) a con Matteo Salvini in festaPhoto LaPresse - Stefano Cavicchi27th October 2019 Montefalco (PG) - ITANewsThe candidate of Right coalition at president of Umbria Region Donatella Tesei in the pic: Donatella Tesei and Matteo Salvini

In Umbria governa Donatella Tesei  la quale ha pensato bene che uno dei più annosi problemi da risolvere nella regione fosse allungare il tempo di ricovero per l’interruzione di gravidanza volontaria farmacologica, da sempre come sapete una delle fobie di leghisti e destrorsi vari che sognerebbero di abolirlo per intero, l’aborto.

Nel 2018 la Regione Umbria aveva introdotto la possibilità di abortire grazie alla pillola Ru486 entro la settima settimana di gravidanza e aveva chiesto a tutti gli ospedali di organizzarsi in modo che le donne potessero effettuare l’interruzione della gravidanza grazie a una prestazione di day hospital o anche solo grazie a un servizio di assistenza domiciliare. La possibilità di rinunciare alla gravidanza con la pillola Ru486 è utilizzata oltre il 90% dei casi in nord Europa, per il 60% in Francia e solo per il 18% in Italia.

Ora la Tesei e la sua Giunta hanno deciso che serviranno almeno tre giorni di ricovero obbligatori per accedere all’interruzione di gravidanza farmacologica, cianciando di non si sa bene quale maggiore tutela considerando che in nessun Paese al mondo l’aborto farmacologico avviene al di fuori del regime di day hospital. Per scoprire perché un’azione sia stata intrapresa basta osservare chi è il primo che esulta: in Umbria ha esultato tantissimo il senatore ultraconservatore della Lega Simone Pillon, promotore del Family Day nonché commissario della Lega in Umbria.

Sono riusciti a rendere ancora più difficilmente sostenibile, soprattutto psicologicamente, il ricorso all’interruzione di gravidanza. Non è un caso, no, è una lucida strategia che si inventa qualsiasi passaggio punitivo pur di scoraggiare un atto che non hanno il coraggio di discutere deliberatamente faccia a faccia con le donne. Il fatto poi che in tempi di Covid si aumentino i giorni di degenza, mentre i malati non riescono nemmeno a ottenere le cure che gli spettano, rende tutto talmente goffo da risultare tragicamente imbarazzante.

Buon martedì.

#Bloomsday. Un Ulisse tutto da ridere

Tradurre è sempre un po’ tradire. Ma può essere anche “trans ducere”, portando in luce un senso più profondo. E’ questo il caso della traduzione dell’Ulisse di James Joyce firmata da Enrico Terrinoni e Carlo Bigazzi uscita qualche anno fa per Newton Compton e che ha aperto la strada al nuovo, monumentale, lavoro di Terrinoni con Fabio Pedone: la traduzione del Finnegans wake, uscita di recente per Mondadori.

Il 16 giugno, il giorno in cui non solo in Irlanda ma in tutto il mondo si festeggia il Bloomsday, ecco cosa ha detto a Left il filosofo della scienza Giulio Giorello, grande appassionato di Joyce e grande conoscitore dell’Irlanda: «Sono particolarmente felice che si torni a parlare dell’Ulisse fuori dall’accademia. Troppo spesso la discussione fra eruditi dimentica che i versi di Dante erano cantati dal popolo a Firenze. Che chi andava a vedere Shakespeare, fra un palco e l’altro, arrostiva un montone o improvvisava un duello. In Joyce vibra la voce roca, ma affascinante, del coraggioso proletariato irlandese che nel 1916 nella cosiddetta Pasqua di sangue fece vedere i sorci verdi agli occupanti britannici».

In una lettera giovanile lo stesso Joyce si definiva «scrittore socialista» e, nonostante l’Ulisse sia poi diventato un libro di culto e per molti versi poco accessibile, nasceva dall’idea di scrivere una moderna Odissea che restituisse dignità alla vita quotidiana delle persone “qualunque”, come lo è il suo protagonista, Leopold Bloom.

«La traduzione dell’Ulisse uscita per Newton Compton ha il merito di far emergere il carattere democratico di questo meraviglioso romanzo che, per me – sottolinea il filosofo – è il più grande testo del Novecento. Qui ritrovo l’humour e un senso plebeo dell’esistenza molto Irish, che rende l’Ulisse così affascinante».

L’Ulisse fece storcere il naso a molti, fra questi Virginia Woolf che lo giudicava “un testo scomposto” e “disgustoso”, scritto da “un proletario autodidatta”. «Sarà certo vero quello che diceva la signora Woolf, ma per me» dice Giorello «fra l’ Ulisse e gli esangui, tristi, romanzi della Woolf c’è la stessa differenza che corre fra un buon whisky e un’aranciata». Poi entrando più nel merito della traduzione Newton Compton uscita a più di cinquant’anni da quella classica di De Angelis, il filosofo approfondisce: «Mi colpisce soprattutto la vitalità di questa versione. Che, per esempio, usa il tu in dialoghi chiave come quello fra Bloom (Ulisse) e Dedalus (Telemaco) quando, in una taverna, imboccano una discussione alta su scienza e religione». E poi, per fare un altro esempio, nella traduzione di Terrinoni e Bigazzi «si coglie tutta l’ironia di Joyce verso Darwin. Un caso per tutti: a proposito della tragica storia irlandese, Joyce parla di Destruction of the Fittest, qui correttamente reso come la distruzione del più adatto. E non come la distruzione dei migliori. Che sarebbe sbagliato». Joyce ben conosceva il dibattito sulle idee di Darwin fortemente osteggiato dai gesuiti e si divertiva a prendere in giro gli slogan dei darwinisti sostenendo che è la storia umana non riflette l’evoluzione ma quasi drammaticamente la contrasta».

E da notare è anche «che questa intuizione di Joyce, che era un cultore di Nietzsche, trova un preciso parallelismo in Umano troppo umano dove il filosofo tedesco mostra tutta l’ambiguità di un darwinismo ideologico e ingenuo». Quanto all’incipit invece? «In questo caso», ammette Giorello, «sono affezionato alla vecchia traduzione di De Angelis: “Solenne, paffuto, Buck Mulligan spuntò in cima alle scale” recitava. Qui invece si legge, “statuario e pingue”. Pensando forse al Falstaff shakespeariano che era molto presente nell’opera dello scrittore irlandese».

Shakespeare era indubbiamente un modello forte per Joyce, come scrittore a tutto tondo, interessato all’umano, inteso come corpo e mente. «E’ uno dei suoi grandi riferimenti insieme ad Omero e a Dante. Poi nel suo orizzonte ci sono due grandi filosofi napoletani: Giordano Bruno è più volte riecheggiato nel libro e Vico, che sarà uno dei grandi riferimenti di Finnegans Wake, compare già qui. E’ la grande sfida di Ulisse essere un grande poema in prosa irlandese e nello stesso tempo il grande poema dell’umanità nell’incertezza».

Gli strali verso i più ideologici epigoni di Darwin, intuizioni sull’idea di spazio tempo in linea con la teoria della relatività, ma anche Freud compare indirettamente nel romanzo. Come bersaglio critico. Joyce non amava Freud, è ben noto, e rispose da scrittore all’apertura all’irrazionale avviata dall’arte di inizi Novecento. Lo fece dilatando l’Ulisse a misura del tempo interiore del protagonista Leopold Bloom. E affidando il racconto a una lingua icastica, vitale, polifonica. «Insieme a Faulkner, Joyce è a mio avviso lo scrittore del secolo scorso che più di ogni altro ha colto il tempo del profondo» commenta Giorello. Quanto alla lingua era «innervata da uno spirito autenticamente democratico. La lingua che usa Joyce», ci ricorda Giorello, «è quella dei vetturini, degli agenti cambio, degli uomini della strada e dei pub. Era lontano anni luce da atmosfere intellettuali esangui. Nell’Ulisse ci sono la carne e il sangue di un popolo che era riemerso da una storia tragica, con una concezione». Peraltro, aggiunge il professore, l’Irlanda ne è uscita «con un’idea molto bella di tolleranza delle diverse scelte di vita. Con l’idea che la democrazia non è fare quello che vuole la maggioranza, ma significa seguire la vocazione delle minoranze, senza dimenticare il diritto di coloro che sono oppressi a ribellarsi».

Lo stesso Bloom in Ulisse esprime un’umanità ben diversa dall’eroe omerico maestro d’inganno e astuzia. «Qui l’eroe è anti omerico», precisa Giorello. «In questo senso Bloom è anche anti shakespeariano e, per esempio, scopertosi cornuto, conclude la faccenda con la signorile decisione di lasciar perdere. Un po’ come i personaggi dell’opera di Mozart che Joyce ama di più: ovvero le ragazze di Così fan tutte, non certo il Don Giovanni».

E qui il pensiero corre al libro di Giorello, Il tradimento, in cui Bloom è eletto a modello antimoralistico. «Beh invece della vendetta di Otello o del macello che fa Ulisse quando torna in patria, trovo che questa nonchalance di Bloom mostri tutta la dimensione amabile del personaggio: uomo non banale, sensibile, attento alle conquiste della scienza. E che forse a sua volta avrebbe qualcosa da farsi perdonare quanto a fedeltà. Una parola che è appunto motto dell’arma dei carabinieri, ma non so quanto utile nel rapporto fra uomo e donna».

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Articolo pubblicato su Left del 16 giugno 2012