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Report dal Rojava

Fighetrs of the US-backed Kurdish-led Syrian Democratic Forces (SDF) walk in front of a banner showing faces of fellow fighters, who were killed during battles with the Islamic State (IS) group, near the Omar oil field in the eastern Syrian Deir Ezzor province on March 23, 2019, after announcing the total elimination of IS' last bastion in eastern Syria. - Kurdish-led forces pronounced the death of the Islamic State group's nearly five-year-old "caliphate" early on March 23 after flushing out diehard jihadists from their very last bastion in eastern Syria. In Al-Omar, an oil field used as the main SDF staging base for the final phase of the assault, fighters in their best fatigues laid down their weapons and broke into song and dance. (Photo by Delil souleiman / AFP) (Photo credit should read DELIL SOULEIMAN/AFP/Getty Images)

In qualità di capo negoziatore di fatto della regione liberata chiamata Amministrazione autonoma della Siria settentrionale e orientale, Ilham Ahmed, copresidente curda del Consiglio democratico siriano, ha molto a cui pensare. Negli ultimi mesi, ha viaggiato negli Stati Uniti e in Europa, negoziando il futuro di un’area in cui vivono tra 5 e 6 milioni di persone, inclusa una consistente parte dei 6 milioni e 200mila sfollati siriani interni e, recentemente, migliaia di famiglie coinvolte nel terrorismo dello Stato islamico che oggi vivono nei campi profughi. Mentre Ahmed continua le delicate trattative con le superpotenze mondiali in merito allo status di questo territorio, il futuro è, in una certa misura, nelle sue mani.

Con la determinazione negli occhi e la fronte corrucciata, il suo viso testimonia questa formidabile responsabilità. Ma a bordo della sua utilitaria nera, guidando attraverso le pianure coperte da prati lussureggianti e pecore al pascolo, Ahmed si concede un momento per riflettere su una lezione della storia mentre si dirige a Sud, attraverso la provincia di Deir al-Zour, per l’annuncio ufficiale della disfatta del cosiddetto califfato dell’Isis.

Nell’anno 612 prima dell’era volgare, mi racconta, i Guti, gli antichi abitanti della Mesopotamia che i curdi talvolta indicano come loro antenati, si unirono ai Medi e ad altre tribù per respingere il loro oppressore, il re assiro Zuhak. «Erano tutti d’accordo ad accendere la torcia della libertà quel 21 marzo, lo stesso giorno in cui abbiamo dichiarato la fine della battaglia (contro l’Isis)» dice, raccontando la leggenda di Nowroz, il capodanno curdo – una celebrazione di rinascita e rinnovamento che è diventata il simbolo della resistenza popolare.

«A quel tempo, c’era una confederazione di tribù… [©NYR – traduzione di Alessia Gasparini]

Debbie Bookchin è una giornalista e una scrittrice statunitense. Venerdì 4 ottobre alle 17 presso il Teatro Comunale, Debbie Bookchin è stata ospite del Festival di Internazionale a Ferrara.

Il reportage di Debbie Bookchin prosegue su Left del 4 ottobre 2019

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Leonardo, Raffaello e il gioco della (reciproca) influenza

Uno dei problemi maggiori che deve affrontare lo studio sull’arte di Leonardo da Vinci è costituito dalla condizione di isolamento costruita dalla mitologia degli ultimi due secoli intorno alla figura e all’opera del grande artista toscano. L’enfatizzazione della genialità di Leonardo passa attraverso il suo isolamento.

Leonardo è artista unico, irripetibile e la sua opera non si pone quasi mai dentro l’ambito rinascimentale ma molto al di fuori di esso. Persino la sua formazione nella bottega del Verrocchio appare sminuita dal principale biografo dell’artista, Giorgio Vasari, che deprime la grandezza del Verrocchio per enfatizzare la grandezza dell’allievo fatto appunto da sé.

Sempre il Vasari orienta in maniera definitiva gli studi successivi affermando che fu Leonardo ad influenzare gli artisti contemporanei e primo tra tutti Raffaello e che non vi furono influenze in senso inverso. Una posizione critica oggi insostenibile dal momento che il corpus dei disegni di Leonardo contempla alcuni disegni che riproducono il David di Michelangelo (Windsor) a testimoniare che Leonardo fu sensibile all’arte degli altri grandissimi contemporanei e che in qualche caso ne subì l’influenza.

Ancora più significativa appare la postilla che Federico Zuccari (1540-1609) appose ad una edizione delle Vite del Vasari del 1568 per commentare la pretesa di Vasari di una maggior grandezza di Leonardo rispetto a Raffaello: «Come si scopre sempre (Vasari) partiale in volere preferire i toscani a tutti gli altri, che ardisia antiporre Lionardo a Raphaello, chè per valent’omo che fusse Lionardo, non a comparatione con la gratia, con l’arte e con l’eccellenza di Raffaello, universale, copiose e singulare».

Leggere oggi, nel cinquecentenario della morte di Leonardo, questa affermazione può risultare…

Antonio Forcellino, autore di molti libri su Leonardo, è il curatore insieme a Roberto Antonelli della mostra “Leonardo a Roma. Influenze ed eredità” aperta dal 3 ottobre al 12 gennaio 2020 nella villa Farnesina e realizzata dall’Accademia dei Lincei e dalla Fondazione Primoli.

L’articolo di Antonio Forcellino prosegue su Left in edicola dal 4 ottobre 2019

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Un (nuovo) socialismo per il ventunesimo secolo

NEW YORK - MARCH 30: A demonstrator with the Occupy Wall Street holds up a 99% sign in front of the George Washington statue at Federal Hall during a rally on Wall Street on March 30, 2012 in New York City. The demonstrators were taking part in an Occupy Wall Street spring session. (Photo by Michael Nagle/Getty Images)

Il “socialismo” è tornato. Per decenni questa parola è stata considerata imbarazzante, un deprecabile fallimento e una reliquia di un’era passata. Non più! Oggi, politici come Bernie Sanders e Alexandria Ocasio-Cortez indossano l’etichetta con fierezza e guadagnano supporto, mentre organizzazioni come i Democratic socialists of America accolgono frotte di nuovi membri. Ma che cosa intendono esattamente per “socialismo”? Seppur benvenuto, l’entusiasmo per la parola non si traduce automaticamente in serie riflessioni sul suo significato. Che cosa significa o dovrebbe significare “socialismo” ai giorni nostri? […]

Chiaramente, il progetto di ripensare un socialismo per il ventunesimo secolo è di per sé un lavoro piuttosto impegnativo, fin troppo perché una sola persona o persino un singolo gruppo di persone si impegni nella sua teorizzazione. Se il lavoro verrà completato (ed è un grande “se”), sarà attraverso gli sforzi combinati di attivisti e teorici, mentre intuizioni acquisite attraverso la lotta sociale si uniscono e si potenziano con il pensiero programmatico e con l’organizzazione politica.

Ciò nonostante, voglio offrire tre serie di brevi riflessioni che mi sembrano in linea con quello che ho affermato. Queste hanno a che fare con i confini istituzionali, il surplus sociale e il ruolo dei mercati.

I problemi dei confini sono importanti almeno quanto quelli che riguardano l’organizzazione interna delle “sfere” che prendiamo per date (come «l’economico» e «il politico»). Invece di focalizzarsi esclusivamente o unilateralmente sull’organizzazione dell’economia, i socialisti avrebbero bisogno di riflettere sulla relazione dell’economia con il suo retroterra di possibilità: con la riproduzione sociale, con il naturale non umano, con le forme non capitalizzate di benessere e potere pubblico. Se il socialismo deve superare tutte le forme istituzionalizzate di irrazionalità, ingiustizia e non libertà capitaliste, deve re-immaginare i rapporti tra produzione e riproduzione, società e natura, e sociale e politico…

(traduzione di Alessia Gasparini)

Nancy Fraser è una critica teorica, una femminista e docente di filosofia alla The New School di New York City. Il suo ultimo libro è “Femminismo per il 99%”, sul ruolo del femminismo in una possibile rivoluzione del sistema capitalista. Il 1 ottobre Nancy Fraser è stata ospite del Museo Macro di Roma in occasione di una rassegna di eventi a cura di Castelvecchi Editore e Filosofia in movimento. La sua lectio magistralis è intitolata “Cosa dovrebbe significare il socialismo nel XXI secolo”.

 

La lectio magistralis di Nancy Fraser prosegue su Left in edicola dal 4 ottobre 2019

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Il comunismo visto da Pechino, una marcia lunga settant’anni

La risoluzione del Parlamento europeo del 19 settembre 2019, che equipara di fatto nazismo e comunismo, vista da Pechino, sembra assumere una dimensione differente, come fosse un punto che diventa sempre più piccolo se osservato da lontano. Ancora una volta, forse giustamente, l’unica dimensione storica che assume il Parlamento è quella interna alle vicende europee e per di più alla luce dell’oggi e senza alcuna coscienza storica. Che senso ha creare un’equazione matematica fra fenomeni storici così complessi ed articolati e che hanno assunto dimensioni temporali e spaziali così differenti?

Infatti, almeno si potrebbe osservare che il nazionalsocialismo è stato – per nostra fortuna – un fenomeno storico e politico circoscritto e la sua denuncia, per i crimini di cui si è macchinato, è ormai iscritta nelle costituzioni di molti Paesi. Esso si fondava su presupposti ideologici che difendevano e professavano la violenza, la segregazione, il razzismo e ogni altro genere di scelleratezza. Diversa sembra invece essere la storia del comunismo, che…

Il commento di Federico Masini prosegue su Left in edicola dal 4 ottobre 2019

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Negazionisti a Bruxelles

Ciclicamente, con cadenza regolare, emerge dalle pagine dei giornali, dalle aule parlamentari, dai libri di storia un mantra col sibilo del serpente, il veleno dello scorpione, la viscidità dell’anguilla: il nazismo è stato violento quanto il comunismo. Hitler non ha fatto niente di più e di peggio di Stalin.

L’ultimo rigurgito di revisionismo storico proviene però questa volta dal Parlamento europeo che, il 19 settembre, ha votato a stragrande maggioranza un documento dove i due totalitarismi del Novecento vengono equiparati in termini di violenza e oppressione, in nome di un’Unione europea volta all’amore e alla fratellanza tra i popoli.

Rispetto alle polemiche degli anni Ottanta, che hanno diviso l’opinione pubblica tra revisionisti e anti-revisionisti, il testo in questione sconvolge per la pochezza e l’ignoranza di motivazioni e intenti: il patto Molotov-Ribbentrop individuato come causa della Seconda guerra mondiale; il revisionismo storico menzionato come pericolo da scongiurare – non rendendosi conto che lo stesso documento è un esempio lampante di detta revisione della storia -; l’annullamento di qualsiasi unicità dei crimini nazisti, che diventano così una…

L’articolo di Elisabetta Amalfitano prosegue su Left in edicola dal 4 ottobre 2019

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La competizione è il veleno che ci propina il neoliberismo da 30 anni

epa03653922 (FILE) A file photo dated 03 May 1985 shows (L-R) British Prime Minister Margaret Thatcher, German Chancellor Helmut Kohl and US President Ronald Reagan attending an event at the World Economic summit in Bonn, Germany. Former British prime minister Margaret Thatcher died early 08 April 2013 at the age of 87 following a stroke, her spokesman Lord Bell said. Thatcher was Leader of the Conservative Party from 1975 to 1990. Margaret Thatcher was Britain's first female prime minister and served three consecutive terms in office from 1979 to 1990. She was one of the dominant political figures of the 20th century in Britain. Margaret Thatcher held a life peerage as Baroness Thatcher, of Kesteven in the County of Lincolnshire, which entitles her to sit in the House of Lords. EPA/FILE

“Per un’Italia più giusta, più verde, più competitiva”. Così recita lo slogan per il tesseramento al Pd che circola in questi giorni.
Con il rispetto dovuto, però viene da interrogarsi sull’accostamento di aggettivi che fa quello che resta uno dei principali partiti italiani, il più grande tra quelli che si definiscono progressisti e che ha in sé la memoria comunista e democristiana.

In particolare colpisce quel “più competitiva” dato il peso di quell’aggettivo, competitivo, che non si può dire venga dalle tradizioni comunista e cattolica e invece ha segnato fortemente la “rottura” neoliberale degli anni 80, con Milton Friedman e la scuola di Chicago, con Margaret Thatcher e Ronald Reagan a portarla in politica ma con l’ambizione di “cambiare” non solo l’economia ma la società.
Naturalmente c’è un problema di accostamenti e come “più giusta e più verde” si possono legare con “più competitiva” è sicuramente un tema a sé.

Che interroga sulla natura dei soggetti di questa epoca “postideologica” (ma lo è veramente, o siamo in pieno trionfo dell’idologia del pensiero unico?).
Le ambizioni maggioritarie hanno sostituito il concetto di egemonia e dunque piuttosto che una lettura della società attraverso cui ricercare vocazione e consenso si procede per assemblaggi.

Più aggettivi che idee. Naturalmente tutto è molto illusorio e illusionistico in quanto la società contemporanea si muove su un impianto molto forte di relazioni economiche, sociali e di potere.
Viene da pensare che così facendo la “politica” si confini nell’ambito di una sorta di funzione sovrastrutturale, “pubblicitaria”, di merchandising rispetto alla struttura sociale che è “senza alternative”, a “pilota automatico”.

Gli accostamenti divengono di stagione, di moda, di nuance. Definiscono una gamma, non una alternativa.
Naturalmente danno anche una sostanza. In tal senso la “triade” sembra dare a più giusta più e più verde la funzione di accompagno al più competitiva. Si può leggere in sequenza a conferma ed esplicitare “se l’Italia è più giusta e più verde è più competitiva”.

Capisco che è una interpretazione.
Ma quell’aggettivo, competitiva, ha una valenza particolare perché è quello che ha operato la rottura che richiamavo nella Storia contemporanea e perché è il “Papa straniero”, cioè viene da fuori le tradizioni affluenti nel Pd che ricordavo, la comunista e la cattolica.
Per altro è un aggettivo che discende da un sostantivo forte e connesso ad un soggetto forte.

Friedman situa al centro della società (in fondo, della realtà) l’impresa (e i suoi azionisti). Compito dell’impresa è competere. Naturalmente in un mercato “puro”, libero. Che non esiste, ma questa diventa quasi una critica secondaria.
Perché il problema non è solo economico ma antropologico.

Lo diventa subito con Thatcher che irrompe col suo “la società non esiste, esistono gli individui. E la famiglia”.
Tutto l’impianto reazionario che va a gelare il grande cambiamento degli anni gloriosi è squaternato.
Il dominus è la competizione. Compete l’azienda. Competono gli individui. Compete la famiglia. E Thatcher rivendica di essere capace perché donna che sa di questa condizione.

Da lì partono i giorni che ci portano a questa nostra condizione quando ormai alla competizione si è connessa la paura. Paura degli altri. Di non essere adeguati. Di soccombere.
Il cammino però è stato lungo e, come le vie dell’inferno, lastricato di buone intenzioni.

Mai come adesso si sono creati ossimori e metonimie. Fino alle guerre umanitarie, cioè fatte per il bene che coinciderebbe con la libertà che è quella di competere.
Ma la meritocrazia ha riempito le pagine della governance. Contro l’appiattimento “egualitaristico” che è alla fine gulag.

Un filosofo canadese, Alain Deneault, ha scritto di recente un saggio intitolato Mediocrazia per dimostrare che questa governance globale del pensiero unico più che promuovere i migliori ha dato merito ai mediocri. Quelli che qualcosa sanno e soprattutto sanno cosa serve alla governance che ha soppiantato la politica (ma anche la scienza).

Il Mondo, le Vite sono stati sconvolti dal verbo della competizione.
Se ne potrà pure trarre un bilancio.
Le disuguaglianze si sono accresciute a dismisura, tra una società e l’altra e dentro le singole realtà.
Disuguaglianze impressionanti che non hanno pari nella storia dell’umanità, neanche ai tempi di Re assoluti e di sommi sacerdoti.

La società è stressata a dismisura, con livelli di insicurezza, di ansia che deprivano dal portato del progresso in un Mondo dove si muore di fame e si consumano miliardi di psicofarmaci.
I livelli di istruzione decrescono. Si ha analfabetismo funzionale e di ritorno. Istruzione e aspirazione a condizione sociale non corrispondono.

L’impatto sul Pianeta Terra si è fatto pesantissimo, sul punto del non ritorno dell’alterazione climatica.
Il mondo del lavoro è stato frantumato e sistematicamente svalorizzato. Il “diritto a competere” ha sostituito la solidarietà di classe e di fatto ha promosso il diritto a farsi sfruttare.
Il livello di collaborazione scientifica soffre enormemente l’asservimento alla competizione aziendale e la non ricezione delle acquisizioni raggiunte per mancanza di volontà politica. La sofferenza della grande comunità democratica e scientifica che sta intorno al trattato di Kyoto sul clima è emblematica.

Risorgono nazionalismi e dazi che non sono la negazione della “libera concorrenza” ma le sue conseguenze.
Non è giunto ormai il momento di dire che la parola competitiva è “tossica” per usare una terminologia che Latouche riferisce ad esempio a sviluppo?

L’uso del sostantivo competizione e dell’aggettivo competitivo ha cambiato purtroppo di segno alla storia della sinistra, ma anche dell’umanità.
La Rivoluzione francese celebra la libertà, l’uguaglianza, la fraternità.
Le parole della sinistra sono uguaglianza, solidarietà, fraternità, libertà, cooperazione.

La competizione è il veleno che ci propina il neoliberalismo da 30 anni e che ci ha resi gli uni nemici degli altri.
Nell’era in cui abbiamo bisogna di una Europa e di un Mondo solidali competizione è una parola che proprio fa male.

Alternativa alla competizione è la cooperazione, che è l’approccio opposto alla vita e alla società.
Appare attualissimo l’insegnamento di Celestin Freinet che spiegava e praticava il metodo di insegnamento cooperativo, naturale e laico fondando il movimento per l’insegnamento cooperativo.
Ecco, una sinistra che sia sinistra si fonda su queste scuole e non su quella di Chicago, sulla cooperazione e non sulla competizione.

Cosa dovrebbe insegnare alla sinistra la lezione del Confederalismo democratico in Kurdistan

epa06626672 French-Kurdish community shout slogans during a protest called 'International Afrin Day' against Turkish operations in northern Syria, in Paris, France, 24 March 2018. Turkish President Recep Tayyip Erdogan on 18 March said the Turkish military and allied Syrian militias of the Free Syrian Army had taken complete control of the city of Afrin, after a military operation that began on 20 January against the Kurdish Popular Protection Units (YPG) forces which control the city of Afrin. EPA/CHRISTOPHE PETIT TESSON

Ad otto anni dalle primavere arabe e dall’inizio della guerra in Siria, nel Kurdistan siriano cresce e continua a svilupparsi un progetto politico fondato su una democrazia radicale e diretta. Un esperimento che ha contribuito in modo decisivo alla sconfitta dell’Isis e che parla di convivenza tra diverse etnie, uguaglianza tra i generi e approccio ecosostenibile al territorio. Parliamo del Confederalismo democratico immaginato da Abdullah Ocalan, leader del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) da 20 anni prigioniero politico in Turchia, e realizzato in Rojava.

Un patrimonio di teoria e prassi di cui si parlerà a Roma sabato 5 e domenica 6 ottobre, al Teatro Palladium, durante la conferenza internazionale «Confederalismo democratico, municipalismo e democrazia globale» organizzata da Uiki onlus e promossa dal Municipio VIII. La due giorni romana vede l’adesione di sindacati come Fiom e Cobas. Ad intervenire, tra gli altri, Yilmaz Orkan (Uiki onlus); Massimiliano Smeriglio, eurodeputato Pd; Dalbr Jomma Issa, comandante Ypj. E ancora, Debbie Bookchin, giornalista e scrittrice (autrice di un reportage dal Rojava per Left) e Mimmo Lucano, ex sindaco di Riace.

 

«Il convegno nasce da un lungo percorso che incrocia la secolare vicenda curda, emblema di tutte le popolazioni che nutrono una aspirazione di libertà e cercano un riconoscimento politico internazionale – ci spiega Amedeo Ciaccheri, presidente del Municipio VIII, istituzione che ha co-organizzato l’evento -. Nel 2011, con lo scoppio della guerra in Siria, l’esperienza del Rojava, mentre si trovava a fronteggiare un corpo a corpo contro l’oscurantismo dello Stato islamico e le autocrazie del Medio oriente come la Turchia di Erdogan, si è fatta portavoce dei valori di umanità e democrazia, raccogliendo una incredibile solidarietà internazionale».

Il presidente turco Erdogan, in calo di consensi, è tornato a minacciare l’esperienza rivoluzionaria in atto nel Kurdistan siriano, paventando ancora l’ipotesi di un’annessione di quei territori. Qual è la situazione in Rojava?
Il conflitto è purtroppo assolutamente vivo. Se le forze democratiche siriane, a partire da Ypj e Ypg, (le unità di protezione popolare e delle donne del Rojava, ndr) hanno vinto la battaglia contro l’Isis, non cala la tensione in uno scenario geopolitico che vede la Turchia come una forza con mire espansionistiche e imperialiste sull’area. È in questo contesto che sopravvive la grande operazione teorica e di sperimentazione politica nata nel Kurdistan siriano. Dove la Federazione democratica della Siria del Nord ha saputo rimettere in discussione le proprie vocazioni indipendentiste e lavorare sul campo alla costruzione di processi partecipativi, a partire dall’idea del Confederalismo democratico immaginato da Ocalan. Un progetto che ha come elemento determinante la convivenza civile e il confronto continuo. E che fissa alcuni punti cardinali, alcuni valori, che sono diventati oggetto di discussione internazionale a sinistra. È proprio per questo abbiamo scelto di ospitare a Roma questa conferenza, che in passato si era tenuta ad Amburgo. Proprio in Italia, va ricordato, si è sviluppato uno dei movimenti di solidarietà nei confronti del Rojava più partecipati, che ha visto l’organizzazione di staffette e carovane che hanno portato in Kurdistan aiuti umanitari ma anche solidarietà politica.

Qual è l’aspetto del confederalismo democratico di cui la sinistra in Italia dovrebbe fare più tesoro?
Innanzitutto, il confederalismo è uno strumento da adottare per mettere alla prova le reali vocazioni antisovraniste che dovrebbero animare la sinistra. Di fronte all’emergere dei nazionalismi e alla recrudescenza dei movimenti reazionari e di destra, inoltre, il progetto nato da Ocalan non è rimasto una semplice testimonianza ideologica, ma ha ricostruito un orizzonte culturale che si fonda sull’ecologismo radicale, sul ruolo centrale della donna e la sua autonomia, e sul tema della ricostruzione dei nessi democratici, a partire dal municipalismo, e dunque dal ruolo fondamentale delle città come luogo in cui le diverse comunità, con le loro differenze, si riconoscono e confrontano. Mentre in Italia si discute della costruzione di un campo largo a sinistra, dunque, il confederalismo democratico con i suoi valori può essere uno strumento per rigenerarsi e assemblare una proposta credibile. Lo ha fatto l’Hdp in Turchia, lo si è fatto in Rojava, ed è assurdo che non lo si possa fare anche qui in Italia. Qui dove storie e culture differenti possano lavorare ad un progetto autonomo, che unisca il largo fronte di forze ecologiste, democratiche e di sinistra. Per dare voce, a partire da Roma, a quel sentimento di amore democratico nei confronti dei processi a difesa dei beni comuni e dei servizi pubblici.

Parlare di Kurdistan ci porta a parlare anche di migrazioni, e di chi ancora oggi affronta il mar Mediterraneo dopo essere fuggito dai conflitti del Medio oriente. Mentre dal governo Conte 2 tardano ad arrivare segni di reale discontinuità sul tema…
Il punto è che Ue ed Italia ancora non hanno pienamente compreso la grande crisi del Medio oriente e del continente africano, e quindi il grande ruolo che l’Europa potrebbe avere in questo scenario. Si continua ad affrontare la questione migratoria con dispositivi securitari, mentre se – come accade – diciamo di far parte di un mondo globale, dovremmo accettare che le nostre società siano immediatamente aperte ai movimenti delle persone. E poi lavorare affinché questa apertura, al contrario di chi la dipinge come evento drammatico, sia occasione per costruire connessioni che favoriscano la crescita collettiva.

Nel frattempo qui a Roma, il centro culturale Ararat – fondato 20 anni fa, proprio nei mesi in cui Ocalan era in Italia e gli veniva rifiutato asilo politico – è ancora a rischio sgombero.
Il centro è esempio di una città che era capace di accogliere e dava spazio ad iniziative autonome di protagonismo di comunità politiche che nella Capitale volevano offrire un contributo. Una città che si sentiva pienamente globale. E che oggi non esiste più. Ciò nonostante, mentre vediamo ogni giorno depauperarsi ogni luogo di confronto, ed esperienze come Ararat vengono messe in discussione, quel luogo resiste e continua ad essere un laboratorio per ripensare la politica, anche tra i confini cittadini.

La solidarietà è un tratto umano. E laico

«WHO is society?», il motto tatcheriano racchiudeva una visione del mondo negatrice del legame sociale. La sua spietatezza innocente, scrive Roberto Escobar, immagina individui astratti, ad una sola dimensione, poveri di umanità, concentrati sulla massimizzazione del profitto. In quel modello di società basato sull’homo oeconomicus, «non c’è società, non c’è relazione, né solidarietà, se non all’interno della famiglia». Nel suo libro Il buono del mondo. Le ragioni della solidarietà, il docente di filosofia politica dell’Università di Milano ha indagato le radici del dogma neoliberista che ha aperto la strada al predominio dell’economia capitalista sulla politica e a una visione agghiacciante della società, totalmente anaffettiva, in cui le parole simpatia, empatia, solidarietà sono state svuotate di senso, o addirittura criminalizzate, come accade oggi con l’avanzare di politiche xenofobe e nazionaliste.

Professor Escobar, negli ultimi anni abbiamo assistito ad una escalation di criminalizzazione della migrazione, di denigrazione delle Ong, fino ad arrivare a concepire un ossimoro come il “reato di solidarietà”. Quando è cominciato tutto questo?
L’invenzione del reato di solidarietà non è di oggi né di ieri. È una invenzione che è stata elaborata in 20-25 anni in Italia e non solo. Si è sostituita la politica, che è sempre una prospettiva volta al possibile, con la paura. Si è cercato di far credere agli italiani che non si tratti di problemi reali, sociali, ma che siano problemi fantasmatici e che ci siano fantasmi pericolosi. Ma queste categorie sociali additate sono quelle più deboli che in questo modo sono state demonizzate. Dunque la solidarietà non ha più motivo di essere. Anzi la si fa sembrare qualcosa di negativo. L’invenzione della parola “buonismo” è lì a ricordarlo. Quando mi danno del buonista contrattacco ma sono da solo contro un intero immaginario. Uno, da solo, viene zittito. Tanto più perché inculcano queste assurdità nelle teste degli italiani da almeno 25 anni.

Perché fanno tanta paura esperienze come quella di Riace, un paesino dove si era sviluppata un’esperienza di buona amministrazione e di integrazione nata dall’incontro fra uomini e donne stranieri e non? Perché spaventa tanto la politica conservatrice e xenofoba che per giunta ha potenti mezzi dalla propria parte?
Riace fa paura perché dimostra che si può agire diversamente. Fa paura perché la solidarietà è diffusiva, è una malattia benefica. E proprio per questo cercano di bloccarla. Fa paura perché dimostra che la politica può lavorare diversamente. Io vedo Mimmo Lucano come un uomo per bene, coraggioso, una persona solidale, lo vedo come un politico serio. È uno che di fronte a un problema lo affronta per quello che è e cerca di risolverlo. E questo, per chi oggi ci vieta di pensare politicamente, è pericoloso. Perché se Lucano ha ragione, allora hanno torto loro, perciò tentano di fermarlo.

Nel suo libro lei indaga la parola solidarietà da vari punti di vista. A partire da Leopardi lei scrive che la solidarietà è qualcosa di prettamente umano, un moto che viene dalle emozioni, dal riconoscimento dell’altro come pari e diverso ad un tempo.
Questa è la prospettiva di fondo di questo ultimo lavoro ma anche di ciò che sto scrivendo e pensando in questi anni. Per dirla in modo estremamente sintetico: non ci si deve stupire se qualcuno aiuta un altro; ci si deve stupire se non lo fa. Mi spiego: c’è dentro di noi (e lo si può dimostrare in vario modo dalla psicologia alla filosofia) qualcosa che ci spinge ad andare verso l’altro. Se vediamo che soffre gli tendiamo la mano, prima ancora di valutare chi sia, se la situazione in cui si trova sia colpa sua o meno. Sei caduto ti do una mano ad alzarti. E viceversa. Questo slancio è ciò che ha consentito all’umanità di non scomparire. Altrimenti non saremmo qua. Ma questo slancio è coperto, è coartato è negato dalla cultura dominante, del pensiero diffuso. Leopardi lo dice con la sua prosa splendida. Se davanti a qualcuno che sta male non ti muovi, hai un cuore di pietra. Io parto da questa idea. Non devo dimostrare che è giusto essere solidali ma cerco di mostrare quanto sia artificiale e artificioso il nostro rifiuto della solidarietà. Responsabile di questo artificio è la politica della paura e dell’odio che mira ad orientare il consenso.

Lévinas viene considerato come un pensatore del dialogo con l’altro, ma lei ne offre una interessante lettura critica, mettendo bene in luce che nell’orizzonte filosofico del filosofo francese l’incontro con l’altro ha una premessa religiosa, è fondato sulla metafisica. Se c’è il divino non ci può essere l’umano in quell’incontro, possiamo dirlo?
Questa è la mia opinione. Se per venire incontro a te io ho bisogno di passare attraverso un assoluto, allora l’assoluto è più importante di te. Faccio sempre questo esempio. Pensiamo ai difensori della vita: per loro la vita è un assoluto, magari uccidono la donna che vuole abortire, perché questa donna, per loro, è “un relativo” e vale meno dell’assoluto. È una tragedia quella che poi ne viene fuori. Io sono per i valori relativi che non sono i valori relativisti, ma sono i valori che nascono nella relazione con l’altro. Questo vale anche per le ideologie, le filosofie, non solo per la religione. Emmanuel Lévinas dice che Dio ci obbliga alla relazione. Se ci obbliga alla relazione, non è più una relazione.

La sinistra, per rinascere oggi, ha bisogno anche e soprattutto di laicità?
Ne ha bisogno profondamente. Il che non significa esclusione delle fedi private dei singoli. Laico è chi immagina che noi viviamo insieme e che ognuno deve essere rispettato nella sua identità e dignità e che ciò che conta è ciò che insieme decidiamo, non le verità che vogliamo imporre agli altri. La sinistra, secondo me, in questo senso deve essere laica.

Grazie Donald

Italy's Foreign Minister Luigi Di Maio at Villa Madama in Rome on October 2, 2019. ANSA/FABIO FRUSTACI

Che buontempone questo Donald Trump, che piace tanto anche a sovranisti di casa nostra e che viene vissuto come eroe internazionale per tutti quelli che credono che la ferocia sia uno strumento simpatico e politicamente utile.

Che buontempone Donald Trump che incapace di governare chiede ai suoi collaboratori di scrivere un preventivo per costruire fossati con i coccodrilli al confine con il Messico (e fortunato a non essere mandato dove meriterebbe da nessuno dei suoi consiglieri) e che se la cava con l’Italia grazie a un tweet in cui saluta il suo amico “Giuseppi” sbagliandone il nome.

Che simpaticone Donald Trump che con i suoi dazi sui prodotti alimentari ha scippato un miliardo di euro ai nostri produttori (le stime sono di Coldiretti) con tanto di sorriso. E Conte impegnato a fare in modo che la fetta di Grana Padano non disturbi la posa fotografica con l’emissario statunitense.

Che grande uomo Donald Trump che per mostrarsi muscoloso e piacere anche agli italiani sta facendo pagare il prezzo del suo sovranismo anche a noi e ci sta dimostrando chiaramente un concetto che qui sembra così difficile da raccontare: se insistiamo nel “chiuderci dentro” in nome del protezionismo non facciamo altro che finire “chiusi fuori” pagando pegno.

Che l’Italia non abbia mai avuto una politica estera nei confronti degli USA se non un prono asservimento è storia vecchia e risaputa ma che l’Italia continui a stringere sorridente la mano fingendo di non esserne bastonata è una scena di cui faremmo volentieri a meno.

Intanto i sovranisti continuano a danneggiarci (chiedere a Orban che applaude Salvini ma sui migranti dice di sbrigarcela da soli) ma continuano a prendere applausi.

Farebbe ridere se non ci costasse tantissimo.

Buon venerdì.

Caro Sassoli, c’è differenza tra comunismo e nazismo

Exposición Auschwitz - Madrid

Gentile Presidente Sassoli,

le scrivo come ex parlamentare europeo nella legislatura durata dal 2004 al 2009. Le scrivo in relazione alla risoluzione sulla memoria europea che l’Europarlamento ha recentemente approvato (cfr. su left.it/risoluzione, ndr). Ho visto che la risoluzione stessa, tra le sue premesse, cita la risoluzione sui 60 anni dalla Seconda guerra mondiale che fu approvata il 12 maggio del 2005, quando ero ancora in carica. Questo dettaglio, che per me non è tale, mi ha particolarmente colpito. Ho riletto infatti quella risoluzione e mi permetto di sostenere che il suo incipit, e dunque la sua ratio, è del tutto diversa, per non dire opposta, a quella affermata oggi.

Essendo la materia di enorme rilievo, dato che ci si esprime sul peso del Secondo conflitto globale rispetto alla Storia e alla memoria dell’Europa, le differenze di approccio sono un fatto su cui prestare estrema attenzione. La risoluzione del 2005 sin dall’inizio ringrazia tra gli altri l’Urss per il contributo dato alla sconfitta del nazismo. Quella attuale si apre sostanzialmente addossando al patto Ribbentrop-Molotov e ad una volontà congiunta di nazismo e comunismo l’origine del terribile conflitto.

Molti storici, molte persone di cultura, molte associazioni partigiane e democratiche sono intervenute per contestare questa ricostruzione che a loro dire, e anche secondo la mia opinione, altera la lettura della Storia. Gli argomenti esposti sono chiari ed evidenti e ricordano fatti come le avventure coloniali italiane, l’acquiescenza verso Francisco Franco, il patto di Monaco del 1938 (quando Francia, Regno Unito, Italia e Germania permisero ad Hitler di annettere parti della Cecoslovacchia, ndr) e poi l’aggressione nazista all’Urss: fatti che non trovo nella risoluzione. E sono il contributo di lotta, e di morti, dato dall’Urss e da tantissimi che in Europa si dicevano comunisti che hanno permesso poi l’edificazione di un’Europa democratica.

La precedente risoluzione, quella del 2005, è anch’essa molto netta nella condanna dello stalinismo, ma evita equiparazioni tra nazismo e comunismo che vengono invece ora proposte. Come parlamentare europeo di quella legislatura ho letto dunque dolorosamente il richiamo fatto oggi alla risoluzione di allora. Sento questo atto come poco rispettoso della volontà del Parlamento di allora e come una forzatura da parte di quello attuale. Per questo ho ritenuto anche doveroso scriverle pubblicamente.

Mi permetto qualche altra considerazione. Già nel 2005 la discussione non fu…

La lettera aperta di Roberto Musacchio a David Sassoli prosegue su Left in edicola dal 4 ottobre 2019

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