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Ada Colau: Rifondiamo l’Europa dalle città

TO GO WITH AFP STORY BY DANIEL BOSQUE - Leader of protest party 'Barcelona en Comu' (Barcelona in Common) and candidate for mayor of Barcelona Ada Colau smiles during a political meeting in Barcelona on May 3, 2015. Four years ago Spain's "Indignant" protesters were pounding the streets of Barcelona. Now they may soon be walking the corridors of power. Among them is Ada Colau, 41, who is aiming to become Spain's first "Indignant" mayor. AFP PHOTO/ LLUIS GENE (Photo credit should read LLUIS GENE/AFP/Getty Images)

«Il municipalismo è la chiave di svolta perché è dalla prossimità che si possono realizzare processi di cambiamento in base a obiettivi comuni: è dall’esperienza reale, non dal confronto retorico, che si smontano i discorsi dell’estrema destra». Ada Colau, sindaca di Barcellona, sta diventando personaggio internazionale. Recentemente è stata negli Usa a discutere di “internazionale progressista” con Yanis Varoufakis e Bernie Sanders, intanto sta stringendo la rete delle città “ribelli” perché convinta che il cambiamento, in Europa, passi per il ruolo centrale della città e per il femminismo: «Sono due tematiche legate tra loro».
Non possiamo esimerci dall’iniziare dalla proposta – sostenuta da Left – di candidare Riace a Nobel per la pace, proposta che si è precisata dopo che inizialmente era il sindaco Mimmo Lucano il candidato al riconoscimento. Lei è stata a Riace, la scorsa estate, per un dibattito e ha avuto modo di conoscerlo di persona. Cosa pensa di questa idea?
Considero necessario qualunque riconoscimento che si possa dare a Lucano perché la storia di Riace dimostra che, dal basso e con poche risorse, si possono realizzare cose importantissime se c’è onestà e si prende la decisione etica e politica di restare umani, senza piegarsi alla disumanizzazione imperante. Per questo Salvini ha convertito Lucano nel suo nemico numero uno, perché riconosce la potenza delle sue azioni. Quando sono stata in Vermont con Bernie Sanders, ho parlato a tutti dell’esperienza di Riace perché lui – oltre a rappresentare universalmente i valori della migliore umanità possibile – è la dimostrazione concreta della forza del municipalismo: si possono fare molti discorsi sull’odio e sulla paura, però Lucano ha dimostrato nella pratica che…

L’intervista di Steven Forti e Giacomo Russo Spena ad Ada Colau prosegue su Left in edicola dal 21 dicembre 2018


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Riace Nobel per la pace 2019, parla Mimmo Lucano (video)

Un atto di impegno civile. Un orizzonte di convivenza per l’Europa

Siamo una rete di organizzazioni della società civile, Ong e Comuni che vogliono promuovere una Campagna a favore dell’assegnazione del premio Nobel per la pace 2019 a Riace, il piccolo Comune calabrese che invece di rinchiudere i rifugiati in campi profughi li ha integrati nella sua vita di tutti i giorni.

Riace è conosciuta in tutta Europa per il suo modello innovativo di accoglienza e di inclusione dei rifugiati che ha ridato vita ad un territorio quasi spopolato a causa dell’emigrazione e della endemica mancanza di lavoro. Le case abbandonate sono state restaurate utilizzando fondi regionali, sono stati aperti numerosi laboratori artigianali e sono state avviate molte altre attività che hanno creato lavoro sia per i rifugiati che per i residenti.

Nell’ottobre del 2018 il Sindaco di Riace, Domenico Lucano, è stato arrestato, poi rilasciato, sospeso dalla carica e infine esiliato dal Comune con un provvedimento di divieto di dimora per “impedire la reiterazione del reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina”. Un provvedimento che rappresenta un gesto politico preceduto dal blocco nel 2016 dell’erogazione dei fondi destinati al programma di accoglienza e inserimento degli immigrati, che lasciò Riace in condizioni precarie.

Gli atti giudiziari intrapresi nei confronti del Sindaco Lucano appaiono essere un chiaro tentativo di porre fine ad una esperienza che contrasta chiaramente con le attività dei Governi che si oppongono all’accoglienza e all’inclusione dei rifugiati e mostrano tolleranza in casi di attività fraudolente messe in atto nei centri di accoglienza di tutta Italia e in una Regione dove il crimine organizzato – non di rado – opera impunemente.

Supportare la nomina del Comune di Riace per il Nobel della pace è un atto di impegno civile e un orizzonte di convivenza per la stessa Europa.

Per aderire alla campagna a nome di un’organizzazione clicca qui

Per aderire alla campagna a titolo personale clicca qui

Grazie!

Il Comitato promotore:
Rete dei Comuni Solidali; Left; Municipio VIII Roma; Comunità di base San Paolo; ARCI Roma; ARCI nazionale; Comuni Virtuosi; CISDA, Noi siamo Chiesa, ISDE, Festival “Roma incontra il mondo” 2019

Leggi anche CANDIDIAMO MIMMO LUCANO AL NOBEL PER LA PACE  un articolo di David Armando e Natascia Di Vito

Nel video Mimmo Lucano, Amedeo Ciaccheri, Simona Maggiorelli e Mimmo Rizzuti

Per approfondire, Left del 14 dicembre 2018


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Più affettività

20040813 - ROMA - CRO - CARCERI: NONOSTANTE INDULTINO ISTITUTI SOVRAFFOLLATI. Una immagine di archivio mostra la cella di un penitenziario italiano. Sono sempre troppi i detenuti nelle carceri italiane, nonostante la legge sull' indultino - approvata lo scorso anno - ne abbia fatti uscire circa 5.500. Le cifre sul sovraffollamento carcerario dicono che l' 87,7% del totale dei reclusi, vive ''in condizioni non regolari''. In pratica su 56.440 carcerati (uomini e donne), in 49.520 soffrono per mancanza di spazio. Semplificando: ogni tre posti disponibili sulla carta, ci sono quattro detenuti. Questi dati - aggiornati allo scorso 30 giugno - sono contenuti nel dossier sugli istituti penitenziari presentato stamani dai radicali ed elaborato in base ai numeri forniti dal Ministero della Giustizia. ARCHIVIO - ANSA - KRZ

Fino a ieri siamo a 63 suicidi nelle carceri italiane. Per favore, niente gare con i suicidi degli altri, anche se vanno di moda, dai, no. 63 suicidi in carcere non si vedevano dal 2011: sono stati 53 nell’anno scorso, 45 nel 2016 e 43 nel 2015. Se è vero come scriveva Fëdor Dostoevskij che “il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni” allora forse sarebbe il caso di aprire una riflessione sul fatto che in carcere si suicida una persona ogni 950 mentre tra le persone libere siamo a 6 ogni 100mila. Diciannove volte di più.

“Più cresce il numero dei detenuti – dichiara Patrizio Gonnella, presidente di Antigone – più alto è il rischio che essi siano resi anonimi. L’alto numero delle persone recluse aumenta il rischio che nessuno si accorga della loro disperazione, visto che lo staff penitenziario non cresce di pari passo, anzi. I suicidi non si prevengono attraverso pratiche penitenziarie (celle disadorne o controlli estenuanti) che alimentano disperazione e conflitti. Né si prevengono prendendosela con il capro espiatorio di turno (di solito un poliziotto accusato di non sorvegliare il detenuto in modo asfissiante). Va prevenuta la voglia di suicidarsi più che il suicidio in senso materiale”. L’associazione Antigone da sempre si occupa degli ultimi, per di più colpevoli. Pensate come siano poco di moda gli ultimi e colpevoli di questi tempi.

Quelli di Antigone però oltre a certificare i numeri si occupano da sempre anche di trovare soluzioni e tra le soluzioni alla disperazione hanno il coraggio di pronunciare una parola che in quest’epoca ha il profumo della rivoluzione: “affettività”. Sembra incredibile, vero, avere il coraggio di esprimere un concetto del genere?

Per questo Antigone ha presentato ai componenti della Commissione Giustizia della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica una proposta di legge che punta a rafforzare il sistema delle relazioni affettive, ad aumentate le telefonate, a porre dei limiti di tempo ai detenuti posti in isolamento.

Ci vuole coraggio a spiegare che chi viene trattato da bestia inevitabilmente reagirà da bestia, soprattutto oggi in cui la vendetta è vista come migliore e più veloce soddisfazione. Eppure devo ammettere che mi ha acceso un sorriso sapere che, come l’associazione Antigone, ci sia ancora tanta gente che prova a invertire i fattori del pensiero comune. Perché poi, pensateci, la ricetta torna utile mica solo per i carcerati ma anche per i moltissimi liberi che sono schiavi delle proprie situazioni e delle proprie condizioni.

È un manifesto sociale, questa proposta di legge.

Buon venerdì.

Il lavoro di cittadinanza: una proposta per attuare i principi sanciti dalla Costituzione

Giovani in cerca di lavoro a Torino in un'immagine del 5 marzo 2010, durante l'ottava edizione di "Iolavoro", una manifestazione promossa da Provincia di Torino e Regione Piemonte. Il tasso di disoccupazione giovanile (15-24 anni) a dicembre è salito al 29% dal 28,9% di novembre, segnando così un nuovo record, si tratta, infatti, del livello più alto dall'inizio delle serie storiche mensili, ovvero dal gennaio del 2004. Lo comunica l'Istat in base a dati destagionalizzati e a stime provvisorie. ANSA / TONINO DI MARCO

Il lavoro come diritto costituzionale che lo Stato deve garantire. È questo il tema al centro di un colloquio tra Leila El Houssi, docente di Storia dei Paesi islamici all’università di Padova e copresidente del Forum Italo Tunisino, e Pietro Adami dei Giuristi democratici.

Pietro Adami, hai realizzato una proposta molto interessante che media le istanze tra reddito e lavoro. Ce ne vuoi parlare?
Il diritto al lavoro è previsto dall’art. 4 della Costituzione. L’interpretazione tradizionale di questo diritto afferma che lo Stato deve limitarsi a favorire condizioni economiche generali che possano poi creare, spontaneamente, posti di lavoro. In questo quadro il diritto al lavoro viene considerato un diritto genericamente politico. Lo Stato deve darsi da fare, ma il cittadino non ha uno strumento per pretendere effettivamente il lavoro, tuttalpiù non rivoterà lo stesso partito nell’elezione successiva. Da questo parte la nostra proposta, che vuole fornire una lettura diversa di questo fondamentale principio costituzionale.
Vogliamo configurare il lavoro come diritto pieno ed effettivo. Si tratta di una proposta radicale, con forte valenza simbolica: lavoro per tutte e per tutti. Non come promessa generica, bensì come diritto soggettivo. Chiunque deve potersi presentare e dire: «Io domani voglio lavorare». E lo Stato, per legge, ha l’obbligo di dare un lavoro.

Oggi viviamo in una società complessa. La globalizzazione ha creato una mutazione nel lavoro. Abbiamo un declino dei sistemi produttivi standardizzati e c’è – volenti o nolenti – un sistema più eterogeneo, frammentato e terziarizzato. Le nuove tecnologie, come tu sostieni hanno amplificato un processo di desertificazione crescente, che interessa soprattutto i profili lavorativi meno qualificati.
Se il mercato spontaneamente non è in grado di creare sufficienti posti di lavoro, dev’essere lo Stato a intervenire in modo diretto. La questione a nostro avviso riveste un carattere d’urgenza, dato che è sotto gli occhi di tutti l’enorme disoccupazione che il nostro paese sta vivendo e che sembra ormai assumere una dimensione strutturale.
Non scopriamo nulla di nuovo. Il progresso tecnologico, inarrestabile, macina continuamente posti di lavoro, soprattutto nelle attività meno qualificate. A parità di produzione, servono sempre meno lavoratori.

Mi ha colpito quando tu affermi che, ad esempio, sino a pochi anni fa, tutti gli studi legali, anche quelli più piccoli, avevano una segreteria. Oggi, con pc, e-mail, Pec e processo telematico solo gli studi più grandi, di fatto, hanno il supporto di una segreteria (e comunque ne hanno ridotto il numero rispetto a quindici anni fa). In Italia il settore degli studi legali, e professionali in genere, ha espulso del lavoro non meno di 50.000 figure professionali, che non sono state rimpiazzate in nessun modo.

È solo uno tra i molteplici esempi che ciascuno può riportare al proprio campo. Qualche tempo fa, ad esempio, mi sono trovato ad effettuare una pratica con il Comune di Roma interamente on line ed automatizzata. Fino a poco tempo fa mi sarei dovuto mettere in fila agli uffici. Se ne possono trarre molte suggestioni. Il punto di vista nostro è : “si è perso un posto di lavoro?” .

A tuo avviso quale potrebbe essere la modalità per sciogliere questo nodo e per risolvere la situazione ?

In primo luogo dobbiamo confutare la tesi finora dominante. Quella per cui il sistema genererà nuove utilità tali da assorbire tutti i disoccupati ed è sufficiente agire sulla leva dei costi del lavoro.
In primo luogo dobbiamo capire che oggi il costo del lavoro incide ben poco sugli utili. Google o Amazon non hanno alcun problema a pagare bene quei pochi lavoratori che impiegano, stanti gli enormi margini di utile. Da questo ricaviamo che anche le analisi dei liberisti, che vantano una presunta modernità, sono ferme all’ottocento. Infatti, in questo quadro, la riduzione di un punto dei costi del lavoro produce un effetto irrisorio.
Ma più in generale si deve comprendere che la via d’uscita dalla crisi non può essere quella di un aumento indiscriminato della produzione di beni. Se la produttività del lavoro aumenta di dieci volte, per compensare i posti di lavoro io dovrei aumentare di dieci volte la produzione. È impensabile per diverse ragioni. Il sistema non è in grado di assorbirli, l’ambiente naturale non lo sopporterebbe.
Il liberismo funziona discretamente bene nella prima fase, di soddisfazione di alcuni bisogni materiali primari. Poi tende ad iper soddisfare sempre i medesimi bisogni. È un discorso che porterebbe lontano. Ciò che conta è che non puoi moltiplicare per 10 la produzione di hamburger per assorbire l’impatto delle nuove tecnologie.
Quindi l’iper-produzione di beni privati ad alto consumo ambientale deve essere sostituita dalla produzione di beni sociali compensativi.

Tu sostieni che debba essere lo Stato ad intervenire in modo diretto.

In questa situazione il lavoro cessa di essere solo un mezzo per produrre altri beni sociali, ma diventa esso stesso un bene sociale che deve essere prodotto dalla collettività.
Abbiamo detto che il sistema, senza intervento pubblico, non produce spontaneamente sufficiente lavoro per tutti. Dunque, il lavoro è un servizio pubblico, al pari della salute e dell’istruzione.
Qualifichiamo l’istruzione come servizio pubblico universale, nel senso che ogni cittadino ha diritto all’istruzione. Creiamo dei luoghi che offrano istruzione, e la società ne potrà trarre un beneficio, non solo perché i ragazzi sono impegnati durante una parte della giornata, ma come crescita della collettività ed investimento per il futuro.
Anche il lavoro deve essere un servizio pubblico. È questo il cambio di prospettiva. Garantire ai cittadini il benessere attraverso la possibilità di esplicare le loro potenzialità attraverso attività di contribuzione al bene pubblico.

Nella tua proposta sostieni, il lavoro è un modo fondamentale di esplicazione della personalità. Il lavoro è il contributo dell’individuo alla costruzione della società in cui vive. Citi Hegel nella sua affermazione «L’uomo è l’essere che nel costruire il mondo costruisce se stesso».

È un tema di grande importanza. Sul punto ci siamo confrontati con non solo con gli economisti, ma anche e soprattutto con psicologi e sociologi. C’è un nodo di grande pedagogia sociale. Tutti devono contribuire alla costruzione del bene collettivo. Ciascuno, rispetto alle proprie possibilità, evidentemente.
A questo proposito vorrei condividere una mia esperienza personale. Ho lavorato per molti anni con i non vedenti ed ho ancora moltissimi amici e amiche tra di loro. È ovvio che serva un aiuto sociale per compensare la loro disabilità. Ad esempio i buoni-taxi sono doverosi per chi non può guidare. Nel contempo i miei amici e le mie amiche sono perfettamente in grado di dare il loro contributo e di aiutare gli altri.
Con questa mia esperienza personale, voglio dimostrare quanto sia profondamente discriminatorio qualificare un soggetto come mero soggetto bisognoso. Pensiamo anche alle donne che durante la gravidanza necessitano di aiuto, ma questo non ci autorizza a bollarle come inabili a dare un contributo alla società.
Credo che sia giunto il momento di dare un messaggio completamente diverso. Tutti devono fornire il proprio contributo per uscire dalla sacca in cui siamo precipitati. Non possiamo trasformarci in uccellini che pigolano nel nido in attesa che la mamma gli porti il vermetto da mangiare. I beni comuni di cui godiamo sono solo la somma di tutto quello che noi generiamo con il nostro lavoro sociale. Se conferiamo poco, e aspettiamo sempre che siano altri a dare, subiamo quella tristezza sociale cui assistiamo. Non è solo povertà economica, è la crisi del vivere collettivo.

Siamo completamente d’accordo su questo punto. Tuttavia anche se nel lavoro l’individuo cresce, si forma non credi che oggi ci sia una narrazione che spinga sempre di più i cittadini di uno Stato in un altro senso?

La questione che poni è quella che spesso divide. Dare un lavoro o un reddito? Ma noi, Cesare Antetomaso, Domenico Gallo ed io, proponiamo una mediazione. Reddito e formazione subito, e poi lavoro.

In concreto come funzionerebbe?

Il lavoro di cittadinanza è un lavoro di almeno 5/6 ore al giorno, ben pagato, e con importi non inferiori a quelli da CCNL. Nel momento in cui il lavoratore fa richiesta viene indirizzato a un lavoro, sulla base di aspirazioni, competenze e necessità. Le competenze possono essere acquisite anche nel percorso formativo che egli stesso sceglie. Questo significa che occorrerà tenere conto delle inclinazioni di ciascuno.
Facciamo degli esempi concreti per comprendere meglio. Il violinista suonerà nella stanza del museo, gli attori formeranno una compagnia teatrale che girerà per le scuole per far conoscere la tragedia greca e latina. Altri terranno aperte le scuole dopo l’ora di pranzo, permettendo agli studenti di fermarsi a studiare e ad altri lavoratori di dare delle ripetizioni. Il nodo essenziale deve, però, essere: le prestazioni di lavoro non devono sostituire lavori o servizi esistenti, ma creare una nuova utilità sociale, che prima non esisteva. Un’utilità che andrà a beneficio dei cittadini, ma che favorirà anche il sistema produttivo. In modo partecipato e, per quanto possibile, autogestito, s‘individuano bisogni sociali ed ambientali irrisolti, in cui impiegare le proprie energie lavorative. Un esempio potrebbe essere quello di proporre di tenere aperto un bene culturale, o ambientale, fino a quel momento non fruibile.

Ma non dimentichiamo la ricerca speculativa, la produzione artistica, musicale e culturale in genere. Non credi tuttavia che dovremmo ragionare in termini di Europa? Piketty ha lanciato qualche giorno fa un manifesto “Per la democratizzazione dell’Europa”  in cui afferma che «L’Europa debba costruire un modello originale per garantire uno sviluppo sociale equo e duraturo dei propri cittadini. L’unico modo per convincerli è quello di abbandonare promesse vaghe e teoriche. Se l’Europa vuole riconquistare la solidarietà dei propri cittadini, potrà farlo solo dimostrando concretamente di essere in grado di stabilire una cooperazione tra europei e facendo in modo che coloro che hanno tratto vantaggio dalla globalizzazione contribuiscano al finanziamento dei beni pubblici che oggi in Europa sono gravemente carenti. Ciò significa far sì che le grandi imprese contribuiscano in misura maggiore delle piccole e medie imprese e che i contribuenti più abbienti paghino in misura maggiore dei contribuenti più poveri».

Concordo completamente. Solo un soggetto politico sufficientemente consistente potrà far pagare seriamente le tasse alle nuove imprese del mercato globale come Google, Amazon, Air B&B etc. Per costruire una società diversa, abbiamo bisogno di una dimensione compatibile con una politica economica autonoma.
Un microstato non è in grado di creare un mondo economico regolato da precetti alternativi. Poteva farlo quando la ricchezza era prodotta essenzialmente dall’agricoltura o dall’industria a bassa componente tecnologica. San Marino può dichiarare il socialismo quanto vuole, ma il software lo dovrà sempre comprare negli Usa. E dunque cosa avrà socializzato? Un bel nulla. L’unico modo per pensare di fronteggiare il mercato mondiale è un agglomerato, e mercato interno, consistente, che possa stabilire le regole a chi vuole entrarvi.

Piketty continua sostenendo che la sua proposta si basa sulla creazione di un budget per la democratizzazione discusso e votato da un’assemblea europea sovrana e in tal modo questo consentirebbe all’Europa di produrre un insieme di servizi e di beni pubblici e sociali fondamentali nel quadro di un’economia duratura e solidale. Cosa ne pensi?
La nostra proposta è lavorare su una cittadinanza sociale europea. Noi puntiamo al riconoscimento ai singoli cittadini europei, che non passi attraverso la mediazione degli Stati. Noi sosteniamo che la stessa Unione sia diretta responsabile dei diritti fondamentali (reddito, lavoro, salute, casa etc.). Garantire i livelli sanitari è, infatti, il problema centrale europeo. Non è sufficiente che l’Europa consenta al corpo intermedio ‘Italia’ di fare più debito. Il bilancio comunitario deve pagare i servizi sociali europei, garantendo a tutti i cittadini europei livelli uniformi.
Ecco cos’è l’eterogenesi dei fini: che l’unificazione del mercato sia invece crescita dei diritti soggettivi e sociali, con un’Europa pienamente democratica in grado di varare un suo grande piano sociale ed economico in un’ottica differente da quella attuale.

L’esorcismo di fine anno

Lo scandalo della pedofilia che la Chiesa continua a giudicare un peccato, un delitto contro la morale e non un crimine dei più efferati, quale è. Le chiese vuote. Il meccanismo dell’8 per mille tutto in favore della Conferenza episcopale italiana, che anche la Corte dei Conti stigmatizza ( come scrive la segretaria Uaar Adele Orioli in questo numero di Left).

La questione irrisolta dell’Ici sugli immobili ecclesiastici. Non sono pochi i problemi che la Chiesa dovrebbe affrontare al suo interno. E poi c’è il più grosso dei guai per Oltretevere: la società – perfino quella italiana – si va sempre più rapidamente secolarizzando. Di fronte a questa enorme débâcle, per coprire l’inesorabile declino papa Francesco chiama in causa il diavolo, seguito da una pletora politici genuflessi, tra cui spicca l’esimio capo di gabinetto del ministero della Famiglia, Cristiano Ceresani, che passerà alla storia per aver detto che è di Satana la colpa del cambiamento climatico. Sul diavolo punta il Vaticano. E punta su un esercito di esorcisti pronti a intervenire, con tanto di licenza riconosciuta da Bergoglio, come raccontano Provera e Tulli nella loro inchiesta e nel loro libro edito da Chiarelettere Giustizia divina. Nel nuovo millennio è una autentica pazzia che si continui a invocare il demonio come il principe di questa terra.

Nel 2018 come si spiega che questo tipo di visione medievale, anti storica, anti umanista, antiscientifica possa ancora sopravvivere? Il matematico Piergiorgio Odifreddi offre un suggerimento più che sensato: la causa è il massiccio indottrinamento dei bambini a scuola. La dottrina è sempre quella e, tanto per stare sul tema del diavolo, ancora il Catechismo della Chiesa cattolica del 1992 metteva in guardia dagli attacchi del maligno.

Per fortuna, come documentano studi come Piccoli atei crescono (Il Mulino) di Franco Garelli, sono sempre meno i giovani che ci cascano. Non altrettanto si può dire dei politici italiani che siedono in Parlamento. Per fede o per convenienza, poco cambia. Tanto che si fa sempre più folto l’intergruppo parlamentare in difesa della vita e della famiglia: annovera la senatrice Paola Binetti dell’Opus Dei al pari di Quagliariello che in Aula urlava “assassini” alla volta di chi aveva sostenuto la volontà di Eluana Englaro, che prima del tragico incidente aveva detto di non voler sopravvivere attaccata alle macchine, qualora fosse caduta in stato vegetativo permanente, come era accaduto a un suo amico.

Furono politici cattolici di destra e di sinistra a imporre anche l’antiscientifica e crudele Legge 40 che all’articolo 1 difende i diritti dell’embrione, più che quelli della madre e che, nella prima versione, obbligava le donne a farsi impiantare tutti e tre gli embrioni ottenuti con tecniche in vitro, anche se malati. Cambiano i governi, cambiano le maggioranze, ma i crociati Pro Vita cascano sempre in piedi, ottenendo ampio ascolto dal Parlamento italiano. Così il ministro della Famiglia Fontana, con il sodale senatore Pillon, attacca la Legge 194, vorrebbe impedire alle donne di abortire (pagando) e fa programmi perché le italiane tornino in massa a fare figli.

Il governo giallonero tratta le donne come figurine da presepio, obbedienti nel farsi fecondare dallo spirito santo. Che le donne debbano prendere a modello Maria, del resto, non è solo una fissa delle destre.

In questo si è distinto anche il filosofo Massimo Cacciari, osannando Maria «che accoglie nel suo ventre il figlio di Dio e il suo Logos», osannando «il suo donarsi all’ascolto del volere di Dio come iperlibertà». Misoginia e razzismo innervano i discorsi e le proposte politiche dei cattolici in politica, da Salvini a Pillon, da Cacciari a Binetti.

Superati a destra solo dai suprematisti bianchi americani vicini a Dave Dukes che vuole far rinascere il Ku Klux Klan. Il fondamentalista cristiano Steve Bannon è un loro sodale. E a lui si ispirano politici nostrani come Meloni e Salvini. Impugnando il Vangelo e il rosario difendono la purezza della razza, fantasticando un delirante piano di sostituzione etnica ad opera dei migranti. Un problema che riguarda “solo” la destra fondamentalista? Come abbiamo scritto in altre occasioni non crediamo alla favola della Chiesa buona contrapposta a quella cattiva. Una sola è la dottrina, uno solo è il dogma.

Nel 2014 Bergoglio durante un’udienza in Santa Marta ha detto che un bambino battezzato non è uguale a uno non battezzato. Chi non è stato battezzato per il papa non ha la stessa dignità di appartenenza alla comunità. Noi rifiutiamo questa discriminazione, rifiutiamo l’idea che sia un rito iniziatico a dare identità a un neonato.

L’editoriale di Simona Maggiorelli è tratto da Left in edicola dal 21 dicembre 2018


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Tutta colpa di Satana

Pope Francis incenses a statue of the Virgin Mary with baby Jesus as he arrives to celebrate mass at Rome's Verano cemetery, on the occasion of All Saints Day festivity, 01 November 2015. ANSA/ANGELO CARCONI

«C’è Satana dietro il riscaldamento globale». Quella che potrebbe sembrare una battuta con tanto di allusione alle fiamme dell’inferno creato dalla fantasia dantesca è in realtà la concreta convinzione di Cristiano Ceresani, il capo di gabinetto del ministro per la Famiglia, il leghista Lorenzo Fontana. Una convinzione granitica esplicitata in diretta Tv su RaiUno alcuni giorni fa da Ceresani per promuovere il suo nuovo libro nel quale, dice, «cerco di spiegare come Satana, negli ultimi tempi che precedono la Parusia (la venuta di Gesù sulla Terra per la fine dei tempi), sarà scagliato sulla Terra con grande furore, sapendo che gli resta poco tempo proprio per prendere di mira il creato e la creazione, è un dato teologico».

Quanto al dato meteorologico, secondo Ceresani, il climate change sarebbe la prova che qualcosa di mai accaduto prima stia per accadere: «Ovviamente è colpa dell’uomo, della sua incuria, ingordigia e avarizia se abbiamo calpestato questo pianeta. Ma nell’uomo agiscono forze trascendenti, nel cuore dell’uomo agisce la tentazione». La tentazione. Sicché, gratta gratta, essendovi dietro il plagio di Satana, il cambiamento climatico non è colpa degli uomini. Un bel guaio. Come possiamo difenderci?

Nei giorni a seguire, l’esternazione di questo signore ha ricevuto le dovute attenzioni dei social finendo sommersa da una valanga di esilaranti parodie. Vanno però fatte due considerazioni serie. La prima è che Ceresani non è un cittadino qualunque ma un uomo delle istituzioni, presente in ben due governi: quello attuale, appunto, e quello precedente nel quale è stato capo dell’ufficio legislativo del sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Maria Elena Boschi. La seconda è che il suo non è un caso isolato. Non sono pochi gli italiani che nel Terzo millennio credono nell’esistenza del diavolo e gli attribuiscono le responsabilità più disparate. Prova ne è il ricorso agli esorcisti che, contrariamente a quello che molti sono portati a pensare, non…

*

Il redattore di Left Federico Tulli ed Emanuela Provera sono gli autori del libro Giustizia divina (Chiarelettere), un’inchiesta sulla pedofilia nel clero che si chiude con un reportage sul mondo dell’esorcismo in Italia

 

L’inchiesta di Emanuela Provera e Federico Tulli prosegue su Left del 21 dicembre 2018


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Pronti al decollo, F35

“Il programma F35 (i cacciabombardieri) è un programma fallimentare. Chi ci ha fatto entrare in questo programma dovrebbe essere preso a calci in culo” (Alessandro Di Battista, M5s, 8 agosto 2017).

“Riteniamo il programma degli F35 inutile e costoso” (Tatiana Basilio, deputata M5s, 11 maggio 2017).

“Si chiudano subito i contratti per gli F35 in essere e si provveda ad individuare una exit strategy che accompagni il nostro Paese ad abbandonare definitivamente il piano di sviluppo del programma” (Manlio Di Stefano, deputato M5S, 13 dicembre 2016).

“Non hanno il coraggio di impedire lo spreco di miliardi di euro per degli aerei da guerra difettosi. Temono il dibattito in Parlamento. Hanno persino paura di mostrare il loro sostegno al programma F35 in pubblico. Il governo di Capitan Findus Letta non ha neppure le palle di assumersi responsabilità davanti ai cittadini” (Beppe Grillo, 15 luglio 2013).

Sono solo alcune delle dichiarazioni, tra le tante, del Movimento 5 stelle sull’acquisto dei famosi aerei da guerra F35, quelli che per mesi sono stati al centro del dibattito politico (tra i molti che ritengono la spesa per gli armamenti tutt’altro che una priorità e chi invece sostiene da sempre la necessità di un esercito fieramente attrezzato): la posizione del Movimento 5 stelle è sempre stata netta, per anni ci hanno detto che (anche) i cacciabombardieri erano simbolo dello spreco e della cattiva amministrazione del denaro pubblico, i nostri soldi, come dicono loro. Sia chiaro: anche chi scrive trova dissennato spendere così tanto in un Paese che avrebbe bisogno di ben altri investimenti.

Bene. Ieri il sottosegretario alla Difesa Angelo Tofalo, esponente di punta del Movimento 5 stelle, ha detto tutt’altro: «Colgo l’occasione per spiegare che da tanti anni noi abbiamo parlato di questi F35 spesso in maniera distorta, spesso bisogna realmente conoscere e valutare le informazioni», ha detto Tofalo, aggiungendo che «il programma F35 ormai è avanti, c’è da oltre venti anni, a differenza di quanto spesso qualcuno ha detto è un aereo che ha un’ottima tecnologia, forse la migliore al mondo in questo momento. Ed è normale che dobbiamo fare un po’ di calcoli, sia per quanto riguarda la tasca, ossia dal punto di vista economico, sia per quanto riguarda la tecnologia. Ma resta ovvio che non possiamo rinunciare a una grande capacità aerea per la nostra Aeronautica che ancora oggi ci mette avanti rispetto a tanti altri Paesi».

Ma il punto del suo discorso è tutto in una frase: «Spesso bisogna realmente conoscere e valutare le informazioni».

Che poi significherebbe l’unico modo per fare lealmente politica, se ci pensate.

Buon giovedì.

When the project is a collective work

Among architects working in the experimental field, pro bono projects (for the public good) are spreading, carried out free-of-charge or in any case at a sustainable cost. This professional practice has been very popular for some time and generates great visibility for those involved. Perhaps for this reason too, international firms are also taking part, such as the British firm Foster + Partners, which is working in collaboration with a charity in Manhattan. Pro bono design, above all in the last ten years, has silently influenced the architectural process to the point that many new professional firms have arisen that openly declare their humanitarian and artistic approach, freed from the speculative logic of large urban works. Following this trend, it can certainly be said that the design process has been transformed at global level. The pro bono practice, better known as solidarity or humanitarian architecture, refers to international projects organized by non-profit organizations or private organizations working in the social sector in marginalized areas of the world and in areas where migrants congregate during humanitarian crises. The precursors of this type of architecture in the context of the Modern Movement are research on housing and social housing through the work of Alvaro Siza Vieira and the activism of Oscar Niemeyer, with his key statement «architecture can have a political function precisely because it takes care of man and his way of life».
The projects that compete in international competitions cover various topics: migrant reception camps, creative installations in city parks, emergency camps for disasters, and so on. Africa is one of the places where this type of project is more common or in demand, for practical reasons too due to the lack of technological support. After China and India, the African continent is still the site of many international projects by architects who conduct field research, even coming up against very complex realities. The term “Bantu architecture” is often mentioned. This word occurs in the languages ​​spoken in many African countries: “bantu” is the plural of Ntu (person) and means people. The common-ground of this type of design is the idea that architecture is imagined and then built for human beings, and this is why it merits artistic and not only environmental and functional sustainability. As Massimo Fagioli stated in one of his lectures at the University of Chieti (28 April 2007), «architects must have a relationship with reality, in particular human as well as environmental».


Photos by Francesca Serri

Among the best-known examples of architecture for the public good are the Cultural Center for Artists designed by Toshiko Mori in Senegal, the Women’s Opportunity Center by Sharon Davis Design and the Butaro Hospital of the Mass Design Group, both in Rwanda, the works by Kèrè Architecture (v.Left of 2 February 2018), and the Maidant Tent, a covered square in the Ritsona refugee camp designed by two Italian architects, Bonaventura Visconti di Modrone and Leo Bettini Oberkalmsteinere.
Pro bono design allows a type of innovative experimentation involving the materials mankind has used throughout history, since the construction of the first residential areas or other artifacts in the history of architecture, art and technology. The materials are reused in a new way and their technological performances must comply with principles of safety, the functionality of the spaces, the lighting installation, the sanitary treatment and the constructive stability. Moreover, beyond the value of the technical and artistic elements, the community aspect of this type of architecture is also interesting: in fact, part of the workforce is made up of future users of the space itself who then provide their individual contribution to the construction of the project.
In solidarity projects local workers, as experts in some ancient workmanship techniques, play a decisive role in the construction phase which is generally based on the algorithmic design of auxiliary software for the design of contemporary architecture. Projects are ecologically sustainable and local materials are used in spaces conceived for schools, hospitals, recreational areas and cultural centres, most of which have a public function. The beauty and design of the lines are expressed by means of perforated curtains, screens designed using plastic materials and natural colours that contrast with the rigid lines of the main structures, and in a dynamic relationship with the light. Often, where bamboo is used, there are some taut and light curves that visually separate the architectural boxes from the ground. While in new constructions made of raw bricks, the material value prevails over the drawn lines. Particular attention is paid to tree species and landscape architecture in relation to the built forms. The works are generally permanent, may concern temporary installations and in any case require periodic maintenance like the original ethnic architectures of history. The formal design varies depending on the use of the materials and the creativity of the designers, and often the most poetic effects relate to the light.
Our pro bono design experience “Ikubayeni” fits into the architecture built in the territories that belonged to the “bantu” civilization (q04architecture in collaboration with Sneha Banerjee – Designer, India). This project was started a few years ago in the northwest of Cameroon in the rural village of Ndu in the district of Donga-Mantung which borders the Nigerian mountains. So far the project has involved the renovation of a hotel as well as reception and meeting areas for the local community.
The landscape of the “Ikubayeni” project is characterized by the presence of corn and green tea plantations, the main source of work for the inhabitants. The housing types are boxes with a reinforced concrete structure infilled with raw bricks and aluminum roofs, a sort of hybrid between the tribal hut, Germanic raw-brick colonial housing and modern constructions. Dark red earth and black and grey basalts are the colours that dominate among the intense green of the vegetation.
The design of a recreational space for the local population and visitors required special adaptation to the means available. In terms of sustainability, the materials used are those typical of the tribal architecture in the region belonging to the Cameroonian savannah known as the Grassland (Hauts plateaux de l’Ouest), which has been inhabited since the Neolithic. In particular, we applied the ancient techniques of bamboo and wood processing, the artisan weaving of bamboo fibre used in the roofs of barns and the structures necessary for daily life in the popular markets set up in the mountains bordering Nigeria. The local materials were worked in part without the use of electricity, using simple hand-made tools with the collaboration of the locals. The landscape project required an analysis of the tree species, in particular for the local bamboo with the grey-coloured stem which grows spontaneously. Precisely for the cultivation, processing and exportation of local bamboo species, China, in agreement with the Cameroonian government, provides aid in the training of personnel. This brings us to the important business relations between Beijing and Cameroon, as well as other African states. The hope is that, given the turnaround of the Chinese government regarding the use of alternative energy and the reconstruction of the landscape and urban green areas at territorial scale, as for solidarity projects, the idea is to ​​use the local resources in a sustainable way respecting a vital ecosystem for the planet. In other words, architecture for human beings.

La versione in italiano dell’articolo di Francesca Serri è stata pubblicata su Left del 12 ottobre 2018


SOMMARIO ACQUISTA

Al via la demolizione del ponte Morandi, su Genova il rischio amianto. E riparte il terzo valico

Per Genova sarà «un anno da costruttori». Quella che per alcuni è una promessa – ma per molti altri suona come una minaccia – è annunciata da Giovanni Toti, governatore della Liguria per conto del centrodestra, in occasione della firma per il quinto lotto del Terzo Valico, la Tav tra Milano e la Superba, e dell’aggiudicazione dell’appalto per la ricostruzione del Ponte Morandi.

Chi ricostruirà il ponte L’appalto di tutte le opere di costruzione del viadotto Polcevera è stato aggiudicato a Salini-Impregilo Spa, Fincantieri Spa e Italferr Spa «per un corrispettivo a corpo tutto compreso e nulla escluso, fisso e immutabile, pari ad euro 202 milioni di euro al netto dell’Iva». «Abbiamo chiesto all’architetto Renzo Piano di sovraintendere al progetto, per garantire l’aderenza all’idea originale e la qualità di realizzazione della stessa. L’architetto Piano ha accettato l’incarico in forma di donazione alla città di Genova», annuncia il sindaco e commissario straordinario a Genova dopo il crollo del Ponte Morandi. «Un’altra ottima notizia», secondo Bucci è la lettera dall’azienda Cimolai e dall’architetto Calatrava «che si sono messi a disposizione della struttura commissariale per aiutare nel caso ce ne fosse bisogno e hanno detto a noi che considerano un onore partecipare al progetto». In altre parole Cimolai, uno dei competitor in corsa per l’appalto, non avrebbe intenzione di opporsi al progetto che è stato scelto senza gara in base a un’interpretazione della direttiva Ue sugli appalti. Si conclude così l’iter avviato a metà di novembre con la conversione in legge del controverso Decreto Genova (L. 130/2018): è stato affidato l’appalto dei lavori per la ricostruzione del viadotto Polcevera sulla base delle specifiche tecniche approvate dal Commissario Marco Bucci il 15 novembre 2018 (Decreto numero 5). Le aziende si sono impegnate a rispettare un crono-programma, che prevede il completamento strutturale dell’opera entro la fine del 2019. «Non abbiamo fatto nessuna gara e nessun confronto, perché si sceglie senza far confronti – ha spiegato Bucci – nel decreto sono previste alcune valutazioni che abbiamo fatto: qualità, manutenzione, estetica, costi, tempi di realizzazione e facilità di realizzazione e rischi». A chi chiedeva se esista una differenza tra l’idea iniziale di ricostruzione dell’architetto Renzo Piano e quella contenuta nel progetto selezionato e ufficializzato oggi, Bucci ha risposto: «L’idea progettuale è la stessa, i dettagli del progetto saranno esaminati dalla parte tecnica e l’architetto Piano guiderà anche questo tipo di valutazioni».

Rischio amianto nella demolizione Il decreto commissariale n.19 arriva all’indomani del via libera alla demolizione dei monconi della parte ovest del viadotto Morandi, il ponte crollato lo scorso 14 agosto inghiottendo la vita di 43 persone. Sarà una demolizione «controllata», con i periti della procura che valuteranno quali reperti custodire e quali invece smaltire. «Dieci giorni, due settimane per veder calare le prime parti – ha annunciato il sindaco e commissario straordinario Bucci – molto dipenderà dalla situazione meteo, saranno i direttori dei lavori a gestire tutto. Tutti stiamo collaborando per dare un ponte alla città e darglielo in fretta». La decisione è arrivata dopo l’udienza del 17 dicembre dell’incidente probatorio davanti al giudice per le indagini preliminari, a cui hanno partecipato i periti della procura e i consulenti dei 21 indagati e delle persone offese. Ma per Legambiente e Ona, Osservatorio nazionale amianto, «quindicimila tonnellate di puro veleno. Una montagna di asbesto nascosto nelle case da abbattere», potrebbero riversarsi sulla città ferita dal crollo. Si tratta di amianto friabile nelle coibentazioni delle tubazioni delle cantine, camini e serbatoi d’acqua rivestiti di eternit, come riscontrato dai tecnici ai quali è stata assegnata la procedura del piano di demolizione del ponte Morandi a Genova. Oppure nelle tubazioni dell’impianto di riscaldamento e delle guarnizioni centrali termiche, tutte coibentate con amianto friabile. Si tratta di edifici costruiti negli anni ’60 quando i materiali cementizi erano quasi sempre di eternit. «E’ assolutamente necessario confinare gli abbattimenti, per evitare che la nube tossica invada la città. Le fibre di amianto causerebbero mesoteliomi e cancro al polmone ed altre patologie dell’amianto. Le macerie, confinate, vanno poi irrorare con liquidi aggregati per diminuire il rischio di aerodispersione delle fibre di amianto», spiega il presidente di Ona, Ezio Bonanni, un avvocato che dalla fine degli anni ’90 si occupa di tutela degli interessi delle vittime amianto.

Il solito voltafaccia a cinque stelle «Il rischio amianto c’è soprattutto se verranno fatte saltare le case – spiega a Left Andrea Agostini, presidente del circolo Nuova Ecologia di Legambiente – non ne sappiamo granché perché non esiste trasparenza. E’ necessario che le aree che saranno cantierate siano messe in opera in tutela delle abitazioni circostanti e senza le abituali deroghe a danno della salute e dei residenti come nel caso della strada a mare e degli attuali cantieri presenti in valle». Agostini era, domenica scorsa nella piccola folla che ha dato vita a un presidio No Tav proprio nel quartiere di Certosa, a poche decine di metri dalla zona rossa a contestare per l’ennesimo voltafaccia dei cinque stelle di governo su una questione ambientale cruciale come l’alta velocità e che ha registrato finora lo scontento esplicito dei grillini di Novi Ligure e il silenzio assordante di quelli genovesi. «Peccato che in campagna elettorale il Movimento 5 Stelle definisse l’opera inutile e dannosa per la salute dei cittadini – ricorda il comitato No Tav III Valico – oggi tutto questo non vale più. Poco importa la presenza di amianto, poco importa la corruzione e gli arresti dei vertici del Cociv, poco importano le infiltrazioni della criminalità organizzata, nessuna importanza viene data alla distruzione delle sorgenti e delle falde acquifere. Tutto questo oggi scompare nel nome dei posti di potere e di un Governo insieme alla Lega. La verità è che dopo Ilva, Tap e Muos, il Movimento 5 Stelle ha deciso di tradire un altro territorio. Ha deciso di pugnalare alla schiena migliaia di persone che avevano riposto in loro fiducia affinché questa grande opera inutile venisse fermata. Il Movimento 5 Stelle è uguale agli altri. E’ parte del sistema che dicevano di voler combattere, è succube degli interessi di Salini Impregilo esattamente come lo era il Partito democratico».

Intanto, la situazione in Val Polcevera è ancora assolutamente disastrosa sul piano della vivibilità della salute, della mobilità. I movimenti e i comitati continuano a chiedere che una parte significativa dei finanziamenti in arrivo a Genova siano utilizzati in Val Polcevera e per sostenere gli affittuari di via Porro ad oggi esclusi dai risarcimenti. Serve tutto: dai marcipiedi sicuri a un pronto soccorso di cui la valle è attualmente priva, dal monitoraggio delle polveri sottili e dello smog alle aree verdi. «Chiediamo la metropolitanizzazione della linea ferroviaria anche in ore notturne, il completamento del nodo ferroviario fermo da anni mentre la grancassa suona solo per il terzo valico e che invece potrebbe restituire centralità al trasporto pubblico che negli ultimi anni ha perso efficienza e alcuni milioni di passeggeri ora chiusi negli ingorghi o come sardine nel bus rimasti», conclude Agostini.

Da parte sua Toti insiste: «Le grandi opere e le infrastrutture sono urgenti e necessarie per lo sviluppo non solo della Liguria. A questo punto è strategico che venga finanziato anche il sesto e ultimo lotto, sbloccato il progetto per il nodo ferroviario di Genova e che si proceda con la Gronda, in modo da dirigersi verso la definitiva rottura dell’isolamento della Liguria».

La guerra delle perizie I problemi restano per i monconi della parte est, dove incombono le pile 10 e 11, rimaste in piedi da questa estate. Il piano della struttura commissariale prevede una demolizione con due tecniche: da un lato lo smontaggio dell’impalcato, dall’altro l’uso dell’esplosivo per gli stralli (i tiranti). Ma proprio quest’ultima tecnica ha visto l’opposizione dei consulenti di Autostrade che puntano a sostenere la tesi per cui il cedimento degli stralli non sarebbe stata «la causa primaria» del crollo. Le analisi effettuate dal laboratorio Empa di Zurigo sui reperti del ponte (su un totale di 3.248 fili sono stati osservati e classificati per classi di resistenza solo 2.383 fili) farebbero dire al coordinatore dei periti di Autostrade per l’Italia e ordinario al Politecnico di Torino, Giuseppe Mancini, che «gli esiti di Zurigo, ancorché provvisori e ad uno stadio intermedio evidenziano la piena tenuta statica del ponte: infatti, interpretando quanto riportato nella nota del laboratorio di Zurigo, con una corrosione media del 50% della totalità della sezione resistente dei fili ci sarebbe ancora un ampio margine di capacità resistente, tale da non poterne causare la rottura». Inoltre, prosegue, «sarebbero stati presenti fenomeni deformativi progressivi, visibili nel tempo da qualsiasi utente autostradale». Il capo dei periti di Aspi sottolinea anche la presenza delle guaine sui cavi. «Un rapporto di monitoraggio di Spea del 2016», la società controllata che si occupa di manutenzione e monitoraggio, «effettuato mediante carotaggi sugli stralli delle Pile 9 e 10, ha evidenziato la presenza delle guaine in tutte le prove diagnostiche effettuate. I reperti di Pila 9 sezionati dopo il crollo hanno dimostrato che la guaina era presente anche nei cavi primari (tranne che, come da progetto di costruzione, nella zona in corrispondenza dell’antenna). È comprovato dunque che le guaine ci fossero e svolgessero regolarmente la funzione di contenimento della matrice cementizia di avvolgimento dei singoli trefoli».

La guerra delle perizie fa slittare così il deposito della super perizia dei tre esperti nominati dal giudice per le indagini preliminari Angela Nutini. Il documento doveva essere presentato il 5 dicembre ma i docenti universitari hanno chiesto una proroga. La prossima udienza è stata fissata per l’8 febbraio, data in cui forse verrà stabilito quando arriverà la perizia. I tempi lunghi hanno sollevato polemiche di alcuni parenti delle vittime, presenti in aula. «Ci sono le feste di Natale e i tempi quindi rallentano», ha detto l’avvocato Mario Fico, legale dei familiari di Gennaro Sarnataro, il camionista di 48 anni originario di Napoli morto per il crollo del viadotto Morandi. «Vergogna, fanno le vacanze di Natale mentre mio marito non c’è più. E poi lo sapevano che quella strada era pericolosa: infatti già la sera la chiudevano, dove erano i controlli?», ha detto Filomena Fico, moglie di Sarnataro. «Ora si deve analizzare tutto e si rinvia di nuovo. Cosa dobbiamo fare – ha detto – arrivare al prossimo 14 agosto?». Polemiche anche sui risarcimenti arrivati da Aspi a quasi la metà di parenti. «Quelli di Autostrade davanti ai media e al popolo italiano cercano di mostrarsi come persone che si assumono le loro responsabilità, ma quelle responsabilità dovevano prendersele prima del 14 agosto», ha detto Manuel Diaz, fratello di Henry Diaz, morto a 30 anni dopo essere precipitato dal ponte Morandi: «Hanno giocato con le vite delle persone, quello che è accaduto è stato un attentato» ha aggiunto.

In Ungheria il populismo non ha più il popolo

epa07237620 Protesters during the rally held against the government in front of the headquarters of the public broadcaster MTVA in Budapest, Hungary, 17 December 2018. The protests are against the Orban government and demanding the revocation of a new labor law. EPA/Balazs Mohai HUNGARY OUT

Ne parlano poco perché si sa, Viktor Orban dovrebbe essere il modello di autorevolezza a cui qualcuno dalle nostre parti aspira, l’uomo che respinge i migranti senza se e senza ma, colui che secondo alcuni assicura l’ordine nonostante “l’ordine” sia solo il sinonimo marcio della perdita della libertà.

Bene: in Ungheria da giorni protestano lavoratori e sindacati per una legge che alza a 400 ore il tetto di straordinari e che spalmano il pagamento delle ore in più in tre comodi anni per il datore di lavoro. Una legge “del più forte” che è un favore a chi, da imprenditore, può tenere sotto scacco i lavoratori con un ritorno agli anni 60 in tema di diritti. Stupisce? No, per niente.

Tra le riforme contestate tra l’altro c’è anche quella che riguarda la giustizia (ma va?) e che affida al governo il controllo su materie come le gare d’appalto pubbliche e i contenziosi elettorali. Sì, avete letto bene, i contenziosi elettorali.

Sotto l’occhio della protesta sono finiti anche i media pubblici, accusati di essere supini alla volontà di Orban e del suo governo. Anche in questo caso stupisce che ci si stupisca: la libertà di stampa da quelle parti è considerata come libertà di scegliere come assoggettarsi al potere. Nient’altro.

Nei giorni scorsi due deputati del partito d’opposizione LMP, Ákos Hadházy e Bernadett Szél, hanno provato ad entrare nella sede della televisione pubblica per leggere un appello e sono stati buttati fuori dall’edificio con la minaccia di una condanna “a 10 anni”.

Il governo che si vanta di avere chiuso le frontiere ha perso dal 2010 (anno di insediamento di Orban) qualcosa come seicento mila ungheresi espatriati all’estero, in particolare i più istruiti. Le aziende ungheresi intanto (tra cui anche quelle italiane che hanno delocalizzato in nome di un sovranismo che non vale evidentemente dal punto di vista fiscale) hanno seri problemi di manodopera: così il populista Orban ha deciso bene di spremere i lavoratori rimasti. Alla grande, direi.

La vicenda però racconta perfettamente un concetto essenziale: Orban è riuscito a erodere i diritti e le libertà finché i suoi ungheresi potevano avere la tranquillità di un reddito e di un lavoro, tranquilli nella propria quotidianità e addirittura soddisfatta del respingimento dei diritti degli altri, ma alla fine la lenta erosione della libertà arriva inevitabilmente per tutti, sempre. E quando ci si accorge che sta accadendo è quasi sempre già troppo tardi.

Historia magistra vitae, dicevano i latini. Già.

Buon mercoledì.