Home Blog Pagina 660

Laicità dello Stato: nasce l’intergruppo parlamentare contro i privilegi della Chiesa

Il 18 dicembre, presso la sala stampa della Camera dei Deputati, abbiamo presentato il VI Rapporto sulla presenza in televisione delle confessioni religiose. Si tratta di un rapporto curato ogni anno dalla Fondazione Critica Liberale e in questa occasione abbiamo annunciato la costituzione dell’intergruppo parlamentare per la Laicità, che inizierà la sua azione culturale, civile e politica ripresentando alla Camera la proposta di legge depositata nella scorsa legislatura dalla pattuglia parlamentare di Possibile (Maestri, Civati, Brignone e Pastorino) sulla destinazione dell’8 per mille dell’Irpef inoptato. Tra i tanti privilegi di cui continua a godere nel nostro Paese la Chiesa cattolica, oltre ad una sovraesposizione televisiva che fa scempio di laicità e pluralismo, vi è infatti il regalo di un miliardo di euro che transita dalle dichiarazioni dei redditi dei cittadini italiani alla Conferenza episcopale italiana, in base a un meccanismo studiato per favorire il Vaticano. Su 40 milioni di dichiarazioni dei redditi, solo 18 milioni di cittadini scelgono espressamente di firmare per la destinazione dell’8 per mille della loro Irpef, e di questi solo il 36% circa sceglie la Chiesa cattolica: per chi non fa una scelta espressa, quel gettito inoptato si redistribuisce in base alle percentuali di chi ha optato e così, anche se solo una minoranza, sia pure significativa, di contribuenti (circa 6,5 mln su 40 mln) ha scelto di destinare quelle risorse alla Cei, a quest’ultima finisce l’80% delle risorse raccolte.
Un tesoretto che ammonta a circa un miliardo di euro, in lievissimo calo negli ultimi anni. Ed è un circolo vizioso che si innesta sulla presenza pressoché totalitaria (rispetto alle altre confessioni religiose) della Chiesa cattolica sulle reti del servizio pubblico radiotelevisivo, dove si da’ spazio, nella stagione delle dichiarazioni dei redditi, a spot che alimentano quel meccanismo, che – per usare una categoria dello spirito – definirei infernale. Sì, perché un privilegio (quello della massiccia presenza di esponenti, messaggi, informazioni relativi alla Chiesa e alla sua gerarchia su tutte le reti ed anche nelle trasmissioni di carattere informativo) alimenta l’altro (la raccolta sproporzionata – rispetto alla reale volontà espressa dai contribuenti – dell’8 per mille) e viceversa. In un mondo attraversato da variegate differenze che si trasformano in muri per effetto del tocco fatale della politica, sarebbe importante quanto meno avere un servizio pubblico radiotelevisivo che raccontasse con linguaggio di verità, equidistanza ed imparzialità culture e religioni differenti, senza peraltro escludere l’opzione atea, agnostica e razionalista.
Ci auguriamo che in questa legislatura fortemente sbilanciata su posizioni vaticaniste (dai diritti civili in giù), si coaguli una forza trasversale capace di gettare luce intorno alla responsabilità fiscale della Chiesa (e alle ingiuste esenzioni denunciate anche dalla Corte dei Conti italiana e dalla Corte di Giustizia europea), alla riforma del meccanismo di distribuzione dell’8 per mille dell’Irpef, alla difesa della scuola pubblica nel pieno rispetto dell’art. 33 della Costituzione, al superamento della sostanziale esenzione dalla giurisdizione dei preti pedofili per il mancato obbligo di denuncia da parte delle autorità ecclesiastiche e tanto altro ancora. C’è tanto lavoro laico da fare e Possibile, che ha fatto della laicità uno dei temi centrali della propria iniziativa politica è pronto a ripartire.

L’avvocato Andrea Maestri fa parte della segreteria nazionale di Possibile

Un supereroe da marciapiede nel Paese “do futebol”: il nuovo film di Acocella, in anteprima

Avevamo già conosciuto lo sguardo delicatamente indiscreto di Dario Acocella in Ho fatto una barca di soldi, primo lungometraggio per il cinema del regista (e sceneggiatore di serie televisive, film documentari, videoclip e cortometraggi) presentato al Festival di Roma nel 2013 e girato intorno alla figura dell’artista di strada Fausto Delle Chiaie, eccentrico personaggio nascosto fra le trame della capitale d’Italia. Ritroviamo oggi quello sguardo di nuovo rivolto nella direzione di personaggi altrettanto dimenticati, ai margini, dispersi nella matrice caotica anche stavolta di una metropoli, Rio De Janeiro, per non dire di un intero paese. “O paìs do futebol” è stato girato in occasione dei campionati mondiali di calcio del 2014, per i quali il governo brasiliano spese cifre inimmaginabili per un paese bisognoso, allora come oggi, d’interventi ben più urgenti in ambiti primari dello sviluppo sociale come casa, scuola, sanità, lavoro.
A metà fra docufilm e opera di fiction, il secondo lungometraggio di Acocella si svolge, come ci dice lui stesso, sotto forma di “pedinamento zavattiniano” di protagonisti molto diversi fra loro e in movimento continuo. Le loro strade s’incrociano in modo casuale, all’interno di un autobus, che si muove per le vie affollate di una Rio De Janeiro immersa fino al collo in un oceano giallo-verde, una marea di maglie, cappelli, bandiere, corpi in preda all’effetto euforizzante delle endorfine del calcio; la sterminata hola di un paese grande mezzo continente, che sembra lasciarsi addomesticare all’annullamento delle reali necessità collettive. Ed è su questo mare agitato che navigano a vista le figure sulle quali indugia lo sguardo del regista. A partire dal più carismatico, Eron Morais Melo, l’odontotecnico capace di plasmare con eguale abilità un’impronta dentaria e una maschera di Batman da fare invidia ai più blasonati costumisti di Hollywood, la stessa che indossa ogni giorno prima di scendere in strada fino a diventare l’icona internazionalmente riconosciuta delle proteste popolari contro la follia degli sprechi dei campionati mondiali e non solo. Fu proprio l’immagine di questo Batman delle favelas, in cui si era imbattuto per puro caso su una rivista inglese, ad accendere in Acocella la curiosità per quel che stava accadendo in Brasile. “Ancora una battaglia” sentenzia Eron, in metropolitana, mentre si reca alla manifestazione in difesa dei professori universitari e del diritto all’istruzione.
“Mi sono sempre innamorato delle minoranze e schierato dalla parte dei perdenti”, dichiara il regista. Eppure, essere perdenti sul piano materiale non significa mancare di assolvere alla propria natura di esseri umani, alla tensione verso la propria realizzazione, al coraggio di rifiutare, dire “no” a una realtà che non è accettabile. Anche se dall’altra parte c’è una colossale macchina per lo sfruttamento economico di un gigante mantenuto in perenne via di sviluppo, come il Brasile. E i personaggi di questo film sono elementi delle minoranze, a vario titolo disseminate in un Brasile che freme per le prestazioni della “Seleção”, un Paese che si paralizza nell’ascolto della radio e della TV durante partite che sembrano giocarsi sul solo terreno su cui è data una possibilità di sentirsi vincitori. Per una volta. Come se il destino di ogni brasiliano dipendesse da quei 22 scarpini chiodati in corsa per novanta minuti. Il volto della ragazza in lacrime dopo la sconfitta, in una sequenza in primo piano che non conosce pietà, immortala la verità più potente del film: il dolore senza confini di un paese spremuto fino all’osso. Altro che calcio. Il pedinamento filmico diventa una macchina a raggi X. Come non balzare, da spettatori, nella realtà di oggi, quattro anni dopo, con la salita al potere dell’ultrareazionario Bolsonaro, a smascherare lo spettro della catastrofe allora incombente, a dare un volto (il peggiore) al deus ex machina di quel dolore, all’arrogante irresponsabilità che ne era causa. Difficile pensare, con il disincanto del 2018, che tutto questo possa valere solo per il Brasile, e che questo film parli soltanto di America del Sud.
E poi c’è Geremia, l’italiano venuto in Brasile a chiudere i conti con il passato. Dentro il suo bel completo di seta sembra quasi di intuire il regista, a zonzo fra i vicoli della favela, guidato da una curiosità impertinente, quasi etnografica, persino un po’ spocchiosa, e infine costretto a fare i conti con la disillusione e lo smarrimento che gli vengono dall’irriducibile e ingovernabile complessità in cui si è gettato. Saranno proprio i ragazzini che voleva aiutare, i ninhos da rua, Vitor e Darlan (altri personaggi chiave del film) che tanta pietà gli hanno mosso dentro, a rivelarsi in fondo i più autenticamente distanti dallo stereotipo del tifoso brasiliano, in una scena veloce, sintetica, che è un vero pugno nello stomaco dello spettatore illuso e caritatevole, e che forse racchiude il senso più profondo del film. Ma non vogliamo rischiare di anticipare troppo e ci fermiamo qui, invitandovi ad andare al cinema.
“O paìs do futebol” viene proiettato in anteprima il 19 dicembre all’Angelo Mai, locale da tempo divenuto vero punto di riferimento nella capitale per la buona cultura indipendente.

“O paìs do futebol” Long teaser from Zerozerocento Produzioni on Vimeo.

 

Chi ha abbracciato Salvini?

Bisogna raccontarla bene, questa storia, senza cadere nella paura di essere ripetitivi. Bisogna raccontarla anche se ogni mattina mi chiedo quanto valga la pena ogni giorno, quasi tutti i giorni, raccontare le mala-gesta del ministro dell’inferno come se fosse lui l’unico problema del Paese ma poi mi fermo, ci penso, e mi dico che sì, che riesce a essere sempre più grave sempre ogni giorno. E non glielo si può concedere, no.

Questa storia va raccontata perché ancora una volta il trucco del ministro dell’interno ha deciso di buttarla a ridere, di sminuire, confidando nella disattenzione generale: «sono un indagato tra gli indagati!» ha detto Salvini a chi gli faceva notare la sua amichevole vicinanza (con abbraccio annesso) a Luca Lucci, capo ultrà del Milan di cui il vicepremier è assiduo tifoso. E Salvini pensava forse di cavarsela così, con una battuta sprezzante sulla giustizia italiana, per la sua confidenza con quello che viene descritto da molti giornali come semplice “condannato per droga” (come se non fosse già schifoso così) e invece è un uomo che merita di essere descritto per intero.

Luca Lucci è la persona che ha sfasciato la faccia e il bulbo oculare a Virgilio Motta durante una spedizione punitiva contro i tifosi dell’Inter (in un settore frequentato da famiglie e bambini, sempre per quella vecchia storia dei forti contro i deboli), colpevoli di avere tagliato uno striscione dei tifosi rossoneri che impediva la visione della partita. Nel 2009 Lucci viene condannato in primo grado per quel pugno che ha reso cieco da un occhio Virgilio Motta a quattro anni e mezzo di carcere e a un risarcimento di 140.000 euro. Lucci però è un furbo, uno di quelli che le condanne non le sconta perché risulta nullatenente e quindi alla sua vittima non resta che mettersi il cuore in pace. Peccato che Virgilio Motta, dopo avere perso il lavoro per la sua cecità, cade in una profonda crisi depressiva e si suicida tre anni dopo.

Ma il nome di Lucci compare anche in un altro processo, questa volta per ‘ndrangheta: durante il processo per l’omicidio dell’avvocatessa Maria Spinella il killer Luigi Cicalese confessa di avere utilizzato per l’agguato proprio l’auto di Luca Lucci, ottenuta dall’amico comune Daniele Cataldo, rapinatore e spacciatore. Solo negli ultimi anni arriva anche il patteggiamento a un anno e mezzo per questioni di droga, dopo essere stato arrestato.

Ecco chi ha abbracciato Salvini. E rimane da vedere se il ministro dell’interno sia incappato (ma davvero?) in questo funesto abbraccio per ignoranza o per commistione. In entrambi casi, sicuramente, non è all’altezza del ruolo che riveste. In entrambi i casi comunque è un ministro che dovrebbe combattere i malavitosi che scherzosamente si intrattiene con un malavitoso.

«Sono un indagato tra gli indagati!» è una risposta che funziona solo tra i travestiti che trangugiano le ampolle del Po. Ci riprovi, ministro.

Buon martedì.

Prisoners of Europe on the island of Lesbos

Ameen is sixteen, his gaze is lost on the horizon, his left forearm is full of scars, straight lines one after the other. I ask him: “What happened?” He blushes in embarrassment and caresses his arm as if to conceal it. He makes a half smile that squeezes his sharpened eyes, then simply answers: “I cut myself. The pain and the fatigue was too much and the only thing I wanted was to find a way to stop it. Everybody does this here, they try to put an end to it”.

I have heard this answer other times in overcrowded prisons where life is spent for 22 hours a day in a cell and where time never ends. But I meet Ameen in a very different context: the island of Lesbos is one of the most beautiful in the world, a paradise that was turned into a prison in 2016 due to the agreements to halt the migratory flows between Europe and Turkey.

Ameen is only sixteen and comes from Syria, like many of the approximately nine thousand people trapped in the prison of Lesbos. He has been here for one year but he still hasn’t had the first interview in the asylum application process.

In 2015 the sea between Turkey and the Greek islands was crossed by over one million refugees seeking asylum in Europe. Then, in March 2016, Europe closed that route and signed an agreement with Turkey for three billion euros, which quickly became six billion, to “contain migratory flows”.
But the flow, in fact, has never stopped. Even today about two hundred people a day continue to land on the islands of Lesbos and Chios. Yet nobody talks about it, just occasionally when someone drowns. Ameen lives in the Moria camp, which has room only for three thousand. The others are camped on the hill in front. Everywhere is full of children and three thousand of them are younger than 18 years old.

Mohaned and Yasmine arrived from Iraq only a month ago. They found no place in the centre and settled in the spontaneously formed encampment on the hill called Olive Grove. They built a hut where they, with a smile, invite us to come in. Yasmine says she was pregnant when she arrived. “Our little girl was born here, twenty days ago”, she tells me as she cradles her baby. “She was born in this tent with a roof made of blankets and a cardboard floor resting on wooden boards, to protect us from the cold, but when it rains it flooded everything. And it’s full of insects and animals.”
Mohaned, with her oldest six-year child in her arms, says: “She’s shocked, she can’t talk, she’s always crying, she’s nervous. She sleeps badly, she always has bad dreams, she’s always hungry, there’s never enough to eat here. She asks me every day to leave, she wants to go home. I am forced to lie to reassure her, I tell her tomorrow, we will go away tomorrow. ”
Leaving Moria is very difficult and transfers to Athens are very slow.
The tent of Yasmine and her family is at the centre of a camp of improvised tents full of women, children and men who hoped to find an opportunity but instead are forced to survive in a climate of perpetual waiting: waiting to leave, waiting for a doctor, waiting to eat.
Food distribution in the Moria camp starts at eight o’clock in the morning. The women come wrapped in blankets beginning at 4.00 a.m., some sleep here because the food is never enough and those who arrive late do not eat. When the food van arrives they all stand up and prepare to enter in an iron cage that should serve to regulate the line, where they remain piled up on each other for hours awaiting food.
The line for the meal is the symbolic image of the refugees on the island of Lesbos. They experience a never-ending wait, they have to fight for everything. The camp of Moria is surrounded by barbed wire. There is a shower for every 84 people, a bathroom for every 72.
A guy living in one of the camp’s containers says: “It’s all disgusting here, you can see it with your own eyes”. He shares a small dirty room with seven other people with a curtain instead of a door. “I fled from Syria, I come from Raqqa and I have been here for ten months. I did the first asylum application interview only now and I do not know how long it will take.”
MSF has moved the clinic out of the fenced area to protest against the agreements signed by Europe and Turkey to close the Balkan route. At the end of August, MSF launched an alarm on the desperate conditions of the “prisoners of the island” where children also have started thinking about suicide.
Alessandro Barberio, MSF’s psychiatrist, wrote a public letter denouncing how “the appalling living conditions, the exposure to continuous violence, the lack of freedom, the serious deterioration of physical and mental health and the pressures on the inhabitants of the island, make Lesbos looks like the old madhouses, which no longer exist in most of Europe, and date back to the mid-twentieth century.

The gate of MSF’s pediatric hospital opens continuously. Idoia Moreno is the coordinator: “The problem is that as we are the only ones to take children and we too are collapsing. They live in totally inhumane conditions and they all get sick with diseases directly related to the conditions in which they are forced to live: respiratory problems, skin diseases, diarrhea, due to the dirt of the field and to the poor quality of the food. We treat them but then they return to this inhumane situation and then come back to us the next day even more sick».

We meet Timira in the tent where dozens of children await their turn to be visited. She is with her three-year-old son to treat a nasty case of bronchitis. She says: “When we escaped from Somalia we didn’t know what would happen. All we can do is wait and see what’s going on.” Her daughter Zainab is nine years old, she has very clear ideas and holds her little brother. Tamira says: “We didn’t expect it to be so. We didn’t think we’d be in a tent in these terrible conditions. The fights, the beating are the worst, the worst time is when the food is distributed. We all worry while we are in line that when it is our turn there will be nothing left to eat”.

Idoia Moreno comes from a long mission in Congo and has been in many conflict areas with MSF but she says “I’ve never seen such inhumane conditions.” People are committing suicide for the total lack of hope in the future. She explains that “the system is inhumane, the asylum system does not work at all. Refugees arriving now will have an appointment for their first asylum interview in November 2019, in more than a year. These families come from brutal and horrible wars, but they all say that this is worse than what they are running from. To give you an idea, last week I had to suture the arm of an unaccompanied sixteen-years-old guy. He cut his veins. And even an 18-year-old girl who tried to kill herself with her mom. This despair and the lack of a future is leading teenagers to try to kill themselves.”

Ameen hasn’t heard from her mother in months. Last time he spoke to her she learned of her father’s death, who was killed by a bomb as he was coming back home.
“I am Syrian, from Der Ezor. My family decided to let me go because they didn’t want me to be enlisted to fight. We had hoped to arrive in Europe to find safety and peace. I’ve been here a whole year now. The only thing I can do is think and think again, 24 hours on 24. I can’t sleep at night, I am awake until the morning and when I sleep I always have nightmares of Syria. I dream they want to kill me or that someone is chasing me. Happiness for me would be to get out of the Moria camp and call my mother telling her that I am fine. ”

Translated by Carla Gentili

Valerio Cataldi is President of the association Carta di Roma and TG2 special envoy.
His documentary “Prisoners on the island” was projected during #MakeNews on December 4 in Florence.

La versione in italiano del reportage di Valerio Cataldi è stata pubblicata su Left del 30 novembre 2018


SOMMARIO ACQUISTA

Migranti e rifugiati, l’antidoto di Refugees Welcome Italia contro le leggi che negano i diritti

«Sono 120 le convivenze realizzate, 200 gli attivisti e 18 i gruppi territoriali attivi in altrettante città italiane». Questi i dati più significativi dei primi tre anni di lavoro di Refugees Welcome Italia, l’associazione che dal 2015 promuove un modello di accoglienza in famiglia, per rifugiati e titolari di altra forma di protezione, basato sul coinvolgimento diretto dei cittadini. A tre anni dalla sua fondazione, Refugees Welcome Italia ha presentato a Roma, il primo rapporto delle sue attività e le linee guida sull’accoglienza in famiglia allo scopo di sviluppare sempre più questa modalità di accoglienza e di inclusione sociale.

Tra il 2016 ed il 2018, RWI ha realizzato 120 convivenze in diverse parti d’Italia: 31 sono attualmente in corso, di cui 8 sono diventate a tempo indeterminato. In 7 casi, dopo una prima convivenza, la persona accolta è stata inserita in una seconda famiglia. Le regioni che hanno accolto di più sono il Lazio e la Lombardia, mentre la città più ospitale è stata Roma, con ben 30 convivenze attivate. Le persone accolte sono per la maggior parte titolari di protezione umanitaria (58%), seguiti da rifugiati (20%) e titolari di protezione sussidiaria (16%): mediamente erano in Italia da quasi 3 anni al momento dell’inserimento in famiglia. Le famiglie “accoglienti” sono principalmente coppie con figli (30% delle convivenze), seguite da persone singole (28% dei casi), da coppie senza figli (23%) e da coppie con figli adulti fuori casa (11%). Il 2018 è stato anche l’anno che ha visto un boom di iscrizioni alla piattaforma come risposta alla politica dei porti chiusi: circa 150 famiglie hanno dato disponibilità ad ospitare un rifugiato nei mesi di giugno e luglio. Nei primi mesi del 2019 partiranno nuovi gruppi locali in Puglia, Campania, Umbria, Calabria, portando a 15 il numero di regioni in cui l’associazione è presente.

Fra le centoventi convivenze realizzate dall’associazione, c’è anche quella di Laura Pinzani, suo figlio Riccardo – romani – e Sahal Omar, giovane somalo. «Abbiamo ricevuto tanto e riceviamo tanto da lui» racconta Laura. «Culturalmente, per noi è un arricchimento. Sahal gioca alla playstation con mio figlio, parlano, si scambiano esperienze e racconti di vita. Noi gli abbiamo dato la spensieratezza: è qualcosa che molti di questi ragazzi non hanno mai conosciuto. L’accoglienza in famiglia è un modo per permettere a Sahal, e a tanti altri come lui, di non vivere più nell’emergenza ma di pianificare».

RWI propone anche una riflessione pubblica su come sia possibile promuovere su larga scala percorsi di inclusione basati su autonomia, partecipazione delle comunità, rafforzamento dei legami sociali, e come la politica possa trarre ispirazione da questo tipo di esperienze, nate dal basso, per ripensare gli attuali sistemi di accoglienza e di welfare. Da qui l’idea delle linee guida, che sono il primo tentativo in Italia di descrivere, a livello operativo, l’accoglienza in famiglia. Il documento spiega, passo dopo passo, la filosofia e la metodologia di lavoro dell’associazione: come si selezionano le famiglie, i rifugiati e gli attivisti; come si individua l’abbinamento fra rifugiati e famiglie; come si seguono e monitorano le convivenze. Il testo fornisce anche un toolkit di strumenti pratici da utilizzare in ogni fase del processo. Altro aspetto innovativo delle linee guida è la possibilità di applicarle anche al di fuori dell’accoglienza dei rifugiati: il metodo di lavoro descritto, pur essendo focalizzato sul target prioritario dell’associazione, i titolari di protezione, è potenzialmente replicabile in altri contesti: convivenze solidali, madri sole, padri separati, persone con bisogni complementari.

Le linee guida rappresentano una doppia sfida: la prima alle istituzioni che hanno la governance delle politiche di accoglienza e del welfare, senza le quali nessuna pratica può essere messa a sistema, la seconda al variegato mondo del Terzo settore spiega Fabiana Musicco, presidente dell’associazione: «Alle istituzioni e ai nostri partner del terzo settore chiediamo di leggere queste pagine, studiarle, copiarle, criticarle, riadattarle: l’accoglienza in famiglia non è e non vuol essere un’esclusiva di RWI, ma un modello da reinventare costantemente alla luce dei bisogni, delle esigenze e dei desiderata dei territori dove le diverse realtà lavorano. Per questo motivo, le linee guida saranno presto disponibili sul nostro sito refugees-welcome.it, per favorire la creazione di una community di addetti ai lavori, volontari, associazioni e gruppi informali che vorranno cimentarsi con questa esperienza».

Il volto solidale di Roma nel lavoro delle associazioni dei migranti

Centro interculturale Torpignattara, Roma

Tra quelle impegnate nel volontariato – pari al 40 per cento – e quelle operanti in ambito culturale, le associazioni dei migranti a Roma sono tante, vitali e, la metà di queste, presenti da decenni. Destinate a crescere se si considera che il 94 per cento di loro è composto da migranti di prima generazione e ben undici realtà sono costituite da seconde generazioni. Alcune di notevoli dimensioni, circa il 40 per cento è iscritto ai registri pubblici, si autofinanziano o ricorrono a sistemi di raccolta fondi, riuscendo solo raramente ad accedere a finanziamenti pubblici.
Orientate all’operatività – con scarso interesse per la visibilità dei loro risultati -, le associazioni dei migranti hanno, in genere, specifiche finalità, prima tra tutte approntare interventi in ambito internazionale per promuovere attività di cooperazione con il paese d’origine. Senza trascurare, però, la dimensione locale sia portando avanti iniziative orientate all’interno delle comunità migranti – come il mutuo aiuto o il rafforzamento dei legami comunitari – sia all’esterno, verso l’integrazione e per il dialogo interculturale. Quelle di seconda generazione, poi, perseguono anche finalità politiche, battendosi per il riconoscimento della cittadinanza ai figli degli immigrati.
Tutte promuovono i diritti civili e la tutela legale attraverso lo svolgimento di attività comunicative e pratiche, soprattutto con l’apertura di sportelli di segretariato sociale, di assistenza nelle trafile amministrative e per l’accompagnamento ai servizi vari. Perché, stando alla mappatura delle centonovantasette associazioni presenti nell’area metropolitana di Roma, effettuata, tra marzo 2017 e marzo 2018, dalla ricerca L’associazionismo dei migranti nell’area metropolitana di Roma, il principale obiettivo delle associazioni di stranieri è l’inclusione sociale, insieme alla promozione della conoscenza, e la positiva interazione tra società di accoglienza e comunità migranti attraverso attività interculturali “per combattere i pregiudizi che, troppo spesso, caratterizzano il tema dell’immigrazione”.
Spesso nascono in coincidenza di eventi traumatici che interessano i paesi di appartenenza come reazione spontanea alla diaspora, desiderose di portare un contributo concreto ai concittadini (lontani) mentre alcune si costituiscono per mettere in rete una molteplicità di organizzazioni migranti creando “movimenti come contenitori di associazioni”. Nella maggior parte dei casi, a titolo volontario: sebbene abbiano a che fare con target specifici in cui sono particolarmente a rischio i diritti fondamentali, possono contare sul sostegno di pochi professionisti, eccezion fatta per i mediatori linguistici.
Difficile retribuire il personale per la carenza di risorse economiche che impedisce, pure, il reperimento, a prezzi accessibili, delle sedi: una criticità percepita come limitante per lo sviluppo delle associazioni. E non a torto. Perché la loro crescita risulta problematica relativamente: alla gestione finanziaria e amministrativa; alla progettualità, soprattutto per la difficoltà ad accedere a finanziamenti e prestiti, a costruire parternariati su base paritetica e non penalizzante e a scrivere progetti; alla comunicazione sia con le istituzioni sia con il territorio; alla dimensione giuridica con le annesse difficoltà a interpretare la normativa di riferimento; e all’incapacità di parlare in pubblico e di superare barriere linguistiche e psicologiche.
E però, hanno un fabbisogno formativo e chiedono sostegno per accrescere le loro competenze che sia accostato a misure di tutoraggio e di accompagnamento pratico e che preveda percorsi non occasionali ma ciclici. Pena il rischio di mantenere un profilo basso, di non riuscire a operare il salto necessario a diventare rappresentative e di dissipare gran parte delle loro potenzialità e dei benefici che queste realtà possono portare al territorio. Primo fra tutti, l’apporto costruttivo all’immagine positiva che trasmettono: quella di un fenomeno migratorio che mette fattivamente a disposizione della comunità (non solo di quella migrante) energie e capacità. Per esempio, quelle che rivendicherebbero se la partecipazione alla costruzione di politiche pubbliche fosse più inclusiva: gli spazi di co-progettazione sono, invece, quasi assenti tanto che, persino le procedure di partecipazione – come i tavoli dei piani di zona previsti dalla 328/2000 – si riducono a mere formalità svuotate di significato. E pensare che le associazioni dei migranti avrebbero un punto di vista significativo sui temi legati all’inte(g)razione delle persone.

La Polizia, come un cagnolino

«Ama il prossimo tuo», scritto con pennarello nero, su un foglio bianco incollato su un cartello. È questa la pericolosa arma di massa che Jacopo Valsecchi e Natalia Tatulli impugnavano in piazza del Popolo durante la manifestazione del ministro dell’Interno Salvini, qualche giorno, fa e per la quale sono stati presi, trascinati e poi identificati dalla polizia. Anzi, vedendo le immagini, si potrebbe dire che Jacopo sia stato portato via da alcune persone che non sono identificabili come poliziotti e per questo lui racconta di essersi spaventato moltissimo, preso da un non meglio precisato servizio di ordine pubblico che consegna poi il malcapitato ad agenti in divisa. “Lo prendiamo noi”, dicono quelli, e alla fine il provocatore (colpevole di impugnare un cartello con scritto “ama il prossimo tuo”, intendiamoci) si sente addirittura sollevato di riconoscere forze dell’ordine ufficiali.

Il video, trasmesso dalla trasmissione Popaganda Live di Zoro, può sembrare a prima vista una cosa da poco, un’inezia tipica delle provocazioni di piazza, e invece non c’è proprio niente da ridere: se una frase così semplice, estrapolata proprio da quello stesso Vangelo che Salvini agitava come feticcio, può essere considerata una provocazione significa che l’ordine delle cose è stravolto in nome di un pensiero imperante che non ha nulla a che vedere con le leggi e la Costituzione.

Ma non è tutto. Durante il suo intervento in piazza il ministro dell’Interno Salvini ci ha tenuto a ringraziare le forze dell’ordine presenti “che quando c’è la Lega in piazza sono tranquille, sono disarmate, sono sorridenti e sono con noi; non per controllarci ma per sostenerci”. Una frase di una gravità inaudita, soprattutto se pronunciata dal ministro dell’Interno, capo delle forze dell’ordine, che andrebbe smentita subito, con forza e invece continua a rimanere lì, galleggia, come se niente fosse.

Torna in mente una frase pronunciata da Hermann Goering durante il processo di Norimberga: «Il popolo può sempre essere assoggettato al volere dei potenti. È facile. Basta dirgli che sta per essere attaccato e basta accusare i pacifisti di essere privi di spirito patriottico e di voler esporre il proprio Paese al pericolo. Funziona sempre, in qualsiasi Paese».

Funziona sempre, in qualsiasi Paese.

Buon lunedì

Ciad, in fuga da Boko Haram

La chiamano la “kamikaze”. Halima Yakoy Adam vive in un’isola del lago Ciad. A 15 anni si sposa con un uomo che si arruola nel gruppo jihadista Boko Haram e la porta su un’altra isola, vicino al confine nigeriano. Il suo destino sembra segnato. Il marito la inganna e la “vende”. Viene costretta ad addestrarsi per diventare kamikaze. Era il 22 dicembre del 2015 quando viene drogata e spedita a farsi esplodere al mercato di Bol insieme ad altri terroristi. Al momento di attivare la cintura esplosiva Halima sceglie la vita. Sfila la cintura e la mette in una borsa della spesa. Durante l’esplosione degli altri kamikaze lei rimane gravemente ferita e le amputarono le gambe fino al ginocchio. Dopo un periodo di carcerazione e poi di riabilitazione, viene aiutata dalla sua comunità e rientra al villaggio sull’isola di Ngomirom Doumou.

Oggi Halima ha 19 anni e vive con le protesi che le permettono di camminare e di fare una vita normale. Da poco ha completato la formazione come assistente legale e si considera un “agente di cambiamento” che sensibilizza le sue “sorelle” contro il radicalismo e la violenza estrema. «Mi piace quello che sto facendo – ha detto Halima di recente all’Unfpa (Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione) – non voglio che altre ragazze o ragazzi facciano i miei stessi errori e siano reclutati nell’estremismo e nella violenza». Halima ha scelto la vita. «Ho avuto una seconda possibilità – spiega – ora voglio restituire qualcosa alla mia comunità».

La regione soffre da anni le conseguenze della lunga campagna armata ad opera del gruppo terroristico Boko Haram. Nato nel 2009, ha creato il suo califfato nel nord est della Nigeria. Da allora la sua violenza si è estesa anche agli Stati confinanti che affacciano sul lago come Camerun, Ciad e Niger generando circa 2,4 milioni di sfollati.

A rendere ancora più drammatica la vita delle popolazioni del lago è…

L’articolo di Cristina Mastrandrea prosegue su Left in edicola dal 14 dicembre 2018


SOMMARIO ACQUISTA

Essere donna in Pakistan. La sfida? Abbattere i tabù

In this picture taken on May 13, 2018, Pakistani women celebrate as they ride pink motorcycles during the pink motorcycles rally in Lahore. - Punjab government launched a Pink Motorcycle Scheme with the aim to empower women in society. (Photo by ARIF ALI / AFP) (Photo credit should read ARIF ALI/AFP/Getty Images)

Se chiedete a qualcuno in Italia se conosce qualche famosa donna pakistana, non esiterà a nominare Malala Yousafzai, la più giovane premio Nobel per la pace della storia, Sharmeen Obaid-Chinoy, due volte vincitrice dell’Oscar per miglior cortometraggio documentario, Benazir Bhutto prima premier donna in un Paese musulmano, e Asma Jahangir, l’avvocatessa che è diventata la prima donna in Pakistan a ricoprire il ruolo di presidente della Corte suprema.

Se invece chiedete di nominare un famoso uomo pakistano, faranno fatica a pensare anche ad un solo nome. Eppure, l’immagine che le persone in Italia hanno del Pakistan e delle sue donne è comunque quella costruita intorno ai casi di violenza contro le donne, che le mostrano come deboli vittime, abusate e torturate sia fisicamente che mentalmente da famiglie patriarcali e una società complice.

La donna pakistana è spesso considerata repressa, silenziosa e con un ruolo passivo in un destino che non la vede protagonista. Se questo è ancora vero per molte donne, specialmente quelle appartenenti alle classi sociali più basse, le meno istruite e quelle che abitano nei territori rurali del Paese, c’è una classe media in fermento, con sempre più voglia di sfatare i tabù, sfidare gli equilibri, riappropriarsi degli spazi pubblici.

Sono infatti poche le donne che si avventurano nei luoghi pubblici, per paura di essere importunate, molestate o giudicate dagli sguardi di uomini e le vecchie generazioni.

È per cambiare questo status quo che un gruppo di ragazze ha deciso di creare il movimento Girls at Dhabas. I dhabas sono…

L’articolo di Sabika Shah Povia prosegue su Left in edicola dal 14 dicembre 2018


SOMMARIO ACQUISTA

Antonello da Messina ritorna in Sicilia

Antonello da Messina e la Sicilia, la Sicilia di Antonello. Sono i due percorsi che lo storico dell’arte e curatore Villa indaga in questo saggio di cui proponiamo un estratto per presentare la mostra al via dal 14 dicembre a Palermo

«Conosci tu la terra dove fioriscono i limoni?/Brillano tra le foglie cupe le arance d’oro. /Una brezza lieve spira dal cielo azzurro,/ Il mirto è immobile, alto è l’alloro!/ La conosci tu?/ Laggiù!/O amato mio, con te vorrei andare!». Quella terra  impregna la nostalgia di Mignon, ne Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister. Goethe l’ammirò nel 1787, commentando definitivamente: «L’Italia senza la Sicilia non lascia immagine alcuna nello spirito. Qui è la chiave di ogni cosa».

Questa terra che tanta immagine lascia nell’animo la intendiamo anche attraverso gli spazi e la luce, gli sguardi e i sentimenti, i luoghi monumentali e i paesaggi mentali di un pittore che li ha fissati con impasti e velature, cromie e tocchi di biacca, tavole di quercia e di pesco, per Crocifissioni e Pietà e Annunciazioni. Immersi in quella luce che segna e costruisce gli spazi, quella luminosità morbida e intensa, quei meriggi che restano negli occhi di un artista che volle sempre tornare alla sua terra.

E ancor più la comprendiamo attraverso i ritratti di chi l’abitò, nel sedimentarsi e concentrarsi di popoli e genti, stili e linguaggi nell’isola al centro di un Mediterraneo che sei secoli fa era il vero mercato del mondo, il luogo degli scambi delle arti, artisti e artefici. La conosciamo attraverso la mano geniale che sapeva restituirci tutta la vicenda umana di una terra nei volti inquadrati da uno sporto di finestra su cui appoggia il cartiglio con la sua firma, non il loro nome. È lui che li ha fatti vivere, non loro che l’hanno pagato in once d’oro. Li ritrae consegnando allo spettatore un racconto, una storia, un intero trattato sull’umana natura. Ferma l’attimo del respiro, coglie il fremito di un labbro, la certezza di uno sguardo…

Antonio de Antonio, Antonellus messanensis nell’autografia: ciò che di Antonello da Messina è sopravvissuto a terremoti, smembramenti, fallimenti di famiglie, naufragi, alluvioni, pareti umide, incuria degli uomini, ignoranza, avidità, insulse paure, dabbenaggini, è disperso in raccolte e musei fra Tirreno e Adriatico, oltre la Manica, al di là dell’Atlantico. Mari noti e ignoti attraversati nei secoli da mercanti e intenditori, antiquari, critici, diplomatici: tutti affascinati – come Enrico Pirajno, barone di Mandralisca – dagli occhi e dalle luci, dall’incanto enigmatico del più grande ritrattista del Quattrocento (e forse di sempre). Ogni suo pezzo è giunto a noi fortunosamente, avventurosamente: molti misteriosamente. A ciascuno dobbiamo restituire un’attenzione tesa, una riflessione attenta….

A Giovan Battista Cavalcaselle, un mazziniano che raccolse valigie di appunti e disegni, spetta l’amorevole ricostruzione di un primo catalogo del messinese. Di cui un conterraneo, formidabile erudito, Gaetano La Corte Cailler, si impegnò a cercare, trovare e trascrivere documenti notarili oggi per noi imprescindibili, preziosi e unici: il testamento della nonna, il ritorno dalla Calabria con tutta la famiglia su un brigantino noleggiato dal padre; la dote della figlia, l’acquisto di una casa, e il litigio con il vicino. Qualche contratto e infine il testamento, datato febbraio 1479. Altro di lui non c’era: un’alluvione aveva disperso le ossa, più terremoti avevano distrutto prove documentarie a Noto e in altri paesi siciliani. L’antica Messina era già stata distrutta e poi ricostruita nel 1783. Terremoto del 10°, ultimo grado Mercalli, poi maremoto. Di Messina non resta nulla: e nulla dell’ancona fermata negli schizzi precisi e dettagliati di Cavalcaselle, nulla dell’archivio con i documenti trascritti da La Corte Cailler. Senza quelle trascrizioni, senza quegli schizzi, nulla sapremmo del più grande e ammirato pittore siciliano.

Cavalcaselle era giunto in Sicilia alla fine del dicembre 1859 e vi resterà fino al marzo 1860. Con partenza da Palermo, il suo itinerario si svolge per Monreale, Termini Imerese, Cefalù, Alcamo, Castelbuono, Polizzi Sottana, Castrogiovanni (Enna), Leonforte, Catania, Castroreale, Messina e nuovamente Palermo. L’esito è in un taccuino di 81 fogli sciolti e 14 lucidi, oltre a una relazione di quanto visto in due lettere indirizzate a Crowe. Ha cercato informazioni da fonti tradizionali e notizie degli archivi municipali, da eruditi locali, guide diverse, e poi costruendo una rete di rapporti, come quello con il deputato barone Enrico Mandralisca, possessore di un Ritratto d’uomo che certifica ad Antonello in una lettera che accompagna la restituzione di «cappuccio – mantello – e gambali nella speranza che tutto si riportato in buon ordine». Poi a Messina avrà una nuova, più articolata visione di Antonello. Scopre con emozione nel parlatorio del convento di San Gregorio lo smembrato polittico firmato e datato 1473, e ne scrive, entusiasta e definitivo: «Opera stupenda che giustifica le lodi degli scrittori veneziani riguardo Antonello …. Vi basta dire per la bellezza, che il putto sente di Leonardo da Vinci, e come colore supera molte opere dello stesso Bellini. Il tipo e carattere della Madonna sono dei più belli di quanto ho veduto nella scuola veneziana. La mezza figura dell’angelo sente del fiammingo. Ha una certa affettazione come vedesi in Piero della Francesca. Questa pittura mi suggerisce nuove idee e mi fa trovare Antonello quale doveva essere. Antonello occupa un gran posto tra i quattrocentisti (è il creatore della scuola Veneta). L’anno 1473, e il metodo, dolcezza, e fusione di colore giustificano la nostra credenza riguardo all’anno del quadro di Anversa, cioè essere stato quello dipinto nel 1475. Così pure mi prova essere il S. Girolamo di Baring opera di Antonello e non di Van Eyck».

Da allora però molto si è potuto riconoscere, ripulire, attribuire: il catalogo si è fatto scientifico, le ricerche continuano, le discussioni e le attribuzioni si susseguono. Sono avventure che richiederebbero, ciascuna, la penna di un romanziere che sappia conservare la lucidità del saggista. Iniziano Lionello e poi il padre Adolfo Venturi, Bernard Berenson dà contributi fondanti dopo parziali incertezze, Roberto Longhi già nel 1914 scrive con il suo stile mirabile pagine essenziali in cui ricolloca Antonello a fianco dei veneziani e segnatamente di Bellini, e sottolinea il clima e la lezione di Piero della Francesca anche sulla maturazione dello stile unico di Antonello. Longhi lo riconosce anello di congiunzione creativa fra i ponentini, gli amati fiamminghi e la grande stagione veneziana, mediata dall’isolata riflessione sulla prospettiva e la morbidezza della luce centro italiana, i volumi di Piero. Fin dal saggio del 1914 dedicato a Piero dei Franceschi e la pittura veneziana, Longhi legge Antonello nella sua dimensione storico artistica, inscrivendolo in un quadro culturale organico: diventa il fautore della sintesi fra luce e volume, una lezione seguita fino a studi più recenti fondati sulla ricezione della pittura veneziana…

Ma poi, affrettatamente: Voll nel 1902 suggerisce Antonello per una Crocifissione che fa parte della collezione del barone Samuel von Brukenthal e si trova a Hermannstadt. La Storia stabilirà nuovi nomi per nuovi riscatti nazionali: la città del barone diventa Sibiu, e a lungo quella di Antonello diverrà la Crocifissione di Bucarest. Berenson fa acquistare presso l’antiquario fiorentino Augusto Mazzetti nel 1911 la tavola che conosciamo come la Vergine leggente di Baltimora. All’importantissimo convegno messinese del 1981 Federico Zeri annuncia la scoperta di un’opera che definisce giovanile, una tavoletta devozionale di 15 centimetri per 10, consumata dai baci del fedele che se la portava al seguito in un astuccio di cuoio. E ora l’Ecce Homo, con San Gerolamo nel deserto al recto, è a New York. E l’affascinante storia del Barone di Mandralisca che torna da Lipari con il ritratto su tavola di un ignoto il cui beffardo sorriso ha sconvolto la mente della figlia del farmacista nella cui bottega, sportello di mobile, è giunto per vie misteriosissime? Diventa lo splendido romanzo Il sorriso dell’ignoto marinaio, primo capolavoro di Vincenzo Consolo. E a Cefalù, in teca, l’ignoto “baruni” continua ad inquietarci.

*

Cinquecentotrentanove anni per rimetterne insieme l’eredità visiva. La mostra Antonello da Messina riunisce a Palermo, in Palazzo Abatellis, dal 14 dicembre 2018 al 10 febbraio 2019, quasi la metà delle opere esistenti di Antonello Da Messina, accanto ad opere coeve. Curata dal professor Giovanni Carlo Federico Villa (già curatore della mostra del 2006 alle Scuderie del Quirinale) nasce dalla collaborazione fra la Regione Sicilia e il Comune di Milano dove la mostra verrà presentata – a Palazzo Reale, in collaborazione con MondoMostre Skira – dopo la tappa palermitana.

Il testo di Giovanni Carlo Federico Villa prosegue su Left n° 50 in edicola dal 14 dicembre 2018


SOMMARIO ACQUISTA