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«I flussi migratori sono come l’acqua. Se cerchi di fermarla, l’acqua gira»

Qualche giorno fa Udine si è svegliata con le strade e i luoghi simbolo coperti di salvagente colorati con scritto “Io sto con l’Aquarius”, Ospiti in arrivo Onlus ha subito fatto propria questa iniziativa. «Abbiamo cercato di renderla virale, abbiamo pensato che servisse un simbolo per far capire alle persone con un minimo di umanità che non sono da sole, e che il mondo è pieno di gente che crede ancora nei diritti e nell’uguaglianza» racconta Giovanni del Mese il portavoce dell’associazione.

Ospiti in Arrivo Onlus è un’associazione di volontariato nata per assicurare la prima assistenza dei richiedenti protezione internazionale a Udine. Un gruppo di volontari conosciuto attraverso “il fare quotidiano”. Un gruppo di persone senza dogmi che mette al centro di tutto gli esseri umani, la soddisfazione dei loro bisogni, delle loro esigenze e i loro diritti. Un esempio di società attiva, in quanto si radica sul territorio e continua a raccogliere consensi trasversali tra la popolazione.

Un’associazione che si alimenta dal basso non solo grazie alle campagne di crowdfunding, ma anche con l’operato dei suoi volontari, cittadini – lavoratori, disoccupati e studenti, uomini e donne di ogni ceto sociale e di diverse età. Un idraulico si occupa della comunicazione. Un tecnico del suono degli eventi. Alcune commesse, insegnanti di lettere, studenti e studentesse universitarie insegnano italiano ai richiedenti asilo. E poi ci sono ingegneri informatici, operai, operatrici sanitarie, infermieri tutti con tanta voglia di fare.

Tanti progetti realizzati nel territorio iniziati nel 2014 quando a Udine arrivavano richiedenti asilo direttamente dalla rotta balcanica senza trovare alcuna struttura di prima accoglienza. Progetti che si sono estesi anche in quei luoghi dove le violazioni dei diritti dell’uomo si toccano con mano. Sono andati a vedere cosa accade nella rotta balcanica, Grecia, Macedonia, Serbia. «Migliaia di persone sono bloccate in Serbia. Nonostante il confine serbo-ungherese sia rimasto l’unica via di transito legale, in seguito alle violenze perpetuate dalla polizia ungherese e all’approvazione di leggi liberticide del governo Orban che impongono la detenzione dei richiedenti asilo, compresi i bambini con le loro famiglie, fino alla fine della procedura, da tempo le rotte sono cambiate. In molti si sono spinti sul confine serbo croato, in particolare a Šid, dove le violenze delle polizia croata tuttavia non si sono fatte attendere. Violenze, rinvii e violazioni dei diritti sono all’ordine del giorno. Basti pensare a cosa sta accadendo alla famiglia di Madina, la bambina afgana di 6 anni, morta lungo i binari travolta da un treno nel novembre scorso, dopo essere stata respinta dalla polizia croata durante il corso della notte. Oggi la famiglia si trova in un centro di detenzione a Tovarnik e rischia il rinvio in Bulgaria. Violenze e violazioni che in questi mesi hanno spinto i migranti a tentare la rotta bosniaca. Una rotta pericolosissima, con intere zone ancora minate dalla passata guerra racconta Paola Tracogna operatrice legale di “Ospiti in arrivo”.

«Oggi le rotte si sono modificate a causa della militarizzazione di tutti i confini. La Serbia è il collo di bottiglia della rotta, da cui le persone cercano di raggiungere l’Europa. Lungo i confini serbi, sono centinaia le persone ammassate in accampamenti informali, in condizioni drammatiche, sostenute solo da volontari e Ong. Chi ha i soldi passa con i trafficanti, altrimenti cercano di passare a piedi» prosegue Tracogna. Un’esperienza iniziata nel 2015 quando c’erano tanti richiedenti asilo, nel frattempo sì è modificata la rotta, non il disagio.

«I flussi sono come l’acqua, se cerchi di fermarla, l’acqua gira» racconta Paola. Insomma, i volontari di Ospiti in arrivo si danno da fare ormai da tre anni, sia sul territorio che sulla rotta balcanica. Ricordiamo il progetto culturale “La carovana artistica” che ha unito 15 professionisti del mondo dell’arte e dello spettacolo nell’intento di realizzare delle attività artistico ricreative a favore delle popolazioni accolte nei campi profughi della Grecia per creare dei momenti di evasione che potessero alleggerire il carico emotivo delle persone incontrate lungo il cammino e per favorire l’incontro delle persone, soprattutto dei bambini, con i più vari linguaggi artistico creativi, nella convinzione che in una situazione di forte e drammatico disagio la cura della persona, dei suoi desideri e aspettative di realizzazione personale vadano coltivate per dare speranza e nuove prospettive.

«Alcuni dei partecipanti del progetto li abbiamo incontrati mesi dopo, si ricordavano tutto e con tanta gioia ci dicevano: Io c’ero!» conclude Paola Tracogna emozionata.

E invece Di Maio su internet ha detto cose giuste (di cui non parla nessuno)

Il vicepremier e ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico, Luigi Di Maio, durante l'assemblea di Confartigianato all'auditorium "La Nuvola", Roma, 26 giugno 2018. ANSA/ANGELO CARCONI

Mezz’ora di internet gratuito per tutti: i giornali aprono con titoli divertenti e divertiti sulla dichiarazione del ministro Luigi Di Maio dando sfogo agli istinti d’opposizione che in questo caso perdono completamente di vista l’argomento centrale.

Internet come diritto, innanzitutto: forse l’immagine della mezz’ora come diritto è banale e banalizzante ma internet come “diritto primario” (come ha detto ieri Di Maio) è un tema fondamentale di cui si discute in tutta Europa e quasi niente in Italia (eppure è l’argomento fondante della Dichiarazione dei diritti di internet elaborata dalla commissione Boldrini nella precedente legislatura ed è un punto su cui si è battuto a lungo a Stefano Rodotà). E sentire un vicepresidente del Consiglio che affronta l’argomento è una buona notizia.

Ieri tra l’altro Di Maio, in occasione dell’Internet day, ha anche preso una posizione chiara contro la riforma europea del copyright che vorrebbe tassare la condivisione di link (se vi fa ridere leggerlo così pensate a quanto poco ne avete letto in giro) e che vorrebbe demandare agli algoritmi il filtraggio ex ante di contenuti (ne parla con precisione Fabio Chiusi su Valigia Blu qui). Il discorso di Di Maio (che trovate qui) mentre in Italia è stato condensato nella riga della mezz’ora al giorno ha ricevuto il plauso delle più importanti organizzazioni internazionali di diritti digitali.

Forse sarebbe il caso che l’informazione (e l’opposizione, se esistesse) avesse più cura degli argomenti in campo e usasse un po’ più di lucidità piuttosto che buttarsi a testa bassa allo stesso modo contro il vergognoso fallimento del diritto umanitario internazionale e contro una frase estrapolata dal suo contesto. Ci guadagnerebbe il Paese e ci guadagnerebbe la credibilità di chi scrive. Per capirsi: è vergognoso Salvini, sono vergognosi i porti chiusi (che poi in realtà non sono chiusi) ma è vergognosa anche la Link tax a cui questo governo si è opposto chiaramente. Si può dire uscendo dal tifo?

Buon mercoledì.

Abbiamo una responsabilità storica: dare sostanza alla solidarietà europea

A handout photo made available by German NGO Mission Lifeline shows migrants rescued in international waters of the Mediterranean Sea, 21 June 2018. According to Mission Lifeline, who rescued 224 migrants at sea, they are still seeking a port of destination. ANSA/HERMINE POSCHMANN / MISSION LIFELINE / HANDOUT HANDOUT EDITORIAL USE ONLY/NO SALES

La vicenda dell’Aquarius ha svelato in poche ore tutta la determinazione e il cinismo del governo a trazione leghista, nell’attaccare alle fondamenta il progetto di Unione europea. Salvini, violando il diritto internazionale e il più basilare principio di umanità, ha negato l’approdo sicuro ad una nave con 629 persone salvate in mare.

Una mossa vigliacca, forte coi deboli e debole coi forti, perché la battaglia per la solidarietà europea non si fa sulla pelle delle persone in mare, ma ai tavoli dove si cambiano le norme sbagliate come il regolamento di Dublino. Proprio come abbiamo ottenuto al Parlamento europeo lo scorso novembre, portando in una votazione storica i due terzi dell’aula a proporre una riforma che cancella il criterio ipocrita del “primo Paese di accesso”, sostituendolo con un meccanismo di ricollocamento automatico e permanente, che valorizzi i legami significativi delle persone e che obblighi tutti gli Stati europei a fare la propria parte sull’accoglienza.

Per due anni di delicato negoziato su una riforma fondamentale per l’Italia, la Lega, che si erge a baluardo dell’interesse nazionale, non si è mai presentata a nessuna delle 22 riunioni, per poi astenersi sul voto a Strasburgo (mentre il Movimento 5 stelle ha votato contro). Un comportamento che chiarisce ciò che realmente muove Salvini in questa partita. Non la modifica di Dublino, la sola che potrebbe assicurare solidarietà europea all’Italia, ma la messa in discussione dell’Unione stessa, attraverso un asse incomprensibile con i Paesi di Visegrad, che hanno interessi diametralmente opposti, perché rifiutano ogni condivisione delle responsabilità sull’accoglienza. E se pensano all’esternalizzazione delle nostre frontiere e responsabilità, non si credano originali: sono anni che provano, con l’unico risultato di aprire nuove rotte ancor più pericolose, sempre verso Italia e Grecia.

Salvini sacrifica così i diritti fondamentali e l’interesse italiano sull’altare di un’alleanza politica con Órban e il fronte sovranista, che ha come fine ultimo quello di disintegrare l’Unione. I nuovi sovranisti si muovono, infatti, come un fronte compatto, europeo e globale, e si rafforzano a vicenda, usando la stessa retorica di odio e intolleranza in diversi contesti nazionali. Pur nel paradosso che, portato agli estremi, li metterebbe gli uni contro gli altri. A quel fronte dobbiamo opporne un altro. Un fronte ampio, progressista ed ecologista insieme, da costruire sulle battaglie comuni che la sinistra europea sta già facendo in tanti Paesi ma senza riuscire, finora, a comunicare una visione comune del futuro dell’Unione e delle nostre società. Un fronte che prenda corpo sia a livello europeo che italiano e che rifiuti la polarizzazione tra establishment e sovranisti, per rifondare un’Europa profondamente solidale.

Le grandi sfide su cui ci giochiamo il futuro sono, infatti, tutte europee e globali e non possono trovare più risposta entro i ristretti confini nazionali. Vale per quella migratoria, dove serve rimettere al centro quel principio di solidarietà su cui si fonda l’essenza dell’Unione, superando Dublino e aprendo vie e legali sicure per l’accesso a tutti i Paesi Ue. Ma vale anche per quella climatica, per la giustizia fiscale e per la dimensione sociale che clamorosamente manca all’Ue e che è indispensabile per dare risposte concrete all’aumento delle diseguaglianze che inginocchiano le nostre società.

Il 28 giugno prossimo sarà una data cruciale per l’Unione. Il Consiglio europeo, che è co-legislatore con il Parlamento in questa materia, deciderà su Dublino. I governi hanno la responsabilità storica di dare sostanza alla solidarietà europea, perché è la loro inerzia ad aver spalancato le porte al rigurgito nazionalista e fascista nei nostri Paesi. Per questo, non possiamo restare a guardare, serve una grande mobilitazione europea che vinca gli egoismi nazionali.

 

Elly Schlein è europarlamentare di Possibile, relatrice della riforma del regolamento di Dublino per il gruppo dei Socialisti e Democratici 

Il commento di Elly Schlein è tratto da Left in edicola


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Liberismo e nazionalismo populista sono false alternative

Come ricostruire la sinistra facendo l’opposizione al governo populista? Provo a dire alcune idee, per punti sintetici.

Primo: avere coscienza che la sinistra è destinata ad essere sempre in difficoltà, rispetto al “sentire generale e diffuso”. Per forza: se il senso comune, la scala di valori di una società, come ci insegna Marx, riflette i rapporti di forza di classe, è ovvio che saranno funzionali al mantenimento delle gerarchie sociali stesse. Il senso comune, quindi, è spesso avverso alla sinistra, anche quando sembra essere avverso anche all’establishment. Ma gli è avverso in una maniera ad esso innocua: in una parola, le classi dominanti, riescono a far sfogare il malcontento in un vicolo cieco. E lo fanno proprio attraverso i populismi, i nazionalismi, i fascismi, che servono a spostare l’obiettivo, contro lo straniero, il diverso, anziché contro lo sfruttamento.

Secondo punto. Quindi, la sinistra deve per prima cosa denunciare che liberismo globalista e nazionalismo populista sono fintamente alternativi, in realtà sono funzionali l’uno all’altro.
Non c’è un “meno peggio”: sono entrambi avversari. Avere questa chiarezza e chiudere con ogni forma di strabismo è fondamentale per ricostruire la nuova sinistra. Dobbiamo essere totalmente estranei ad entrambi questi pensieri antipopolari e reazionari, che si legittimano l’un l’altro per contrapposizione.

Terzo punto. Niente “fronti democratici”, quindi, niente ammucchiate anti populiste, nessun cedimento a ricatti morali (“se ci dividiamo vincono i fascisti!”): nostro compito è costruire in Italia una sinistra antiliberista, in rete con le altre sinistre antiliberiste europee e mondiali, ricostruendo dal basso attraverso nuove pratiche una nuova classe dirigente. Lasciamo invece al loro destino Pd, Leu, e compagnia: pieno rispetto, ma sono altro da noi.

Quarto punto. In nessuna maniera dobbiamo farci incanalare sul terreno di governo e Pd: la loro contrapposizione tra cattivismo anti-migranti e anti-diversi, e buonismo benpensante da benestanti, è per noi una trappola mortale. Noi dobbiamo invece provare a dettare l’agenda, a mettere all’ordine del giorno i nostri temi. Ci sono mille morti l’anno sul lavoro, 80mila per l’inquinamento di aria ed acqua, 5 milioni di poveri assoluti. Se riusciamo a parlare solo delle decine di fatti di cronaca legati a immigrati o Rom, ovvero se in una parola accettiamo la provocazione e la rissa, abbiamo perso prima di iniziare.

Quinto punto. Dobbiamo costruire anche una speranza positiva. E la speranza oggi può avere un solo nome: Eco-socialismo. Giustizia sociale ma non in un orizzonte consumista e materialista, ma all’interno di un cambiamento nella scala di valori, nei tempi della vita, nelle relazioni umane. C’è un’economia nuova, un modo di vivere nuovo, fatto di innovazione ecologica, artigianato di qualità, ritorno alla vita rurale, intelligenza, sostenibilità, mutualismo: scelte già praticate da decine di migliaia di persone, che noi dobbiamo sostenere e far emergere.

Sesto punto. Non contrapporre diritti sociali e diritti civili. A parte che i diritti civili sono quasi sempre anche diritti sociali: provare la differenza tra essere gay facendo lo stilista a Milano o l’operaio a Termini Imerese, o tra aver bisogno di un fine vita dignitoso avendo o non avendo i soldi per andare in Svizzera a pagamento. E comunque è una contrapposizione reazionaria: “siccome c’è da pensare al pane quotidiano, accantoniamo i diritti borghesi”. No invece: noi pensiamo al pane quotidiano, e vogliamo anche la dignità dei diritti civili.

Il pane e le rose, insomma.

Torna la repressione per i reati di droga. Ma in carcere finiscono solo i «pesci piccoli»

Un'immagine simbolica della cella di un carcere italiano . ANSA

L’ultima conferenza sulle sostanze, «per altro blindata e senza dibattito», risale al 2009 e l’ultima «di reale confronto» al 2001 a Genova. «Unica nota positiva recente, l’inserimento nei Lea della riduzione del danno e un maggiore spazio per la canapa terapeutica. Tutti sul tappeto restano i problemi aperti o irrisolti», scrivono Stefano Anastasia e Franco Corleone nell’introduzione del nono Libro bianco sulle droghe che è stato presentato al Senato in occasione del 26 giugno, la Giornata internazionale contro l’abuso e il traffico illecito di droga promossa dall’Onu.

Il nono Libro bianco sulle droghe è stato presentato dal “Cartello di Genova”, coalizione antiproibizionista tra La Società della ragione, Forum droghe, Antigone, Cgil, Cnca e Associazione Luca Coscioni e con l’adesione di A buon diritto, Arci, Comunità di San Benedetto al Porto, Funzione pubblica Cgil, Gruppo Abele, Itaca, Itardd, LegaCoopSociali, Lila. Nel volume si fa il punto sulla relazione tra le politiche sulle sostanze, il trend dei consumi, la salute, la repressione, la ricerca scientifica e il gap italiano rispetto alle tendenze internazionali, specie americane, dal Canada all’Uruguay, che segnano dati positivi a fronte dell’inversione di tendenza rispetto alle politiche proibizioniste dall’era Reagan in poi.

Corleone e Anastasia, nell’introduzione, fanno riferimento alle occasioni perdute: dalla riunione dell’Onu a Vienna nel 2019 alla presentazione delle due proposte di legge sulla legalizzazione della canapa e di revisione radicale del Dpr 309/90, dalla richiesta ultimativa per la convocazione della Conferenza nazionale sulla politica delle droghe alla ridefinizione della natura e dei compiti del Dipartimento antidroga, fino alla possibilità di un confronto sulle soluzioni che emergono in tanti Paesi in Europa e nel mondo.

Il nono Libro bianco racconta invece del ritorno dell’affollamento penitenziario e del ruolo che, in esso, gioca ancora una volta la legislazione proibizionista in materia di droghe. «Se gli ingressi in carcere hanno cominciato ad aumentare dallo scorso anno, quelli per violazione delle legislazione sugli stupefacenti guidano l’incremento, costituendone quasi il 30%, quanti non erano dal 2013. Se i detenuti in carcere aumentano, percentualmente aumentano di più quelli per reati di droga. Un quarto dei detenuti è tossicodipendente e solo una piccola parte di loro riesce ad accedere alle alternative al carcere pure per loro prescritte». E hanno ripreso a crescere anche le segnalazioni ai prefetti dei semplici consumatori, «caduti anche loro nella rete dei maggiori controlli e dell’ossessione securitaria». Ben 40.524 segnalazioni (all’80% per possesso di cannabinoidi), 15.581 sanzioni e solo 86 richieste di programmi terapeutici. «Una inutile macchina sanzionatoria che ingolfa uffici amministrativi e di polizia e che in quasi trent’anni ha coinvolto più di un milione e duecentomila persone».

Per il cartello delle associazioni antiproibizioniste «ce n’è quanto basta per continuare a chiedere un cambiamento politico, culturale e legislativo che rimetta l’Italia tra le Nazioni che stanno cercando e sperimentando vie nuove per la prevenzione dei rischi dell’abuso di droghe e della loro proibizione». Oltre alla tradizionale analisi dei dati sugli effetti penali e sul carcere provocati dalla legge antidroga, il Libro bianco fotografa la realtà dei servizi pubblici e del privato sociale, legati ai nuovi consumi e lo stato della ricerca scientifica sul fenomeno in continua evoluzione.

La relazione del Dipartimento politiche antidroga, peraltro mai discussa in Parlamento, offre, invece, un quadro «statico e datato, assolutamente privo di indicazioni per i parlamentari e gli operatori» e sempre senza «il punto di vista dei consumatori che sono confinati nel ruolo di vittime della repressione o di malati da curare, senza valorizzare la loro soggettività», scrivono ancora Corleone e Anastasia. In appendice, le nostre proposte antiprobizioniste per la riforma del testo unico sulle sostanze stupefacenti e per la legalizzazione della cannabis che, nonostante la dedica esplicita dei curatori ai parlamentari della Repubblica, difficilmente troveranno ascolto nel Parlamento a maggioranza gialloverde. Ci sono infatti tutti gli ingredienti per cui, in assenza di una reale mobilitazione di massa, il decimo Libro bianco, l’anno che verrà, abbia tutte le parvenze di un romanzo dell’orrore.

A 28 anni dalla sua approvazione l’impianto repressivo e sanzionatorio che ispira l’intero Testo unico sulle sostanze stupefacenti Jervolino-Vassalli continua a essere il principale veicolo di ingresso nel sistema della giustizia italiana e nelle carceri: 14.139 dei 48.144 ingressi in carcere nel 2017 sono stati causati da imputazioni o condanne sulla base dell’art. 73 del Testo unico. Si tratta del 29,37% degli ingressi in carcere: si conferma l’inversione del trend discendente attivo dal 2012 a seguito della sentenza Torreggiani della Cedu e dall’adozione di politiche deflattive della popolazione detenuta.

Ben 13.836 detenuti presenti in carcere al 31 dicembre 2017 lo erano a causa del solo art. 73 del Testo unico (sostanzialmente per detenzione a fini di spaccio). Altri 4.981 in associazione con l’art. 74 (associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope), solo 976 esclusivamente per l’art. 74. Mentre questi ultimi rimangono sostanzialmente stabili, aumentano dell’8,5% i detenuti per solo art. 73. Si tratta complessivamente del 34,36% del totale. I “pesci piccoli” continuano ad aumentare, mentre i consorzi criminali restano fuori dai radar della repressione penale.

Inoltre, 14.706 dei 57.608 detenuti a fine 2017, sono tossicodipendenti. Il 25,53% del totale. Si consolida l’aumento dopo che il picco post applicazione della Fini-Giovanardi (27,57% nel 2007) era stato riassorbito a seguito di una serie di interventi legislativi correttivi. Preoccupa l’impennata degli ingressi in carcere, che toccano un nuovo record: il 34,05% dei soggetti entrati in carcere nel corso del 2017 era tossicodipendente. Nel 2017 si conferma l’aumento delle presenze in carcere, dopo alcuni anni di diminuzione, e aumenta la percentuale di detenuti per violazione della legge sulle droghe.

La legislazione sulle droghe e l’uso che ne viene fatto sono decisivi nella determinazione dei saldi della repressione penale: la decarcerizzazione passa attraverso la decriminalizzazione delle condotte legate alla circolazione delle sostanze stupefacenti così come le politiche di tolleranza zero e di controllo sociale coattivo si fondano sulla loro criminalizzazione. Basti pensare che in assenza di detenuti per art. 73. o di quelli dichiarati tossicodipendenti, non vi sarebbe il problema del sovraffollamento carcerario come dimostrano alcune simulazioni prodotte nel dossier.

Un dato positivo arriva dalle misure alternative, in crescita lieve ma costante negli ultimi anni. Il fatto che il trend prosegua oltre la inversione di tendenza nella popolazione detenuta databile dal 2016 lascia ben sperare per una autonomia delle misure penali di comunità. Restano marginali le misure alternative dedicate: 3.146 sono i condannati ammessi all’affidamento in prova speciale per alcool e tossicodipendenti su 14.706 detenuti tossicodipendenti.

Continuano ad aumentare le persone segnalate al Prefetto per consumo di sostanze illecite: da 27.718 del 2015 a 38.613 del 2017: +39,30% (+18,13% rispetto al 2016). Si conferma l’impennata delle segnalazioni dei minori che quadruplicano rispetto al 2015. Aumenta sensibilmente anche il numero delle sanzioni: da 13.509 nel 2015 a 15.581 nel 2017: +15,33% (+18,42% rispetto al 2016). E risulta irrilevante la vocazione “terapeutica” della segnalazione al Prefetto: su 35.860 persone segnalate solo 86 sono state sollecitate a presentare un programma di trattamento socio-sanitario; 10 anni prima erano 3.008. Le sanzioni amministrative riguardano invece il 43,45% dei segnalati, percentuale in aumento rispetto all’anno precedente. La segnalazione al prefetto dei consumatori di sostanze stupefacenti ha quindi natura principalmente sanzionatoria. La repressione colpisce per quasi l’80% i consumatori di cannabinoidi (78,69%), seguono a distanza cocaina (14,39%) e eroina (4,86%) e, in maniera irrilevante, le altre sostanze. Dal 1990, 1.214.180 persone sono state segnalate per possesso di sostanze stupefacenti ad uso personale; di queste il 72,81% per derivati della cannabis (884.044).

I dati disponibili, parziali (Polizia stradale, 2017) indicano che solo l’1,23% dei conducenti coinvolti in incidenti stradali rilevati è stato accusato di violazione dell’art. 187 del Codice della strada.

Sul versante dei servizi, il testo segnala come «la vecchia divisione fra un numero limitato di consumatori altamente problematici e una platea di consumatori occasionali-ricreazionali non è più attuale». Non funzionerebbe più nemmeno il modello dell’offerta terapeutica “intensiva” per un’utenza altamente problematica, destinata a rimanere a lungo in carico dei SerD e/o delle comunità. «Nel mondo dei consumi – si legge ancora nel voluminoso dossier di 114 pagine – esiste oggi una situazione più graduata e complessa, con molti differenti modelli di consumo associati a differenti livelli di rischio e di danno. Si assiste a una diversificazione degli stili e degli ambienti di uso, ma i medesimi consumatori possono cambiare nel tempo il loro modello di consumo, con frequenti oscillazioni. Ciò richiede un’articolazione dell’offerta dei servizi. Questa nuova realtà dei consumi rimane in larga parte sconosciuta perché è carente, se non assente, la ricerca ufficiale sui modelli e gli stili di consumo, nonostante questo tipo di ricerca sia in grado di fornire una lettura più ampia dei consumi, oltre il “tunnel della droga”, gettando le basi per un nuovo sistema dei servizi».

Sistema “statico” e povertà dei dati non permettono di rilevare gli interventi innovativi «che già esistono: dai progetti di housing, alla formazione al lavoro, alla riduzione dei rischi. I servizi si sono negli anni impoveriti, con gravi carenze di personale che penalizzano soprattutto gli interventi psicosociali». Gli autori ripropongono quindi il superamento dell’«attuale servizio “a risposta unica”, organizzato come un ambulatorio e focalizzato sulla “patologia” del consumo: che non

contrasta, anzi asseconda lo stigma sociale».

Grande assente dai dati governativi la Riduzione del danno che, in Europa è invece un “pilastro” delle politiche pubbliche: dai dropin agli infoshop (servizi di consulenza per un uso più sicuro), dal drug checking alle stanze del consumo. «In Italia la Riduzione del danno è ancora la Cenerentola, l’inserimento nei Livelli essenziali di assistenza può rappresentare una svolta», si legge nel Libro bianco.

Anche la ricerca sulle droghe soffre per il suo sbilanciamento sul “farmacocentrismo”. Dal 2009 al 2013, il Dipartimento antidroga ha finanziato ricerche in campo farmacologico e neurobiologico per più di un milione e mezzo di euro. E nessuna ricerca psicosociale anche se solo quest’ultima può spiegare le ragioni del consumo, dei suoi contesti, degli stili di vita e di adattamento dei consumatori così da pianificare le opportune politiche. «Lo squilibrio a scapito della ricerca psicosociale si è accentuato con la fortuna della ricerca neurobiologica e della Brain research, col risultato di un nuovo “neurocentrismo” – si può leggere ancora nel testo che rivendica anche una svolta nelle politiche di ricerca – la Brain research, in particolare i risultati del Brain imaging, sono spesso interpretati a sostegno della addiction theory, in maniera distorta e scarsamente scientifica. La “addiction” come malattia del cervello riconferma l’idea della dipendenza come “malattia cronica recidivante”.

Ma le droghe non alterano le strutture cerebrali e la dipendenza è la condizione di chi si trova a ripetere l’unica esperienza in grado di procurargli gratificazione. Tuttavia la Brain research è entrata nel senso comune, svalutando gli interventi diversi da quelli medici farmacologici». Nel testo, che si può trovare sul sito di Fuoriluogo, ci sono anche interventi che sfatano i miti proibizionisti contro la legalizzazione della cannabis. Leonardo Fiorentini, il direttore del sito del Forum droghe, fa il punto con Mario Perduca sulle esperienze americane, dal Canada all’Oregon, dall’Uruguay alla California, di legalizzazione della cannabis.

Il governo vuol fare dell’Italia un ring dello scontro fra poveri

Matteo Salvini (S), ministro dell'Interno, e Giuseppe Conte (D), presidente del Consiglio, durante la cerimonia di giuramento dei sottosegretari a Palazzo Chigi, Roma, 13 giugno 2018. ANSA/RICCARDO ANTIMIANI

«Noi siamo andati al governo per ripristinare i diritti sociali che la sinistra ha cancellato». Non era la sinistra, ma il Pd, eppure questa rimane la frase più dolorosa fra quelle che hanno segnato il dopo voto. La crisi è stata infatti il pretesto per cancellare in Italia tutele e diritti che avevano segnato il dopoguerra, condannando all’impoverimento e all’incertezza milioni di persone, fra lavoratori dipendenti, piccoli commercianti, artigiani e liberi professionisti. In quegli anni il governo del Paese è sempre stato appoggiato dal Pd e per un’intera legislatura con piena responsabilità. Lega e M5s hanno quindi avuto buon gioco a presentarsi come quelli che avrebbero restituito una parte di quello che era stato perso, conquistando così larghissimi consensi in quello che un tempo era stato il popolo della sinistra.

Sulla base di questa investitura elettorale hanno poi messo in piedi un governo che è partito con una brusca sterzata a destra, ma che continua a godere del credito di tutti quelli che aspettano interventi sulle pensioni, sulla sanità, sulla scuola e sul reddito disponibile. Questo mi sembra un dato di fatto, che nemmeno atti inumani come la chiusura dei porti o l’inchiesta romana sullo stadio riescono per il momento a scalfire. Partiamo quindi da una situazione di oggettiva difficoltà, che non deve tuttavia indurre a fatalismo o rassegnazione. La sinistra ha infatti il dovere morale e politico di opporsi con la massima forza ad un governo che nasce simbolicamente negando per giorni una parola di condanna per l’uccisione di Sacko e poi negando l’approdo ad una nave carica di rifugiati.

Non c’è nulla che possa giustificare aperture di credito verso una coalizione politica a traino leghista e orientata a trasformare l’Italia in un ring dello scontro fra poveri. La definizione di qualsiasi ipotesi di alternativa passa infatti per la costruzione di una coalizione fra gli sconfitti della globalizzazione, a partire dai migranti, ovvero dai milioni di persone che ogni anno sono spinti ad abbandonare la propria terra per cercare altrove una vita migliore. Parlo di chi viene in Italia e allo stesso tempo di chi è costretto a lasciarla, contribuendo a concentrare sempre di più intelligenze e forza nelle aree più ricche del pianeta. È necessario ribaltare il senso comune indotto dalla destra: il problema non sono i confini troppo permeabili, ma la ricchezza impermeabile di pochissimi. Coalizzare tutti gli altri, con un programma che punti alla redistribuzione: questo deve essere il progetto della sinistra di opposizione.

D’altra parte se si vuole lavorare in questa direzione, si deve evitare in tutti i modi di essere confusi con i responsabili dell’impoverimento di massa che ha segnato l’Italia, ovvero il Pd e Forza Italia. Se infatti i barbari sono entrati, è perché le classi dirigenti della città hanno abbattuto le mura dall’interno. Lo dico da lavoratore: la mia indignazione per l’Aquarius non cancella la rabbia per la Fornero. L’unica opposizione che ha senso è quindi quella che mette insieme la lotta per i diritti sociali e quella per i diritti civili, che è disposta a contrastare la globalizzazione, che sa che il miglior modo di distruggere l’Europa è accettare lo status quo, che vuole sicurezza per tutti e non per gli uni contro gli altri.

È l’opposizione che ricostruisce la propria credibilità anche affidando un insieme aggiornato di proposte a gruppi dirigenti non compromessi con i governi degli ultimi anni, e che investe fino in fondo su processi democratici e partecipativi. Non saranno gli errori altrui a rimetterci in pista, ma solo la capacità di tornare a produrre egemonia attraverso il conflitto.

Il parere di Giovanni Paglia è tratto da Left in edicola


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La “retorica” delle torture in Libia

Un'immagine del centro detenzione migranti di Zawiya, a 30 km da Tripoli. ANSA/ZUHAIR ABUSREWIL

Non c’è bisogno di andare in Libia. No. Basta visitare la faccia feroce che vomita i denti durante il suo processo  di Osama Matammud, detto “Ismail”, 22 anni al momento del suo arresto a Milano, dove era stato riconosciuto da alcune delle sue vittime, nei pressi della Stazione centrale e se non l’avessero acciuffato per i capelli l’avrebbero vendicato lì, come animali, con le sue vittime che sognavano di diventare aguzzini.

Il procuratore aggiunto di Milano Ilda Boccassini ha detto di lui “non ho mai visto in quarant’anni di carriera un orrore simile”. E la Boccassini è una che in quarant’anni ha attraversato di tutto, scavalcato vittime di mafia diventate poltiglia. Ma un orrore così non l’ha mai visto, dice. Il procuratore di Milano Francesco Greco ha provato anche a dire che forse sarebbe il caso che l’Italia, “mentre fa trattati con i Paesi per la gestione dei flussi migratori”, forse sarebbe il caso che si occupi anche del rispetto dei diritti umani, ha detto il procuratore. Ma non l’ha ascoltato nessuno. Anzi, forse, non l’ha nemmeno sentito nessuno, nemmeno ascoltato. Ismail a casa loro si occupava del centro raccolta migranti di Bani Al Walid, in Libia, in provincia di casa loro. “Ismail si divertiva a picchiarci sempre – racconta uno dei testimoni del processo di cui non si è accorto nessuno – con sbarre di ferro, bastoni, tubi di gomma e calci e pugni. Si accaniva, io più volte l’ho visto con dei tondini di ferro pieni, di quelli che si usano per i lavori di muratura, spaccare le caviglie e i polsi di molte persone”. “A volte accendeva un sacchetto di plastica sopra la schiena, facendo colare la plastica incandescente, altre volte torturava con le scariche elettriche. Io stesso sono stato portato nella ‘stanza delle torture’. Ismail per me aveva trovato una tortura particolare. C’era un punto della stanza dove passava il sole dall’alto dato che questa stanza era in un edificio in parte scoperto. In questo punto della stanza faceva caldissimo. Ismail mi legava mani e piedi dietro la schiena e mi lasciava per ore sdraiato per terra finché mi disidratavo e orinavo addosso”.

Ismail che sceglieva le ragazze, tutte le sere: entrava nello stanzone dove si sta tutti ammassati, nuotando nelle proprie feci, e sceglieva le più carine. Si sentivano le urla, dicono, dalla stanza delle torture. E si sentivano le donne, urlare anche loro, finché lo sfinimento non vinceva. E allora si faceva silenzio tutto intorno, fino alla sera successiva. Ismail che se non arrivavano i soldi allora alla fine i prigionieri diventavano solo un costo, perché tocca mantenerli, perché non avrebbero mai potuto proseguire nel viaggio e dare merda da mangiare comunque costa: Ismail che chi non pagava veniva impiccato e poi morto buttato in mezzo agli altri come un sacco di iuta afflosciato anche se ancora pieno di tendini, come ammonimento a non sgarrare.

La retorica delle torture è quel timpano rotto da cui la condanna a Ismail, che pure si è consumata qui, da noi, a Milano, non è passata: l’ergastolo a Ismail l’avete sentito? Ve ne siete accorti? Ismail è l’opuscolo turistico di casa loro, arrivato fin qui.

Buon martedì.

Addio a Goldblatt, leggenda del fotogiornalismo

“Il prezzo della libertà è molto alto e dobbiamo pagarlo sempre, devi continuare a guardare, perché altrimenti il marciume si insinua”. L’ha detto il reporter David Goldblatt, morto lunedì mattina nella sua terra, dove è nato 87 anni fa: il Sud Africa. Protesta e denuncia. Con le sue foto, dal 1948, ha documentato la persecuzione razziale del suo paese negli anni più turbolenti dell’apartheid.

Leggenda del fotogiornalismo internazionale,figlio di due lituani scappati alle persecuzioni antisemite, il fotografo verrà seppellito al West Park Cemetery di Johannensburg il 26 giugno.

Se il governo giallonero ordina di riconsegnare i migranti a torturatori e schiavisti

A handout photo made available by German NGO Mission Lifeline shows migrants rescued in international waters of the Mediterranean Sea onboard of the dutch flagged vessel LIFELINE, 21 June 2018 (reissued 23 June 2018). ANSA/HERMINE POSCHMANN/MISSION LIFELINE +++HANDOUT / EDITORIAL USE ONLY / NO SALES+++

“Lifeline” ovvero sagola di salvataggio. La sagola è una sorta di corda intrecciata che si usa in mare per permettere a chi rischia di affogare di tirarsi su e salire a bordo. Il nome di questa nave, adatta a ospitare 50 persone e che ne ha raccolte oltre 220 fra cui 70 minori non accompagnati e che da giorni è ferma nel Mediterraneo centrale in attesa di un porto a cui attraccare è la misera metafora dell’Europa. Si chiudono i porti, come ennesimo atto di arroganza coloniale, i governanti discutono a Bruxelles ognuno preso dagli egoismi dei paesi che rappresentano, ognuno preoccupato del proprio consenso. Ed è grottesco come governi che producono povertà e miseria ogni giorno, con leggi predatorie, si sentano in diritto di preservare i propri cittadini dall’arrivo di numeri risibili di persone da accogliere. E alla manifesta arroganza xenofoba che miete consensi in Italia come in Ungheria, fa da controcanto l’ipocrisia progressista di chi balbetta proposte palliative a condizione che non intacchino il suolo immacolato del proprio paese.

I primi vorrebbero anche affondare le navi umanitarie che praticano il soccorso in mare al limite «istituzionalizzare l’omissione di soccorso» come scrive Fulvio Vassallo Paleologo. Gli altri continuano ad inseguire il sogno di esternalizzare le frontiere, realizzando ameni campi di concentramento in Libia, Niger, forse presto anche in Sudan, ovunque insomma tutto possa avvenire senza turbare la quiete europea. Ci si scandalizza, giustamente, per le gesta criminali di Trump ma come si sta reagendo alle morti silenziose ed invisibili che si vanno determinando a poche decine di miglia dalle coste italiane?

Qualcosa si è mosso partendo dal basso: la mail bombing lanciata domenica 23 giugno verso la Guardia costiera ha prodotto effetti. Il testo, partendo da un sincero apprezzamento per il lavoro svolto finora chiedeva, implorava di non mettere in pratica le disposizioni annunciate. Per chi è in mare sentirsi dire «rivolgetevi alla Guardia costiera libica» significa dire «commettete un reato», «riconsegnate le persone in mano a torturatori e schiavisti». In poche ore siamo stati in migliaia a inviare la mail e molte/i, ne sono certo, sono fra coloro che ora ci leggono.

E qualcosa si muove anche nella politica europea, nella sua parte sana. Dopo l’iniziativa nelle piazze lanciata da Elly Schlein, un’altra europarlamentare italiana, Eleonora Forenza, Gue/Ngl si è imbarcata su una nave di Proactiva Open Arms, per essere concretamente insieme a questi eroi del nostro tempo che sono i solidali. Ma non basta. Il caos emerso nel vertice informale che si è tenuto domenica a Bruxelles in vista del cruciale Consiglio Europeo che si tiene mentre leggete queste righe rischia di essere foriero di nuove, pessime notizie. Se si continua con accordi di facciata che non intaccheranno la trappola del Regolamento di Dublino ogni paese si sentirà libero di agire come crede.

Se ne pagheranno in futuro le conseguenze, avendo reso carta straccia il diritto internazionale e le leggi millenarie di chi va per mare. Ma qualcuno continuerà a pagare con la vita la scelta di provare a scavalcare la fortezza e sarà su quelle donne, quei bambini, quegli uomini che si ucciderà l’idea stessa di Europa

E non dovremo mai dimenticare i nomi e i cognomi di questi assassini seriali

SeaFuture, così l’Italia venderà navi ai regimi dittatoriali e in guerra

La fregata Alpino in una foto diffusa il 2 maggio 2018. La nave della Marina Militare italiana è in partenza per una campagna navale in Nord America. ANSA/ US MARINA MILITARE +++ NO SALES - EDITORIAL USE ONLY +++

Egitto, Turchia, Israele, Arabia Saudita, Qatar, Marocco, Angola. Paesi che non brillano per la tutela dei diritti umanitari. Paesi tutti invitati – e tutti presenti – a SeaFuture, il maxi salone che si è tenuto dal 19 al 23 giugno a La Spezia. Forse pochi ne sono a conoscenza, ma parliamo di un evento colossale, una sorta di “expo” dell’arsenale militare. Basti pensare che tra gli organizzatori c’erano Aiad (la Federazione delle aziende italiane per l’aerospazio e la difesa) e la Direzione nazionale degli armamenti del Segretariato generale della Difesa. E tra gli operatori principali presenti, oltre alla stessa Marina militare, numerose aziende del settore militare tra cui Leonardo, Mbda e Fincantieri. Evidente, dunque, come l’evento abbia una forte componente “armata”.
Eppure nel 2009, anno di nascita dell’evento, le cose erano leggermente diverse: il salone si teneva presso il centro fieristico SpeziaExpò con l’obiettivo di essere «la prima fiera internazionale dell’area mediterranea dedicata a innovazione, ricerca, sviluppo e tecnologie inerenti al mare» per il settore civile. Dal 2014, però, qualcosa cambia: l’evento viene spostato all’arsenale militare e diventa sempre più preponderante il ruolo rivestito dalla Marina militare. Non è un caso che, nel comunicato ufficiale di lancio dell’edizione di quest’anno, si leggesse chiaramente che «la manifestazione assume una grande rilevanza internazionale grazie alla presenza delle marine estere (…) che potrebbero essere interessate all’acquisizione delle unità navali della Marina militare non più funzionali alle esigenze della squadra navale». Insomma, «un vero e proprio mercato dell’usato militare», denuncia Giorgio Beretta, analista dell’Opal (Osservatorio permanente armi leggere).

CLIENTI ARMATI – Ed è per questo motivo che il Comitato “Riconvertiamo SeaFuture” – al cui interno ritroviamo, tra gli altri, Arci, Opal, Legambiente, Emergency, Potere al Popolo, Possibile, Rete italiana per il disarmo – ha prima lanciato un appello e poi inviato una lettera aperta al ministro della Difesa, Elisabetta Trenta. Tra le Marine militari presenti all’evento, infatti, c’erano quelle di Paesi come l’Egitto di al-Sisi, nonostante il caso Regeni. O, ancora, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Marocco e Qatar, «le cui forze militari sono intervenute, senza alcun mandato internazionale, nel conflitto interno in Yemen», spiegano dal Comitato. E poi, ancora, la Turchia, altro Paese in cui i diritti, stando ad organizzazioni come Amnesty, vengono sistematicamente infranti. Senza dimenticare l’Angola, altro Paese monitorato annualmente da Amnesty. O Iran e Pakistan, Stati in cui vige la pena di morte. E poi, ancora, Paesi «i cui governi – si legge nella lettera – sono responsabili di violazioni delle risoluzioni delle Nazioni Unite». A cominciare da Israele, che da oltre 50 anni occupa illegittimamente diversi territori palestinesi, e il Marocco che da più di 40 anni occupa militarmente il Sahara Occidentale violando i diritti del popolo Saharawi.

L’INCONTRO – Secondo il comitato, dunque, verrebbe meno la tutela della legge n.185 del 1990 che vieta la vendita di armi («tra cui anche le navi militari», chiosa il Comitato) a regimi dittatoriali o Paesi in cui si violano i diritti umani. A differenza, però, del passato e di quanto fatto (o, meglio, non fatto) dall’ex ministro della Difesa Roberta Pinotti, la risposta di Elisabetta Trenta è stata immediata. E, pur avendo partecipato al salone («Non avrebbe potuto fare altrimenti, essendo la Marina un corpo della Difesa», spiegano dal ministero), ha deciso di incontrare una rappresentanza del Comitato. «Ci ha accolti a stretto giro – dicono da “Riconvertiamo SeaFuture” – e peraltro l’incontro si è tenuto proprio al Circolo ufficiale della Marina. In tanti hanno storto il naso…». «Sicuramente è positivo – dice a Left Francesco Vignarca, portavoce della Rete per il disarmo -. Segna un passaggio di discontinuità rispetto a quanto successo negli ultimi anni, in cui la ministra Pinotti non ci ha mai voluto incontrare nonostante diverse richieste anche parlamentari. Certo, per ora nel concreto rispetto alle richieste specifiche non c’è stato un riscontro».

IL PROGRAMMA MILITARE – Difficile, dunque, capire cosa potrebbe accadere da qui in avanti con la maggioranza gialloverde in fatto di programmi militari. «Effettivamente le posizioni dei due partiti di maggioranza in passato sono state anche diametralmente opposte – spiega ancora Vignarca -. Soprattutto il gruppo del Movimento 5 Stelle nella scorsa legislatura ha avuto un atteggiamento di apertura e confronto nei riguardi delle nostre proposte». Resta il fatto, però, che la Marina, senza un intervento concreto, continuerà a dismettere navi anche a Paesi dittatoriali. Per una ragione ben precisa. Come denunciato in passato anche da Milex, l’Osservatorio per le spese militari, in ballo c’è un vasto piano di ammodernamento navale. «Contando su quasi 6 miliardi di euro sotto forma di contributi ventennali garantiti dalla legge di Stabilità approvata dal governo Renzi nel dicembre del 2014 – spiega a Left Beretta – la Marina militare sta infatti procedendo al rinnovo della propria flotta navale». Nel dettaglio, si prevede di sostituire, entro il 2025, 54 unità navali sulle 60 in servizio. «La volontà di far cassa vendendo queste navi soprattutto ai paesi dell’Africa e del Medio Oriente viene spiegata con la loro “esigenza di dotazioni militari con tempi di consegna e budget più contenuti”». Il nuovo programma militare, approvato dal precedente governo nel 2014, prevede una spesa di ben 5,4 miliardi di euro, spalmati su 19 anni, dal 2014 fino al 2023. E prevede, nel dettaglio, l’acquisto di sei pattugliatori polivalenti d’altura più quattro unità aggiuntive, un’unità d’altura di supporto logistico, un’unità anfibia multiruolo e due unità navali polifunzionali ad altissima velocità. Ci si chiede solo se sia, questa, una ragione valida per vendere le navi italiane anche a dittature e regimi in guerra.