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Le vittime di tratta ora sono finite nella rete delle mafie transnazionali

20080827 - GENOVA - CLJ - PROSTITUZIONE: COMUNE GENOVA, VIA LIBERA A SGOMBERO 'BASSI'. Alcune ragazze nigeriane attendono l'arrivo dei clienti lungo via della maddalena nel cuore del centro storico di Genova. L'ordinanza, che recepisce il decreto sicurezza Maroni ed e' gia al centro di polemiche anche in seno alla maggioranza di centrosinistra, e' stata messa a punto nei dettagli ieri sera in un incontro tecnico tra l'assessore alla Sicurezza Francesco Sidone, i dirigenti della Polizia municipale e i legali dell' Avvocatura. Dopo l'ok del Prefetto sara' firmata dal sindaco. L'obiettivo, ha spiegato oggi in una conferenza stampa l'assessore alla Citta' sicura Francesco Sidone, ''e' di eliminare il degrado che deriva anche dalla prostituzione e di restituire la zona della Maddalena a abitanti, turisti e commercianti. ANSA/LUCA ZENNARO/i50

La tratta, un crimine lo è sempre stato. Ma, ora, quella delle donne straniere, per lo più nigeriane, a scopo di sfruttamento sessuale è diventata un vero e proprio affare criminale. Ammantato di magia, da riti woodoo usati a fini manipolatori, è un dramma esistenziale che da una parte, le assoggetta al vincolo del debito contratto con le organizzazioni che ne hanno consentito l’espatrio e dall’altra, le subordina, economicamente, moralmente e psicologicamente, agli sfruttatori con il patto di restituzione del denaro ricevuto. Fra i venticinque e i trentacinque mila euro.

«Visti i numeri – i dati più attendibili sono quelli dell’Organizzazione mondiale per le migrazioni del 2017 -, e si parla di migliaia di donne, è, senza dubbio alcuno, un traffico organizzato da una struttura internazionale», spiega a Left il presidente di Piam onlus (Progetto integrazione accoglienza migranti), Alberto Mossino, esperto di tratta, scrittore (politicamente scorretto) sul tema, con all’attivo un premio John Fante, e primo, in Italia, ad aver sperimentato, con successo, modi e percorsi per l’accoglienza diffusa. Mossino continua: «Non è più il fenomeno degli anni Novanta: la figura della madame, che gestiva le donne dal reclutamento fino alla prostituzione nella terra di destinazione, è superata. Ormai, è un vero e proprio affare mafioso».

A confermarlo, sia l’ultimo rapporto sulla criminalità organizzata, elaborato semestralmente dalla Direzione investigativa antimafia, che riconosce il traffico nigeriano come associazione di stampo mafioso, sia la sua stessa struttura. «Queste mafie transnazionali hanno capacità monetarie ed economiche piuttosto consistenti, capacità logistiche di darsi controllo e di corruzione politica: conoscono molto bene il sistema legislativo e come aggirarlo; hanno precisi contatti italiani, anche con studi legali che, guarda caso, sono sempre gli stessi per tutte le ragazze che vanno (indirizzate) a fare richiesta d’asilo», precisa Mossino.

Che ci sia un nucleo criminale ramificato, nuovo rispetto al passato, lo si scopre anche dal differente assoggettamento schiavistico delle vittime. «Per questo cambio di passo – dice Mossino -, se le vittime nel 2000 erano molto più schiavizzate, sottoposte a un pressante controllo quotidiano, ora, il ricatto per pagare il debito, ricadendo sulla famiglia d’origine, le ‘libera’ dal puntuale dominio fisico e, seppure ugualmente oppresse, hanno più possibilità di movimento».

In concreto, «prima la madame picchiava la ragazza se non portava i soldi, adesso questa prassi si è allentata perché l’organizzazione, appunto, permette, in ogni momento, di rintracciarla e, soprattutto, di rivendicarsi sulla famiglia in Nigeria», racconta il presidente di Piam. Secondo il quale, per fermare un sistema internazionale ultraorganizzato, «bisogna colpire i trafficanti con operazioni che non possono essere messe in atto solo dalle nostre procure, peraltro ben funzionanti e le più temute in Europa, ma devono essere strutturate a livello internazionale». Perché, aggiunge, «i nostri servizi rispondono bene, la direzione è giusta, è la pressione che manda in burnout il sistema italiano». E anche perché loro denunciano raramente. Immaginano maledizioni conseguenti al tradimento del rito di magia nera. Nera come la prostituzione.

«Naviga italiano»

«Navigare italiano non è solo uno slogan ma un impegno: significa darvi solo il meglio e trasformare ogni vostro viaggio in una vacanza con un servizio 100% made in Italy»: è lo sconcertante messaggio pubblicitario che Moby e Tirrenia hanno pensato per promuovere i propri servizi e che ieri campeggiava a piena pagina su alcuni quotidiani e faceva bella mostra sulla pagina Facebook della compagnia. Per leggere i commenti vi basta fare un giro sui social e fare due conti su come agitare un po’ di nazionalismo per un pugno di biglietti non sia stata un’idea brillantissima.

Secondo Moby (che poi è anche Tirrenia e Toremar) il fatto di avere dipendenti tutti italiani sarebbe di per sé una garanzia di buon servizio (forse per l’adagio degli italiani popolo di santi e navigatori) nonostante gli schettini. Secondo loro, in pratica, alla stregua di una buona pizza il traghetto senza stranieri sarebbe un certificato di autenticità nel carico scarico di auto vacanziere.

Saltano all’occhio un paio di cose, intanto. La compagnia ha 4.750 lavoratori stranieri (che i capi sminuiscono con un “sono meno del 6%” come se fossero un’onta). Ma c’è di più e peggio: Vincenzo Onorato, patron della compagnia, ci dice che il razzismo non c’entra nulla e che quel messaggio starebbe solo a significare che tutti i suoi dipendenti sono “regolarmente pagati con contratti nazionali” a differenza dei suoi competitori che sfrutterebbero i lavoratori.

Così viene da chiedersi se fosse tanto difficile scrivere «Naviga con lavoratori regolarmente assunti» che avrebbe avuto un sapore del tutto diverso e che probabilmente avrebbe avuto anche un discreto successo rispetto alla cretinata partorita dagli illustri pubblicitari al soldo di Moby. O forse, semplicemente, ancora una volta ciò che conta è gettare l’amo per riuscire a far parlare di sé. “Molti nemici molto onore” diceva quel tale. Tutto italiano.

Buon martedì.

Così Stati Uniti e Russia vendono armi per le guerre del mondo

epa06550727 Former Taliban members surrender their weapons during a reconciliation ceremony in Herat, Afghanistan, 21 February 2018. A group of ten former Taliban members on 21 February laid down their arms in Herat and joined the peace process. EPA/JALIL REZAYEE

Metà delle armi americane negli ultimi cinque anni è finita in Medio Oriente. Il Sipri (Istituto internazionale di ricerche sulla pace) ha pubblicato il suo ultimo report: è cresciuto del 10 per cento tra il 2013 e il 2017 il trasferimento globale di armi rispetto ai cinque anni precedenti e continua ad aumentare. È l’America a vendere più armi di tutti: il 34 per cento delle armi vendute nel mondo arriva dagli Stati Uniti.

Il direttore del programma per le spese militari del Sipri, Aude Fleurant, ha detto che «in base agli accordi firmati durante l’amministrazione Obama, la consegna di armi tra gli anni 2013 e 2017 ha raggiunto il suo livello più alto dagli anni 90. Questi accordi e altri grandi contratti firmati nel 2017 dimostrano che gli Usa rimarranno il più grande esportatore di armi al mondo nei prossimi anni».

In Medio Oriente, dove quasi tutti i Paesi della regione sono stati coinvolti nei conflitti più sanguinosi degli ultimi anni, a fornire armi sono state America, Regno Unito e Francia. L’Arabia Saudita, uno dei più grandi importatori al mondo, compra tutte le sue armi da Europa ed America. La Russia, che rimane il secondo Paese al mondo nell’esportazione di armi, ha diminuito il volume di vendite del 7.1 per cento rispetto al 2013. Il Regno Unito arriva sesto nella classifica delle esportazioni. Prima ci sono Francia, Germania e Cina. Israele, che ha aumentato i suoi import del 125 per cento, come dimostra il report Sipri, ottiene le armi da America, Germania e Italia.

In Russia, dove la Giornata della donna racconta un’emancipazione incompiuta

epa06589175 A member of the Russian feminist movement attends a rally dedicated to the struggle for women's rights and against the Patriarchate in St. Petersburg, Russia, 08 March 2018. The International Women's day is celebrated worldwide on 08 March. EPA/ANATOLY MALTSEV

Questa settima vi racconterò un po’ di come si vive l’8 marzo in Russia. Qui chi ha vissuto nell’Unione sovietica (diciamo che ha più di 40 anni) spesso sa che si tratta di una celebrazione assunta dalla Seconda Internazionale. Ma perché lo ha letto negli abecedari scolastici e non certo perché esista una tradizione femminista nel Paese (tutt’altro).

Potrà sorprendere, ma se si eccettua il Capodanno e forse il 9 maggio (il Giorno della vittoria nella Grande guerra, ndr), l’8 marzo è la festa russa più importante. Si percepisce la primavera nei profumi e nelle giornate che si allungano anche se la neve decora ancora parchi e giardini. Ma soprattutto per altri motivi.

Intanto si sta a casa dal lavoro per due giorni, non solo l’8 ma anche il 9. Inoltre sui posti di lavoro – spesso a spesa dell’azienda – il 7 marzo a pranzo si “aprono i tavoli”, così si dice qui, e si mangia e si beve. Per alcuni finisce anche in sbronza e quindi anche il 7 è un giorno lavorativo sui generis.

Infine, è soprattutto una comunione delle donne. Amiche, madri e figlie, colleghe di lavoro escono a cena o addirittura partono per un lungo week-end. Lontane dagli uomini: così anelati in un Paese dove esiste – assieme non casualmente a Ucraina e Bielorussia – il più basso rapporto tra uomini e donne al mondo (0,81 uomini per 1 donna), ma così antropologicamente diversi. In coppia si vedono in giro perlopiù giovani coppie appassionate, intralciate nelle effusioni solo dal gran mazzo di fiori d’assoluta ordinanza.

La storia delle donne in Urss e poi in Russia è peculiare, complessa, tragica, ma mi verrebbe da dire, approfittando dell’occasione, anche romantica. È la storia di una emancipazione incompiuta laddove lo straordinario ruolo sociale ed economico della donna (altro che “sesso debole”!) è sempre convissuto con una cessione di responsabilità politica e istituzionale verso l’uomo. In questo senso, balza all’occhio subito come la società russa e sovietica non abbia conosciuto la stagione del ’68 e del femminismo.

L’8 marzo anche la sinistra russa ha tenuto delle iniziative. A Mosca un presidio nella centralissima via Arbat e di seguito una serata-dibattito. A San Pietroburgo c’è stato un corteo (in foto, ndr). Lo scorso anno era stato vietato dalle autorità, quest’anno è andato tutto liscio. Un piccolo passo avanti in un Paese in cui ancora spesso misoginia e sciovinismo la fanno da padroni.

Buongiorno Mosca! 
Storie, vicende e riflessioni dalla Russia
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Ho scritto una bufala. Scusatemi

Il 27 febbraio, in occasione del mio abituale buongiorno, avevo deciso di condividere un testo attribuito a Goebbels che ho incrociato in una discussione con un collega. Gli undici principi (qui trovate il mio articolo) erano un’illuminante fotografia di alcune dinamiche elettorali e il riferimento bibliografico (Goebbels’ Principles of Propaganda di Leonard W. Doob, pubblicati in Public opinion and propaganda; A book of readings edito da The society for the psychological study of social issues) mi hanno indotto a credere che fosse importante renderli pubblici per aprire una riflessione.

E ho sbagliato. Ho peccato di superficialità. Ho dato credito a una fonte che non ne aveva. Se cercate in rete gli undici principi sono estremamente diffusi in tutte le lingue del mondo eppure la traduzione letterale di quel passaggio negli scritti di Leonard W. Doob è sostanzialmente diversa. Roberto Sedda nel suo blog ha scritto un lungo post (e lo ringrazio, perché la sua critica mi corregge ma soprattutto mi permette di essere migliore) ne riporta una traduzione:

  1. Il propagandista deve avere accesso alle informazioni riguardanti i fatti e l’opinione pubblica
  2. La propaganda deve essere pianificata ed eseguita da una sola autorità
    1. questa deve emettere tutte le direttive riguardanti la propaganda
    2. deve spiegare le direttive agli ufficiali principali e deve mantenere alto il loro morale
    3. deve sovraintendere alle attività delle altre agenzie che hanno conseguenze sulla propaganda
  3. Le conseguenze propagandistiche di un’azione devono essere considerate quando la si pianifica.
  4. La propaganda deve influenzare la politica e le azioni dell’avversario
    1. censurando il materiale propagandisticamente desiderabile che può fornire all’avversario informazioni utili
    2. disseminando apertamente propaganda i cui contenuti o tono inducano l’avversario a trarre le desiderate conclusioni
    3. inducendo l’avversario a rivelare informazioni vitali circa se stesso
    4. non facendo riferimento a un’attività dell’avversario che si desidera venga compiuta, se qualunque riferimento discrediterebbe quell’attività
  5. Informazioni operative e declassificate devono essere disponibili per condurre una campagna propagandistica
  6. Per essere accolta, la propaganda deve catturare l’attenzione del pubblico e deve essere trasmessa attraverso un mezzo di comunicazione che riscuota attenzione.
  7. La sola credibilità deve determinare se un prodotto propagandistico debba essere vero o falso
  8. Lo scopo, il contenuto e l’efficacia della propaganda nemica; la forza e l’efficacia di uno scoop; e la natura della campagne propagandistiche in corso determinano se la propaganda dell’avversario dovrebbero essere ignorate o smentite
  9. La credibilità, le informazioni riguardo all’avversario e i possibili effetti della comunicazione determinano se materiali di propaganda debbano essere censurati
  10. Materiali provenienti dalla propaganda del’avversario possono essere utilizzati nelle operazioni se questo aiuta a diminuire il suo prestigio o sostengono gli obiettivi propri del propagandista
  11. La propaganda nera può essere impiegata invece di quella bianca qualora questa sia meno credibile o possa produrre effetti indesiderati
  12. La propaganda può essere facilitata da leader dotati di prestigio
  13. La propaganda va accuratamente gestita rispetto al momento
    1. la comunicazione deve raggiungere il pubblico prima della propaganda concorrente
    2. la campagna di propaganda deve iniziare al momento più opportuno
    3. Un tema propagandistico deve essere ripetuto, ma non oltre il punto dopo il quale l’effetto diminuisce
  14. La propaganda deve etichettare eventi o persone con frasi o slogan distintivi
    1. questi devono evocare le risposte desiderate che il pubblico già possiede
    2. questi devono essere capaci di essere imparati facilmente
    3. questi devono essere utilizzati più e più volte, ma solo in situazioni appropriate
    4. questi devono essere a prova di effetto boomerang
  15. La propaganda rivolta al fronte interno deve prevenire il sorgere di false speranze che possono essere schiacciate da eventi futuri
  16. La propaganda rivolta al fronte interno deve creare il livello di ansia ottimo
    1. la propaganda deve rinforzare l’ansia riguardante le conseguenze della sconfitta
    2. la propaganda deve ridurre l’ansia (diversa da quella riguardante le conseguenze della sconfitta) che sia troppo alta e che non possa essere ridotta dalle persone da sole
  17. La propaganda rivolta al fronte interno deve diminuire l’impatto della frustrazione
    1. la frustrazione inevitabile deve essere prevista e anticipata
    2. la frustrazione inevitabile deve essere posta in prospettiva
  18. La propaganda deve facilitare il reindirizzamento dell’aggressività specificando il bersaglio dell’odio
  19. La propaganda non può agire direttamente su forti contro-tendenze, ma invece deve offrire qualche forma di azione o distrazione, o entrambe.

Letti così i 19 comandamenti suonano sicuramente meno agghiaccianti (e soprattutto meno “utili” per sovrapporsi alla nostra realtà) nonostante risultino istruttivi ma non è questo il caso in cui mi interessa dire “ho sbagliato ma di poco” o “il senso di fondo è lo stesso”. Il documento originale lo trovate qui.

In questo tempo ritengo fondamentale non cedere alle semplificazioni e non accettare scorciatoie utili per sostenere le nostre opinioni quindi me ne scuso con i miei lettori. Perché quello che possiamo (e dobbiamo) fare è usare la nostra scrittura (e confidare nei nostri affezionati lettori) per tenere l’informazione sempre dritta e le parole sempre pulite. Ogni errore è una lezione se lo si riconosce.

Buon lunedì.

(A proposito di propaganda nazista tornano utili i link dell’United States Holocaust Memorial Museum, Washington DC, qui:

Il socialismo 2.0 del Partito belga del lavoro

BRUSSELS, BELGIUM - MAY 1: Supporters of Workers' Party of Belgium (PTB) hold placards as they attend a rally to mark International Worker's Day in Brussels, Belgium on May 1, 2015. (Photo by Dursun Aydemir/Anadolu Agency/Getty Images)

L’incendio è stato causato dalla sete di profitto. Così commentava a proposito della nota catastrofe avvenuta alla Torre Grenfell di Londra nel giugno del 2017 Han Soete, giornalista a capo della rivista del Partito del lavoro del Belgio (Parti du travail de Belgique, Ptb). «Sarebbe bastato spendere i 5.700 euro previsti per la manutenzione dell’immobile per evitare l’incendio», denunciava Soete, «ed evitare di chiudere le caserme dei pompieri come voluto pochi anni prima dal sindaco conservatore di Londra Boris Johnson».

La lotta alle ineguaglianze sociali e la denuncia degli squilibri del sistema capitalista con le sue gravi conseguenze, come nell’incidente della Torre Grenfell, sono i pilastri dell’azione del Ptb. Il partito mostra una notevole coerenza coi propri principi. Per esempio i suoi eletti al parlamento federale devono vivere con un salario compreso tra i 1500 e i 1800 euro e versare il resto in indennità al partito. «Se non si vive come si pensa, si comincia a pensare come si vive», ha spiegato Raoul Hedebouw, uno dei due deputati Ptb eletti nella camera più alta del Belgio. La sensibilità al tema della corruzione è del resto molto cresciuta tra i belgi, che hanno assistito negli ultimi anni a numerosi casi di corruzione dei partiti. I socialisti, in particolare, sono stati protagonisti di una serie di scandali che hanno provocato una crisi di rigetto tra i loro sostenitori.

Questa piccola formazione politica di ispirazione marxista-leninista è rimasta a lungo ai margini dello scacchiere politico belga, incapace di superare persino l’1% dei voti. Recentemente però le cose sono cambiate…

Il reportage di Matteo Guidi da Bruxelles prosegue su Left in edicola


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La fotografia intimista di Sina Niemeyer

La pelle in cui viviamo, la nostra barriera difensiva ma anche mezzo di contatto e calore e la capacità della fotografia di fare da ponte tra noi e il mondo. Tutto questo è stato “The skin I live” – quinta edizione del Social Photo Fest, dal 10 marzo all’8 aprile a Perugia. L’interesse crescente per la fotografia intimista e la nascita di numerosi progetti personali di tipo “diaristico” ci dicono che la ricerca interna, la messa a nudo nell’affrontare le assenze, gli affetti e la memoria non sono esigenze creative del singolo fotografo, ma diventano ricerca comune, di artisti e fruitori, in uno scambio continuo di significati e sensazioni. La fotografia, come la pelle, si colloca in una linea di confine tra la nostra realtà corporea e interiore e il resto del mondo. Diversamente da altri ambiti fotografici, dove la spasmodica ricerca di perfezione tecnica supera a volte il contenuto stesso dello scatto, nel mondo della fotografia intimista la tecnica perde d’importanza, diventando funzionale al messaggio. Non ci sono formule o schemi predefiniti da seguire, non ci sono regole o limiti ma flussi di dialoghi. Ne è esempio “Fur mich” (per me) complesso lavoro della fotografa Sina Niemeyer, in cui foto, scrittura e collage creano un racconto doloroso e frammentato verso l’accettazione del proprio corpo dopo una violenza subita. Non esiste una check list, una spunta delle cose che una fotografia può significare, perché i fattori che entrano in gioco nella comprensione sono molteplici e vanno a toccare le corde profonde dell’Io: il senso di un’immagine sarà svelato nel motivo per cui ho fotografato una determinata cosa, in quale modo e nel perché voglio mostrarla agli altri. E il modo in cui gli altri la leggono, il significato creato dall’osservatore durante il processo di percezione o “foto proiezione”, aprirà a sua volta nuovi canali interpretativi. Anche questa è fotografia. O forse è proprio questa la sua essenza più profonda. Non è mestiere, non è tecnica. E’ estensione di sé, del proprio essere sommerso e ha la capacità di unire chi fotografa con il mondo esterno grazie ad un processo di introiezione prima e di estroversione poi, in una dinamica “dentro-fuori” tipica di questo mezzo. Le fotografie parlano di noi, di tutti noi, di chi siamo, di come amiamo, soffriamo e ricordiamo. Sono grandi vasi di Pandora da cui scaturiscono risate, odori e sapori. Ne è un esempio il progetto fotografico “Notes for a silent man” di Emanuele Camerini: “La fotografia mi diede la possibilità di affrontare di petto una questione molto intima e delicata che evitavo da anni, la relazione tra me e mio padre. Non riuscendo dunque a veicolare a parole le difficoltà che percepivo nei suoi confronti, i miei sentimenti verso di lui, la mia richiesta di una presenza paterna, la fotografia è divenuta mezzo di espressione attraverso il quale comunicare con lui…”. L’intento era quello di mostrare a mio padre luoghi a lui familiari da una prospettiva adulta, matura, e non più da figlio incapace di muovere i suoi passi nel mondo”. Il fotografo si mette in discussione cercando di affrontare, attraverso la fotografia, temi come quello dell’assenza, della malattia, dell’affetto e della memoria, che spesso non è in grado di risolvere in maniera diversa. Ma è anche il modo in cui l’artista concretizza con mezzi “adulti” il suo bisogno di giocare e di immaginare in piena libertà.

La fotografia non è efficace quindi soltanto nel disagio ma viene oggi largamente impiegata, come strumento ‘facilitatore’ e di supporto, all’interno di contesti comunitari (scuole, corsi di formazione, centri sociali…), allo scopo di aiutare le persone a diventare maggiormente consapevoli di alcuni aspetti della propria personalità e dei propri modi di essere diventando così, fotografia ad azione sociale. Le fotografie possono davvero cambiare il mondo, anche se il mondo è circoscritto a un solo corpo. “La fotografia può essere uno strumento per dare un senso a ciò che sta accadendo nel mondo, ma anche dentro di noi”, afferma Katharina Bauer, autrice del progetto “+Youme”.

La fotografia intimista non parla solo di “quel corpo”, di “quella famiglia”, di “quella storia”, ma delle nostre. Narrare la propria storia, e permettere agli altri di proiettarvi la propria: questa è la grande capacità di fare arte e fotografia.

La resistenza continua degli invisibili di Nabi Saleh

Una luce, a un tratto. E esplode una granata. Sono le 2.20, è notte fonda, quando l’esercito ci piomba addosso, ma nessuno si scompone. «In genere arrivano un po’ più tardi», mi dice Manal Tamimi, e si piazza dietro la finestra a filmare tutto in diretta per una tv locale. Il mirino di un mitra M16 puntato contro. Sei, sette militari saltano giù dai blindati, e si sparpagliano rapidi tra le strade. Sparano un po’ in aria, prevalentemente bombe sonore, bombe che stordiscono, non feriscono, e poi lacrimogeni, lacrimogeni ovunque, e subito sui tetti, tra i cortili, sgusciano le sagome nere dei palestinesi: che rispondono con fionde e pietre. Ma il raid non ha una ragione particolare, in realtà. I soldati non cercano nessuno. Non perquisiscono nessuna casa. Per cui sono tutti tranquilli. Nella camere da letto, qui, sul comodino, hanno la sveglia e una maschera antigas.

«E poi in fondo, si sta più sicuri in carcere che fuori», dice Manal. Parla per esperienza diretta. Come molti palestinesi, è stata arrestata più volte. Ma dai rubinetti di casa sua, non viene che un filo d’acqua – oggetto di contesa ormai quanto la terra, qui. E quindi, del carcere la prima cosa che ti dice è: «La doccia era magnifica».
Nabi Saleh, in realtà, non è che un anonimo agglomerato di case nel mezzo della West Bank. Ma sono mesi che è sulla stampa di mezzo mondo: è qui infatti che Ahed Tamimi, 16 anni, dopo che suo cugino è finito in coma con un proiettile in testa, e mezzo cranio in meno, ha visto un soldato all’ingresso di casa, e gli ha detto di andare via, e ha cominciato a strattonarlo: e gli ha tirato uno schiaffo.

Era il 18 dicembre. Poco dopo, l’esercito è tornato…

Il reportage di Francesca Borri da Ramallah prosegue su Left in edicola


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In 15mila al corteo antirazzista per Idy Diene a Firenze

Firenze città aperta. E antirazzista. È stata una manifestazione pacifica e colorata, piena di cori, abbracci e umanità, quella che si è tenuta oggi pomeriggio lungo le strade del capoluogo toscano per per ricordare Idy Diene, il cittadino senegalese ucciso lunedì 5 marzo sul ponte Vespucci, di cui è stata confermata la matrice razzista dell’omicidio, per mano del tipografo in pensione Roberto Pirrone. Circa 15mila persone, tra uomini, donne e bambini, italiani e senegalesi insieme, hanno dissipato con la loro presenza le nubi nere del razzismo che nei giorni scorsi si erano addensate sopra Firenze. “Ha vinto l’umanità” ha detto la presidente dell’associazione dei senegalesi fiorentini, Diye Ndyaie.

Il momento più toccante è stato quello della preghiera collettiva sul luogo dell’omicidio, dove l’imam della comunità locale, Izzeddin Elzir, ha intonato un canto  per Idy. E poi cartelli, striscioni dei ragazzi delle scuole e dell’università, magliette colorate, bandiere italiane con al centro un cuore con i colori del Senegal. Al posto della musica, il coro ritmato “Basta razzismo” scandito per tutto il lunghissimo corteo, partito da piazza Santa Maria Novella fino a ponte Vespucci, là dove è stato commesso l’omicidio razzista. Ed era proprio questo che oggi Firenze, la città medaglia d’oro della Resistenza e la città aperta del Social Forum Europeo del 2002, doveva dimostrare, soprattutto a se stessa. E la risposta per fortuna c’è stata. Basta polemiche, basta insinuazioni, la città ha risposto compatta, solidale, umana. Oggi a sfilare c’era la città che non vuole che si parli delle fioriere rotte, e di arredo urbano graffiato, che non vuole morti ammazzati per il razzismo, neanche di quel razzismo “pre politico” come lo ha definito qualcuno, e forse per quello ancora più pericoloso.

Il sindaco Dario Nardella ha confermato che nei giorni del funerali in Senegal di Idy Diene sarà tenuta a Firenze una cerimonia commemorativa e sarà indetto il lutto cittadino, e il Comune si farà carico delle spese legali per il rito funebre di Idy “il saggio”, come era chiamato dai suoi.

Una saggezza dimostrata da tutti i manifestanti, dopo le polemiche e le contestazioni dei giorni scorsi al sindaco per un suo tweet di dubbio gusto nel giorno dell’uccisione del cittadino senegalese, e per la mancata concessione del lutto cittadino mentre la città si stringeva nel dolore per il giovane capitano della Fiorentina Davide Astori, ai funerali in Santa Croce. Oggi per le strade a Firenze c’era la città che non vuole che ci siano morti di serie A e morti di serie Z.

Sabina Guzzanti: «C’è un’Italia solidale, oltre il racconto della Tv»

Dal palco di piazza Dante a Napoli, in chiusura della campagna elettorale di Potere al popolo, Sabina Guzzanti aveva espresso, più che un augurio, una certezza: la lotta della nuova formazione di sinistra proseguirà a prescindere dal risultato elettorale. «Mi convince il fatto che in loro ci sia quella determinazione, quella sete di giustizia che c’è solo quando sono i giovani a muoversi», aveva poi aggiunto. Da qui, l’endorsement senza se e senza ma: «Penso che votare Potere al popolo, poggiando una pietra sulla quale si possa ricostruire una sinistra, sia un gesto molto utile, significa riaprire per milioni di persone la possibilità di essere rappresentate». I risultati elettorali avrebbero poi collocato il partito al di sotto delle aspettative (poco sopra l’l%) in elezioni dove a cantar vittoria sono stati Cinque stelle (32%) e Lega (quasi 18%). Abbiamo incontrato Guzzanti la sera dello spoglio dei voti all’ex Opg occupato Je so’pazzo di Napoli, dove Potere al popolo è nato e dove l’attrice e regista è impegnata a filmare un documentario. Con lei abbiamo discusso della sinistra, del suo nuovo progetto cinematografico e del risultato delle elezioni.

Sabina, in questa campagna elettorale hai seguito l’esperienza di Potere al popolo. Per quale motivo?
Innanzitutto perché sono stati gli unici a fare una campagna elettorale con grande entusiasmo, con autenticità. Poi ho incominciato a girare un documentario e li ho potuti conoscere meglio. Ho deciso quindi anche di votarli, perché mi sembrano una sinistra seria, finalmente, che ha trovato un modello per interpretare il marxismo in modo contemporaneo, liberandosi di tanti dogmi e modi di fare antichi che non attraggono più nessuno. E risultano noiosi, perché impediscono di ragionare liberamente. Mi sembrano molto liberi, invece, i militanti di Pap, molto sinceri, pieni di dedizione e, al di là delle teorie, si dedicano ai diritti, agli immigrati in modo commovente.

Come è nata l’idea del tuo documentario?
È nata in modo molto estemporaneo. Sentivo parlare di loro (degli attivisti di Napoli dell’ex Opg Je so’pazzo, nda), avevo deciso di andarli a trovare e, per una coincidenza incredibile, un’ora dopo che avevo preso questa decisione, ho scoperto che..

L’intervista di Roberto Prinzi a Sabina Guzzanti prosegue su Left in edicola


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