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Verbitsky: Con Macri l’Argentina rivive gli incubi del passato

epa05879907 Thousands of people march during a protest organized by Argentina's trade unions against the economic measures of the government of President Mauricio Macri in Buenos Aires, Argentina, 30 March 2017. EPA/DAVID FERNANDEZ

Il 10 dicembre 2015 Mauricio Macri è diventato presidente della Repubblica argentina vincendo il primo ballottaggio della storia del suo Paese, contro il candidato peronista Daniel Scioli. E da quando esiste il suffragio universale, cioè dal 1916 (allora votavano solo gli uomini), è anche il primo presidente che non è sostenuto né dal partito di centro, l’Unione civica radicale, né dal partito peronista. Il suo partito è di destra e si chiama Impegno per il cambiamento. Fu lui a fondarlo nel 2003 nel pieno della gravissima crisi economica iniziata a fine XX secolo. Nel 2005 è confluito nella coalizione Proposta repubblicana, presieduta dallo stesso Macri. Ma come vedremo, questi non sono i suoi unici primati. Left ha chiesto a Horacio Verbitsky, uno dei più attenti e precisi giornalisti d’inchiesta latinoamericani, di aiutarci a far luce sulle conseguenze delle politiche liberiste di Macri sulla democrazia e sul tessuto sociale del Paese. Ne emerge un quadro che ha sinistre analogie con un passato, quello degli anni della dittatura civico militare (1976-83), che la parte sana della società civile argentina pensava di non dover vivere mai più. “Nunca mas!”.

Come valuta l’attuale governo?

Mauricio Macri è il primo presidente della destra dura e pura che arriva al governo in Argentina attraverso il voto e non por las botas (modo di dire colpo di Stato militare, ndr). E guida un partito nuovo che il sistema politico argentino non ha ancora del tutto assimilato. Nel 2001 in Argentina la parola d’ordine era: «Che se ne vadano tutti». Oggi si è trasferita dalla periferia al centro, nel cuore della finanza mondiale, come dimostrano in Europa la Brexit e le prospettive inquietanti in Francia, Olanda, Austria e Germania, e, negli Usa, l’elezione di Donald Trump il cui presunto isolazionismo è stato peraltro smentito dall’annuncio di un aumento del budget per le spese militari.

Cosa implica che la destra argentina abbia raggiunto questo peso elettorale?

La chiusura di un ciclo nel quale le classi dominanti non hanno mai avuto una espressione politica propria e per prendere il potere sono dovute ricorrere ai colpi di Stato oppure sfruttando i partiti popolari come dei parassiti.

Quando e come è iniziato questo ciclo?

L’oligarchia agricola che nel XIX secolo organizzò la Nazione Argentina inserendola nel mercato mondiale come perfetto complemento della industria britannica, in base a quanto teorizzato da David Ricardo, non ha mai potuto istituzionalizzare la sua egemonia. Nel 1916, di fronte alla forte pressione popolare, per la prima volta convocò libere elezioni e le perse. Avendo così scoperto che oltre alla forza lavoro l’immigrazione portava con sé idee socialiste e anarchiche, quella borghesia liberale terminò immediatamente il processo di secolarizzazione del Paese e si buttò nelle braccia della Chiesa cattolica. La dottrina ecclesiastica sull’origine divina del potere e dell’ordine naturale, gerarchico e immutabile, razionalizzò l’avversione dei capitalisti per l’imprevedibilità della democrazia rappresentativa e per qualunque alternativa rivoluzionaria. Quella stessa Chiesa convertì le Forze armate nel partito militare che tra il 1930 e il 1990 realizzò almeno un colpo di Stato per decennio con il fine di impedire che i partiti popolari (la Union Civica Radical di Ippolito Yrigoyen prima, e il Justicialismo di Juan Peron dopo) consolidassero un’agenda politica basata sull’equa distribuzione del reddito e sulla partecipazione popolare alla cosa pubblica.

Restiamo in tema di economia per capire dove affondano le radici dell’operazione politica di Macri. Può dirci qualcosa in più sul rapporto tra la destra e la Chiesa argentina?

Sul piano economico, fino alla seconda guerra mondiale, l’Argentina è dipesa dalla Gran Bretagna. Dopo la fine del conflitto è entrata nell’orbita statunitense. Va tuttavia rilevata una forte influenza della estrema destra cattolica francese che, con il sostegno della Conferenza episcopale, introdusse nell’esercito argentino i metodi che i militari di Parigi impiegavano per stroncare le rivolte nei domini coloniali. Le misure neoliberali e l’iper indebitamento della dittatura militare del 1976-1983 e in seguito dei presidenti Carlos Menem e Fernando de la Rua negli anni 90, hanno avuto l’appoggio ecclesiastico.

Bergoglio ha spesso puntato il dito contro le politiche liberiste, questo segna un punto di rottura con Macri e con il passato?

Oggi papa Francesco condiziona i vescovi argentini con le sue critiche al liberismo. Ma si tratta di una posizione che non è affatto basata su idee progressiste. Le radici vanno ricercate nel solco del populismo conservatore tracciato alla fine del XIX secolo da Leone XIII, poi ripreso negli anni 30 da Pio XI, infine da Giovanni Paolo II con le cosiddette encicliche sociali. Questa strategia, che consente alla Chiesa di contendere ai partiti popolari e alle ideologie di sinistra il controllo delle classi subalterne, è in piena esecuzione.

Torniamo a Macri, quali sono le caratteristiche principali del suo governo?

Il nonno del presidente, Giorgio Macri, fu uno dei fondatori in Italia del Partito dell’Uomo qualunque, che dopo la seconda guerra mondiale esprimeva i timori e l’insoddisfazione delle classi medie rimaste orfane del fascismo. L’ideologia qualunquista era fondata sull’antipolitica, ed esprimeva mancanza di fiducia nella cosa pubblica, ed esaltando l’individualismo si opponeva al pagamento delle tasse. Quel partito si insinuò nel tessuto sociale, fin quando il Vaticano si adoperò affinché gli Stati Uniti dessero alla Democrazia cristiana il compito e il potere di contenere l’avanzata del comunismo. Giorgio arrivò in Argentina nel 1946, qui nel 1959 nacque il nipote che avrebbe portato il programma dell’Uomo qualunque alla Casa Rosada. La svalutazione della moneta, la riduzione delle tasse ai più ricchi, l’eliminazione delle sovvenzioni pubbliche all’energia e ai trasporti hanno raddoppiato l’inflazione. Nonostante questo il governo dice che è riuscito a controllarla, in un scandaloso divorzio tra quello che afferma pubblicamente e la realtà dei fatti.

Che tipo di governo è?

Il più omogeneo governo classista. Il punto di accordo tra le diverse fazioni capitaliste che si articolano nel nuovo blocco di potere, è il controllo della classe lavoratrice. Con la promessa di “Povertà zero” ha fatto crollare il livello di attività economica, l’occupazione e la partecipazione dei lavoratori alla produzione di reddito. L’economista Eduardo Basualdo ha analizzato un campione di oltre cento di funzionari di governo insediati da Macri come intellettuali organici dei settori dominanti dell’economia e della finanza per dirla come Gramsci. La conseguenza è che l’egemonia del Paese è slittata. Spostandosi dai gruppi economici locali nella direzione delle banche transnazionali e delle imprese straniere. Più del 70% dei funzionari proviene dal mondo del capitalismo. Sono imprenditori o membri delle “patronales” (una sorta di Confindustria, ndr), oppure di fondazioni private, studi di consulenza o legali, commercialisti o finanziari. La maggior parte ha occupato incarichi nelle banche transnazionali, a seguire ci sono coloro che provengono da posizioni di rilievo in multinazionali straniere di idrocarburi, elettricità, telefonia e informazione. La metà ha conseguito dottorati e master in università statunitensi o britanniche, dove si consolidano le identità ideologiche e le relazioni istituzionali e sociali.

Il 16 gennaio 2016 la deputata del Parlasur, Milagro Sala, nota per il suo sostegno alla causa delle comunità indigene, è stata arrestata e da allora è detenuta senza prove né processo. In che modo Macri attua la politica dei diritti umani? Durante l’era dei Kirchner sembrava una questione risolta.

Il governo ha provato a utilizzare la questione dei diritti umani come arma contro il Venezuela e come scudo protettore di Israele. Un’impresa audace direi. Macri ha girato il mondo chiedendo il rilascio di Leopoldo López, un leader dell’opposizione venezuelana, ma il mese scorso il gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulla detenzione arbitraria – che ha definito arbitrario l’arresto di López e ha chiesto al presidente Maduro la sua immediata liberazione – ha deciso lo stesso riguardo Milagro Sala. La sua retorica si è quindi scontrata con la realtà. Pensava che il mondo si limitasse alle banche transnazionali dalle quali ha preso in prestito fiumi di denaro a un tasso folle (50 miliardi di dollari in undici mesi, il più grande debito nel più breve arco di tempo della storia argentina e senza paragoni al mondo) ma si è sbagliato: la comunità internazionale gli chiede di non criminalizzare i movimenti sociali e di rispettare i loro diritti. E incalzeremo Macri come ha già fatto il premier canadese Justin Trudeau, fino a quando non adempirà all’obbligo di liberare Milagro Sala.

Come si pone Macri verso i processi alla dittatura tuttora in corso?

Vorrebbe rallentarli ma non può. Perché non sono opera di un governo ma il risultato di decenni di lotta delle organizzazioni dei diritti umani. Sono profondamente radicati nella coscienza della società e condizionano le relazioni internazionali. Trudeau, ma prima di lui Hollande e Obama, sono andati al Parco della Memoria a rendere omaggio ai detenuti desaparecidos. La nullità delle leggi di punto finale e obbedienza dovuta (che in sintesi stabilivano l’impunità dei militari genocidi, ndr) fu ottenuta nel 2001 su richiesta del Centro de Estudios Legales y Sociales. Quando Nestor Kirchner andò al governo nel 2003 c’erano già un centinaio di processi in corso e decine di condannati, tra cui gli ex dittatori Videla e Massera. La spinta di Kirchner fu decisiva, ma i processi c’erano prima di lui e continuano oggi. Gli ultimi dati raccolti a settembre dicono che in tutto ci sono state 726 condanne e 337 liberazioni per mancanza di prove (201 inesistenze di merito, 73 assoluzioni e 63 annullamenti). Come conseguenza naturale del suo orientamento di classe il governo sta facendo pressione per tramutare il carcere in arresti domiciliari (dopo i 70 anni e se le condizioni di salute lo consigliano, sono legali) e ostacolare l’avanzamento dei processi in cui sono imputati i complici civili dei militari, siano essi imprenditori o ecclesiastici. Macri ha anche tolto fondi alle politiche dei diritti umani e sta cercando il modo di assegnare nuovamente compiti di sicurezza interna alle Forze armate con il pretesto della lotta contro il terrorismo e il narcotrafico.

Dopo gli Usa con Obama, anche Bergoglio ha annunciato l’apertura di archivi sui desaparecidos. L’incaricato dalla Santa Sede di riordinare le carte ha raccontato a Left che questi sono a disposizione dei magistrati e delle organizzazioni umanitarie, ma possono accedervi solo caso per caso e i giornalisti non saranno autorizzati. Cosa ci si può aspettare da questa operazione?

È l’ennesimo tentativo di ripulire una storia vergognosa senza compiere nessuno dei passi che peraltro impone il catechismo della Chiesa cattolica con il sacramento della riconciliazione, il perdono e la penitenza: riconoscere i “peccati” commessi, impegnandosi a non ripeterli e a riparare il danno causato.

Il capo dei vescovi, Jose Arancedo, ha detto che quando si conosceranno i documenti ci saranno più luci che ombre.

Papa Bergoglio dice che vuole una Chiesa povera e dei poveri, e vescovi che odorano di pecora. Cioè stiano con il gregge. Ma Arancedo odora di mucca e non di pecora, perché lui fa parte di una ricchissima famiglia di imprenditori bovini. I giornalisti stiano pure lontani, questa degli archivi è una operazione pubblicitaria e non ha niente a che fare con la ricerca della verità. Nei miei libri e articoli ho pubblicato molti documenti segreti che non fanno parte della declassificazione annunciata. Si va da una riunione del comitato esecutivo della Conferenza episcopale in cui si discute amabilmente sul modo migliore per eludere le domande circa i desaparecidos, a quello per non compromettere i militari che li hanno uccisi, fino alla richiesta di una sontuosa sede per l’episcopato come prezzo del silenzio, e alle lettere in cui il segretario della Conferenza spiega al suo presidente come la polizia si incaricò di disperdere le Madres de Plaza de Mayo che i vescovi avevano rifiutato di ricevere.

Articolo pubblicato su Left del 3 dicembre 2016

 

Per approfondire, Left n. 37 in edicola fino al 22 settembre 2016


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Morire di blasfemia, Pakistan 2017

epa05187125 Protesters shout slogans during a protest against the execution of Mumtaz Qadri, the ex-police guard who had in January 2011 killed a former governor for opposing the country's blasphemy laws, after he was hanged to death, in Lahore, Pakistan, 29 February 2016. Pakistan on 29 February hanged Mumtaz Qadri, the ex-police guard who killed Salman Taseer, the former governor for opposing the country's controversial blasphemy laws, which impose the death penalty in some cases. The execution took place at a prison in Rawalpindi near the capital Islamabad amid tight security around the prison and in the capital. EPA/RAHAT DAR

In Pakistan, Nadeem James, 35 anni, è stato condannato a morte per aver ridicolizzato il profeta Maometto su whatsapp con una barzelletta. Dopo essere stato denunciato dall’amico con cui comunicava sulla chat, il tribunale lo ha giudicato e condannato alla pena capitale per blasfemia. Nella sentenza, la colpa che gli è stata imputata, è la pubblicazione di materiale che si prendeva gioco dell’islam su una piattaforma digitale, in una chat risalente a giugno 2016.

Spesso le accuse di blasfemia in Pakistan vengono mosse a membri delle minoranze di confessione non musulmana che vivono nel Paese. Nadeem appartiene a quella cristiana. Il suo avvocato, Riaz Anjum, ha reso noto che si appelleranno al verdetto del tribunale di Gurjat della corte pakistana. Solo ad aprile scorso, uno studente, Mashal Khan, è stato picchiato a morte nella sua università a Mardan, in dormitorio, per aver preso parte poche ore prima ad un dibattito sulla religione di Maometto. Venti studenti sono stati arrestati perché ritenuti colpevoli della fine del giovane pakistano ed il Parlamento ha considerato di istituire un corpo di guardia addetto solo alla problematica, perché sono stati 67 gli omicidi per “blasfemia senza prove” dal 1990 in Pakistan ma sono dati indipendenti e approssimati per difetto.

Un mese dopo la morte di Mashal, a maggio, un bambino di dieci anni è morto durante un tentato linciaggio ai danni di un negoziante indù, accusato della medesima colpa di Nadeem: aver postato un’immagine derisoria dell’islam sui social network. Cinquecento persone hanno tentato di ucciderlo nella stazione di polizia in cui si trovava.

Nel 2011 il governatore Salman Taseer ha tentato di riformare la legge che consente allo Stato di uccidere un suo cittadino se lo considera blasfemo, ma è stato a sua volta ammazzato da un islamista. Quando il suo omicida è stato arrestato, è stato condannato morte. Ora è considerato un martire dai radicali religiosi.

Che peccato le “luiginarie” del Movimento 5 stelle

Luigi Di Maio lascia l'hotel Forum al termine dell'incontro con Davide Casaleggio, Roma, 27 giugno 2017. ANSA/ANGELO CARCONI

Il Movimento 5 stelle, come qualsiasi altro partito politico, ha tutto il diritto di puntare per le prossime elezioni su chi ritiene più opportuno. Ha tutto il diritto, anche, di scegliere le modalità di selezione della propria classe dirigente e di proporre il proprio metodo utilizzando la narrazione che preferisce. Non ha il diritto però (e questo sembrano in molti a non capirlo) di sottrarsi al giudizio dei propri meccanismi (ebbene sì, anche quelli interni, perché da come gestisci il tuo stesso partito evidentemente si intuisce come potresti gestire una città, una Regione o magari un Paese intero) e le “luiginarie” che porteranno all’incoronazione (bulgara, proprio come le primarie che hanno sempre contestato agli altri) di Di Maio come candidato premier del Movimento 5 stelle sono qualcosa che risulta addirittura contrario al messaggio originario di Grillo e dei suoi. E mi spiace ma no, non ci credo, non posso credere, che la corsa alla premiership del Movimento sia ben accetta dai militanti e dai parlamentari.

Intendiamoci: non è Di Maio il punto. Sono piuttosto quegli altri sette piccoli indiani (sconosciuti e senza nessuna possibilità di vittoria) e l’assenza di qualsiasi altro candidato di peso gli elementi che trasformano queste primarie nell’ennesimo stanco rito di decisioni già prese da altri.

La contendibilità della leadership all’interno di un partito è l’elemento fondante della democrazia. Che piaccia o no. Le incoronazioni o le successioni ereditarie sono altro. Il passaggio tra Casaleggio padre e Casaleggio figlio nei modi non è diverso dal passaggio di consegne di De Luca padre a De Luca figlio e la primarie di Di Maio non sono diverse nei modi dalle contestatissime primarie dell’ultimo Renzi (vi ricordate le accuse di “mancata competizione” per la guida del Pd?) o, per tornare più indietro, a quelle che portarono Prodi alla guida de l’Unione nel 2005. Ha tutto il solito vecchio rancido gusto. Tutto.

Certo, potrebbe essere un sistema per “proteggere” il M5s dalle lacerazioni interne. E viene da chiedersi allora perché non dirlo, semplicemente, senza fingere una competizione aperta che (legittimamente) non si è voluta. Oppure c’è chi dice che in fondo il programma del M5s in realtà ha solo bisogno di un semplice portavoce: sfugge allora perché il personaggio di Di Maio sia stato “costruito” in questi ultimi anni in quegli stessi salotti (televisivi e di potere) così lungamente osteggiati. Poi ci sono quelli che davvero sono convinti e provano a convincerci che si tratti di “primarie aperte” senza tenere conto del fatto che la sovraesposizione mediatica di Di Maio (spinta a mille da Grillo e Casaleggio) possa non confliggere proprio con “l’uno che vale uno”. Basta mettere scritti uno di fianco all’altro Luigi Di Maio a Gianmarco Novi (tanto per citarne uno, tra gli altri contendenti) per rendersi conto che “la rete” no, non ha “sconfitto” la televisione.

Oppure semplicemente i mali della politica in fondo sono comodi. Per tutti. E questa è una brutta notizia, per tutti.

Buone primarie.

Buon martedì.

Il jihad nascosto nel paradiso dei turisti

Parigi, a Bruxelles, a Tunisi, parli dei jihadisti con i musulmani e tutti ti rispondono mortificati, quasi a volersi scusare, ti dicono: Sono fuori di testa. Qui ti dicono: Sono degli eroi. Le Maldive sono il paese con il più alto numero procapite al mondo di foreign fighters. Ma in fondo chi di noi, intanto, sa che sono un paese musulmano? All’aeroporto, la sala arrivi è in realtà un’altra sala partenze: si atterra, e ci si imbarca subito per una delle isole riservate agli stranieri. Per noi le Maldive sono un arcipelago di 1192 isole: ma per i maldiviani, sono un’isola sola: Male. La capitale. Qui tutto è concentrato nei suoi 5,8 chilometri quadrati. Uffici, ospedali, negozi. Scuole. Banche. E circa 250mila persone: Male è una delle città più sovraffollate del pianeta. Si vive pressati in queste case minuscole e scalcinate, buie, umide, sature di caldo e sudore, in dieci in due stanze: e cioè si vive per strada, perché poi, in spazi così ristretti, diventa tutto un inferno – le Maldive sono il paese con il più alto tasso di divorzi. E dal momento che l’Islam proibisce l’alcol, sono anche il paese con uno dei più alti tassi di eroinomani: il 44 percento degli abitanti ne ha uno in casa. «Perché se non puoi cambiare la tua vita», mi dice un ragazzo, «non ti resta che dimenticarla». Ha 31 anni, si chiama Kinan. Ed è uno dei nomi più noti, e temuti, della criminalità di Male. Il principale datore di lavoro delle Maldive. Perché nei resort, in realtà, sono tutti stranieri: non solo i clienti. «I camerieri, i cuochi, ormai vengono tutti dal Bangladesh, sono tutti immigrati per cui cento dollari al mese sono una fortuna», dice. «Mentre per i ruoli a contatto con i turisti, vogliono solo occidentali. Solo bianchi». I 3,5 miliardi di dollari l’anno del turismo finiscono in larga parte a cinque, sei affaristi con solide amicizie in parlamento. Agli altri, non restano che gli spiccioli. Mance, letteralmente. Male è spartita tra una trentina di gang: ognuna legata a un certo deputato, a sua volta legato a un certo imprenditore. «Siamo al loro servizio», dice. «Per qualsiasi cosa. Per un volantinaggio come per un’aggressione. E con tanto di tariffario: è un mestiere come gli altri». 1200 dollari per spaccare una vetrina. 600 per bruciare un’auto. In un sondaggio commissionato dal governo, il 43 percento degli abitanti di Male ha detto di non sentirsi sicuro neppure a casa propria. Per quelli come Kinan, la Siria è una specie di seconda opportunità. Una forma di redenzione. «Qui accoltelli fino a quando non vieni accoltellato», dice. «Nient’altro. E per una guerra che non è la tua. In Siria, se non altro, sarei ucciso per una ragione migliore». Mohamed ha 20 anni, e studia alla facoltà di Sharia. Sta preparando un esame: e la partenza per la Siria. «L’Islam è giustizia», dice. «Giustizia come è intesa ovunque. Come uguaglianza di diritti e di opportunità». Le Maldive potrebbero essere come Dubai, dice. Come la Svizzera. E invece il 5 percento della popolazione possiede il 95 percento della ricchezza. «E invece è tutto un favore. Se ti ammali, bussi alla porta del presidente, e ti pagano le cure all’estero. Che poi è il motivo per cui nessuno si ribella. Perché ognuno risolve i suoi problemi così. Pensando solo a se stesso», dice. «Non siamo cittadini. Siamo mendicanti». Il suo modello, dopo Maometto, è Malcolm X. E la sua scelta non è una scelta clandestina. Si entra in Siria dalla Turchia, e il viaggio costa 3mila dollari: li ha chiesti al padre. I jihadisti predicano il ritorno al vero Islam. All’Islam dei tempi di Maometto. Ma ai tempi di Maometto le Maldive, in realtà, erano buddiste […].

Il reportage di Francesca Borri prosegue su Left in edicola


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Ecco come nazisti e antisemiti su Facebook diventano un target pubblicitario

BERLIN, GERMANY - FEBRUARY 24: A visitor snaps a photo of the Facebook "Like" symbol at the Facebook Innovation Hub on February 24, 2016 in Berlin, Germany. The Facebook Innovation Hub is a temporary exhibition space where the company is showcasing some of its newest technologies and projects. (Photo by Sean Gallup/Getty Images)

Sui social, indirizzare pubblicità sulle pagine frequentate da razzisti produce profitti, spammare pubblicità agli haters aumenta i guadagni. Ne sa qualcosa Facebook che, suo malgrado, è diventato veicolo di pubblicità “calibrate” sulle idee (o presunte tali) di chi inneggia all’odio, alla razza bianca e all’Olocausto. In assenza di filtri su determinate parole, il più grande social network del mondo consente infatti di far comparire, a pagamento, dei post – per esempio – su pagine gestite da gruppi antisemiti e/o filonazisti, i cui topic presentano frasi di questo tipo: “odiatori di ebrei”, “come bruciare gli ebrei” e così via. Salvo poi intervenire con la cancellazione di queste pagine e di queste pubblicità una volta ricevute le doverose segnalazioni di utenti indignati.

A documentare tutto ci hanno pensato tre giornaliste di Pro Publica, Julia Angwin, Madeleine Varner e Ariana Tobin, che hanno avviato un’inchiesta con soli 30 dollari per promuovere alcuni post scritti appositamente in modo risultare “interessanti” per uno specifico target. Nello specificare i criteri per i potenziali clienti da raggiungere su Facebook hanno inserito delle parole come “ebrei”, “nazismo”, “Hitler”. Dal canto suo il social network ha impiegato 15 minuti per approvare il tutto. E la pubblicità ha iniziato a circolare per esempio sulla pagina intitolata “Hitler did nothing wrong”, Hitler non ha fatto niente di male.

Non è la prima volta che l0azienda di Cupertino si trova a dover rispondere ad accuse di “scarsa attenzione” verso le derive antisemite che caratterizzano numerose pagine.

Dopo l’inchiesta di Pro Pubblica è stato chiesto a Zuckerberg o chi per lui di commentare, ma nessuno ha risposto direttamente. Ed è stata oscurata la categoria “odiatori di ebrei”. «Sappiamo che abbiamo ancora lavoro da fare, per evitare che questi episodi si ripetano in futuro» ha detto Rob Leathern, direttore e product manager di Facebook. E’ la replica più ricorrente. In pratica è stato l’algoritmo a creare la categoria su Hitler e sui genocidi, non csi tratta di un errore umano.

Sempre Pro Publica un anno fa aveva dimostrato che Facebook era riuscito a impedire che alcune pubblicità di case in vendita negli Usa non apparissero su pagine frequentate da neri americani. «”Se sei nero, non vedrai queste pubblicità”. Immaginate un giornale che permetta di fare pubblicità solo sulle copie che andranno in mano a lettori bianchi. È quello che sta facendo Facebook» scrisse Pro Publica. Facebook si scusò anche allora. Ed anche allora la colpa fu dell’algoritmo… razzista (e non della persona che lo ha impostato).

 

Ius soli subito, l’appello del mondo della scuola

Un momento della manifestazione sull'approvazione della legge per la cittadinanza, 28 febbraio 2017. ANSA/ANGELO CARCONI

Per lo ius soli arriva un appello dal mondo della scuola che promuove anche una mobilitazione per il 3 ottobre, Giornata nazionale in memoria delle vittime dell’immigrazione. A promuovere l’appello di insegnanti ed educatori Franco Lorenzoni, maestro ed educatore, fondatore del laboratorio educativo di Casa Cenci (Terni). Ecco il testo.

 

INSEGNANTI PER LA CITTADINANZA

Appello di docenti ed educatori per lo ius soli e lo ius culturae.

Noi insegnanti guardiamo negli occhi tutti i giorni gli oltre 800.000 bambini e ragazzi figli di immigrati che, pur frequentando le scuole con i compagni italiani, non sono cittadini come loro. Se nati qui, dovranno attendere fino a 18 anni senza nemmeno avere la certezza di diventarci, se arrivati qui da piccoli (e sono poco meno della metà) non avranno attualmente la possibilità di godere di uguali diritti nel nostro paese.

Ci troviamo così nella condizione paradossale di doverli educare alla “cittadinanza e costituzione”, seguendo le Indicazioni nazionali per il curricolo – che sono legge dello Stato – sapendo bene che molti di loro non avranno né cittadinanza né diritto di voto.

Questo stato di cose è intollerabile. Come si può pretendere di educare alle regole della democrazia e della convivenza studenti che sono e saranno discriminati per provenienza? Per coerenza, dovremmo esentarli dalle attività che riguardano l’educazione alla cittadinanza, che è argomento trasversale, obbligatorio, e riguarda in modo diretto o indiretto tutte le discipline e le competenze che siamo chiamati a costruire con loro.

Per queste ragioni proponiamo che noi insegnanti ed educatori martedì 3 ottobre ci si appunti sul vestito un nastrino tricolore, per indicare la nostra volontà a considerare fin d’ora tutti i bambini e ragazzi che frequentano le nostre scuole cittadini italiani a tutti gli effetti.

Chi vorrà potrà testimoniare questo impegno anche astenendosi dal cibo in quella giornata in uno sciopero della fame simbolico e corale.

Il 3 ottobre è la data che il Parlamento italiano ha scelto di dedicare alla memoria delle vittime dell’emigrazione e noi ci adoperiamo perché in tutte le classi e le scuole dove è possibile ci si impegni a ragionare insieme alle ragazze e ragazzi del paradosso in cui ci troviamo, perché una legge ci invita “a porre le basi per l’esercizio della cittadinanza attiva”, mentre altre leggi impediscono l’accesso ad una piena cittadinanza a tanti studenti figli di immigrati che popolano le nostre scuole.

Ci impegniamo inoltre a raccogliere il numero più alto possibile di adesioni e di organizzare, dal 3 ottobre al 3 novembre, un mese di mobilitazione per affrontare il tema nelle scuole con le più diverse iniziative, persuasi della necessità di essere testimoni attivi di una contraddizione che mina alla radice il nostro impegno professionale.

Crediamo infatti che lo ius soli e lo ius culturae, al di là di ogni credo o appartenenza politica, sia condizione necessaria per dare coerenza a una educazione che, seguendo i dettati della nostra Costituzione, riconosca parità di doveri e diritti a tutti gli esseri umani.

Al termine del mese consegneremo questa petizione ai presidenti dal Parlamento Laura Boldrini e Pietro Grasso tramite il senatore Luigi Manconi, presidente della Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani, perché al più presto sia approvata la legge attualmente in discussione al Parlamento.

Le e gli insegnanti ed educatori che operano in diverse realtà, associazioni, gruppi o scuole possono aderire all’appello collegandosi ad Appello degli insegnanti per lo ius soli e lo ius culturae, cliccando qui.

Abbiamo anche creato il gruppo Facebook “INSEGNANTI PER LA CITTADINANZA”, esclusivamente per raccogliere proposte, esperienze e suggerimenti da condividere, per preparare le iniziative che si realizzeranno il 3 ottobre e nel mese successivo. Chiamiamo tutti a collaborare e cooperare per costruire una campagna di largo respiro che parta dalle scuole. Per entrare nel gruppo facebook clicca qui

Dichiaro di essere informato, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 13 del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, che i dati personali raccolti saranno trattati, anche con strumenti informatici, esclusivamente nell’ambito del procedimento per il quale la presente dichiarazione viene resa.

Primi firmatari:

Franco Lorenzoni, maestro elementare

Eraldo Affinati, insegnante e scrittore, fondatore della scuola Penny Wirton

Giancarlo Cavinato, segretario del MCE, Movimento di Cooperazione Educativa

Giuseppe Bagni, presidente del CIDI, Centro di Iniziativa Democratica degli Insegnanti

Clotilde Pontecorvo, presidente della FITCEMEA

Gianfranco Staccioli, segretario della FITCEMEA

Roberta Passoni, coordinatrice della Casa-laboratorio di Cenci

Paola Piva, coordinatrice scuole migranti

Alessandra Smerilli, scuola per stranieri ASINITAS

Sara Honegger, scuola per stranieri ASNADA

Fiorella Pirola, rete scuolesenzapermesso

Ius soli: se politica e razzisti hanno paura dei bambini

Il sit-in a Montecitorio a favore del IUS SOLI 12 settembre 2017 a Roma. ANSA/MASSIMO PERCOSSI

«Vengo dalla dittatura del Cile ed è assurdo che in un Paese democratico abbia dovuto aspettare di compiere 33 anni per poter votare per la prima volta». È molto amareggiata Paula Baudet Vianco, del Comitato Italiani senza cittadinanza, per l’ennesimo rinvio all’approvazione della legge sul diritto di cittadinanza (altrimenti detta “ius soli temperato”). Amareggiata, ma non arrendevole. «Aspettando la riforma sulla cittadinanza molti di noi sono diventati adulti, genitori. I politici devono trovare il coraggio e i voti necessari per l’approvazione dello ius soli, è il loro lavoro».

La legge per il riconoscimento della cittadinanza ai figli nati in Italia da cittadini stranieri è da mesi al centro di un acceso dibattito politico ed è diventata oggetto di animate discussioni e strumentalizzazioni, tipiche di ogni campagna elettorale. Si tratta di una riforma della legge del ’92, che non intacca il principio di naturalizzazione a cui accedono i residenti adulti, ma solo i bambini e i giovani entro i diciotto anni. Non si tratta di svendere la cittadinanza italiana o regalarla a tutti. Non si reclama uno ius soli assoluto come negli States o in Australia, dove è sufficiente nascere sul suolo nazionale per diventare cittadini.

In pratica, l’attuale legge prevede che un bambino nato in Italia da genitori stranieri resti straniero sino ai diciotto anni, dopodiché può diventare cittadino italiano presentando la domanda entro il diciannovesimo anno di età. La domanda può essere respinta se il soggetto non ha risieduto continuativamente per diciotto anni sul suolo italiano, se non ha tutti i documenti dalla madre patria, tra cui la fedina penale pulita richiesta anche ai minorenni, o se non ha potuto versare contributi per almeno tre anni consecutivi. Anche chi arriva in Italia da minorenne resta straniero fino alla maggiore età e può naturalizzarsi dopo aver presentato domanda. La stessa può essere respinta se il giovane non ha risieduto continuativamente in Italia per dieci anni, se mancano documenti concessi dal Paese d’origine e se non ha versato i contributi per tre anni consecutivi. Se entrasse in vigore lo ius soli temperato, i bambini nati in Italia da genitori stranieri con carta di soggiorno o un permesso di lungo periodo possono diventare subito italiani su richiesta dei genitori o presentando essi stessi domanda al compimento del diciottesimo anno. Lo ius culturae, invece mette sullo stesso piano bambini nati in Italia da genitori stranieri e minori arrivati con la famiglia entro i dodici anni. Se la riforma entrasse in vigore, questi bambini potrebbero diventare cittadini italiani dopo aver completato con profitto un ciclo di studi di cinque anni o dopo aver completato un corso di formazione professionale almeno triennale. Nel caso in cui il minore straniero sia arrivato in Italia dopo il dodicesimo anno di età, può diventare italiano dopo sei anni di residenza e dopo aver completato un ciclo di studi.

Rispetto alla proposta di riforma sono state avanzate dai detrattori molte argomentazioni che non hanno però alcun fondamento. Si è parlato, ad esempio, di islamizzazione e di sostituzione etnica in Italia, ma i numeri provano il contrario. Secondo i dati della Fondazione Moressa, il 44% dei bambini interessati dalla riforma sono cristiani, 16,1% cattolici o protestanti e 28% ortodossi. I musulmani sono circa un terzo, il 38,4%. Per quanto riguarda i Paesi di provenienza, ben 157mila tra gli 814 mila bambini interessati dalla riforma sono rumeni, seguiti da 111mila albanesi, 102mila marocchini, 45mila cinesi, 26mila filippini, 25mila indiani, 25mila moldavi, 19mila ucraini, 19mila pakistani e 18mila tunisini. Niente arabistan dunque, niente svendita dell’italianità.

Per migliaia di giovani in attesa, lo stop all’approvazione della riforma è stata una grande delusione. «Abbiamo appreso la notizia mentre eravamo in sit in a Roma, lo scorso 12 settembre», racconta Marwa Mahmoud, membro del Coordinamento nazionale nuove generazioni italiane. «Per noi è stato l’ennesimo tradimento, ci siamo sentiti lasciati soli in una battaglia che è soprattutto di civiltà. Siamo molto delusi da questa politica che sacrifica il presente e il futuro di oltre 800mila bambini in nome dei consensi elettorali. Continueremo il nostro impegno per far comprendere la reale natura della riforma. Non vogliamo più che ci siano bambini che si sentano discriminati. I bambini devono avere tutti gli stessi diritti e la stessa dignità, non possono subire il trauma di un rifiuto, di non essere accettati, di sentirsi diversi».

«La politica non può avere paura dei bambini, né dei risultati elettorali. Deve avere il coraggio della verità e del cambiamento», commenta Mohamed Rmaily, tra i fondatori del comitato Italiani senza cittadinanza. «Il 13 ottobre, in occasione del secondo anniversario della presentazione della riforma alla Camera, saremo di nuovo in piazza per ribadire le nostre ragioni. Solleciteremo i politici a prendere una decisione che cambierebbe positivamente la vita di migliaia di bambini che sono già in tutto e per tutto italiani, ma che la burocrazia considera ancora stranieri».

L’anima nera che gocciola a Pontida

Non servono articolate analisi politiche. Basta leggere, ascoltare e avere memoria.

C’è l’attivista in prima fila che fiero sfodera il saluto romano (il video è qui) e tutto intorno i suo camerati di partito che se la prendono con i giornalisti.

Ci sono le frasi di Salvini. Ne bastano poche:

«La Lega al governo proporrà un progetto di legge per avere giudici eletti direttamente dal popolo. E chi sbaglia paga. E siccome siamo un movimento nato per la libertà, cancelleremo la legge Mancino e la legge Fiano. Le storie e la legge non si processano»

Oppure:

«Fanno il processo al ventennio mussoliniano – ha aggiunto – e poi si comportano come il regime nel 1925 che imbavagliava chi non la pensava come volevano”. Gli oppositori. Inoltre “quando andremo al governo, daremo mano libera a uomini e donne delle forze dell’ordine per darci pulizia e sicurezza».

E basterebbe tornare al 1994 quando Umberto Bossi, al tempo segretario, durante il congresso disse: “La Lega continua la lotta di liberazione partigiana, mai coi fascisti, mai”. Ecco cos’è cambiato: questa Lega è semplicemente una pozzanghera colata dallo sdoganamento di un fascismo di cui Salvini vorrebbe essere la faccia “moderata”. Vorrebbe fare politica ma è andato a prendersi quel putrido spazio a destra che era stato lasciato scoperto. Tutto qui.

Buon lunedì.

Claudio Fava: «Ecco perché in Sicilia facciamo paura»

Il Vice Presidente della Commissione Antimafia, Claudio Fava, posa per i fotografi in occasione della conferenza stampa di presentazione del programma televisivo ''Cose Nostre'', nella sede Rai di viale Mazzini a Roma, 8 gennaio 2016. ANSA/GIORGIO ONORATI

Claudio Fava è molte cose: giornalista, scrittore, sceneggiatore e poi politico. Da poche settimane è anche il candidato alle prossime elezioni siciliane, sostenuto da una coalizione che tiene insieme Mdp, Sinistra Italiana, Possibile e Rifondazione Comunista. La prima domanda, quindi, è inevitabile.
Caro Fava, chi te lo fa fare?
(Sorride). È una domanda più che legittima, certo. Ma la risposta è da collocare in questo tempo della mia vita. Sono infatti in una fase di commiato dall’impegno politico attivo e quando mi è arrivata questa sollecitazione ne ho colto tutto il significato e l’importanza: dimostrare che non solo esiste uno spazio di sinistra in questo Paese ma che è addirittura uno spazio fondativo di una sinistra. Dimostrare poi che tutto questo parla a un pezzo di Paese e dell’opinione pubblica anche lontano dalle nostre bandiere e che esiste ancora un voto libero, d’opinione. Dimostrare anche che la Sicilia non è irredimibile e che la rassegnazione è l’alibi dei peggiori. E vorrei dimostrare infine tutto questo mettendoci ancora una volta, anzi, l’ultima, la faccia. E non perché il mio impegno finisca qui, continuerà in altri cento modi. Ma non c’è nessuna convenienza in questa mia candidatura: c’è una forte necessità politica e morale di mettersi a disposizione. E direi che questi primi giorni ci dicono che forse non ci sbagliavamo: c’è infatti un pezzo di Sicilia che sta dimostrando di non essere qualcosa a disposizione del ceto politico pronta a farsi spostare da una casella all’altra come se fossero mandrie di buoi.
Sei d’accordo con chi dice che queste siciliane siano il preludio delle elezioni politiche nazionali? Renzi da parte sua insiste nel dire che siano un “caso a sé”.
A giudicare dal fuoco di sbarramento che abbiamo ricevuto sulla mia candidatura direi proprio di sì: se si mobilitano i più illustri editorialisti dei più illustri quotidiani accusandoci di essere minoritari e disfattisti vuol dire che la proposta politica fa paura perché apre una contraddizione all’interno del partito democratico, insomma, li mette allo specchio. Tra costruire un percorso politico insieme alla sinistra che vuole affermare discontinuità con l’esperienza Crocetta (tra l’altro cosa che il Pd da cinque anni chiede a se stesso) loro hanno preferito avere altre alleanze.
Del resto la trattativa

L’intervista di Giulio Cavalli a Claudio Fava prosegue su Left in edicola


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Wright, l’architetto che sfidava la forza di gravità

Con quasi cinquecento edifici costruiti, Frank Lloyd Wright, ha lasciato un’impronta indelebile nell’arte del costruire. Nel centocinquantesimo anniversario della nascita, negli Stati Uniti sono state organizzate mostre, conferenze e visite guidate alle sue opere. La straordinaria e curatissima retrospettiva Frank Lloyd Wright at 150: Unpacking the archive allestita al MoMA di New York (aperta fino al primo ottobre) è senza dubbio l’evento più importante. L’enorme quantità di materiali esposti, modelli, disegni, fotografie, documentari, film e manoscritti, racconta magnificamente la sua impressionante attività professionale e culturale. Ma di estremo interesse è anche la pubblicazione legata alla mostra strutturata non come un semplice catalogo ma come una serie di indagini e approfondimenti per un riesame critico dell’opera dell’architetto.
Frank Lloyd Wright era nato l’8 giugno 1867 a Richland Center nel Wisconsin. Prima di terminare gli studi abbandonò la famiglia e si trasferì a Chicago dove fu assunto dal prestigioso studio di Adler & Sullivan. Fuori dall’orario dell’ufficio iniziò a progettare i suoi primi edifici residenziali, eclettici e sperimentali. Negli anni tra 1901 e il 1909, quelli delle Prairie Houses, sviluppò uno stile personale, libero dai codici convenzionali e dai rifermenti storici, evidente in capolavori come il Larkin Building, la Coonley House e la Robie House. «Per Architettura organica io intendo un’architettura che si sviluppi dall’interno all’esterno, in armonia con le condizioni del suo essere, distinta da un’architettura che venga applicata dall’esterno». La progettazione degli edifici sulla base di un sistema modulare, lo spazio interno come elemento fondante, gli elementi a sbalzo, le planimetrie aperte, l’accentuazione della dimensione orizzontale, l’integrazione della struttura con la topografia, sono alcuni degli elementi tipici. «Questa fase assorbente e logorante della mia esperienza come architetto si concluse nel 1909. Stanco, andavo perdendo la capacità di lavorare e persino l’interesse per il mio lavoro. Qualsiasi cosa, personale o non personale, mi pesava moltissimo. L’esistenza domestica più di ogni altra. Affrontai i rischi del mutamento e la rovina che nella nostra società è la conseguenza inevitabile di ogni lotta interiore per la conquista della libertà…

 

L’articolo di Remo Di Carlo prosegue su Left in edicola


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